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"And he now begins to feel closer to I": un'analisi di "Boyhood", "Youth" e "Summertime" di J. M. Coetzee

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Introduzione pag. 1

I. Considerazioni sul genere autobiografico pag. 10

1. Il “labirinto” dell’autobiografia pag. 10 2. Proiezioni autobiografiche nel contesto sudafricano contemporaneo pag. 17

II. Boyhood pag. 22

III. Youth pag. 51

IV. Summertime pag. 69

1. Dentro il “laboratorio”: la struttura dell’opera pag. 70 2. La diaspora dei personaggi e del soggetto biografato pag. 77 3. Il protagonista visto attraverso un prisma: le testimonianze pag. 80

4. I “notebooks” pag. 97

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Introduzione

Nel corso della storia della letteratura, sono state innumerevoli le autobiografie di personaggi celebri, a partire dalle famose Confessiones di Sant’Agostino. Non sono mancati neanche gli studi teorici su questo genere, ma ancora non si è riusciti a trovare una definizione che ne possa includere tutti gli aspetti, data la complessità e la forte soggettività che lo contraddistingue.

Lo scrittore di origine sudafricana J.M. Coetzee ha pubblicato di recente tre testi narrativi di impronta più tangibilmente autobiografica: Boyhood (1997), Youth (2002), e l’ultimo ad oggi , Summertime (2009). In realtà, già nella sua raccolta di saggi Doubling the Point, come vedremo in seguito, l’artista si era espresso in merito alla persuasività, ma anche all’incatturabilità della scrittura autobiografica, tra l’altro parlando di sé in terza persona (anticipando quindi la tecnica usata nelle opere citate sopra,

benché con qualche differenza in Summertime), e giocando

sull’iperconnotazione semantica del termine “autrebiography”.

Nella prima parte del presente studio, di carattere generale, verrà affrontato il genere autobiografico, con le sue caratteristiche, lo stile, il linguaggio. Inoltre, si vedrà come sia compito arduo per l’autobiografo scrivere la propria vita, in primo luogo per l’“inaffidabilità” della memoria e la complessità dei fattori psicologici e poi perché chi scrive parla di un io al passato, quasi si trattasse di un’altra persona; infine perché, nonostante l’autobiografo faccia professione di verità, è difficile mantenere questo proposito, per l’ovvio carattere soggettivo del genere (o non-genere, come è stato definito da alcuni) autobiografico.

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Gli ultimi capitoli riguarderanno invece l’analisi dei tre romanzi autobiografici di J.M. Coetzee.

Prima di iniziare, è però opportuno fornire delle informazioni sull’autore, sul suo macrotesto e sul contesto storico e geografico in cui per molti anni ha operato.

J.M. Coetzee è nato in Sudafrica, a Città del Capo, nel 1940. E’ di discendenza afrikaner da parte di entrambi i genitori. Nonostante questo, viene educato e istruito in lingua inglese. Si è laureato in matematica e letteratura inglese all’Università di Città del Capo, conseguendo una laurea di primo livello nel 1960, e di secondo livello nel 1963. Si è poi trasferito a Londra nel 1962, dove ha lavorato come programmatore di computer, prima per la IBM, e poi per la IC. Nel 1963 si sposa con Philippa Jubber, da cui in seguito divorzierà, e da cui avrà due figli (il maggiore, Nicolas, morirà in un incidente nel 1989).

Il 1965 vede Coetzee lavorare a una tesi di dottorato su Samuel Beckett all’Università del Texas, tesi che discuterà nel 1969. Fino al 1971, lavora come assistente di letteratura inglese a Buffalo, presso la State University di New York.

Nel 1972 torna in Sudafrica, poiché il permesso di soggiorno temporaneo per gli Stati Uniti non gli viene rinnovato a causa della sua partecipazione a una manifestazione contro la guerra nel Vietnam. In Sudafrica insegna letteratura inglese all’Università di Città del Capo.

Nel 2002 si trasferisce in Australia, dove insegna in qualità di professore onorario all’Università di Adelaide. Nel 2003 ottiene il Premio Nobel per la Letteratura. Dal 2006, J.M. Coetzee è cittadino australiano.

Ad oggi ha pubblicato quindici romanzi, il primo dei quali risale al 1974 ed è intitolato Dusklands. Nel 1977 esce In the Heart of the Country, ma è solo con Waiting for the Barbarians (1980) che la scrittura di Coetzee

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inizia a essere riconosciuta in ambito internazionale. Da questo momento in poi, l’artista vincerà diversi premi letterari, tra cui il Booker-Mc Connell Prize (due volte, nel 1983 per Life and Times of Michael K, e nel 1999 per Disgrace), il Prix Femina Étranger, fino al già citato premio Nobel nel 2003. Insieme ai romanzi nominati precedentemente, l’autore ha scritto Foe (1986), Age of Iron (1990), The Master of Petersburg (1994), The Lives of Animals (1999), Elizabeth Costello (2003), Slow Man (2005) e Diary of a Bad Year (2007).

Oltre alla narrativa, Coetzee ha pubblicato cinque raccolte di saggi: White Writing. On the Culture of Letters in South Africa (1988), Doubling the Point: Essays and Interviews, a cura di David Attwell (1992), Giving Offense. Essays on Censorship (1996), Stranger Shores. Essays, 1986-1999 e Inner Workings. Essays, 2000-2005.

Uno degli aspetti che caratterizza la personalità di Coetzee è la sua riluttanza a venire categorizzato: spesso è stato criticato, sia in patria che all’estero, per la sua presunta mancanza di un esplicito impegno politico e sociale, soprattutto alla luce del difficile contesto sudafricano.

La scrittura di Coetzee si contraddistingue infatti per il suo linguaggio pregnante e metaforico, tant’è che uno dei termini più frequentemente accostati ai suoi romanzi è “allegoria”: basti pensare a Waiting for the Barbarians, ambientato in un tempo e uno spazio indefiniti, con un protagonista senza nome proprio. Per questo è stato accusato di essere uno scrittore “irresponsabile”, interessato a una sperimentazione testuale sganciata dal contingente, sulla scia di un certo narcisismo postmoderno.

Anche Nadine Gordimer, sua connazionale, nella sua recensione a Life and Times of Michael K, ha espresso perplessità sul fatto che Coetzee eviti un discorso politico più diretto, impedendo per esempio al protagonista di unirsi a un gruppo di rivoluzionari: nelle parole di Sue Kossew, si ravvisa

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qui “a way of avoiding facing ‘the horror’ in a more direct way”1. Di seguito la risposta implicita di Coetzee:

One writes the books one wants to write. One doesn’t write the books one doesn’t want to write. The emphasis falls not on one but on the word want in all its own resistance to being known. The book about going off with the guerrillas, the book in the heroic tradition, is not a book I wanted-to-write […]2.

Quindi l’autore rivendica autonomia nello scrivere i suoi libri e, soprattutto, l’autonomia dell’arte. A proposito dell’impegno politico, Coetzee sostiene che troppo spesso in Sudafrica il romanzo è stato considerato come un’appendice della Storia: quella storiografia intrisa di marche pregiudiziali etniche che non sarebbe altro che un racconto che la gente tendenziosamente avalla3. Quello che egli ha inteso fare è trovare altre vie narrative ed esegetiche, altri percorsi, ed ecco perché le sue opere si prestano a molteplici letture, il che non significa ovviamente che ci sia una mancanza assoluta di impegno politico.

Un altro aspetto molto dibattuto della scrittura di Coetzee è la questione della referenzialità, ossia, di chi e per chi voglia scrivere l’autore nei suoi testi. Quello che emerge, soprattutto dai primi romanzi, è il discorso sul potere e il rapporto tra oppressore e oppresso. Questo tema è fortemente sentito dall’autore, in quanto afrikaner a cui la storia assegna il ruolo del “colonizzatore razzista”; il motivo della colpa, ma anche della complicità con l’oppressore, si trova infatti costantemente, e verrà da noi indagato più nel dettaglio attraverso l’analisi di Boyhood.

