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Dal consumo alla produzione: cucinare come forma di auto-espressione creativa. Analisi teorica ed evidenza empirica.

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Academic year: 2021

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(1)

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MARKETING E RICERCHE DI MERCATO

TESI DI LAUREA

Dal consumo alla produzione: cucinare come forma di auto-espressione creativa. Analisi teorica ed evidenza empirica.

RELATORE CANDIDATO Prof. Daniele DALLI Dario MORRA

(2)

“Sapere aude! Habe Muth dich deines

eigenen Verstandes zu bedienen!”

Sapere aude! Abbi il coraggio

di servirti della tua propria intelligenza!

(3)

1

Indice

1

. Introduzione

4

2

. Teorie sociologiche e antropologiche dell’impatto del cibo sul fenomeno del consumo/produzione

12

2.1

Il consumo come strumento per definire la propria identità

13

2.2

L’estensione del sé nell’era della digitalizzazione

17

2.3

L’importanza e le peculiarità del cibo nell’affermazione

dell’identità del prosumer

21

2.4

Cenni storici sul ruolo del cibo nel corso del tempo

23

2.5

Il cibo come espressione dell’identità di genere

25

2.6

Il cibo come espressione dell’identità familiare

28

2.7

Il cibo come espressione della condivisione e del rapporto

con gli altri

29

2.8

L’influenza dei canali di comunicazione sul ruolo del cibo

35

2.9

Contributi empirici sul ruolo del cibo nell’espressione

dell’identità del prosumer

37

3.

La nascita, lo sviluppo, le opportunità offerte dalla netnografia e protocollo di ricerca

42

3.1

Le comunità virtuali

46

3.2

Le tipologie di partecipanti alle comunità virtuali

50

3.3

Le tipologie di comunità virtuali

53

3.4

Le metodologie di ricerca: le analisi dei social network e la netnografia

55

3.5

Il metodo della netnografia

60

3.5.1

Il piano di ricerca e l’entrée

64

(4)

2

3.5.3

L’analisi dei dati

68

3.5.4

Gli sviluppi della netnografia

69

3.6

Protocollo di ricerca

69

4.

Risultati della ricerca e sintesi, comprensione e differenze con le elaborazioni teoriche

71

4.1

Blog

75

4.1.1

La rappresentazione dell’atto di produzione

75

4.1.2

La comunicazione del proprio atto di produzione

78

4.1.3

L’atteggiamento verso il mondo culinario

80

4.1.4

L’auto-rappresentazione del produttore

82

4.2

Le pagine personali sui social network

83

4.2.1

La rappresentazione dell’atto di produzione

83

4.2.2

La comunicazione del proprio atto di produzione

85

4.2.3

L’atteggiamento verso il mondo culinario

85

4.2.4

L’auto-rappresentazione del produttore

86

4.3

Gli show televisivi

87

4.3.1

La rappresentazione dell’atto di produzione

88

4.3.2

La comunicazione del proprio atto di produzione

89

4.3.3

L’atteggiamento verso il mondo culinario

90

4.3.4

L’auto-rappresentazione del produttore

91

4.4

I micro-eventi

91

4.4.1

La rappresentazione dell’atto di produzione

92

4.4.2

La comunicazione del proprio atto di produzione

92

4.4.3

L’atteggiamento verso il mondo culinario

93

4.4.4

L’auto-rappresentazione del produttore

94

(5)

3

4.5.1

La rappresentazione dell’atto di produzione

95

4.5.2

La comunicazione del proprio atto di produzione

97

4.5.3

L’atteggiamento verso il mondo culinario

99

4.5.4

L’auto-rappresentazione del produttore

100

4.6

Sintesi, convergenze e differenze

100

(6)

4

1. Introduzione

“Cosa fai nella vita?” “Io sono un blogger, tu?”

Si sente sempre più spesso parlare di questa nuova figura professionale attorniata da numerose e, alcune volte, complesse specificazioni, insieme ad altri ruoli che vengono svolti esclusivamente sulla rete. Una domanda che è lecito porsi è se si può effettivamente inquadrare, in generale, questa pratica dell’attuazione e condivisione di una propria attività online come una professione.

Ci sono, in effetti, molti casi in cui una semplice iniziativa di sharing si è poi trasformata in un’attività imprenditoriale con annessi dipendenti e forma societaria, si pensi al caso emblematico di Giallo Zafferano nel contesto del

food blogging. Ma, nonostante il grande impegno richiesto per gestire e

portare avanti con successo un’iniziativa in forma digitale e la prevedibile esigenza di ottenere un riscontro economico per remunerare tempi e sforzi, non è così scontato creare un’identità matematica tra la condivisione online e la professione.

Diventa dunque interessante scoprire cosa anima e spinge le persone nel volere, di propria iniziativa, comunicare, interagire e diffondere ad altri soggetti un proprio interesse, una propria passione, una vocazione, senza necessariamente pretendere un contributo monetario.

