INDICE
INTRODUZIONE……….……. 5
CAPITOLO PRIMO
LA FISCALITA’ INTERNAZIONALE
1.Le fonti. I modelli di Convenzione fiscale...………. 8
1.1. Rapporti tra norme convenzionali e norme interne……….. 9
1.2. Rapporti tra norme convenzionali e norme tributarie……… 10
2. Il Modello OCSE………. 14
2.1. Ambito di applicazione delle convenzioni e doppia residenza…….. 15
3. Comparazione in ordine all’efficacia delle diverse fonti sullo scambio d’informazioni……….. 17
4. Brevi cenni sul Condono tombale e Scudo fiscale……….. 22
CAPITOLO SECONDO
LE ORIGINI DELLA COLLABORZIONE E L’EVASIONE COME
FENOMENO INTRACOMUNITARIO
1.Origini della collaborazione europea in ambito fiscale: cenni storici.. 29
2.
Gli strumenti pattizi del diritto internazionale……….. 35
2.1.
Il FACTA negli USA………. 36
2.2.
Il modello OCSE: analisi degli articoli 27 e 27……… 37
2.4.
La convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in
materia tributaria (MAAT)……….... 45
2.5.
Common Reporting Standard (nuovo standard di scambio
automatico)………... 48
2.6.
Direttive UE……….. 51
CAPITOLO TERZO
LA VOLUNTARY DISCLOSURE
1. Il Monitoraggio fiscale……… 532. Paradisi fiscali e Paesi Black list………. 61
3.
Legge 15 dicembre 2014 n. 186………... 67
4.
La collaborazione volontaria internazionale, ambito soggettivo e
oggettivo………..………. 71
5.
La collaborazione volontaria nazionale, ambito soggettivo e
oggettivo………...……… 79
6.
Le cause di inammissibilità……….. 87
7.
Adempimenti a carico del contribuente……….... 91
8.
Ambito temporale della procedura………. 101
9.
Aspetti sanzionatori ed effetti ai fini penali……… 106
10.
Il perfezionamento della procedura e le eventuali patologie……….. 111
CAPITOLO QUARTO
LE PROBLEMATICHE ATTUATIVE
1.
I postulati dell’istituto………. 128
2.
Gli oneri motivazionali………... 130
3.
La relazione intercorrente tra le imposte IVIE e IVAFE e l’emersione
volontaria……… 133
4.
I prelievi consistenti non giustificati e il denaro detenuto in cassette di
sicurezza………. 134
5.
Le problematiche connesse alla presentazione dell’istanza di Voluntary
disclousure……….. 136
6.
L’impugnabilità dei verbali relativi all’accertamento con adesione... 138
7.
Le problematiche connesse alla riscossione………... 140
8.
La responsabilità dei professionisti……… 143
9.
Le questioni ancora da definire……….. 146
“La prova dell’onestà è ciò che fai
quando nessuno ti sta guardando”
(Denis Waitley)
INTRODUZIONE
La cooperazione tra gli Stati in materia fiscale rappresenta un fenomeno piuttosto recente; essa nasce storicamente con la necessità delle Autorità fiscali di raccogliere, condividere, scambiare, a condizione di reciprocità tra i diversi Stati, informazioni che non è stato possibile reperire attraverso gli ordinari strumenti di controllo, ovvero per verificare la correttezza delle informazioni fornite dal contribuente, o comunque conosciute dal fisco.
Tali meccanismi tendono sostanzialmente a evitare che gli affari o le relazioni economiche istituite al di fuori dei confini nazionali possano costituire il pretesto per facili aggiramenti delle norme tributarie, utilizzando i confini politici nazionali come limite naturale ai poteri di controllo dell’Amministrazione Finanziaria. Tale circostanza induce questi ultimi a sviluppare nuove e più efficaci azioni di contrasto e rende irrinunciabile il ricorso a forme di cooperazione fiscale.
È, dunque, la globalizzazione delle economie a generare l’esigenza di internazionalizzare gli strumenti necessari all’accertamento delle imposte. In questa ottica, la cooperazione internazionale rappresenta la strada che consente di oltrepassare i limiti territoriali imposti dalle sovranità nazionali, mentre lo scambio di informazioni rappresenta il principale mezzo attraverso il quale tale cooperazione si concretizza.
La grave crisi economica mondiale, esplosa a partire dal 2008, ha fornito un’ulteriore spinta alla cooperazione amministrativa in materia fiscale, volta a recuperare, per quanto possibile, gettito alle casse comunitarie e nazionali, sottoposte a tensione dovuta, appunto, dal perdurare della situazione di crisi. Il tema della cooperazione fiscale internazionale è divenuto centrale nel generale dibattito politico tra gli Stati, sempre più persuasi dell’esigenza di rafforzare le forme di mutua assistenza, nella
consapevolezza che in mancanza di queste ultime, nessuna nazione potrebbe governare adeguatamente il proprio sistema fiscale.
Secondo le più recenti elaborazioni, l’ammontare dei patrimoni occultati all’estero appartenenti a soggetti residenti in Italia è di almeno duecento miliardi di Euro.1 Tali importi giustificano ovviamente l’interesse da parte dello Stato italiano ad ottenere informazioni da parte delle amministrazioni fiscali dei paesi esteri, al fine di individuare i patrimoni occulti e sottoporli a tassazione. A ciò deve aggiungersi il mutato contesto internazionale, che da più fronti preme affinché si attui un effettivo scambio di informazioni di natura fiscale tra Stati al fine di contrastare l’evasione e l’elusione internazionale, attraverso una concreta collaborazione tra amministrazioni pubbliche dei diversi Paesi.
A sottolineare tale necessità è stato siglato nel febbraio 2015, dopo tre anni di trattative, un accordo tra governo italiano e il Consiglio federale Svizzero2 allo scopo di scambiarsi informazioni sui contribuenti italiani che detengono capitali in Svizzera; accordo che viene denominato con “la fine del segreto bancario”.
Il presente elaborato è suddiviso in quattro capitoli; il primo e il secondo illustrano le origini della cooperazione internazionale ai fini fiscali attraverso un analisi delle molteplici fonti normative e degli strumenti necessari al raggiungimento di tale scopo, nonché alcuni brevi cenni sul condono tombale e lo scudo fiscale che hanno caratterizzato il nostro Paese; i successivi –terzo e quarto capitolo - trattano uno studio approfondito, individuando anche le relative problematiche attuative, riguardante la Legge 186 del 15 dicembre del 2014, rubricata “Disposizioni in materia di emersione
1Stime elaborate su dati MEF – Banca d’Italia e pubblicate dal Sole 24 Ore il 28 ottobre 2013. 2Il Consiglio federale svizzero è l'organo esecutivo del governo della Confederazione Svizzera (o Confederazione Elvetica) e come tale rappresenta la più alta autorità del paese. Il Consiglio federale svizzero rappresenta, attualmente, l'unico esempio di forma di governo direttoriale. I sette consiglieri federali governano assieme su tutti gli affari del paese benché ognuno di loro presieda un dipartimento e sia così di fatto paragonabile a un ministro di un altro paese.
e rientro dei capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale e disposizioni in tema di autoreciclaggio”, la quale introduce l’innovativo mezzo della Volountary Disclousure quale strumento per l’emersione dei capitali all’estero.