In White Writing, Coetzee si sofferma su alcuni motivi soggiacenti alla mitografia e alla letteratura sudafricane bianche, analizzando la cultura

1

Sue Kossew (ed.), Critical Essays on J.M. Coetzee, G. K. Hall & Co, New York 1998, cit., p. 10.

2

J.M. Coetzee, Doubling the Point: Essays and Interviews, edited by David Attwell, Harvard University Press, Cambridge 1992, pp. 207-208.

3

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afrikaner, i suoi tratti etnocentrici, il suo rapporto con il paesaggio, più precisamente il veld. L’attenzione si appunta pure sul plaasroman (o farm novel), genere che ha al centro questo legame di conquista e attaccamento viscerale alla terra, e non da ultimo sulla mentalità calvinista, tipica dei primi boeri arrivati in Sudafrica e andata radicandosi nei secoli a seguire. Anche in Boyhood e in Summertime, Coetzee parlerà del suo personale rapporto (e quello di John) con il veld nel Karoo, e con la fattoria dei suoi nonni paterni.

Una parte della critica ha sostenuto che, sebbene nei romanzi non si faccia specifico riferimento al Sudafrica, chiaramente il tema dell’oppressione riflette il contesto geopolitico da cui proviene l’autore, ma proprio il fatto che le ambientazioni siano indefinite renderebbe il discorso universale4. Coetzee stesso ha rilevato che “our experience remains largely colonial”, parlando del Sudafrica moderno5. In Diary of a Bad Year, pubblicato nel 2007, quando Coetzee era già divenuto cittadino australiano da un anno, uno dei personaggi, Alan, fotografa così l’ossessione psicologica del protagonista J.C. (facilmente riconducibile a J.M.): “that is the root of your guy’s problem: Africa. That is where he came from, that is where he’s stuck, mentally. In his mind he can’t get away from Africa”6

. Proprio il problema di liberarsi da un’identità precostituita nel contesto sudafricano sembra affliggere Coetzee: le sue opere non rispecchiano l’ideologia delle caste dominanti, ma nemmeno si schierano con le posizioni anti-apartheid o, più in generale, anti-regime – i suoi libri non sono mai stati censurati in Sudafrica - più esplicitamente accolte, ad esempio, dalla Gordimer. Per questo Coetzee si è a lungo collocato in una

4

Cfr. ad esempio Susan Van Zanten Gallagher, A Story of South Africa: J.M. Coetzee’s Fiction in

Context, Harvard University Press, Cambridge 1991, pp. 11-12.

5

Cfr. J.M. Coetzee, “Speaking” (1978), cit. in Graham Huggan, Stephen Watson (eds.), Critical

Perspectives on J.M. Coetzee, Macmillan Press LTD, London 1996, p. 7.

6

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posizione critica e liminale rispetto ad altri suoi colleghi/connazionali bianchi (ma anche neri), proprio come avviene per i suoi personaggi7.

In realtà, le prime opere veicolano una critica al sistema imperialista che mette al primo posto un Io vorace e fallocentrico, e inoltre gettano una luce impietosa sulla mancanza di solidarietà e umanità che questo sistema comporta. Una mancanza che si esplica nel non riconoscimento della sofferenza dell’Altro e nella sua opportunistica riduzione a res extensa. E’ proprio questo potere prevaricante ed egocentrico che infligge dolore e sofferenza.

David Attwell aveva a suo tempo messo in evidenza il fatto che Coetzee scriva da cittadino del Terzo Mondo, con un bagaglio culturale appartenente al Primo8: bisogna infatti tenere presente che lo scrittore è stato influenzato dalla letteratura modernista (Pound, Eliot, Henry James, James Joyce), da Beckett, Dostoevskij e altri scrittori del calibro di Franz Kafka e Robert Musil, e dalla cultura occidentale in genere, avendo vissuto in Europa e negli Stati Uniti. Nel suo stile si ravvisano poi diverse scelte tecniche riconducibili alle peculiarità della letteratura modernista e postmoderna: l’intertestualità, che si può riconoscere in molte delle sue opere (Life and Times of Michael K contiene riferimenti a Kafka; Waiting for the Barbarians rimanda, oltre alla poesia di Kavafis dallo stesso titolo, al beckettiano Waiting for Godot, mentre la trama ricorda Il Deserto dei Tartari di Buzzati; Foe è una riscrittura di Robinson Crusoe, e Youth riecheggia in vari momenti il percorso di formazione di Stephen Dedalus in A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, ma gli esempi sono diversi); l’autoriflessività, ossia il ricorso alla metalessi e a strategie

7

Vd. il Magistrato in Waiting for the Barbarians o Vercueil in Age of Iron, ma anche lo stesso John in Boyhood, Youth e Summertime.

8

David Attwell, J.M. Coetzee: South Africa and the Politics of Writing, University of California Press, Berkely 1993, p. 4.

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metanarrative che potenziano le stratificazioni semantiche della struttura testuale (si pensi allo stesso Foe)9; l’indagine psicologica spesso condotta in relazione al linguaggio e alle modalità comunicative. Coetzee ha la straordinaria capacità di mettere a nudo l’anima e il pensiero dei suoi personaggi, rappresentati in tutte le loro lacerazioni interiori. I suoi romanzi non sono certamente popolati da eroi, ma da persone che spesso condensano ed estremizzano situazioni in cui è possibile riconoscersi.

Un altro tema ricorrente è la difficoltà di comunicazione: spesso, coloro che rappresentano l’emarginato, l’Altro, mostrano una menomazione fisica che rende loro difficile l’uso della parola, come Michael K, che ha il labbro leporino e non spicca per il suo acume, o Friday, a cui è stata mozzata la lingua. Il silenzio, a questo punto, sembra l’unica risposta possibile per l’oppresso, quasi come una forma di resistenza.

I corpi mutilati di Friday e Michael K sono solo due esempi, ma suggeriscono già come il corpo sofferente e umiliato sia centrale nella narrativa di Coetzee, come lui stesso ammette in Doubling the Point:

Friday is mute, but Friday does not disappear, because Friday is body. […] Whatever else, the body is not “that which is not”, and the proof that it is is the pain it feels. The body with its pain becomes a counter to the endless trials of doubt10.

Coetzee prosegue asserendo che, a onor del vero, non si può separare la sofferenza dalla storia del Sudafrica, e la sofferenza è strettamente correlata al corpo. Come se quest’ultimo, al di là delle speculazioni del cogito, fosse l’unico possibile testimone della verità, una verità che è

9

Questo aspetto è stato recentemente messo in evidenza da Giuliana Iannaccaro, J.M. Coetzee, Le Lettere, Firenze 2009, cit., p. 11.

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difficile tradurre in parole, ma che è “gridata” dalle cicatrici sulla pelle o dal disfacimento causato dalla malattia: impossibile dimenticare il corpo di Mrs. Curren, devastato dal cancro in Age of Iron, metafora di un Sudafrica morente, oppure il corpo martoriato dalla tortura della ragazza “barbara” in Waiting for the Barbarians. Ancora, il corpo acquista autorità proprio per il suo essere sofferente.

Gli anni ’90 sono stati cruciali per il Sudafrica, poiché hanno visto la fine del regime di apartheid, la liberazione di Nelson Mandela nel 1990 e la vittoria dell’African National Congress (ANC) nelle prime elezioni multirazziali del 1994. Proprio in quest’anno, con la pubblicazione di The Master of Petersburg, la narrativa di Coetzee subisce una svolta: l’autore decide infatti di andare controcorrente rispetto ai connazionali, che scrivevano opere quanto mai incentrate sul contesto, e ambienta il suo romanzo nella Russia del 1869, abbandonando tra l’altro la modalità autodiegetica dell’io-narrante11, in un periodo in cui le autobiografie, soprattutto di chi aveva subìto le violenze autorizzate dal regime di apartheid, iniziavano ad acquistare grande interesse alla luce di una rivisitazione della storia nazionale.