Termini come self branding, personal branding, identità digitale, social

media influencer, esprimono tutti questo unico e importante fenomeno: un

soggetto che non si limita a rientrare nella categoria del mero consumatore ma che, tramite gli stessi beni che utilizza, produce un surplus. Questa “utilità” prodotta non è esclusivamente tangibile ma anche, e forse soprattutto, immateriale. E la rete Internet ha contribuito tantissimo a

(7)

5

influenzare e diffondere in modo virale la produzione intangibile, quest’ultima connessa strettamente con il soggetto stesso, che non si sta limitando a proporre e mostrare un prodotto finito, ma sta sia esprimendo un aspetto della propria personalità e del proprio essere, sia ricercando una partecipazione dei suoi followers per quanto riguarda l’intero processo produttivo. È proprio quest’ultima componente che rende peculiare questo fenomeno: un bene in passato connesso con la sola utilizzazione diventa uno strumento perfetto per poter creare una vera e propria comunità di soggetti che condividono un interesse, si scambiano pareri, si aiutano vicendevolmente, si fidano dell’opinion leader.

Questa rete di contatti e condivisioni e il creare una precisa immagine di se stessi sostituiscono la remunerazione monetaria, costituendo effettivamente un altro plausibile scopo alla base di queste iniziative, che si accompagna quindi a quello di creare una propria attività professionale. La condizione di produttore e condivisore di valore può dunque restare perenne.

Per comprendere a pieno il fenomeno, è necessario approfondire quali sono i fattori individuali e sociali che hanno portato alla sua amplificazione, facendo sì che il consumo di un bene possa poi trasformarsi in un lavoro inteso prettamente come produzione di un qualcosa.

Per farlo è sicuramente utile fare un breve richiamo alla definizione di

personal branding; reputo che sia un ottimo modo per scavare e cogliere poi

gli effettivi fattori sopra richiamati. La letteratura, purtroppo, non è concorde sulla definizione; numerosi contributi si sovrappongono e si completano in modi molto diversi. Quella più completa e onnicomprensiva degli aspetti fondamentali del fenomeno è quella di Schawbel: “Personal branding

describes the process by which individuals and entrepreneurs differentiate themselves and stand out from a crowd by identifying and articulating their unique value proposition, whether professional or personal, and then leverage it across platforms with a consistent message and image to achieve

(8)

6 a specific goal. In this way, individuals can enhance their recognition as experts in their field, establishing reputation and credibility, advance their careers, and build self-confidence" (Schawbel, 2009).

Dunque, schematizzando, i punti fondamentali del concetto sono:

differenziarsi dalla folla proponendo la propria “offerta di valore”, un

espediente ottimo in un contesto sociale in cui, soprattutto nell’era digitale, distinguersi e farsi notare diventa sempre più difficile; usare piattaforme, messaggi e immagini a proprio vantaggio per il raggiungimento di uno specifico obiettivo. I social network, blog, forum e simili sono infatti un ottimo trampolino di lancio per veicolare i propri messaggi e le proprie competenze. Per quanto riguarda l’obiettivo si è già chiarito precedentemente; in ultimo viene segnalato l’intento del soggetto di

ottenere, così, una reputazione come esperto nel suo campo, ricevendo al

contempo una solida credibilità. È questo il core dell’identità digitale; il soggetto acquisisce un proprio ruolo e una posizione ben definita che incrementano, a loro volta, il valore della persona stessa, in un circolo vizioso che, come si può notare, non confluisce necessariamente nell’identificazione di un esperto di professione. È la stessa comunità online che affida al soggetto l’etichetta di esperto e, di conseguenza, la fiducia nelle sue parole. Ciò comporta, nel più dei casi, l’immedesimazione e il coinvolgimento a livello emozionale. Al riguardo può essere utile rappresentare uno schema riassuntivo (figura 1) di quanto appena esposto:

(9)

7 Figura 1 - L’origine dell’identità digitale. Fonte: elaborazione propria

È possibile domandarsi se è proprio questo status, questa identità virtuale, questa nuova faccia del proprio sé la vera ricchezza ottenibile e sostituibile con quella economica. Ritengo che sia possibile dare una convinta risposta affermativa. Nel corso dell’elaborato questo concetto verrà ampliamente approfondito, sfruttando anche l’interconnessione di diversi contributi teorici e sperimentali.

Un altro passo importante, dopo aver evidenziato che questo trend è in continua crescita esponenziale, è individuare quali sono gli argomenti che meglio si adeguano a questo contesto fenomenologico.

Sicuramente il cibo acquista di diritto una posizione rilevante se non la più importante; questo grazie soprattutto alla natura del cibo stesso che facilmente si appresta ad essere trasformato, personalizzato, spiegato e condiviso. Un’altra importante peculiarità di questo bene è che si ricollega spesso a ricordi, emozioni e esperienze, rendendo quindi la sua condivisione sempre diversa e originale, dato che si associa ad un soggetto e ad una situazione ben definita, unica. Il cibo è ottimo anche per esprimere la propria personalità e il proprio estro creativo: assistiamo sempre più a virtuosismi, composizioni dei piatti e combinazioni fuori dagli schemi. Accanto c’è poi,

Profilo

Ruolo

Persona

(10)

8

specularmente, l’impegno nel recupero della tradizione, del folklore, dei sapori di un tempo. Questo continuum, che ha come estremi due situazioni antitetiche, ci fa capire che il cibo è così gettonato in questi fenomeni digitali perché si adatta meglio al modellamento della propria identità digitale e alla sua diffusione, ottenendo un riscontro più che soddisfacente.