CAPITOLO PRIMO
LA FISCALITA’ INTERNAZIONALE
SOMMARIO: 1. Le fonti. I modelli di convenzione fiscale – 1.1. Rapporti tra norme convenzionali e norme interne – 1.2. Rapporti tra norme convenzionali e norme comunitarie – 2. Modello OCSE – 2.1. Ambito di applicazione delle convenzioni e doppia residenza – 3. Comparazione in ordine all’efficacia delle diverse fonti sullo scambio d’informazioni – 4. Brevi cenni sul Condono tombale e lo Scudo fiscale
1. Le fonti. I modelli di convenzione fiscale.
Le fonti del diritto internazionale tributario sono costituite dalle convenzioni
tra Stati in materia fiscale. Altra cosa è il diritto tributario internazionale (o
transnazionale), che è formato dalle norme interne che disciplinano fattispecie
contenenti elementi extranazionali (ad esempio, reddito dei non residenti, o
redditi dei residenti prodotti all’estero).
3Tra le materie regolate dal diritto internazionale tributario hanno un posto di
rilievo le questioni di doppia imposizione internazionale. Le prime convenzioni
disciplinavano quasi soltanto le questioni di doppia imposizione; ora, le
convenzioni disciplinano anche altre materie, come la lotta all’evasione e la
collaborazione fra Stati.
I fenomeni di doppia imposizione ostacolano la vita economica internazionale
e, per tale motivo, da tempo, le organizzazioni internazionali promuovono la
3 Cfr. M. UDINA, Il diritto internazionale tributario, Padova, 1949, p. 17 ss.; M. CHERETIEN, A’ la recherche du droit international fiscal commun, Paris, 1955, p. 1 ss.; G. C. CROXATTO, Diritto internazionale tributario, in Rass. Trib., 1989, I, 447.
formazione di apposite convenzioni. Le misure unilaterali contro la doppia
imposizione (ossia le norme interne degli Stati) non rappresentano infatti un
rimedio adeguato.
Per prevenire fenomeni di doppia imposizione, o per porvi rimedio, vengono
stipulati fra gli Stati dei trattati (bilaterali o multilaterali), che riguardano,
generalmente, le imposte sui redditi e sui patrimoni; vi sono, inoltre, trattati
riguardanti l’imposta sulle successioni.
Le convenzioni internazionali in materia fiscale vengono predisposte sulla base
di modelli elaborati dalle organizzazioni internazionali. I paesi aderenti
all’OCSE, tra cui l’Italia, utilizzano il modello predisposto da tale
organizzazione.
1.1. Rapporti tra norme convenzionali e norme interne.
Le norme convenzionali, per effetto delle leggi che ne autorizzano la ratifica e
ne ordinano l’esecuzione, acquistano valore di legge nel diritto italiano. Le
norme convenzionali, dopo la ratifica, diventano norme (interne) di carattere
speciale: prevalgono, perciò, sulle norme interne ordinarie. Ciò è confermato
dall’art. 75 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui
“nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono
fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.
4Le norme convenzionali non prevalgono sulle norme interne più favorevoli al
contribuente. Le disposizioni del Testo unico delle imposte sui redditi “si
4 Si veda anche l’art. 41 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, che recita: “Continuiamo ad applicarsi le esenzioni ed agevolazioni previste dagli accordi internazionali resi esecutivi in Italia e dalle leggi relative ad enti ed organismi internazionali”.
applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi
internazionali contro la doppia imposizione” (art. 169).
Tali clausole sono espressioni del principio secondo cui la disciplina
convenzionale ha carattere speciale rispetto a quella dell’ordinamento interno,
ad ha finalità “intrinsecamente agevolativa”, sicché non può risolversi in un
trattamento meno favorevole per il contribuente di quello previsto dalla
disciplina interna. Ecco perché le norme delle convenzioni (dopo la ratifica),
prevalgono sulle norme interne solo quando sono più favorevoli al
contribuente; non prevalgono se è più favorevole la norma interna.
1.2. Rapporti tra norme convenzionali e norme comunitarie.
Passiamo ora ad esaminare il problema dei rapporti tra norme comunitarie e
diritto convenzionale
5, che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia,
è da risolvere dando prevalenza al diritto comunitario.
L’art. 307 del Trattato CE fa salve le convenzioni internazionali concluse dagli
Stati prima dell’entrata in vigore del Trattato (1° gennaio 1958). Gli Stati
membri della comunità devono dunque tener fede agli impegni assunti in
precedenza, ma lo stesso art. 307, comma 2, prevede che gli Stati assumano le
iniziative necessarie per rimuovere le divergenze con il diritto comunitario che
possono derivare dall’applicazione di tali trattati, confermando così il primato
del diritto comunitario rispetto alle convenzioni.
6
5 Sui rapporti tra le due normative cfr.: W. GASSNER, M. LANG, E. LECHENER, Tax
Treaties and EC Law, Londra – L’Aia – Boston, 1997; P. ESSERS, G. DE BONT, E.
KEMMEREN, The Compatibility of Anty-Abuse Provisions in Tax Treaties with EC Law, Londra – L’Aia – Boston, 1998.
6 Peraltro, la prevalenza del diritto comunitario sui trattati internazionali è apparsa, per molto tempo, tutt’altro che pacifica. Cfr. K. VOGEL, On Double Taxation Conventions, Londra – L’Aia – Boston, 1997, p. 74, che dubita della prevalenza del diritto comunitario, soprattutto con
Il problema si pone in modo diverso a seconda che siano interessati solo Stati
membri o siano coinvolti Stati terzi. Quando le due parti contraenti sono due
Stati membri dell’Unione europea, il diritto comunitario si impone nei
confronti di entrambe le parti; invece, nel caso in cui un trattato sia stato
stipulato tra uno Stato membro ed uno Stato terzo, il diritto comunitario
prevale sul trattato nel diritto dello Stato membro, ma non ha effetti nei
confronti dello Stato terzo.
Lo Stato membro è tenuto ad osservare le norme comunitarie, per cui, nel suo
ordinamento, devono essere disapplicate le norme convenzionali non
compatibili con il diritto comunitario. Lo Stato terzo, invece, non essendo
soggetto a diritto comunitario, può (anzi deve) applicare l’accordo, anche se in
contrasto con norme comunitarie.
7La giurisprudenza ha avuto occasione di affermare il primato del diritto
comunitario sia con riguardo a trattati stipulati tra Stati membri, sia con
riguardo a trattati stipulati tra uno Stato membro ed uno Stato terzo.
Il discorso è più semplice per i trattati stipulati tra Stati membri, perché, in
ambito comunitario, gli Stati devono conformarsi al principio di non
discriminazione tra cittadini comunitari. Poiché la residenza non può costituire
un fattore discriminatorio, lesivo delle libertà fondamentali del Trattato CE,
uno Stato membro non può dare applicazione alle norme dei Trattati, se ne
deriva una violazione del principio di non discriminazione.
riguardo a quegli Stati (ad esempio Francia e Paesi Bassi), nei quali la Costituzione stabilisce che i trattati internazionali prevalgono sulle leggi domestiche. Non sarebbe chiara, secondo tale Autore, la ragione della priorità delle leggi comunitarie sui trattati, soprattutto quando siano stati stipulati con Paesi terzi.
Inoltre, uno Stato non può prevedere, per i propri residenti, trattamenti che non
sono accordati ai residenti di un altro Stato membro; perciò, se, in base ad un
trattato, uno Stato accorda solo ai propri residenti un determinato trattamento
fiscale, quello riservato ai non residenti non può essere meno favorevole.
Se il non residente ha, in base alla convenzione, un trattamento meno
favorevole, entra in gioco il diritto comunitario, che impone allo Stato di
accordare il trattamento più favorevole anche al non residente.