L’uso della terza persona verrà esteso, come già anticipato, anche ai romanzi autobiografici, che affrontano ognuno un periodo diverso nella vita di Coetzee: Boyhood è ambientato in Sudafrica, nella cittadina di Worcester nei primi anni ’50, dove John, appena adolescente, capisce di essere diverso dai suoi coetanei, e dove emerge il suo carattere solitario, che lo porterà a una sempre maggiore alienazione dai compagni, ma anche dalla famiglia.

11

Su questo argomento, cfr. anche Maria Paola Guarducci, Dopo l’interregno: il romanzo

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Questo senso di alienazione è acuito in Youth, in cui il giovane John, all’età di vent’anni, emigra in Inghilterra, sperando di liberarsi di un Sudafrica che sente non appartenergli fino in fondo, ma resterà profondamente deluso dall’eccessiva freddezza della società londinese.

Troviamo infine Summertime, di carattere diverso rispetto ai due precedenti, perché qui si immagina che John sia già morto, e la sua vita negli anni 1972-1977 sarà raccontata attraverso i suoi diari e le testimonianze di quattro donne e un collega, raccolte da un biografo che intende ricostruire proprio quel periodo. Questo romanzo presenta una maggior commistione di generi e segnala forse la volontà di Coetzee di distanziarsi ancora di più da sé stesso, oggettivando cosa avesse inteso dire quando, intervistato da David Attwell, parlava di “autrebiography”.

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Capitolo I

Considerazioni sul genere autobiografico

1. Il “labirinto” dell’autobiografia

E’ ancora aperto il dibattito riguardo allo statuto dell’autobiografia: gli studiosi si chiedono se questo tipo di scrittura possa essere considerato a tutti gli effetti un genere letterario, oppure se, come sostiene Riccardo Scrivano, sia più opportuno parlare di “non-genere”12. In base alle teorie di Jean Starobinski13, lo stile dell’autobiografia non si può conformare alle norme di un genere letterario, perché, facendo ciò, violerebbe uno dei propri principi di base, ossia dire la verità, o almeno, quella che l’autore ritiene tale.

L’autobiografia è una forma di interpretazione del sé, in cui la figura dell’autore è presente dall’inizio alla fine. Per l’autobiografo, scrivere della propria vita è come mettersi davanti a uno specchio: l’io del presente che si confronta con quello del passato, in un processo in cui il primo dovrà “rendere conto” del secondo.

In questo processo di ricostruzione, è ovviamente fondamentale la memoria, serbatoio prezioso e imprescindibile ma anche equiparabile a un labirinto che può creare confusione e senso di disorientamento; è infatti possibile che i fatti siano avvenuti in un periodo molto lontano nel tempo,

12

Riccardo Scrivano, “Teoria e critica dell’autobiografia”, in Scrivere la propria vita:

l’autobiografia come problema critico e teorico, a cura di Rino Caputo e Matteo Monaco, Bulzoni

Editore, Roma 1997, p. 27.

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come l’infanzia, o che si ricordino solamente alcuni episodi, o frammenti di essi, dal momento che la memoria tende per sua natura a rimuovere soprattutto i ricordi spiacevoli.

Cosa accade quindi se l’autobiografo non ricorda bene gli eventi che si è riproposto di raccontare? Come colmare le lacune? In questo caso viene in soccorso l’immaginazione, ed è a questo punto che il racconto autobiografico tende ad attingere alle risorse della letteratura, intersecandosi con la finzione. In questo modo è possibile, al fine di rendere un’autobiografia più uniforme, limare le contraddizioni, ricostruire i frammenti lacunosi e rendere alcuni passaggi più “appetibili” per il lettore.

Parallelamente al problema della memoria, si pone quello della selezione dei fatti da raccontare. Premettendo che, solitamente, per un’autobiografia si privilegia il periodo dell’infanzia o della giovinezza, mentre il tempo della maturità ha uno spazio maggiore nelle biografie, come sostiene Franco D’Intino ne “I paradossi dell’autobiografia”, la tentazione principale è quella di guardare con libertà e disinvoltura alla cronologia degli eventi: “l’autobiografo spesso va avanti e indietro, rievoca, anticipa, collega avvenimenti distanti tra loro” e li riconduce “al piano temporale del presente, che rimane visibilmente la matrice del suo percorso memoriale”14

.

Generalmente, l’autobiografo tende a scartare tutti quegli eventi che possono essere causa di imbarazzi e fraintendimenti, o altri che hanno provocato un’eccessiva sofferenza.

Si parlava in precedenza di “appetibilità” per il lettore: è chiaro che chi scrive la propria vita lo fa affinché questa venga letta da qualcuno, per

14

Franco D’Intino, “I paradossi dell’autobiografia”, in Scrivere la propria vita: l’autobiografia

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cui è importante che i fatti narrati suscitino la curiosità di chi legge; l’autobiografo eliminerà così anche tutto quello che è più banale e/o noioso, e comunque gli episodi che non hanno avuto particolare rilevanza per la sua esperienza.

Uno dei più famosi teorici dell’autobiografia è stato Philippe Lejeune, il quale sostenne nel Patto autobiografico (1975)15 che l’autobiografia vera e propria si distingue dal romanzo autobiografico, dal memoir, dall’autoritratto o dal saggio poiché prevede una coincidenza ontologica tra autore, narratore e personaggio principale. L’uso del pronome “io” implica già di per sé una differenza col romanzo autobiografico: nell’autobiografia, il pronome corrisponde all’autore e al narratore dell’opera, mentre nel romanzo questa coincidenza non è scontata, soprattutto nel caso in cui il narratore sia in terza persona (dunque anche per Coetzee).

La terza persona può venire utilizzata per diverse ragioni: per prendere le distanze dal passato o da sé stessi, per cercare di rendere il racconto più obiettivo, ma anche come maschera. Il ricorso alla modalità eterodiegetica, secondo Lejeune, può anche oggettivare una sorta di ventriloquismo che veicola uno sdoppiamento dell’io, prospettando una rosa di più punti di vista.

Infatti non è raro che chi impiega la terza persona parli di sé stesso come se si trattasse di un altro individuo, soprattutto nel caso in cui si appresti a raccontare esperienze o scelte negative, facendo anche ricorso a figure retoriche di opposizione, come l’ironia o la preterizione16

. Secondo Starobinski, l’uso della voce eterodiegetica, anziché autodiegetica,

15

Traduzione italiana Il Mulino, Bologna 1986.

16

Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo: autobiografia e biografia, Il Mulino, Bologna 1990, p. 146.

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potrebbe invece asservire alla funzione di mettere in risalto il protagonista e le sue caratteristiche rispetto all’evento narrato.

Un altro problema è legato all’inclusione dei rapporti interpersonali nell’autobiografia. Scrivendo della propria vita, l’autobiografo incrocia inevitabilmente anche il vissuto delle persone con cui è entrato in contatto. Lejeune tenta di limitare questo perimetro asserendo che la “vera” autobiografia è quella in cui l’autore dà maggiore risalto alla propria personalità e alla propria storia individuale.

Altra questione importante è quella relativa al momento della scrittura, perché il rapporto tra l’io narrante e l’io narrato varia a seconda del tempo, per cui l’autobiografo può giudicare con un’ottica differente gli episodi del suo passato a seconda del periodo in cui scrive.

Ancora, l’autore di autobiografie può “alterare” il racconto, rendendolo meno lineare, apportando modifiche, correzioni e/o commenti, giocando sulla componente anamnestica.

Il genere autobiografico è inoltre generalmente caratterizzato da uno stile non convenzionale, che rispecchia la personalità dell’autore e varia anche a seconda dello stato d’animo che egli aspira a comunicare: “Nello spazio si riflettono la persona, con i pronomi, lo spazio, con i deittici e le preposizioni, il tempo, con verbi e avverbi, la modalità […], gli stati d’animo”17

.