Altro contesto che merita una menzione è sicuramente la moda. Se si pensa all’importanza che hanno assunto molti fashion blogger è comprensibile la portata del fenomeno. È sorprendente osservare come questi individui si arroghino il diritto di esprimere giudizi e veri e propri must che un fashion

victim deve assolutamente avere impressi; il seguito dirompente che hanno

le loro valutazioni in un certo senso giustifica la pretesa nel poter dare validità alle loro affermazioni. Se prima dunque erano gli stilisti e i testimonial a creare i dettami della moda, ora sono semplici consumatori che hanno nelle mani il potere di definire ciò che è in e ciò che è out. Questo è sicuramente anche il frutto della demassificazione della moda, dove sono sempre più gli individui a creare il proprio stile; non è questa però la sede dove approfondire questo argomento. Si segnala infine che l’ultimo punto della definizione di personal branding, ovvero l’ottenere l’etichetta di esperto, è ampiamente presente in questa declinazione del fenomeno. La moda è, inoltre, probabilmente quella che più si adatta alla condivisione e rappresentazione mediante foto e video, grazie anche a social network creati apposta per condividere files online, si pensi ad Instagram o Pinterest. Ancora, l’informazione e il giornalismo amatoriale sono sempre più protagonisti di esperienze di partecipazione digitale che esulano dalla professione di giornalista. Gli output prodotti sono addirittura spesso più fulminei e precisi delle testate giornalistiche, grazie al contributo di una miriade di utenti. Ciò che guida queste iniziative è essenzialmente lo spirito di condivisione; si potrebbe affermare che, in questa particolare situazione, il paradigma prima espresso tra soggetto che costruisce, mediante un output

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9

produttivo, la propria identità digitale si traduca qui in un concetto di identità comune, di gruppo. Dei soggetti diversi si uniscono per creare un unico prodotto finale che rafforza l’identità del collettivo. Il bisogno di definirsi perde la sua consistenza solita, diventando parte di un tutt’uno senza però diluirsi e perdersi. Questa caratterizzazione del fenomeno risulta molto interessante e contribuisce a motivare il perché l’obiettivo di queste attività non è essenzialmente crearsi una professione.

La digitalizzazione della propria identità trova un altro riscontro nell’hobbistica. Esistono miriadi di casi di comunità virtuali che trattano temi come il fai-da-te, il cucito, l’elettronica di consumo, la computeristica e tanti altri. Anche in queste circostanze torna dirompente un tratto specifico richiamato nella definizione di personal branding, ovvero la reputazione e il riconoscimento di esperto del settore. Chi gestisce questi gruppi ottiene infatti un ruolo davvero importante, si pensi al caso di successo di Salvatore Aranzulla, ora considerato il più autorevole divulgatore informatico in Italia, posizione che ha ottenuto mediante un semplice blog in cui dà preziosi consigli su come risolvere problematiche legate al mondo dell’informatica, senza avere una posizione professionale al riguardo, a ulteriore prova del concetto perno di questo elaborato.

In ultimo si segnala una derivazione ormai diffusa di tutto ciò che è stato segnalato fino ad adesso. Più che parlare di blog e comunità online, nel gergo digitale compaiono queste parole: vlog e photoblog. Queste due tipologie di espressione non puntano sul testo scritto ma, rispettivamente, su supporti video e fotografici. La parola perde il suo contenuto descrittivo, trasformandosi e adeguandosi al contesto odierno in cui i modi di espressione diventano sempre più multimediali. Nel caso della fotografia si sono già richiamati degli esempi; per quanto riguarda i video, invece, determinati soggetti creano propri canali sulla piattaforma digitale Youtube per attuare la stessa e identica attività che compie un soggetto su un blog o

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10

in una comunità online. Ormai è possibile trovare video tutorial su qualsiasi tipologia di argomento. Il termine stesso tutorial già suggerisce la natura del comportamento: un soggetto che, senza nessun riconoscimento particolare, mostra e insegna come svolgere una determinata funzione produttiva; in questa circostanza il concetto di un soggetto consumatore/produttore raggiunge il suo apice, venendo addirittura presentato in maniera dinamica e visibile. E, la natura confidenziale della maggioranza di questi tutorial, suggerisce la mancanza di un ruolo professionale del soggetto protagonista, rendendo forse la comunicazione più efficiente dato che, in un certo senso, rompe le barriere che dividono un esperto del campo da un neofita. Il linguaggio utilizzato, infatti, è molto semplice e ha pochi tecnicismi.