8Con riguardo ai trattati stipulati tra Italia ed un paese non facente parte
dell’Unione europea, la questione è stata esaminata nella giurisprudenza
italiana a proposito della tassazione delle royalties corrisposte da società
italiane a soggetti non residenti.
La Cassazione ha ritenuto che la tassazione dei non residenti si risolvesse “in
una violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità” e,
sulla scorta della giurisprudenza comunitaria in tema di non discriminazione e
libertà di stabilimento, ha interpretato il diritto interno in modo conforme a
quello comunitario, e cioè nel senso della non tassazione delle royalties
corrisposte ai non residenti. In definitiva, dunque, gli Stati membri, anche
quando stipulano un trattato con Stati che non fanno parte della Comunità,
devono conformarsi al diritto comunitario.
9
8 Sul rapporto tra nome comunitarie e norme convenzionali si veda la sentenza della Corte di Giustizia 21 settembre 1999, cause C-307/97, Saint Gobain, in Riv. Dir. Trib., 2000, III, 179. Cfr. inoltre Corte di Giustizia, 5 novembre 2002, causa C-466/98, Commissione c. UK, in Riv. Dir. Trib., 2004, III, 97, con nota di P. PISTONE, La comparabilità delle libertà comunitarie fondamentali delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione con Paesi terzi, e, nella giurisprudenza italiana, Cass., 10 dicembre 200, n. 5768, in Riv. Dir. Trib., 2000, II, 312. 9 Ci si riferisce non solo ai trattati, ma anche alle direttive. Le direttive possono avere sui trattati un impatto diretto o indiretto. L’impatto è diretto quando una direttiva contiene una disposizione che tocca materie già disciplinate da disposizioni convenzionali. L’impatto è indiretto quando la direttiva mira a modificare una normativa interna, a cui una convenzione fa
La Corte di giustizia ha affermato che “il principio del trattamento nazionale”
impone allo Stato membro contraente di concedere ai non residenti le
agevolazioni previste dalla convenzione alle stesse condizioni dei residenti. Del
resto, gli obblighi che il diritto comunitario impone agli Stati membri non
contrastano con quelli derivanti dagli impegni che essi assumono nei confronti
di Paesi terzi: se uno Stato membro estende i benefici derivanti da una
convenzione a soggetti diversi da quelli previsti nella convenzione (estensione
ai non residenti dei benefici previsti per i residenti), non viene lesa alcuna
previsione della Convenzione; si tratta di una decisione interna, che non lede i
diritti di alcun Paese terzo.
La Corte non ha disconosciuto la competenza degli Stati in materia di
convenzioni contro le doppie imposizioni
10; gli Stati hanno infatti conservato il
potere di disciplinare le imposte sui redditi, emanando norme interne e
stipulando convenzioni internazionali. Ma, come per le norme interne, così per
le convenzioni internazionali, la competenza degli Stati membri deve essere
esercitata nel rispetto delle norme comunitarie.
11
rinvio espresso o implicito. Secondo VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 7, un conflitto tra direttiva e accordo convenzionale può sorgere solo nel caso di impatto diretto. Cfr. Cass., 10 dicembre 2000, n. 5768, cit., sulla scia della giurisprudenza comunitaria, ha affermato che il principio di non discriminazione e le libertà fondamentali devono essere rispettate anche dalle convenzioni con gli Stati terzi.
10 Cfr. la sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly in Raccolta, 1198, p. I-2793, punti 24 e 30.
11 Che le convenzioni stipulate dagli Stati membri debbano rispettare le norme comunitarie era stato affermato dalla Corte nella sentenza 16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical
Industries plc (ICI), commentata da E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali: il caso imperial chemical industries plc (Ici), in Rass. Trib., 1999, II, 1814 e da G. BIZIOLI, Il rapporto tra libertà di costabilimento e principio di non discriminazione in materia fiscale: una applicazione nel recente caso Imperial Chemical Industries, in Dir. Prat. Trib., 1999, III,
2. Modello OCSE
Il modello OCSE è adottato dall’Italia e dagli altri Paesi che aderiscono a tale
organizzazione
12, anche nelle convenzioni con Paesi terzi.
Il primo Modello risale al 1961; un secondo modello fu pubblicato nel 1977. Si
decise poi di procedere, anziché a revisioni globali, a modifiche e
aggiornamenti di singole disposizioni. Dal 1992, perciò, il Modello viene
aggiornato ed emendato di continuo.
Il Modello è diviso in sette capitoli: il primo delimita il campo di applicazione
della convenzione, indicando i soggetti e le imposte a cui si applica; il secondo
fornisce una serie di definizioni e le regole interpretative delle convenzioni; il
terzo contiene le “norme di distribuzione” in materia di imposte reddituali; il
quarto disciplina le imposte sul patrimonio; il quinto contiene le regole per
eliminare la doppia imposizione; il sesto disciplina la non discriminazione, le
procedure amichevoli, lo scambio di informazioni e l’assistenza in materia di
riscossione; il settimo contiene le disposizioni finali, che regolano l’entrata in
vigore e la denuncia (cioè la cessazione).
Il titolo dei primi due modelli faceva riferimento alla doppia imposizione; in
seguito il titolo adottato è “Modello di convenzione fiscale sui redditi e sul
patrimonio”, che è apparso più appropriato al contenuto del documento.
Il Modello OCSE è corredato da un commentario, redatto dagli esperti del
Comitato affari fiscali, che rappresentano i governi degli Stati membri. Al
12 L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è stata istituita con la Convenzione di Parigi del 1960. Attualmente aderiscono all’OCSE 34 Paesi industrializzati. Le questioni fiscali sono studiate, nell’ambito del Dipartimento degli Affari Economici, dalla Divisione degli Affari Fiscali (organo, quest’ultimo, composto dai rappresentanti delle amministrazioni fiscali dei paesi membri, che predispone il Modello e il Commentario).
Commentario viene riconosciuto grande rilievo nella interpretazione delle
norme del Modello (e, quindi, nelle norme delle singole convenzioni).
132.1. Ambito di applicazione delle convenzioni e doppia residenza.
Le convenzioni internazionali si applicano, generalmente, come prevede l’art. 1
del Modello OCSE, alle “persone che sono residenti di uno o entrambi” gli
Stati contraenti; solo a tali soggetti si applica la convenzione.
14Nei trattati bilaterali che seguono il modello OCSE, la definizione di soggetto
residente è prima desunta dalle leggi interne dei Paesi contraenti, e poi, ma solo
in caso di conflitti (doppia residenza, con conseguenti problemi di doppia
imposizione), è individuata secondo criteri propri.
Dal punto di vista soggettivo, la convenzione si applica soltanto a chi è
residente, in senso fiscale
15, in uno o entrambi gli Stati contraenti. Persona
residente in uno o entrambi gli Stati contraenti è colui che è assoggettato ad
imposta in forza di un legame di tipo personale (domicilio, residenza, sede di
direzione, ecc); non è residente colui che è soggetto ad imposta solo per i
redditi che derivino da fonti situate in uno degli stati contraenti.
Il primo paragrafo dell’art. 4 stabilisce testualmente che, ai fini della
convenzione, l’espressione “residente in uno Stato contraente” designa una
persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta
13 Cfr. P. BAKER, Double Taxation Agreements and International Tax Law, Londra, 1994, p. 28.
14 Si veda l’art. 4 del Modello OCSE, che si riferisce alla residenza fiscale, quale nozione di diritto sostanziale (disciplinata, nel diritto interno, dall’art. 2 del TUIR, per le persone fisiche, e dall’art. 73, per le società e gli altri enti), e non al domicilio fiscale, che è nozione di diritto formale.