Un elemento che differenzia autobiografia e biografia è il discorso sulla nascita e sulla morte del protagonista: per l’autobiografo si pone infatti il problema di come iniziare e come finire il racconto della propria vita. La nascita non la può certamente ricordare, ma al massimo può basarsi sul racconto fattogli da chi era presente in quel momento, mentre la morte non è ancora sopraggiunta, e perciò la sua opera rischia di sembrare

17

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incompiuta. Di qui l’esigenza di scegliere degli avvenimenti cardinali per stabilire l’inizio e la fine del tragitto autobiografico, o configurare un periodo della propria vita su cui concentrarsi18. Insomma, per citare ancora una volta D’Intino, l’autobiografo vive una sorta di paradosso per cui non può mai “raggiungersi” scrivendo. Talvolta, quindi, le autobiografie si fermano al periodo della giovinezza, assumendo quasi le caratteristiche del romanzo di formazione.

Una delle questioni più dibattute in merito a questo tipo di scrittura è il suo valore di verità. Per quanto l’autobiografo, nel processo di ricostruzione della propria vita, si possa servire di documenti, diari, testimonianze e via dicendo, non riuscirà completamente a fornire un quadro obiettivo su di sé.

Il fatto stesso che all’autobiografo siano concesse più libertà sul piano formale (al contrario di quanto avviene per il biografo), e che quindi egli possa apportare aggiunte, modifiche e commenti, fa sì che in qualche modo la verità acquisti una fisionomia polimorfa e volatile.

Quali sono le motivazioni che spingono a scrivere della propria vita? C’è sicuramente il desiderio di essere ricordati, forse una sorta di autocelebrazione, ma anche il bisogno di confessarsi, di aprire la propria anima in un tentativo di espiazione. Non da ultimo, scrivere del proprio passato ha una valenza gnoseologica, in quanto consente di fare chiarezza sulla propria personalità alla luce delle esperienze vissute.

I primi decenni del XIX secolo videro una grande proliferazione di autobiografie, in coincidenza con le idee romantiche di identificazione di vita e arte e la riscoperta della genialità individuale e creativa. A scrivere della propria vita non sono però solo gli artisti, ma pure i rappresentanti di

18

Coetzee, in particolare, sceglierà di raccontare in Boyhood il periodo della sua pre-adoloscenza, compresa tra gli 11 e i 13 anni, in Youth il periodo vissuto a Londra, e in Summertime gli anni dal 1972 al 1977.

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categorie sociali o di genere storicamente oppresse, come le donne, gli operai o gli ex schiavi, che per la prima volta decidono di offrire testimonianze riguardanti la loro condizione subalterna e la loro sete di rivendicazione.

In Doubling the Point, come già accennato, Coetzee parla dell’autobiografia come una forma di racconto, e sostiene che tutte le opere di uno scrittore (fiction, saggi, recensioni) sono in qualche modo autobiografiche, perché in esse sarebbero condensati l’esperienza e lo stile dell’autore: “all autobiography is storytelling, all writing is autobiography”19.

Coetzee prosegue tentando di fornire una sua personale definizione di autobiografia:

it is a kind of self-writing in which you are constrained to respect the facts of your history. But which facts? All the facts? No. All the facts are too many facts. You choose the facts insofar as they fall in with your evolving purpose20.

Parlando della sua riluttanza a concedere interviste, data l’inaffidabilità per antonomasia del discorso (speech), Coetzee riflette su come la verità sia maggiormente compatibile con la scrittura. Quest’ultima, inoltre, non sarebbe un’espressione univoca e monocorde, in quanto risveglierebbe nell’individuo delle countervoices costrette in qualche modo a dialogare tra di loro. Citando Lacan, Coetzee ipotizza che la serietà dello scrittore dipenda pure dalla capacità di evocare e orchestrare queste countervoices, e quindi di spezzare le catene di un io onnisciente. Quello che, al contrario, lo speech implica è un discorso di tipo monologico, per sua natura distante dalla natura dialettica della verità:

19

Doubling the Point : Essays and Interviews, cit., p. 391.

20

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There is a true sense in which writing is dialogic: a matter of awakening the countervoices in oneself and embarking upon speech with them. It is some measure of a writer’s seriousness whether he does evoke/invoke those countervoices in himself, that is, step down from the position of what Lacan calls “the subject supposed to know.”[…] To me […], truth is related to silence, to reflection, to the practice of writing. Speech is not a fount of truth but a pale and provisional version of writing.21

Ora, è possibile condensare una forma di verità nell’autobiografia? Coetzee a questo proposito ritiene fondamentale il suo saggio del 1985, “Confessions and Double Thoughts: Tolstoy, Rousseau, Dostoevsky”. Retrospettivamente, egli considera questo saggio come se fosse il dialogo tra due io differenti, che dibattono a proposito della verità nell’autobiografia: uno è “a person I desired to be and was feeling my way toward”, l’altro è “more shadowy: let us call him the person I then was22

, though he may be the person I still am”23. Questo secondo io ritiene che non esista una verità definitiva su sé stessi e che quindi non abbia senso tentare di ottenerla, in quanto:

[…] what we call the truth is only a shifting self-reappraisal whose function is to make one feel good, or as good as possible under the circumstances, given that the genre doesn’t allow one to create free-floating fictions. Autobiography is dominated by self-interest (continues this second person); in an abstract way one may be aware of that self-interest, but ultimately one cannot bring it into full focus. The only sure truth in autobiography is that one’s self interest will be located at one’s blind spot.24

Curiosamente, Coetzee parla in terza persona in alcuni passaggi dell’intervista con David Attwell, come per prendere le distanze da sé, e usa il termine “autrebiography” per definire questa sorta di sdoppiamento. Come in un romanzo, e come se parlasse di un’altra persona, egli procede inoltre con il rievocare la sua infanzia a Worcester, la vergogna che sentiva

21

Ivi, pp. 65-66.

22

Quando scrisse il saggio nel 1985.

23

Ivi, p. 392.

24

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per essere un afrikaner, la sua vita all’estero. Racconta anche di come in Inghilterra non si fosse sentito particolarmente infelice, ma piuttosto “alieno”, e di come non provasse nostalgia per il Sudafrica. “Autrebiography shades back into autobiography”25

quando riprende i suoi studi letterari in Texas, e a questo punto ritorna all’uso della prima persona, chiudendo l’intervista con queste parole emblematiche, testimonianti comunque il valore filosofico del concetto di verità:

Why should I be interested in the truth about myself when the truth may not be in my interest? To which, I suppose, I continue to give a Platonic answer: because we are born with the idea of the truth.26

2. Proiezioni autobiografiche nel contesto sudafricano contemporaneo

La necessità di mettere in discussione i modelli culturali e letterari provenienti dalla madrepatria o dai centri metropolitani diventa quasi un topos per gli autori anglofoni del Novecento: il loro atteggiamento critico si manifesta spesso nella rivisitazione e nell’ibridazione dei generi letterari. L’autobiografia si presta quanto mai ad essere contaminata con altre tipologie di scrittura, come il romanzo, i racconti di viaggio o la cronaca giornalistica. Se da un lato, come accennato, l’intento è di stravolgere i canoni dogmaticamente imposti dal Centro, dall’altro lo scopo è cercare di plasmare una propria identità, in un tentativo di rivendicazione culturale.

Dopo la fine dell’apartheid, il Sudafrica ha cercato di ricostituirsi come democrazia dopo anni di violenze perpetrate dal regime: nel 1995 venne istituita la Truth and Reconciliation Commission (TRC) - voluta da

25

Ivi, p. 394.