L’elaborato sarà strutturato in tre capitoli: nel primo di questi verranno riportati diversi contributi teorici di studiosi, sociologi, antropologi e ricercatori, che hanno analizzato a fondo il fenomeno relativo all’utilizzo del cibo come modalità di espressione di sé affiancando alle loro ipotesi, spesso, anche delle ricerche empiriche e osservazioni analitiche. Questi elaborati teorici saranno presentati in una logica consequenziale identificando dei macro-argomenti che saranno oggetto di trattazione: si presenterà dunque, inizialmente, una panoramica di come il consumo, in generale, riesca a definire l’identità degli individui; successivamente si scenderà nel particolare, trattando l’estensione del sé e, dunque, della propria identità, nel mondo digitale, contesto principale di osservazione e perno dell’intero elaborato. Affrontati questi due discorsi, la trattazione sposterà e concentrerà l’attenzione sul cibo, andando ad evidenziare quali contributi sociali, culturali e relazionali ha apportato e continua ad apportare: come anche nel caso precedente, anche in questa circostanza si cerca di comprendere, all’inizio, l’importanza del cibo nell’affermare e descrivere l’identità del

prosumer; successivamente verrà rappresentato un excursus storico di come

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11

funzionalità sociali; si entrerà poi nel dettaglio di queste potenzialità, evidenziando come questo prodotto definisce l’identità di genere, l’identità familiare e il ruolo e le interrelazioni all’interno di un gruppo sociale; gli ultimi due paragrafi di questo capitolo cambieranno la rotta della trattazione, rimanendo comunque nel medesimo sentiero: si segnaleranno infatti che tipo e quali intensità d’influenze hanno i canali di comunicazione sul ruolo del cibo come descrittore della personalità degli individui e, infine, verranno illustrati, a supporto di tutti i contributi teorici elencati, esempi empirici di come effettivamente si estrinseca il ruolo di questo prodotto.

Il terzo capitolo è incentrato sulla metodologia di ricerca utilizzata: la netnografia, un’etnografia adattata al contesto digitale e quindi di recente nascita e attuazione. In questa parte della trattazione sarà quindi esplicato come nasce, come si sviluppa e quali opportunità sono riconnesse all’utilizzo di questa giovane ricerca qualitativa; successivamente, per ampliare e approfondire il discorso, verrà focalizzata l’attenzione sulle comunità virtuali. Essendo queste ultime l’oggetto di ricerca di questa metodologia, si è ritenuto necessario sottolineare le peculiarità di questi contesti sociali, soprattutto per quanto riguarda le differenze interazionali rispetto alle normali relazioni face-to-face. Confrontando le due realtà si riesce a comprendere anche la validità e il contributo che la netnografia può dare agli studi sociali e antropologici generali. Insieme ad una profonda descrizione di queste aggregazioni digitali, si descriveranno anche le differenti tipologie di partecipanti e le stesse tipologie di comunità che si possono trovare nella rete. Una volta affrontato questo tema, si andrà nel vivo del metodo di ricerca, descrivendo minuziosamente quali tipologie di ricerche si hanno a disposizione per studiare i fenomeni sociali che ruotano attraverso le comunità virtuali e come si attua una ricerca netnografica. In quest’ultimo caso il discorso sarà ulteriormente potenziato, andando a descrivere nel dettaglio tutte le diverse fasi richieste per attuarla. In ultimo verrà presentato

(14)

12

il protocollo personale di ricerca intrapreso, che evidenzierà quali soggetti sono stati scelti, in che modo sono stati classificati e su quali motivazioni si è basata la loro selezione.

Nell’ultimo capitolo, infine, verranno rappresentati i risultati ottenuti dai dati raccolti. Per ognuna delle categorie in cui sono stati classificati i soggetti della ricerca, inizialmente, si illustreranno le diverse conclusioni utilizzando come supporto quattro differenti punti di vista. Una volta terminata la raffigurazione per tutti i diversi raggruppamenti, si è attuata una sintesi di tutti i contributi della ricerca, ottenendo delle medesime conclusioni che, subito dopo, sono state raffrontate con le affermazioni e con le ricerche illustrate nel secondo capitolo. L’obiettivo finale è stato determinare eventuali differenze o similitudini tra l’osservazione empirica e i contributi teorici, andando eventualmente ad aggiungere ulteriori considerazioni, approfondire i temi enunciati o confermare le osservazioni teoriche pregresse.

2. Teorie sociologiche e antropologiche dell’impatto del

cibo sul fenomeno del consumo/produzione

Il tema riguardante il passaggio del consumatore dal semplice utilizzo del bene alla produzione di un surplus è di trattazione abbastanza recente; questo motiva il perché coesistono e continuano ad essere attuate numerose teorie, studi e ricerche che tentano di dare una spiegazione a questo fenomeno sociale. Non è assolutamente semplice, dunque, modellare al riguardo un discorso univoco e lineare. Per facilitare il compito ritengo sia giusto procedere per punti affrontando un particolare tema e, di volta in volta,

(15)

13

successivi discorsi che possano, grazie alle stesse precedenti trattazioni, essere meglio compresi.

2.1 Il consumo come strumento per definire la propria identità

Si inizi con il tentativo di rispondere ad una domanda: perché il consumatore è spinto a produrre un qualcosa non solo per sé ma anche per gli altri? Perché non si ferma al semplice consumo del bene? E ancora, cosa implica, per lui, consumare? Sul primo punto si sono già ampiamente richiamati, nel capitolo introduttivo, alcuni concetti come il personal branding e l’espressione della propria creatività insieme ad alcuni casi pratici, esclusivamente online, in cui si estrinseca questa attività. Ma è giusto, per ampliare il corpus del discorso, avvalersi di contributi teorici che hanno trattato il tema con profondità.