15 I criteri per la determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche in Italia sono dettati dall’articolo 2 del D.P.R. n. 917/1986 del TUIR. Per quanto riguarda le persone giuridiche tale aspetto è disciplinato dagli artt. 5 e 73 del TUIR.
nello Stato medesimo o in ogni sua suddivisione politica o ente locale, al
motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o
di ogni altro criterio di natura analoga.
La residenza fiscale, dunque non è definita nella convenzioni, perché le
convenzioni rinviano a quanto previsto in materia dalle leggi interne degli Stati
contraenti.
16Le legislazioni nazionali e le norme convenzionali, in materia di residenza,
sono ispirate a criteri opposti.
Le norme nazionali dettano le condizioni minime, che sono necessarie perché
un contribuente sia fiscalmente residente; le norme convenzionali, invece,
indicano una molteplicità di criteri.
Le norme nazionali, infatti, hanno per scopo di collegare un soggetto ad un
ordinamento fiscale; le norme convenzionali, invece hanno come presupposto
la residenza fiscale in entrambi gli Stati contraenti, e dettano dei criteri in forza
dei quali un soggetto, agli effetti della convenzione, è considerato residente in
uno soltanto dei due Stati contraenti. Una delle due residenze, insomma,
assume valore esclusivo e toglie rilievo all’altra; in tal modo, è pervenuta la
doppia imposizione.
L’art. 4 del Modello OCSE indica i criteri da seguire per risolvere i problemi di
doppia residenza (denominati tie-breaker rule). Si tratta di criteri che devono
essere applicati secondo un ordine di priorità.
16 Il rinvio alla disposizione interna dei singoli Stati contraenti, contenuto nell’art. 4, è rafforzato dal collegamento con l’art. 3, par. 2 del Modello OCSE, che rinvia alla legislazione interna per la interpretazione dei termini che non sono espressamente definiti dalla convenzione.
In posizione primaria è il criterio di abitazione permanente (permanent home),
seguito dal centro degli interessi vitali (centre of vital interests) ed, in terza
posizione, dalla dimora abituale (habitual abode); la nazionalità ha valore
residuale
17. Se nessuno di questi criteri permette di risolvere il problema,
residua la procedura amichevole, prevista dall’art. 25 del Modello OCSE
18.
Per le società (e gli altri enti equiparati) è previsto invece un solo criterio: in
caso di doppia residenza fiscale, vale il criterio della sede della direzione
effettiva.
3. Comparazione in ordine all’efficacia delle diverse fonti sullo scambio
d’informazioni
In questa fase vogliamo domandarci a quale fonte, se comunitaria o
convenzionale, è maggiormente utile dare impulso al fine di realizzare una più
efficace cooperazione tra Amministrazioni Finanziarie. Occorre innanzi tutto
citare l’osservazione per la quale le principali limitazioni agli scambi di
informazione derivano dalle disposizioni che sanciscono tutele per gli Stati
membri e per i contribuenti, si pensi alle condizioni di reciprocità,
dell’eccessiva onerosità, dei segreti professionali e, in via più generale, la non
obbligatorietà dello scambio e la previsione di opzioni discrezionali a fronte
della richiesta di informazioni.
19
17 L’abitazione permanente corrisponde alla nozione di dimora abituale; il centro degli interessi vitali corrisponde al domicilio; il termine nazionalità corrisponde alla cittadinanza mentre il soggiorno abituale corrisponde alla dimora del codice civile.
18 La procedura amichevole è uno strumento di tipo amministrativo, previsto dall’art. 25 del Modello OCSE, per consentire alle autorità competenti dei due Stati contraenti di risolvere i problemi applicativi delle convenzioni.
19 Conformemente si veda anche, A. Fedele, Prospettive e sviluppi della disciplina dello
"scambio di informazioni" fra Amministrazioni finanziarie, in Rassegna tributaria n. 1 di
Riguardo alla fonte convenzionale, si può osservare che è la stessa struttura
della convenzione ad imporre una maggiore tutela degli interessi dei singoli
Stati contraenti e quindi, i più rilevanti limiti ad uno scambio di informazioni
sembrano ricollegarsi proprio alla natura degli atti da cui originariamente
deriva la sua disciplina.
20Per altro verso, la disciplina convenzionale viene introdotta nell’ordinamento
interno tramite atti aventi forza di legge, cosicché essa risulta essere
equiordinata rispetto alle norme interne, ma in posizione derogatoria, per
“specialità”, poiché la regola della prevalenza delle norme interne più
favorevoli (ex art. 169, del TUIR, ad esempio) non sembra agevolmente
applicabile ad una disciplina “formale” come quella dello scambio.
Inoltre, occorre considerare che i “limiti” all’esercizio dei poteri
dell’Amministrazione finanziaria, incisivi della libertà dei privati, risultano,
negli ordinamenti interni dei singoli Stati, da diverse modalità di composizione
e contemperamento fra principi costituzionali relativi alla garanzia della piena
esplicazione della personalità dei singoli soggetti ed un diverso “valore”
costituzionale, attinente l’equilibrata ed integrale attuazione degli istituti
fiscali.
In buona sostanza, i “fini fiscali” o “l’interesse fiscale” cui si ha riguardo per
giustificare l’attenuazione della tutela di libertà ad aree di riservatezza non
coincidono con gli “interessi” dello Stato-apparato (della struttura
amministrativa pubblica in sé considerata) alla tempestiva e sicura percezione
dei mezzi finanziari necessari alla sua sussistenza, dovendosi piuttosto fare
riferimento alla formula del “concorso” di tutti alle pubbliche spese, che
sottolinea, in primo luogo, l’esigenza dell’equo riparto dei carichi pubblici
quindi un interesse riferibile all’intera comunità organizzata.
21Orbene, quando i poteri di controllo ed accertamento sono esercitati
dall’Amministrazione finanziaria di uno Stato ai fini dello scambio di
informazioni (ed in particolare quando tale esercizio è attivato proprio dalla
richiesta di altro Stato) l’interesse cui si raffrontano i “valori” della libertà
domiciliare, della riservatezza e simili non è più quello della piena ed
equilibrata operatività del sistema fiscale dello Stato che, attraverso i suoi
organi, interviene appunto nella sfera della libertà e della riservatezza
individuale, ma la corretta attuazione di altro sistema fiscale, ordinato al riparto
dei carichi pubblici della diversa comunità di cui lo Stato richiedente è ente
esponenziale.
Infatti, se non si può fare riferimento alle modalità di composizione fra
“libertà” dell’individuo e “interesse fiscale” in concreto realizzate nel singolo
ordinamento interno, la “specialità” della disciplina di origine convenzionale si
risolve, sul piano normativo, in carenza di tutela per il privato, quindi in
incisione, senza limiti o contemperamenti, di libertà ed aree di riservatezza
altrimenti garantite. Ma ciò evidenzia un contrasto con norme e garanzie
costituzionali che implica, comunque se non la dichiarazione di
incostituzionalità, un’applicazione fortemente riduttiva di quella disciplina.
Pertanto, in Dottrina
22si è suggerita una sostanziale riconsiderazione del
concetto stesso di fiscalità, per espandere l’area di operatività dei principi
costituzionali in materia tributaria anche oltre gli istituti che realizzano il
riparto dei carichi pubblici attinenti la comunità statuale, cosicché anche
l’interesse alla “corretta applicazione” dei sistemi tributari di altri Stati possa
trovare riconoscimento a tutela, ad esempio, nell’art. 53 (principio della
capacità contributiva) della Costituzione
23italiana.