26

(19)

Mandela e affidata all’arcivescovo Desmond Tutu - che concluse i lavori nel 1997, con la pubblicazione dei verbali l’anno successivo. La TRC aveva il compito di “riscrivere” la storia nazionale principalmente attraverso il confronto tra le vittime e i carnefici del regime o di altre forze estremiste. L’etica della TRC era la centralità della persona: lo scopo era quello di cercare di ottenere la verità in cambio del perdono, così da costruire un modello di nazione pacifica. Le vittime potevano deporre la loro testimonianza nei tribunali, ottenere un simbolico risarcimento in denaro e vedere restaurata la loro dignità. Le varie testimonianze venivano messe agli atti affinché non si perdesse la memoria di quegli anni terribili. Dall’altro lato, i carnefici, solo in caso di confessione sincera e di crimine motivato politicamente, potevano richiedere l’amnistia.

Le tragedie personali divennero così, più in generale, la storia della sofferenza di una nazione. Il filo conduttore della TRC non era solo il perdono cristiano, ma anche l’etica africana dell’ubuntu:

“Umanità, bontà”, nelle lingue xhosa e zulu, l’ubuntu è un’etica della reciprocità secondo cui l’io esiste in rapporto all’altro; motivo per cui l’altro – anche quando dell’io è potenziale o effettivo persecutore – deve essere reintegrato nel circuito dei rapporti umani, pena la scomparsa, la diminuzione, dello stesso io. Nella ridefinizione dei ruoli individuali concepita dall’ubuntu, dunque, l’altro, in questo caso il carnefice, si ritrova esautorato dal confronto con la sua vittima, sulla quale non esercita più alcun potere ma dalla quale, al contrario, dipende adesso il suo futuro di essere umano.27

In campo letterario sono state pubblicate diverse opere, soprattutto romanzi, che hanno fatto proprie le strategie di tipo confessionale e memoriale caratteristiche dei tribunali della TRC. I temi erano sovente quelli del perdono e della colpa, filtrati attraverso il punto di vista di un personaggio, se non addirittura narrati in prima persona. Tra i romanzi più

27

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famosi si ricordano The Smell of Apples di Mark Behr, Disgrace dello stesso Coetzee, The House Gun di Nadine Gordimer, Red Dust di Gillian Slovo, Mother to Mother di Sindiwe Magona, ma gli esempi sono tra i più vari.

Quelli che venivano pubblicati non erano solo racconti fittizi, ma talvolta vere e proprie autobiografie, soprattutto di prigionieri politici in maggioranza neri (celeberrima quella di Nelson Mandela, Long Walk to Freedom, del 1994), che testimoniavano le vessazioni subite in carcere, così come il tormentato iter di lotte e scontri in nome di un ideale osteggiato.

Anche molti scrittori bianchi, dopo la fine dell’apartheid, decisero di raccontare la propria versione scrivendo autobiografie, memorie, storie documentate, spesso in prima persona. Oltre a Boyhood di Coetzee (sebbene in terza persona), sono famosi testi quali The Innocence of Roast Chicken di Jo-Anne Richards, Country of My Skull di Antije Krog, Boy from Bethuline, an Autobiography di Patrick Mynhardt, Every Secret Thing: My Family, My Country di Gillian Slovo e altri.

In tutte queste opere è comune la forma del memoir o del diario e, soprattutto, al centro si trova spesso la figura del bambino o dell’adolescente, “come se l’infanzia (dell’individuo e, per estensione, della nazione) fosse un nodo cruciale nella riflessione del Sudafrica contemporaneo”28

. Il bambino afrikaner rappresenterebbe quindi un veicolo straniante di confronto con il nuovo Sudafrica, privato però dell’innocenza tipica dell’infanzia. Egli descrive infatti la violenza che lo circonda senza comprenderne le implicazioni, in quanto il vecchio regime segregazionista in cui è calato affossa lo spirito critico e la possibilità di coltivare un pensiero autonomo. Ciò avviene in The Smell of Apples (1995), in cui il

28

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protagonista Marnus vede il suo ammiratissimo padre, maggiore generale della South African Defence Force, stuprare il suo migliore amico, o nello stesso Boyhood, dove sono diversi gli episodi descritti dal piccolo John in cui si fa riferimento a un malcelato razzismo, anche da parte della sua famiglia.

Essendo testimone delle atrocità talvolta commesse in nome delle ideologie e più spesso attuate in modo gratuito dalla sua stessa gente, il bambino afrikaner è totalmente privo di spensieratezza e, in più, si carica di un senso di colpa che si porterà dietro per tutta la vita, sentendo come un peso l’eredità totalmente negativa trasmessa dai suoi padri.

Altre volte, come nel citato The Smell of Apples, egli rimuoverà lo spettacolo della violenza e, da adulto, ripeterà compulsivamente gli stessi errori: Marnus, infatti, dimenticherà l’episodio infamante commesso dal padre - sebbene in un primo momento percepisca forte su di sé il senso di colpa, derivante pure dall’etica calvinista in cui è stato indottrinato - e lo ritroveremo arruolato nell’esercito a difendere quegli ideali colonialisti e quei miti afrikaner coltivati da famiglia e scuola. Da adulto, Marnus non parlerà mai del trauma vissuto da bambino e proprio questa rimozione ne acuirà i tratti devianti e disumani. Alla fine del racconto, il protagonista si spegnerà, a soli venticinque anni, e accoglierà la morte con sollievo dopo una vita infelice: una morte liberatoria che, nel momento in cui avviene, lo porta a fantasticare sull’immagine di lui bambino tra le braccia del padre, a dimostrazione che la menzogna e la forza dell’ideologia sono state più forti della ricerca di una riconciliazione catartica.

Il male sembrerebbe una condizione da cui non ci si può liberare, almeno da quanto emerge dal romanzo autobiografico di Jo-Anne Richards, The Innocence of Roast Chicken (1996), dove la protagonista Kati evoca un episodio che aprirà la lunga serie di ingiustizie da lei testimoniate nel corso

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dell’esistenza. L’episodio in questione è l’auto-evirazione di un bracciante nero, costretto al gesto dal suo padrone bianco, in una fattoria vicina a quella dei nonni di Kati. La bambina aveva assistito alla scena di nascosto assieme al suo fratellino. La cosa che più la sconvolge è che suo padre, presente e quindi testimone diretto del fatto, e solitamente deciso e risoluto, in quella occasione si sia mostrato titubante e non abbia fatto niente per evitare la tragedia. Un padre, quindi, che si mostra complice delle atrocità. Kati reagisce col silenzio e la diffidenza verso gli altri, arrivando negli anni a isolarsi dai suoi cari e soprattutto dal marito, che infine, esasperato, chiederà il divorzio: è a questo punto che la donna deciderà di raccontare l’origine della sua aridità misantropica. A differenza di The Smell of Apples, qui il finale lascia comunque aperte nuove possibilità e speranze, adombrando il destino di una nazione che proprio in quegli anni stava tentando di risorgere dalle ceneri del suo passato cruento.

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Capitolo II

Boyhood

Boyhood: Scenes from Provincial Life è il primo dei tre romanzi autobiografici di Coetzee, pubblicato da Secker & Warburg per la prima volta nel 1997.

Il titolo Boyhood, come giustamente rimarca Giuliana Iannaccaro29, è difficilmente traducibile in italiano30, perché si riferisce a una fase preadolescenziale del protagonista, dai dieci ai tredici anni. Una fase particolare, di passaggio dall’infanzia all’adolescenza vera e propria, che per il protagonista, John, sarà ancora più problematica per il suo carattere fortemente introverso, ma soprattutto, come vedremo, per il contesto -familiare e geografico - in cui egli si trova ad affrontarla.

Come già detto in precedenza, è molto forte il legame intertestuale dei romanzi di Coetzee con la grande tradizione letteraria occidentale. Boyhood non costituisce un’eccezione, poiché già Lev Tolstoj aveva intitolato Adolescenza31 il secondo volume della sua trilogia autobiografica.

L’intertestualità è ancora più evidente nel sottotitolo del romanzo, Scenes from Provincial Life32, che prende spunto dalle opere di alcun grandi scrittori europei: Scenes of Clerical Life e Middlemarch: a Study of Provincial Life di George Eliot, ma anche Madame Bovary. Moeurs de

29

Cfr. Giuliana Iannaccaro, J.M. Coetzee, cit., p. 154.