Il punto di partenza è il ruolo che il consumo ha per i soggetti: nell’era post-moderna ha assunto infatti una nuova chiave interpretativa. Non è più ormai circoscrivibile ad un mero atto pratico, ma diventa qualcosa di più, un momento in cui si producono significati e esperienze individuali e collettive (Firat e Dholakia, 1998). Si tornerà successivamente a trattare il tema del gruppo e della comunità, che si può considerare la chiave di volta dell’intero discorso. Si focalizzi ora l’attenzione, però, sul consumo in sé.

Il consumatore, quando utilizza un bene, è continuamente “impegnato” nella ricerca e nell’attribuzione di significati che lo aiutano a plasmare e definire la propria identità. I beni sono consumati per quello che significano, non semplicemente per ciò che sono, e diventano importanti come “marcatori” della propria posizione, che può essere socialmente inclusiva o esclusiva (Douglas e Isherwood, 1979). Non si parla quindi di distinte pratiche svolte isolatamente, come il mero acquisto di un oggetto in sé, ma di un insieme di azioni strettamente interconnesse per mezzo delle quali gli oggetti, gli atteggiamenti e i significati sono orchestrati in uno specifico contesto

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14

identificativo (Arsel e Bean, 2013). Il bene o servizio che sia, assume così un’importanza incredibile, un ruolo che richiama uno degli obiettivi elencati nel personal branding, ovvero differenziare il soggetto definendo la sua identità. Ma, nello sforzo di modellarla mediante l’utilizzo dei beni, il consumatore riesce effettivamente a differenziarsi dagli altri o è destinato ad essere sempre parte della massa? Si tornerà su questo punto successivamente, ma è già possibile dare una risposta affermativa. In effetti il soggetto riesce a creare sempre nuovi significati dai beni che consuma e dunque, a diversificare la sua identità dal mainstream. Lo stesso Miller, infatti, contribuisce nell’affermare che il consumatore riesce a cogliere questi significati con un continuo processo di trasformazione e re-contestualizzazione (Miller, 1987). È possibile vederla come una necessità e un desiderio dell’individuo di riappropriarsi del rapporto con il sé, con gli altri, con gli oggetti e con il proprio tempo, attraverso il recupero della dimensione di autenticità, di fisicità e di presenza/ancoraggio nello spazio e nel tempo in cui è (Biraghi et al.).

Dunque, se è possibile attribuire nuovi simboli e significati al prodotto che si utilizza, il soggetto non può più essere considerato come un mero consumatore; questo è un punto che le aziende e i marketing manager non devono assolutamente sottovalutare. La pratiche di creazione del valore da parte dello stesso cliente estendono il marketing dal dominio aziendale alla vita del soggetto. Riportando un’affermazione di Kotler (1972): “Marketing

does not apply when a person is engaged in an activity in reference to a thing or himself. Eating, driving, and manufacturing are not marketing activities, as they involve the person in an interactive relationship primarily with things”. Ancora, Holbrook (1994) definisce il valore come una:

“interactive, relativistic preference experience” sostenendo che è un’esperienza basata sull’interazione tra il soggetto e l’oggetto. Da qui si dà un senso al perché è ritenuto sempre più importante l’ascolto e la

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partecipazione del cliente, che è capace di deviare la direzione che un prodotto assumeva originalmente. Gli studi di Arnould e Thompson sono ormai arrivati alla conclusione che il ruolo del consumatore è sempre più attivo (Arnould e Thompson, 2005). Nel processo di consumo, i consumatori creano valore in una serie di attività tutte proiettate al raggiungimento di un determinato obiettivo (Payne et al. 2008). Il soggetto è visto come colui che ha l’autorità di costruire e costruirsi le sue attività, decidendo di produrre le sue risorse invece che acquisirle (Gummerus, 2013). Questa tendenza è stata spinta dalla crescente dimestichezza acquisita dai consumatori con le tecnologie e i linguaggi diventando così, di fatto, co-produttori (Biraghi et al.). Si faccia un breve excursus storico riguardo la nascita e lo sviluppo di questo attivismo del cliente: la prima fase dà un connotato cooperativo all’attivismo ed è ascrivibile al fordismo e al consumo di massa. I consumatori intendevano la cooperazione come un modo per combattere i monopoli locali (Gabriel e Lang, 2005). In quel contesto, le persone vedevano se stessi sia come produttori che consumatori; in una seconda fase si accresce l’attivismo, che però si concentra più sulla definizione di una propria identità di consumatore; la terza fase si caratterizza sul danno potenziale che le forze di mercato anarchiche possono avere nei confronti dell’autonomia acquisita dai consumatori e su una reazione contro queste dinamiche macro e microeconomiche; la quarta e ultima fase emerge negli anni ’80 ed è definita come “consumo alternativo” o “consumo etico” (Hilton, 2003) in cui i consumatori, appunto, conferiscono al consumo un significato particolare (Johnston, 2008).