È certo però che le convenzioni contro la doppia imposizione, ed in genere le
convenzioni internazionali bilaterali, si manifestano, per struttura e funzione,
del tutto inidonee a fornire adeguato supporto normativo ad un così rilevante
mutamento di indirizzo.
Riguardo alle fonti comunitarie della disciplina della cooperazione tra
Amministrazioni Finanziarie, come sopra succintamente illustrato, sono
costituite da Direttive e da Regolamenti comunitari. Le norme contenute in tali
atti, in quanto promananti da fonti del diritto comunitario derivato, si
connotano per la “primazia”, rispetto alle norme di fonte interna
24: tale
caratteristica, consente di superare tutti i problemi di raccordo tra la disciplina
di fonte comunitaria e quella di fonte interna (superando in tal modo le
sopraevidenziate incertezze, connesse alle norme pattizie, derivanti
dall’applicazione dell’art. 169 del TUIR e del principio di specialità). Inoltre, le
22 In particolare, si veda A. Fedele, op. cit..
23 Sul punto, si veda, A. Fedele, “Prospettive e sviluppi della disciplina dello "scambio di
informazioni" fra Amministrazioni finanziarie”, in Ras. Trib., n. 1 di gennaio-febbraio 1999, p.
49. Questo problema potrebbe essere risolto radicalmente solo attraverso un intervento del legislatore comunitario che ponga fine all'applicazione di tale principio. Ma tale soluzione appare oggi alquanto improbabile. Altrettanto dubbia è la proposta avanzata dalla Commissione di favorire un maggior ricorso alla cosiddetta cooperazione rafforzata tra sotto-gruppi di Stati, così come previsto dal Trattato di Amsterdam e, successivamente, dal Trattato di Nizza. Ma una tale cooperazione porterebbe alla formazione di gruppi di Stati accomunati da uguali interessi, spesso in contrapposizione con altri Stati membri. Ciò potrebbe determinare, più facilmente, un cattivo funzionamento del mercato interno, costituire una barriera o una discriminazione commerciale, falsare le condizioni di concorrenza, incidere sulle competenze, sui diritti e sugli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano.
24 Per una più ampia e puntuale trattazione della natura e dell’operatività del principio in parola, cfr., G. Tesauro, op. it., pp. 187, 203, 730.
norme contenute nelle Direttive comunitarie, pur essendo contenute in un atto
non direttamente applicabile, sono, secondo l’orientamento costante della
Giurisprudenza comunitaria, direttamente efficaci
25: ciò implica, in sostanza,
che, laddove le suddette norme sanciscono in favore dei cittadini degli Stati
membri, in modo concreto e puntuale, diritti e garanzie, questi li possono fare
valere dinanzi al giudice nazionale, nei rapporti con lo Stato (o, si può ritenere,
anche con gli Stati diversi da quello di residenza), anche in assenza di una
norma interna di recepimento. Tale pregio si manifesta con una portata più
ampia nei confronti dei Regolamenti comunitari, i quali, di regola, sono atti
direttamente applicabili negli Ordinamenti degli Stati membri
26. Inoltre, le
fonti comunitarie consentono un compiuto superamento dei sopraevidenziati
problemi di tutela della sfera giuridica dei cittadini rispetto a disposizioni
idonee a comprimere diritti e libertà fondamentali.
Infatti, la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana ha
individuato, nel principio dei “controlimiti”, il giusto contemperamento tra il
dovere, imposto agli Stati membri, di leale collaborazione, sancito dall’art. 10
Trattato Comunità Europea (TCE), e l’esigenza di tutelare diritti e libertà
fondamentali costituzionalmente garantiti
27: tali diritti, nell’ambito della
materia de qua, possono essere agevolmente individuati nel diritto
all’inviolabilità del domicilio, alla segretezza della corrispondenza, alla tutela
25 Per una più ampia e puntuale trattazione, si veda, G. Tesauro, op. cit., p. 170.
26 Per una più ampia trattazione del principio della diretta applicabilità dei Regolamenti comunitari, cfr., G. Tesauro, op. cit., pag. 169.
27 La teoria dei “controlimiti” è stata elaborata dalla Corte Costituzionale italiana al fine di fissare un limite alla penetrazione del diritto comunitario nell’Ordinamento interno laddove ne possa derivare una compressione dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla nostra carta fondamentale: tale teoria ha visto la luce per la prima volta nella sentenza Frontini (Corte cost. n. 183/73).
della proprietà privata e della libera iniziativa economica. Tuttavia, affinchè il
principio dei “controlimiti” non operi come un ostacolo alla cooperazione tra
Amministrazioni Finanziarie, si ritiene di aderire a quanto autorevolmente
sostenuto in dottrina
28, circa l’esigenza di riconfigurare la nozione di interesse
fiscale, includendo nella stessa anche gli interessi fiscali degli altri Stati
membri dell’U.E.: solo per tale via, ad esempio, sarà possibile giustificare la
compressione di diritti fondamentali alla luce dell’art. 53 Cost.. Pertanto, si
ritiene di poter concludere che, per il nostro Paese e per tutti gli altri membri
dell’U.E., le fonti del diritto comunitario derivato rappresentano, in ogni caso,
il mezzo più efficace per superare i sopraevidenziati limiti alla cooperazione tra
Amministrazioni finanziarie.
4. Brevi cenni sul Condono tombale e Scudo fiscale
In questa fase riteniamo opportuno affrontare una breve analisi degli istituti che
in passato hanno permesso di regolarizzare le proprie posizioni fiscali con
l’Agenzia delle Entrate.
La prima che andiamo ad analizzare è la Legge 289 del 27 dicembre del 2002
29(Legge finanziaria 2003) la quale ha introdotto un ampio pacchetto di
provvedimenti diretti a sanare le violazioni di norme fiscali ed a chiudere le liti
pendenti di natura tributaria.
Ad avviso di autorevole dottrina il condono premiale è “l’insieme di atti più o
meno tipici, diretti all’abbandono, qualora vengano poste in essere certe
fattispecie condizionanti, di pretese sanzionatorie di natura amministrativa e
28 Si veda, A. Fedele, op. cit..
civile connesse ad atti illegittimi, già verificatesi in passato. L’istituto avrebbe
un connotato funzionale, quale è quello di procurare un ulteriore gettito
rispetto a quello ottenibile con mezzi ordinari”
30. Anche secondo la Corte
Cost
31. l’istituto del condono costituisce una forma atipica di definizione del
rapporto tributario che prescinde da un’analisi delle varie componenti dei
redditi ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria e
immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie.
Non sono mancate opinioni fortemente critiche all’applicazione del condono
quale “istituto criminogeno” o “fuori legge”
32. “Al di fuori della sua funzione
di regime transitorio, il condono si è inflazionato come strumento di politica
economica e insieme di demagogia. Non esiste nessun principio dottrinale, né
politico, per sostenere che il potere legislativo compie attività
costituzionalmente corrette quando approva un condono”
33. Infatti, pur
sussistendo l’antigiuridicità e la colpevolezza della condotta criminosa,
l’effettuazione da parte del reo di prestazioni utili e definite legislativamente,
giustifica l’abbandono della pena.