30

L’edizione italiana di Boyhood è intitolata Infanzia.

31

Boyhood nella versione inglese.

32

Nella copertina dell’edizione paperback americana il sottotitolo è A Memoir, che sottolinea ancora di più il carattere autobiografico del romanzo.

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province di Flaubert, Scènes de la vie de province di Balzac e Scenes from Provincial Life di William Cooper.

Analizzare il significato del sottotitolo è utile per capire le strategie narrative messe in atto da Coetzee in Boyhood (ma anche in Youth, come vedremo): “scenes” è correlato all’aspetto strutturale del romanzo, articolato in diciotto capitoli, che non seguono una trama ben precisa.

Piuttosto, come suggerisce appunto il termine “scenes”, si tratta di episodi singoli della vita di John, il quale unisce a un ricordo specifico le riflessioni e le sensazioni collegate ad esso. Questa strategia pare enucleare il funzionamento del meccanismo della memoria, che per sua natura tende a preservare solo alcuni ricordi, eliminandone altri. Quest’ultima considerazione è però problematica nel caso di Boyhood, dal momento che la narrazione è al tempo presente e quindi presuppone che il protagonista e il narratore si collochino in una dimensione contemporanea rispetto alle vicende narrate, presumibilmente senza ricorsi a una memoria a lungo termine.

E’ forse più corretto dire che l’intenzione di Coetzee sia stata quella di selezionare alcuni momenti – o scene – fondamentali per la formazione del carattere del protagonista e mettere in risalto i passaggi che hanno contribuito anche alla sua formazione artistica, o quantomeno a illuminarlo sulle proprie qualità. Nel terzo capitolo, infatti, John è appena stato salvato da un annegamento e commenta così l’episodio: “From that day onward he knows there is something special about him. He should have died but he did not” (17)33.

L’altra espressione chiave del sottotitolo è “provincial life”. Derek Attridge sostiene che questa espressione è ambivalente perché, mentre

33

L’edizione utilizzata per il presente lavoro, e che sarà presa come riferimento per tutte le citazioni, è la seguente: Boyhood: Scenes from Provincial Life, Vintage, London 1998.

(25)

sottolinea la marginalità del protagonista, al tempo stesso, prendendo spunto dalle opere dei grandi scrittori citati in precedenza, si colloca all’interno della prestigiosa tradizione europea34

.

La “provincialità” del giovane John deriva dal suo provenire da una piccola cittadina sudafricana, Worcester, in cui la famiglia si era trasferita da Cape Town. Tale provincialità deve tuttavia essere intesa non solo in senso geografico, ma anche culturale e personale. Culturale perché John ammira la lingua, la storia e la letteratura inglesi – e in Youth riuscirà a realizzare il suo sogno di vivere in Inghilterra, rimanendo tuttavia irrimediabilmente deluso -, ma è un cittadino di una colonia in parte connessa all’ex Impero Britannico, collocato quindi ai margini rispetto a una “madrepatria” d’adozione.

Come si vede, quindi, anche nelle opere autobiografiche di Coetzee, non è mai possibile porre in secondo piano il rapporto con il retaggio storico, perché, è bene sottolineare di nuovo, “our experience remains largely colonial”35.

La provincialità, si diceva prima, va intesa anche in senso personale: il protagonista è emarginato perché lo è la sua famiglia, che educa i figli in modo diverso dalle altre, e di conseguenza il protagonista è alienato rispetto ai suoi compagni.

Coetzee sovverte il genere autobiografico in quanto rinuncia alla narrazione in prima persona, optando per la terza e, come accennato sopra, usa il tempo presente per raccontare le vicende della sua infanzia. Secondo Sheila Collingwood-Whittick, la scelta di non ricorrere all’io-narrante deriverebbe dalla volontà di costruire una sorta di schermo protettivo tra la figura dell’intellettuale, riconosciuta internazionalmente, e l’individuo

34

Derek Attridge, J.M. Coetzee & the Ethics of Reading: Literature in the Event, University of Chicago Press, Chicago 2004, p. 155.

35

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fortemente riservato nel privato. Whittick prosegue ponendo questa strategia sotto una luce negativa, poiché a suo avviso Coetzee violerebbe il patto autobiografico, che presuppone un racconto veritiero: sarebbe come se, preferendo la terza persona, l’autore concedesse a John tutta la libertà di cui dispone un personaggio fittizio, mentre così non dovrebbe essere, almeno nell’ambito dei memoir36.

Derek Attridge cita una intervista di Coetzee con David Attwell, in cui l’autore commenta in modo incisivo e altresì sibillino l’effetto prodotto dall’uso della terza persona in Boyhood e Youth: “To rewrite Boyhood and Youth with I substituted for he throughout would land you up with two books only remotely related to their originals”37. Attridge rimarca inoltre come la scelta di Coetzee tolga un certo grado di intimità all’opera, come se il racconto mancasse di profondità, per cui in questo caso sarebbe fuorviante parlare di “confessional autobiography”.

E’ d’altronde evidente come Coetzee intenda filtrare la storia del suo “personaggio” da uno sguardo il più oggettivo possibile, evitando qualsiasi tipo di coinvolgimento emotivo, e fornire quindi del protagonista un ritratto veritiero e non fittizio nella sua essenza38.

Il tempo presente, invece, oltre a impedire il configurarsi di uno sguardo retrospettivo del Coetzee adulto nei confronti del bambino, fa in modo che gli episodi, descritti seppur in modo sintetico, abbiano dei contorni ben definiti, come se avvenissero nel momento in cui sono raccontati. Questa tecnica dà quindi l’impressione di eludere l’inaffidabilità

36

Sheila Collingwood-Whittick, “Autobiography as Autrebiography: the Fictionalisation of the Self in J.M. Coetzee’s Boyhood: Scenes from Provincial Life”, Commonwealth Essays and

Studies, Vol. 24, No. 1, Autumn 2001 , pp. 22-23.

37

Citazione contenuta in J.M. Coetzee & the Ethics of Reading: Literature in the Event, cit., p. 140.

38

Valeria Aresti, Le declinazioni dell’autobiografia: il significato di “Boyhood”, “Youth” e

“Elizabeth Costello” nella produzione di J.M. Coetzee, Tesi di Dottorato in Letterature Straniere

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della memoria a distanza di tanti anni dall’esperienza vissuta. Anche questo, però, potrebbe essere un punto a sfavore per l’autore sudafricano, perché, se l’intento è quello di scrivere un racconto obiettivo, il fatto che i ricordi siano presentati in modo fin troppo preciso presuppone il ricorso alla finzione, la qual cosa andrebbe chiaramente a scapito della volontà di scrivere un’autobiografia.

L’impressione generata già dalle prime pagine del romanzo è quella di un ambiente poco confortevole, che funge in qualche modo da specchio dell’interiorità tormentata del protagonista. Il primo capitolo inizia con la descrizione della nuova casa dove si sono trasferiti i Coetzee39: la proprietà si trova alla periferia della cittadina di Worcester, elemento che lascia presagire la marginalità del personaggio principale e della famiglia stessa. Nelle parole impietose del giovane John, scopriamo la desolazione di un terreno sterile, di un’aria satura di polvere di argilla rossa e insetti; le case sono separate tra loro da recinti di fil di ferro, come se si volesse rammentare al lettore che il luogo di cui si sta parlando si trova nello stesso Paese dove viene perpetrata la barbarie dell’apartheid:

All the houses in the estate are new and identical. They are set in large plots of red clay earth where nothing grows, separated by wire fences. […] At the bottom of the yard they […] instal three hens, which are supposed to lay eggs for them. But the hens do not flourish. […] Every time the wind blows, a fine ochre clay-dust whirls in under the doors […] There are ants in Worcester, flies, plagues of fleas. (1-2)

In questo passo del testo si avverte una remota eco delle piaghe bibliche, come a suggerire che, dietro alle calamità che affliggono il territorio, si cela una sorta di punizione divina.