Ma le aziende devono stare soprattutto attente al fenomeno perno di questo elaborato, ovvero l’iniziativa del soggetto di produrre qualcosa autonomamente, ignorando quindi il percorso della supply chain e la logica della distribuzione. Il soggetto produce qualcosa che potrebbe normalmente comprare o, nell’esempio del cibo, mangiare in un ristorante. Si potrebbe

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parlare, quindi, di cooperazione tra aziende e soggetti? Al riguardo si può dire di no; il valore non è co-creato e non c’è un comune obiettivo che coinvolge due parti, in questo caso azienda e cliente. Più che altro gli individui attuano attività senza la partecipazione delle corporazioni utilizzando, piuttosto, le stesse risorse da loro ottenute (Gummerus, 2013). E, attenzione, spesso il consumatore non considera la produzione autonoma come un’alternativa al mercato, ma come l’unica scelta. Questo accade perché la produzione “casalinga” è ritenuta il modo migliore per poter trarre soddisfazione dall’attività di consumo, un obiettivo che è sempre più ricercato. La ragione si lega indissolubilmente con i valori, significati e sensazioni associate con l’esperienza della produzione autonoma (Bardhi, Corciolani, Dalli, 2014). Nel contesto del consumo del cibo questo connubio produzione/consumo è naturale, comune. Per sottolineare questo legame si conierà, da questo momento, un termine introdotto da Cova e Cova (2012) attribuibile a questo nuovo ruolo del consumatore; il prosumer, che deriva proprio dall’unione delle parole producer e consumer. Un altro termine, nello specifico, un paragone, è stato utilizzato da Campbell (2005) che ha comparato il consumatore ad un artigiano. Sotto quest’ottica lui partecipa attivamente nella costruzione fisica e culturale del suo “oggetto” (Keat et al. 1994) che, fatto autonomamente, forgia una connessione profonda tra il produttore e il consumatore, che in questo caso si identificano nella stessa persona. È una circostanza inarrivabile per i prodotti già confezionati (Moisio et al. 2004). Nelle ultime ricerche e nei riscontri ottenuti dagli eventi odierni, è emersa però una declinazione interessante di questo fenomeno: si assiste gradualmente, soprattutto in riferimento al fenomeno del cibo, alla sua preparazione semplicemente per mostrarlo agli altri e non, come si penserebbe, ad una produzione autonoma e domestica destinata all’alimentazione. In questo caso particolare, perciò, la costruzione di sé non si limita alla produzione ma alla presentazione dell’output nei più svariati canali (Belk, 2013). In questo senso emerge un’intensa relazione tra le

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attività di consumo, gli atteggiamenti e la rappresentazione di queste stesse pratiche oltre la sfera casalinga. Una domanda legittima è come esattamente i consumatori assorbono e riproducono i concetti promossi da questi canali (libri, riviste, televisione etc.). È preferibile un’interpretazione secondo la quale è il susseguirsi della pratica quotidiana e dell’esperienza che permettono al soggetto di promuovere a sua volta norme sul genere, sulla classe sociale e sul capitale culturale (Cappellini e Parsons, 2014). Una cultura del fare non fine a se stessa in quanto molti aspetti di questa tendenza sono orientati verso la comunicazione e la socializzazione attraverso i canali della comunicazione digitale (Belk, 2013; Ritzer, 2013). Si soffermi l’attenzione su questo discorso, perché è sicuramente nella rete che si estrinseca maggiormente il ruolo del prosumer.

2.2 L’estensione del sé nell’era della digitalizzazione

Belk ha ampiamente studiato e trattato questo fenomeno, parlando del concetto di estensione del sé nell’era della digitalizzazione (Belk, 2013). Ci si domanda perché si parla di estensione e soprattutto chi contribuisce ad ampliare il nostro essere e la nostra identità. Quando Belk, nel 1988, affrontò questo tema si trovò poi di fronte ad uno stravolgimento del concetto proprio per mezzo della nascita della rete. Si pensi semplicemente al potere dei social network nel definire la nostra personalità: quando un utente commenta i nostri post, retwitta una nostra frase, allega foto e video ad una nostra discussione, sta effettivamente contribuendo a dare un senso diverso al discorso (Carroll e Romano, 2011). Tutte queste interazioni non fanno altro che ridisegnare continuamente la nostra identità digitale; dunque, se si ricorda che uno degli obiettivi della condivisione di una propria utilità online è ottenere un riconoscimento (l’essere ritenuto un esperto), si comprende che questo potere è esclusivamente nelle mani degli altri utenti. Il concetto di

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cui erano gli oggetti a definire il sè. Belk ravvisa ben cinque elementi che hanno portato a questo cambiamento che verranno brevemente richiamati: 1. Dematerializzazione: nella rete le nostre informazioni, messaggi e