34Il “condono tombale” è stato definito il “re dei condoni”
35, normativamente
indicato come “ definizione automatica per gli anni pregressi”. Si tratta di una
misura completa e con notevoli effetti liberatori, avente una rilevanza
30 G. Falsitta, I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in il Fisco, 6/2003, fasc. 1, pp. 794 ss.
31 Corte costituzionale 19 maggio 1988 n. 575. 32 G. Falsitta, cit. p. 795.
33 E. de Mita, Il condono fiscale tra genesi politica e limiti costituzionali, in il Fisco, n. 47/2003, fasc. 1, p. 7314.
34 G. Izzo, Integrativa semplice e condono tombale. Effetti penali e valenza oggettiva, in il Fisco, n. 7/2003, fasc. 1, 2295.
35 B. Cartoni, Gli effetti penali delle sanatorie fiscali, in il Fisco, n. 17/2003, p. 2622. V. anche P. Corso, I riflessi penali della definizione automatica, in il Corr. Trib., 3/2003, p. 200.
“tombale” e definitiva su eventuali pretese tributarie di qualunque entità e
sanzione.
Il dato legislativo parla di “esclusione della punibilità”, senza meglio definire
detta espressione. La dottrina si è posta il problema se si tratti di una causa di
non punibilità, ovvero di una causa di estinzione della punibilità.
36La causa di non punibilità è quella situazione particolare in cui un fatto viene
esentato da pena, nonostante sia considerato antigiuridico. La causa di
estinzione della punibilità esclude invece l’irrogazione in concreto della pena,
operando o quale causa di estinzione del reato
37o della pena
38, a seconda della
previsione normativa.
Non sono mancate opinioni secondo cui il condono costituirebbe una causa di
estinzione della punibilità, e più precisamente, una fattispecie di amnistia
36 Cit. B. Cartoni, Gli effetti penali delle sanatorie fiscali, p. 2622.
37 Le cause di esclusione del reato sono tassativamente individuate dalla legge ed escludono l’antigiuridicità di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile. Sono situazioni normativamente previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. Le cause di esclusione del reato (dette anche di giustificazione) sono desumibili dall’intero Ordinamento giuridico e, pertanto, la loro efficacia non è limitata al solo diritto penale ma si estende a tutti i rami del diritto (civile e amministrativo). In presenza di cause di giustificazione, l’Ordinamento, in ossequio al principio di non contraddizione, riconosce meritevoli di tutela altri interessi che possono essere prevalenti, mancanti o equivalenti rispetto a quelli tutelati dalla norma violata (a cui dovrebbe discendere l’applicazione di una sanzione). In presenza di tali circostanze, infatti, una condotta (altrimenti dalla legge punibile), diviene lecita e ciò in quanto una norma, desumibile dall’intero ordinamento giuridico, la ammette e/o la impone.
38 Il codice penale fa esclusivamente riferimento alle “cause di esclusione della pena”. La nozione racchiude in sé situazione eterogenee, non riconducibili a un principio ispiratore unitario, accomunate dal solo fatto che la loro sussistenza esclude la punibilità.
Tre categorie dogmatiche:
1. le scriminanti (rendono lecito un fatto contemplato da una norma incriminatrice);
2. le cause di esclusione della colpevolezza (rendono non colpevole un fatto tipico, antigiuridico);
3. le cause di non punibilità in senso stretto (rendono non punibile un fatto tipico (antigiuridico) e colpevole).
In sintesi, la causa di estinzione del reato estingue la punibilità in astratto, invece la causa di estinzione della pena estingue la punibilità in concreto.
propria, che precede la condanna
39. Ad avviso di altri autori, invece, il condono
è riconducibile tra le cause di giustificazione di cui all’art. 50 del codice
penale. “Nel caso del condono è lo Stato, titolare dell’obbligazione tributaria,
ad esprimere il consenso successivo all’azione evasiva, ponendo come
condizione risolutiva per la prestazione del consenso, l’avere aderito alla
procedura di condono”
40. Detta ricostruzione contrasta però con le posizioni
espresse da coloro che sostengono che non vi sia disponibilità del diritto, in
quanto l’obbligazione tributaria è per sua natura indisponibile. “L’erario non
può rinunziare al credito perché è titolare di un credito che rappresenta una
quota, la frazione di una totalità, il cui mancato incasso non riguarda solo
l’Erario perché si ripercuote e ha una ricaduta sulla posizione di quanti non
hanno beneficiato della rinunzia”.
41Un ulteriore posizione dottrinale inquadra i condoni tra le cause che
impediscono l’applicabilità della pena.
42Al di là della natura giuridica del condono fiscale, ciò che emerge è che il
funzionamento del medesimo comporta una modificazione dei criteri di riparto
fissati dalle leggi “originarie”, che porta all’estinzione dei rapporti, concedendo
vistosi premi a chi accetta di porre in essere certi atti. “I condoni sono pertanto
costituzionalmente illegittimi solo in quanto non definibili tributi”
43, perché
contrari ai principi costituzionali in materia di prelievo fiscale (artt. 3, 23 e 53
cost.).
39 G. Giuliani, Non punibilità senza scorciatoie, in Il Sole 24 ore del 28 dicembre 2002. 40 Cit. B. Cartoni, Gli effetti penali delle sanatorie fiscali, p. 2623.
41 G. Falsitta, I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in il Fisco, 6/2003, fasc. 1, pp. 802 e ss.
42 S. Gennai, Effetti sul piano penale del cosiddetto scudo fiscale per le società, in il Fisco, n. 10/2003, fasc. 1, p.1538.
Il secondo istituto che andiamo ad analizzare è stato introdotto attraverso il
Decreto legge n. 78 del 2009
44, e si tratta del cosiddetto "scudo fiscale". Si
trattava di un'agevolazione che permetteva il rimpatrio e/o la regolarizzazione
di attività finanziarie e patrimoniali detenute all'estero, in violazione degli
obblighi di monitoraggio.
Utilizzando le norme sullo scudo fiscale era possibile far rientrare le attività da
Paesi extra UE e far tornare o regolarizzare le attività detenute in Paesi
dell’Unione europea o in Stati aderenti allo Spazio economico europeo i quali
garantivano un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa.
È stato possibile anche regolarizzare le attività finanziarie possedute in Paesi
extra UE qualora sia stata rispettata la condizione che vi sia un effettivo
scambio di informazioni.
La disciplina per favorire l’emersione delle attività detenute all’estero ha
rappresentato una delle più originali ed efficaci (in termini di gettito) modalità
di utilizzo del prelievo fiscale quale strumento di tax policy: perciò si è fin da
subito avvertita l’esigenza di individuare quale sia la collocazione organica di
tale fenomeno giuridico.
Innanzi tutto ci possiamo domandare se lo scudo fiscale sia un negozio
giuridico e, in tal caso, di che tipo; vale a dire se esso configuri una vera e
propria transazione novativa
45tra Stato e contribuente oppure se esso
44 Successivamente modificato dal Decreto legge n. 103 del 2009 e convertito con modifiche dalla Legge n. 141 del 2009.
45 La transazione novativa è un istituto mediante il quale le parti conseguono l’estinzione integrale di un loro precedente rapporto, il quale viene sostituito con quanto scaturente da un accordo transattivo; disciplinata dall’art. 1965 cc.
rappresenti un caso di novazione legale
46dell’obbligazione tributaria. Per altri
versi la problematica riguarda quali siano le peculiarità dello scudo fiscale
rispetto ad altre forme di definizione agevolata dell’obbligazione tributaria.