39

Prima la famiglia risiedeva a Cape Town. I Coetzee si sono trasferiti a Worcester a causa del licenziamento del padre di John dalla pubblica amministrazione; l’evento potrebbe essere collegato, come suggerisce il narratore, alla vittoria del partito nazionalista afrikaner nelle elezioni del 1948: il padre è infatti un sostenitore dello “United Party”, filoinglese. Le vicende politiche non sono quasi mai messe in primo piano, ma fanno da sfondo e sono saldamente collegate all’esperienza del protagonista.

(28)

La crudezza e, se vogliamo, crudeltà, è esplicita fin da subito e si concretizza durante la narrazione in diversi episodi, che si tratti della violenza esercitata sugli animali (la quale ricorrerà di frequente nel romanzo)40, oppure di quella di tipo psicologico che il protagonista infligge ai suoi familiari, tra cui il bersaglio preferito è immancabilmente la madre.

Vera, questo il nome della donna, ha sacrificato la sua vita, anche lavorativa, per accudire il marito e soprattutto i due figli, verso i quali prova un amore viscerale e un senso di protezione41 che le impedisce di ritagliare uno spazio per sé al di là delle sue occupazioni quotidiane. Quando avverte un primo desiderio di indipendenza – “I will not be a prisoner in this house, she says. I will be free” (3) – che cercherà di soddisfare comprandosi una bicicletta, tutto quello che otterrà da John, stavolta stranamente schierato con il padre, sarà imbarazzo e rabbia. Il bambino comprende infatti che la casta afrikaner non consente alla donna di esprimersi al di fuori del suo ruolo prestabilito di madre e moglie:

But now, as he listens to his father’s jokes, which his mother can meet only with dogged silence, he begins to waver. […] His heart turns against her. That evening he joins with his father’s jeering. He is well aware what a betrayal this is. Now his mother is all alone. (3)

Questa percezione travagliata in cui si mescolano risentimento e possessività viene infine resa esplicita, ma se ci si aspetta anche un minimo accenno a un senso di colpa da parte del bambino, si resterà delusi. Infatti, John non farà che rafforzare la sua posizione contro la madre, a costo di dover una volta tanto appoggiare il padre:

40

La violenza verso gli animali è uno dei motivi che determineranno la scelta dell’artista di diventare vegetariano da adulto. Inoltre, questo è un tema verso cui Coetzee è molto sensibile, tanto che si ritrova in molte delle sue opere.

41

(29)

The memory of his mother on her bicycle does not leave him. […] He does not want her to go. He does not want her to have a desire of her own. He wants her always to be in the house, waiting for him when he comes home. […] his whole inclination is to gang up with her against his father. But in this case he belongs with the men. (4)

Insieme al conflitto edipico, la madre è sempre presente nel suo racconto, come figura centrale e punto di riferimento.

L’ambiguità del rapporto di John con Vera si oggettiva anche nella scelta del bambino di non confidarsi con lei per nessuna ragione: John giunge addirittura a “stipulare” una specie di “contratto” con sé stesso che lo vincola a comportarsi in modo irreprensibile a scuola, affinché sua madre non possa chiedergli conto di niente. Una delle accuse che più sovente muove alla madre (ma anche al padre), è quella di non averlo reso un bambino “normale”. A scuola John si confronta con i suoi compagni e si rende conto di essere diverso da loro, a partire dall’educazione che gli è stata impartita: emerge a questo proposito come egli non sia mai stato picchiato dai genitori, e ciò è motivo di grande imbarazzo per lui. Questa condizione è però da parte sua vissuta con ambiguità perché, se da un lato si vergogna per non essere mai stato colpito, dall’altro, nel caso in cui a scuola l’insegnante dovesse punirlo davanti ai compagni, si vergognerebbe a morte, al punto da meditare il suicidio42.

Di tutto questo, ancora una volta, è secondo lui responsabile la madre: “he is angry with his mother for not having normal children, and making them live a normal life” (8). Ma cosa intende John per “normalità”? La scuola è il primo posto dove un bambino ha la possibilità di confrontarsi con l’Altro al di fuori della sua famiglia, che fino allora è stata il suo unico

42

In questo episodio, come in tanti altri passi all’interno della narrazione, si percepisce una vena di ironia da parte del John maturo, che ben fotografa la situazione di conflitto tra una realtà collettiva normata e la percezione intuitiva, o coltivata nella sfera familiare, di un altro tipo di codice etico-comportamentale.

(30)

parametro di giudizio. Anche John - e forse soprattutto lui - vive sulla sua pelle questo confronto: ciò che da un lato gli fa lodare la madre per essere così protettiva con lui, e dall’altro, come abbiamo appena visto, la rende fonte di biasimo per i motivi opposti, è per esempio il fatto che gli altri bambini a scuola non indossano mai le scarpe, vengono costantemente rimproverati con metodi severi e resistono senza lamentarsi, perché probabilmente questo è lo stesso trattamento che ricevono a casa. I compagni si recano tutti i giorni a scuola, anche se malati, mentre lui ha il privilegio di restare a casa qualora stesse (o facesse finta di stare) male.

John soffre, perché si rende conto che tutto questo contribuisce a isolarlo, almeno finché ci sarà la madre a fargli da scudo. L’astio nei confronti di Vera è acuito dal fatto che egli non sopporta lo spirito di sacrificio e l’amore incondizionato di lei per lui (e, forse in misura minore, per suo fratello). A questo proposito è emblematico l’episodio in cui la donna decide di portare i figli al circo, ma non ha abbastanza soldi per permettersi tre biglietti:

She buys tickets for him and his brother. ‘Go in, I’ll wait here,’ she says. He is unwilling, but she insists.

Inside, he is miserable, enjoys nothing; he suspects his brother feels the same way. When they emerge at the end of the show, she is still there. For days afterwards he cannot banish the thought: his mother waiting patiently in the blazing heat of December while he sits in the circus tent being entertained like a king. (47)

Ancora peggio, il giovane protagonista non tollera in alcun modo l’idea di essere obbligato a ricambiare l’amore incondizionato della madre, e allora decide di reprimere qualsiasi sentimento di affetto per lei, divenendo freddo e introverso:

Her blinding, overwhelming, self-sacrificial love, for both him and his brother but for him in particular, disturbs him. He wishes she did not love him so much. She loves him absolutely, therefore he must love her absolutely: that is the logic she

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compels upon him. Never will he be able to pay back all the love she pours out upon him. The thought of a lifetime bowed under a debt of love baffles and infuriates him to the point where he will not kiss her, refuses to be touched by her. When she turns away in silent hurt, he deliberately hardens his heart against her, refusing to give in. (ibidem, corsivi miei)

John riesce ad essere ancor più meschino, trattando la madre da inferiore e usando con lei parole molto dure, al punto che anche il padre – che solitamente è collocato ai margini della famiglia, e non si occupa dell’educazione dei figli – si lamenta di questa aggressività nei confronti di sua moglie. Non è raro che il giovane la metta in difficoltà facendole domande insinuanti, chiedendole per esempio a quale dei due figli voglia più bene.

La crudeltà psicologica che egli è solito esibire all’interno delle mura domestiche viene solertemente celata al mondo esterno, al quale invece egli si mostra docile e remissivo, facendo così emergere una volta per tutte un’inclinazione verso patologie di sdoppiamento.