possedimenti sono digitalizzati. Ciò comporta che un’attività non potrà più essere privata ma diventerà, più che altro, condivisa in un gruppo. L’interazione comporta, di conseguenza, anche una valutazione da parte dei soggetti membri; semplicemente dalla condivisione, ad esempio, di una canzone è possibile giudicare il soggetto e i suoi gusti personali (Rentfrow e Gosling, 2003, 2006). Ma non solo: la dematerializzazione comporta anche l’entusiasmo nel condividere un qualcosa con una comunità, aspetto fondamentale per il prosumer (Born, 2011). Tuttavia è qui che subentra un dubbio legittimo: può un bene immateriale avere effettivamente questo ruolo di definire l’essere di un soggetto? Nel caso del cibo, nella rete c’è semplicemente un’immagine o un video: è possibile che questa modalità di rappresentazione mini il potere di definire la propria identità? Lehdonvirta (2012) sostiene che i beni virtuali non sono meno abili dei beni reali nel soddisfare i desideri dei consumatori, ma il loro utilizzo è circoscritto a determinate situazioni. Nonostante ormai siano cadute le distinzioni e i confini tra il mondo reale e virtuale, ci sono alcune differenze che vanno assolutamente evidenziate e che comportano una giusta precisazione sul concetto dell’extendend

self nel mondo virtuale. Siddiqui e Turley (2006) hanno sostenuto che i

beni digitali hanno in sé un’incertezza riguardo il controllo sul possedimento dovuto all’evidente mancanza fisica, che comporta inoltre una percezione di un contenuto emozionale inferiore rispetto alle controparti materiali (Fox, 2004; McCourt, 2005; Styve´n, 2010). Queste dichiarazioni non negano il contributo di Belk ma temperano il potere che hanno i beni digitali.

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2. Reincarnazione: non sono solo i beni a perdere la loro fisicità ma, in un certo senso, anche il soggetto. Nel mondo digitale, infatti, egli può continuamente definire la propria identità e adattarla a diversi contesti (Bolter, 1996), in relazione ai sé ideali (Kozinets e Kedzior, 2009; Robinson, 2007; Taylor, 2002), sé possibili (Young e Whitty, 2012), sé aspirazionali (Martin, 2008; Wood e Solomon, 2010).

3. Condivisione: concetto fondamentale in Internet, che coinvolge tutti gli utenti. A questo punto è possibile dare un ulteriore contributo all’idea del sé; Schwarz sostiene che siamo in un’era senza precedenti della rappresentazione di nostri autoritratti (Schwarz, 2010). Un fenomeno connesso alla proliferazione delle condivisioni è ciò che è stato definito come effetto disinibizione (Ridley, 2012; Suler, 2004); questo atteggiamento porta molte persone a presentare il loro essere in un modo molto più profondo e veritiero rispetto alle relazioni reali (Bargh, McKenna e Fitzsimons, 2002; Taylor, 2002; Tosun, 2012). Da qui è possibile fare un’affermazione importante: quando le cose sono “possedute” e condivise con terzi, sono molto più rilevanti per definire la propria identità a livello aggregato piuttosto che a livello individuale (Born, 2011). Dunque, rispetto a quanto detto precedentemente parlando di dematerializzazione, è possibile sostenere che la definizione della propria identità digitale è molto più incisiva, rispetto a quella reale, in termini prettamente di aggregazione. Ecco il perché del proliferare della condivisione e dei rapporti online.

4. Co-costruzione di se stessi: essere presenti nel web comporta inevitabilmente, come già sottolineato, una continua interazione. Turkle ha definito questo concetto come collaborative self (Turkle, 2011), dove gli utenti, gli amici e anche estranei collaborano nella co-costruzione dell’identità digitale. Torna con dirompenza il lato collettivo della definizione del proprio essere; si pensi ad esempio al fenomeno dei blog, in cui gli utenti vengono invitati a dare dei feedback e a commentare

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creando in questo modo una vera e propria comunità dinamica in cui il gruppo interagisce in modo molto fruttuoso (Nardi et al. 2004)

5. Memoria distribuita: il potere degli oggetti sta anche nel fornire un ricordo del passato mediante un’associazione con un’immagine, un evento, una persona (Belk, 1991). Nel web anche questo concetto è oggetto di trasformazione; la continua annotazione degli eventi nel corso della vita, le foto e le frasi che vengono condivise, contribuiscono in maniera molto più amplia a creare interazioni con soggetti con esperienze e ricordi simili (Bluck, 2003). A questo punto è forse superfluo sostenere come nuovamente è presente il concetto dell’extended self a livello prettamente collettivo.

Queste caratteristiche sopra evidenziate, a questo punto, portano a ribadire con fermezza che, nel contesto della digitalizzazione, dove il nostro essere è espresso da un avatar e dove ciò che prima era privato ora è di dominio pubblico, il concetto dell’extended self non può più essere visto in una prospettiva meramente personale, ma comunitaria, condivisa, cooperativa. Il self è più interattivo, collaborativo, confessionale. Secondo alcune ricerche, ad esempio, si è notata la potenza dei blog nel generare un contenuto nostalgico condiviso con altri utenti; il web dimostra quindi un ruolo della tecnologia nel creare, condividere e vivere la nostalgia in una maniera forse più accentuata e profonda (Holak, 2014). Il cyberspace fornisce opportunità interattive che agevolano la connessione tra gli interessi dei soggetti (Blanchard, 2004). Nel caso specifico dei food blog, ad esempio, la presentazione del self dei partecipanti può variare e presentarsi in forme differenti. Questi canali diventano una fonte dinamica di informazioni culturali per altri appassionati di cibo, altri bloggers o principianti. Queste piattaforme digitali danno l’opportunità di coinvolgere la comunità accerchiandola attorno ad un interesse condiviso (Holak, 2014). Tutti questi aspetti richiamati verrebbero completamente trascurati con una miopie osservazione rivolta esclusivamente al self-offline. Dunque, i dubbi iniziali sulla

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scarsa rilevanza della costruzione della nostra identità nel contesto della rete, possono essere ampiamente confutati o, quantomeno, riferibili alla sola componente esclusivamente individuale.