Possiamo affermare che sicuramente la vicenda dello scudo fiscale non può
assimilarsi a fattispecie negoziali, quali ad esempio il negozio di accertamento
(avente nel nostro Ordinamento esclusiva efficacia dichiarativa) o come la
transazione (avente efficacia dispositivo-costitutiva), in quanto non vi sono
parti pariordinate, portatrici di interessi aventi lo stesso rango, ma lo Stato
esprime una delle massime manifestazioni della propria sovranità, andando a
disporre, nel senso di rinunciarvi parzialmente, al proprio diritti all’escussione
dell’obbligazione tributaria. Tuttavia la transazione presenta dei profili di
contiguità con l’istituto dello scudo fiscale da un punto di vista oggettivo ed
effettuale, laddove la transazione si connoti quale transazione novativa,
coincidente con la novazione oggettiva. Infatti, l’effetto naturale dello scudo
fiscale non è solo quello di evitare una lite potenziale tra Stato e contribuente,
ma anche di sostituire l’obbligazione tributaria tipica, connessa alle somme e
valori autodenunciati dal contribuente, con una nuova e diversa obbligazione,
avente ad oggetto il pagamento di un tributo forfetizzato. D’altra parte, l’analisi
dell’istituto della novazione oggettiva ci consente di affermare che per
ravvisare nella disciplina dello scudo fiscale una novazione legale non è
necessario individuare una norma che esplicitamente disponga in tal senso: è
46 La novazione costituisce una modalità di estinzione dell'obbligazione che scaturisce dalla sostituzione di essa con una nuova per il titolo o per l'oggetto (novazione oggettiva: art. 1230 cod.civ.) o relativamente al soggetto (novazione soggettiva, figura comunque non dotata di una propria autonomia rispetto a delegazione, espromissione ed accollo: cfr. art. 1235 cod.civ.). L'effetto estintivo si produce indipendentemente da una specifica eccezione di parte , a differenza di quanto accade in tema di compensazione (Cass. Civ. Sez. Lavoro, 3026/99 ).
sufficiente che l’animus novandi del Legislatore si evinca nel prevedere un
rapporto obbligatorio completamente nuovo e strutturalmente incompatibile
con quello originario. L’ostacolo maggiore è rappresentato dal vincolo
dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, che delimita anche l’ambito di
operatività di altre forme agevolate di definizione dell’obbligazione tributaria,
pur di chiaro stampo pubblicistico, quali l’accertamento con adesione e la
conciliazione giudiziale. Infatti data la riserva di legge, di cui all’art 23 Cost.,
lo Stato soltanto attraverso la legge, così come statuisce i tributi, può rinunciare
parzialmente al credito tributario. Perciò, la ricostruzione sistematica che si è
tentato di operare ha come pietra angolare la contestazione per la quale la
novazione, e la novazione oggettiva in particolare, può eccezionalmente avere
fonte nella legge: pertanto, si ritiene che lo scudo fiscale non può avere fonte
negoziale, né tantomeno si può risolvere in una procedura
amministrativo-tributaria, ma si origina da un’attività che sorge dalla legge e che consiste in
una estinzione dell’obbligazione tributaria per sostituzione oggettiva con una
nuova diversa obbligazione tributaria, avente anch’essa fonte nella medesima
legge.
CAPITOLO SECONDO
LE ORIGINI DELLA COLLABORAZIONE E L’EVASIONE COME
FENOMENO INTRACOMUNITARIO
SOMMARIO: 1. Origini della collaborazione europea in ambito fiscale: cenni storici – 2. Gli strumenti pattizi del diritto internazionale – 2.1. Il FACTA negli USA – 2.2. Il modello OCSE: analisi degli articoli 26 e 27 – 2.3. Tax Information Exchange Agreements (TIEA) – 2.4. La convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in materia tributaria (MAAT) – 2.5. Common Reporting Standard (nuovo standard di scambio automatico) – 2.6. Direttive UE
1. Origini della collaborazione europea in ambito fiscale: cenni storici
Lo scenario venutosi a determinare a seguito dell’eliminazione delle frontiere comunitarie interne e dell’adozione delle quattro libertà fondamentali (libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone) ha, seppur involontariamente, costituito terreno fertile per lo sviluppo di attività fraudolente particolarmente insidiose, giacché ha messo a disposizione delle organizzazioni criminali uno “spazio economico unitario” caratterizzato, a loro vantaggio, sia dall’ ampiezza del nuovo ambito territoriale, sia delle residue compartimentazioni tuttora esistenti fra le diverse Amministrazioni nazionali (disarmonie legislative, stato dei sistemi di comunicazione, problemi linguistici), che oppongono resistenza alle strategie di coordinamento perseguite a livello comunitario. Per effetto di questa evoluzione è ormai obsoleto qualsiasi riferimento agli schemi nazionali dell’attività di tutela finanziaria, mentre diventa indispensabile un approccio globale al problema, che tenga conto delle caratteristiche e delle condizioni economiche del mercato unico. A fronte di tale globalizzazione, delle istituzioni e della criminalità, l’unico contrattacco praticabile in
modo efficace dalle strutture nazionali e sovranazionali è quello basato sulla cooperazione fra i vari organismi amministrativi.
È bene, quindi, fare un rapido excursus dell’evoluzione dell’Unione medesima, evidenziando il contributo che ciascun Trattato ha apportato in materia fiscale e non, sottolineando i cambiamenti che hanno trasformato una collaborazione prettamente limitata allo sfruttamento delle risorse in una vera e propria unione economica, politica e monetaria.
Il diritto tributario dell’Unione Europea, meglio noto come diritto tributario comunitario, ebbe origine nel 1951 a Parigi con l’istituzione della CECA47, la
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la quale aveva come obiettivo principale la creazione di un mercato comune nel settore carbosiderurgico.
Tale istituzione venne, poi, affiancata nel 1957 dai Trattati di Roma, comprensivi dei Trattati istitutivi della Comunità Economica dell’Energia Atomica (EURATOM) e della Comunità Economica Europea (CEE)48.
Il trattato EURATOM (tuttora in vigore) fu inizialmente elaborato per coordinare i programmi di ricerca dei Paesi aderenti, al fine di promuovere un uso pacifico dell'energia atomica, mirando alla condivisione delle conoscenze, delle infrastrutture e del finanziamento dell'energia nucleare.
Gli obiettivi principali del trattato CEE, invece, consistevano nell’eliminazione dei dazi doganali tra gli Stati membri, nell'adozione di una tariffa doganale esterna comune, nello sviluppo della cooperazione tra gli Stati della Comunità, nella creazione di tributi necessari a provvedere alle spese della CEE (denominati “risorse proprie”), nonché nella istituzione di un mercato comune tra i Paesi membri, in cui si adottassero
47Costituita sulla base del Trattato firmato Parigi il 18/03/1951 da Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo; il trattato è stato ratificato dall’Italia con L. 25/06/1952 n.766 ed è entrato in vigore il 23/07/1952.
48Il nome è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) dopo l'entrata in vigore del Trattato di Maastricht e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
le medesime politiche economiche e vi fosse libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi.