Con il suo carattere cupo e taciturno venato di una sottile cattiveria, il bambino sembra essere privo dei requisiti di innocenza e spensieratezza propri dell’infanzia. Parte della sua perfidia è rivolta verso il fratello minore, che nel testo è poco presente, ma è facile intuire la gelosia di John nei suoi confronti, sia quando chiede alla madre chi salverebbe tra i due figli nell’eventualità che divampasse un incendio in casa, sia quando racconta un episodio avvenuto qualche anno prima, nel quale, cedendo a una curiosità sadica, aveva causato l’amputazione di un dito del fratellino:

[…] he and his brother roamed around the farmyard. There they came upon a mealie-grinding machine. He persuaded his brother to put his hand down the funnel where the mealie-pits were thrown in; then he turned the handle. For an instant, before he stopped, he could feel the fine bones of the fingers being crushed. His brother stood with his hand trapped in the machine, ashen with pain, a puzzled, inquiring look on his face. […] He has never apologized to his brother, nor has he even been reproached with what he did. Nevertheless, the memory lies like a

(32)

weight upon him, the memory of the soft resistance of flesh and bone, and then the grinding. (119; corsivi miei)

Certamente questo evento ha segnato John ed è ben presente nella sua memoria: lo si intuisce da come il protagonista ormai maturo descrive la sensazione della macina che sfracella le ossa delle dita, come se avesse la scena presente davanti a sé, e da come delinea l’espressione del fratello, attonita e contratta in preda a un dolore lancinante. Il ricordo è vivo come il peso sulla coscienza, ma John non si è mai scusato col fratello minore e, ancora una volta, l’amore incondizionato della madre è stato più forte della necessità di rimproverarlo per il suo gesto sconsiderato.

Da questo episodio si evince un altro aspetto del carattere del protagonista, che in Youth sarà addirittura accentuato, ossia la fuga dalle responsabilità e una irritante codardia. Anche in questo caso la responsabilità è in buona parte della madre, che, come lo protegge dall’ira del padre che minaccia di picchiarlo e lo giustifica dalle assenze a scuola talvolta immotivate, allo stesso modo evita di rimproverarlo quando è necessario, rallentandone la maturazione, almeno dal punto di vista dei rapporti umani e interpersonali.

Il protagonista all’esterno indossa una sorta di maschera, che gli permette di comportarsi in modo mansueto, ma la sua vera natura, che si potrebbe definire perfino malvagia, trova sfogo dentro le mura domestiche:

At home he is an irascible despot, at school a lamb, meek and mild, who sits in the second row from the back, the most obscure row, so that he will not be noticed, and goes rigid with fear when the beating starts. By living this double life he has created for himself a burden of imposture. (13)

Un impostore quindi, per usare le sue stesse parole. Ciò che sorprende è la piena consapevolezza che egli ha delle sue mancanze, e ancora più inquietante è il modo in cui egli giustifica il suo comportamento:

(33)

He knows he is a liar, knows he is bad, but he does not change. He does not change because he does not want to change. His difference from other boys may be bound up with his mother and his unnatural family, but his bound up with his lying too. If he stopped lying he would [..] do everything that normal boys do. In that case he would no longer be himself. If he were no longer himself, what point would there it be in living?

He is a liar and he is cold-hearted too: a liar to the world in general, cold-hearted toward his mother. [...] His only excuse is that he is merciless to himself too. He lies but he does not lie to himself. (35)

La brutalità e la crudezza della confessione lasciano impietriti. Anzi, forse è proprio questa incisività lapidaria, priva di artifici retorici, a rendere più sconvolgente la freddezza di John, che quasi non appare umano per il suo controllo razionale e diagnostico sui conflitti psicologici.

Se verso la madre, come abbiamo appena visto, i sentimenti di John sono ambigui, per il padre si ha da subito la percezione di un disprezzo più volte dichiarato. Il terzo capitolo si apre con le riflessioni del protagonista, che non riesce a capire quale sia il ruolo di suo padre all’interno della famiglia. John usa l’espressione “work(ed) out”, che, tra le varie sfumature semantiche, possiede anche quella di “decifrare”, “risolvere”, come per accentuare il fatto che per lui è veramente impossibile comprendere come mai suo padre si trovi lì, nella loro casa. Certo, anche le sorelle della madre si comportano allo stesso modo con i rispettivi mariti, ma, nonostante questo, lui sa che nelle famiglie “normali” questa non è la regola. John fornisce una spiegazione quasi di tipo anatomico su come è composta la famiglia e sul ruolo assunto dal padre: “it is the mother and children who make up the core, while the husband is no more than an appendage” (12). In sostanza il nucleo, l’anima della famiglia non è rappresentata certo dal padre, che nella migliore delle ipotesi ha il ruolo puramente pratico di contribuire all’economia familiare.

(34)

John confessa di essersi sempre sentito “the Prince of the house”, ma può suo padre essere definito “the King”? No, perché è un uomo che manca di autorità in ogni situazione. John sa che al secondo posto, dopo la madre, viene lui, e lo afferma apertamente: “the eldest child is first in the household, the second child second, and the man, the husband, the father, last” (38).

Il bambino detesta il padre perché non lo avrebbe reso come gli altri suoi coetanei, perché non l’avrebbe mai picchiato, ma allo stesso modo è pronto a esigere una vendetta spietata qualora il genitore dovesse punirlo:

If his father were to hit him, he would go mad: he would become possessed, like a rat in a corner, hurtling about, snapping with its poisonous fangs, too dangerous to be touched. (13)

Si parlerà in seguito dei paragoni che talvolta John fa tra sé stesso e gli animali; per il momento, basti notare la crudeltà che evocano i suoi pensieri nei confronti del padre. Si potrebbe pensare che il fattore scatenante l’astio del protagonista sia una presunta gelosia, derivante dalla competizione per conquistarsi le attenzioni della madre. In realtà, consapevoli del ruolo marginale che ha il padre all’interno della famiglia, e consci che tra i coniugi Coetzee l’affetto è svanito da tempo (tanto che dormono in letti separati e non appaiono certamente come una coppia affiatata, concedendosi solo qualche bacio forzato in pubblico), la ragione va ricercata altrove. La verità è che John ha il terrore di assomigliare a suo padre, con cui suo malgrado condivide gli stessi gusti in fatto di sport e politica, e cerca di sfuggire in tutti i modi a questo paragone opprimente. Il bambino è conscio di essere destinato a qualcosa di importante, anche se non si fa ancora accenno al suo futuro di scrittore; per questo, egli rifiuta

(35)

ogni omologia con le sorti del padre, che nella vita si è certamente fatto strada, ma non si è mai distinto per eccellenza:

He is an attorney but no longer practices. He was a soldier but only a lance-corporal. He played rugby, but only for Gardens second team, and Gardens are a joke [...]. And now he plays cricket, but for the Worcester second team, which no one bothers to watch. (51)

L’unico contatto fisico tra i due, evocato con un certo imbarazzo dal narratore a focalizzazione interna, ha luogo quando, dopo un match di pugilato vinto da un atleta sudafricano, John, nell’impeto dell’esultanza, abbraccia e strappa involontariamente una ciocca di capelli al padre, che è colto di sorpresa. L’evento è liquidato in modo alquanto sbrigativo, e non verrà più menzionato, come se subentrasse un tentativo di rimozione.

Si è accennato sopra al paragone che, sempre attraverso il filtro della voce narrante, il protagonista fa tra sé stesso e un ratto velenoso: nel testo sono presenti altri casi in cui il bambino è correlato a degli animali, per lo più di piccola taglia e, soprattutto, che non suscitano particolare empatia nell’uomo.

John si convince poi che il suo modo di pensare non sia convenzionale: per esempio, preferisce i russi rispetto agli americani non tanto per ragioni politiche, quanto per un discorso meramente linguistico, sentendosi attratto dal suono della lettera “R”, che a suo dire è “the strongest of all the letters” (27). Il racconto di questo episodio è per il narratore motivo di ironia nei confronti del bambino, che chiaramente non ha un quadro chiaro del contesto politico – quantomeno quello internazionale - di quegli anni e quindi non può comprendere le reali implicazioni che portano la maggioranza delle persone a schierarsi con gli americani. Non avendo pertanto maturato un’ideologia socio-politica, John si affida al piano fonosimbolico, provando una certa “affettività” verso

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