Tra i principi generali espressi nel Trattato, ha un particolare rilievo per il diritto tributario il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, posto dall’art. 18 del Trattato. Tale principio trova specifiche applicazioni nelle norme che sanciscono le libertà fondamentali; perciò la giurisprudenza applica l’art. 18 del Trattato solo quando non ricorrono i presupposti di una norma specifica (si ritiene che costituiscono specificazioni o applicazioni del divieto di discriminazione tutte le disposizioni che sanciscono le libertà economiche fondamentali). Il principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 della Costituzione e il principio di non discriminazione hanno differente portata: il primo opera all’interno del nostro ordinamento, e sancisce l’uguaglianza dei cittadini; il principio di non discriminazione opera in ambito europeo, allo scopo di assicurare parità di trattamento nei diversi di ordinamenti nazionali ai cittadini dell’Unione. La Corte di giustizia interpreta l’art. 18 nel senso che sono vietate non solo le discriminazioni espressamente basate sulla nazionalità, ma anche le discriminazioni dissimulate o indirette. Si è ritenuto perciò che non sono ammesse le discriminazioni basate sulla residenza.
Ulteriore passo in avanti fu realizzato attraverso l’Atto Unico Europeo (AEU)49 il quale procede ad una revisione dei trattati di Roma al fine di rilanciare l'integrazione europea e portare a termine la realizzazione del mercato interno.
L’unione fu, dunque, inizialmente di tipo esclusivamente economico, ma con l’introduzione nel 1993 del Trattato di Maastricht50 (anche noto come Trattato sull’Unione Europea, in quanto trasformò la denominazione della Comunità Europea,
49L'Atto unico europeo (AUE), firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28 febbraio 1986 dalla Danimarca, dall'Italia e dalla Grecia, costituisce la prima modifica sostanziale del trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE). L'AUE è entrato in vigore il 1° luglio 1987.
50Approvato nel dicembre 1991 e firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre del 1993.
appunto, in Unione Europea), si gettarono le basi per un’unificazione anche politica e monetaria, realizzatasi prima con la creazione dell’Unione Economica Monetaria (UEM) la quale ha dato vita alla eurozona, e successivamente nel 2002 con l’adozione dell’Euro quale valuta comunitaria. Diverse competenze comunitarie, inoltre, vennero ampliate, ad esempio furono riconosciute come politiche dell’Unione la protezione dei consumatori e lo sviluppo delle reti trans-europee (trasporti, comunicazioni, energia) e fu introdotto il principio di sussidiarietà51. Si iniziò a delineare, così, il concetto di
cittadinanza europea, intesa come status all’interno dell’Unione.
Tale processo di sviluppo ha avuto bisogno di una rilevante attività di revisione realizzatasi attraverso il Trattato di Amsterdam52, il Trattato di Nizza53 ed il Trattato di
Lisbona.
Il primo si poneva quattro obiettivi cardine:
• porre l'occupazione e i diritti dei cittadini come punto focale dell'Unione; • eliminare gli ultimi ostacoli alla libera circolazione e rafforzare la sicurezza; • permettere all'Europa di esercitare una maggiore influenza sulla scena
mondiale;
51Tale principio precisa che nei settori che non sono di esclusiva competenza comunitaria la Comunità interviene soltanto se gli obiettivi possono essere realizzati meglio a livello superiore invece che a livello nazionale. Tale principio viene chiaramente espresso all’art 5 del Trattato CE:
1. La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato.
2. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario.
3. L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato.
52Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 come risultato dei lavori svolti dalla Conferenza intergovernativa (CIG), porta avanti le riforme introdotte dal Trattato sull'Unione Europea.
53È stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l'11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell'Unione europea, è entrato in vigore il 1º febbraio 2003.
• rendere più efficace l'architettura istituzionale dell'Unione in previsione del prossimo ampliamento.
Il Trattato di Nizza, a differenza, si poneva come finalità l'adattamento del funzionamento delle istituzioni europee all'arrivo di nuovi Stati membri.
Il Trattato di Lisbona, sottoscritto nel 2007 ed entrato in vigore il primo dicembre 2009 a seguito della ratifica da parte di ciascuno dei 27 Stati membri, ebbe lo scopo di modificare alcune caratteristiche fondamentali dei precedenti Trattati (Trattato sull’Unione Europea e Trattato istitutivo della Comunità Europea), rinnovando le regole di vita comune dell’Unione in ragione delle evoluzioni politiche, economiche e sociali della stessa, attribuendo particolare importanza alla cooperazione amministrativa nella prospettiva della lotta all’evasione fiscale.
Infine, al termine del percorso storico riguardante l’origine della collaborazione europea, si ritiene opportuno citare la nascita del Meccanismo europeo di stabilità (MES)54, detto anche Fondo salva-Stati, il quale nasce come fondo finanziario europeo
per la stabilità finanziaria della zona euro, ma nel tempo ha assunto la veste di organizzazione intergovernativa.
Per quanto riguarda l’aspetto specifico dello scambio d’informazioni vogliamo ricordare in primis “l’Agreement on exchange of information on tax matters”, pubblicato nell’aprile 2002 al fine di sviluppare uno strumento giuridico idoneo a garantire un effettivo scambio di informazioni. Successivamente varie riunioni del G20 (in particolare Londra nel 2009 e San Pietroburgo nel 2013) hanno sottolineato l’importanza di tale strumento per combattere l’evasione e porre la fine al segreto bancario, nonché l’impegno ad adottare lo scambio di informazioni a livello globale e supportare i lavori dell’OCSE. Con la presentazione al G20, nel luglio 2012, del report
54 Istituito dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136) approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo e ratificate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011.
“Automatic Exchange of Information: What it is, How it works, Benefits, what remains to be done”, sono stati individuati i fattori chiave per un adeguato scambio di informazioni:
• lo scambio deve essere automatico;
• uno standard comune sulla comunicazione delle informazioni e sul processo di due diligence;
• una base legale e funzionale per lo scambio di informazioni; • soluzioni tecniche comuni e compatibili.
Il Global Forum di Berlino (ottobre 2014), nel quale si è siglato l’accordo multilaterale per attivare lo scambio di informazioni finanziarie, ha gettato le basi politiche e tecniche per lo scambio di informazioni. Nello specifico 51 Paesi firmatari (tra cui isole Cayman, Bermuda e Liechtenstein) hanno siglato l’accordo impegnandosi ad attuare il multilateral competent authority agreement (MCAA) per raccogliere informazioni dal 2016, e scambiare i dati raccolti entro la fine di settembre 2017 (3 dei 51 Paesi a partire dal 2018); altri 7 Paesi (non ancora firmatari dell’accordo) si sono impegnati politicamente ad avviare lo scambio di informazioni entro la fine di settembre 2017 (per un totale di circa 58 paesi per i quali, quindi, lo scambio diventerà effettivo già a partire dal 2017)55. Infine 35 Paesi (in aggiunta agli “early adopters”) si
sono impegnati ad avviare lo scambio automatico di informazioni a partire dal 201856.
55 Isola di Anguilla, Argentina, Barbados, Belgio, Bermuda, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Cile, Colombia, Croazia, Curaçao, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Dominica, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Gilbilterra, Grecia, Guernsey, Ungheria, Islanda, India, Irlanda, Isole di Man, Italia, Jersey, Corea, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Mauritius, Messico, Montserrat, Olanda, Niue, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Seychelles, Slovacchia, Slovenia, Sud Africa, Spagna, Svezia, Trinidad and Tobago, Turks e Caicos, Regno Unito e Uruguay.
56 Andorra, Antigua e Barbuda, Aruba, Australia, Austria, Bahamas, Belize, Brasile, Brunei, Canada, Cina, Costa Rica, Granada, Hong Kong, Indonesia, Israele, Giappone, Isole Marshall, Macao, Malesia, Monaco, Nuova Zelanda, Qatar, Russia, Saint kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Samoa, Arabia Saudita, Singapore, Sint Marteen, Svizzera, Turchia e Emirati Arabi.