2.3 L’importanza e le peculiarità del cibo nell’affermazione

dell’identità del prosumer

Si è appurato che il ruolo del prosumer è sempre più dinamico e intenso ed è, soprattutto, indirizzato verso specifici obiettivi che riguardano la definizione del proprio essere e la presentazione agli altri di ciò che si è riusciti a produrre. Nel corso della trattazione si è anche richiamata l’importanza del cibo che si adatta in maniera perfetta a questa situazione.

Nel capitolo introduttivo si era dichiarato inoltre che, anche nel contesto digitale, questo bene ottiene un riscontro incredibile grazie alle peculiarità che lo contraddistinguono. È il momento quindi di approfondire questo argomento cercando, sempre con l’ausilio di contributi teorici, di capire e più che altro di confermare la funzione che il cibo ha acquisito in questa circostanza, seppure anche in questo caso manchi, purtroppo, un corpus teorico saldo e lineare. Il primo attributo che ritengo sia il perno per poter poi comprendere perché il cibo e il cucinare diventano così importanti, è legato al fatto che la sua preparazione non è considerata esclusivamente come un atto fine a se stesso o, ancora, come un lavoro o un compito professionale; l’atto del cucinare, insieme a tutte le pratiche ad esso connesse, permette all’individuo di partecipare in un vero e proprio movimento culturale. La sociologia ha tentato, soprattutto negli ultimi decenni, di studiare questo fenomeno comprendendo la portata e le sue implicazioni nella società. Levi-Strauss (1970) ha dichiarato che cucinare traccia il segno della transizione tra la natura e la cultura, mentre Campbell (1995), notando la mancanza di studi empirici, rimarca l’importanza del mangiare come forse uno dei più rilevanti tra gli atti di consumo dell’individuo,

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un centro nevralgico per comprendere l’intera sociologia del cibo. Una vera e propria branca dell’antropologia, la “Food anthropology”, si è completamente interessata allo studio del cibo come centro e motore dell’interazione e del rapporto che un soggetto ha col suo gruppo e/o con altri gruppi.

Scholliers ha identificato diverse fasi storico-sociali in cui inquadrare il cambiamento dell’importanza del cibo (2001), focalizzandosi soprattutto sul ruolo di questo prodotto nel definire l’identità di un soggetto. Negli anni ‘60 e ‘70 Claude Lévi-Strauss e Mary Douglas hanno enfatizzato il ruolo del cibo come indicatore, classificatore e costruttore dell’identità. Il cucinare diventa un’attività cruciale nel dare un senso al mondo e ordinare le nostre vite (Woodward, 1997). Negli anni ’80 la situazione si è molto evoluta, con l’ingresso di tanti e nuovi temi che esplorarono sempre la relazione tra cibo e identità. Questi filoni sono supportati soprattutto dall’affermazione secondo la quale ciò che ruota attorno al cibo non include soltanto la classificazione o il consumo come pratica sociale, ma anche la preparazione, l’organizzazione, i taboo, la compagnia, l’importanza del luogo, il tempo, i simboli, i linguaggi, i significati legati al mangiare e al bere. Dato che le persone “assorbono” il cibo, possono in questo modo marcare la loro identità e quella dei gruppi, si pensi ad esempio a chi consuma piatti simili ai nostri o chi, invece, ingerisce cibi considerati taboo. Nonostante per Fischler (1988), al giorno d’oggi, ci sia un’alterazione nel mondo culinario (sia tecnologica che culturale) causata da una crisi d’identificazione col cibo legata ad una più ampia crisi individuale della propria personalità, si vedrà poi che sarà proprio questo prodotto a risolvere questo conflitto. I discorsi successivi supporteranno quest’ultima affermazione.

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2.4 Cenni storici sul ruolo del cibo nel corso del tempo

Questo ruolo fondamentale del cibo era già stato ravvisato nel diciannovesimo secolo, nel dettagliato studio dell’evoluzione della cultura culinaria di Caribbean e Wilk (2006), in cui si è appurato il peso simbolico che il cibo, all’inizio, ha assunto nella “slave economy”. In quella situazione non solo ha rimarcato l’etnia dei popoli, ma ha assunto un ruolo di resistenza contro le piantagioni coloniali caratteristiche del tempo. Il cibo ha rappresentato, per gli schiavi, un accesso al sistema del gusto, alla possibilità di scegliere, alla volontà di distinguersi e dare dignità alla propria persona. Un altro contributo legato al cambiamento che il cibo ha assunto nel tempo proviene dallo studio di Warde (1997), che identifica otto “imperativi” o “principi di raccomandazione” per mezzo dei quali il consumo domestico del cibo è stato ricostruito; questi imperativi rappresentano quattro antinomie che illustrano contraddizioni e pressioni sociali che hanno modificato le scelte sul cibo nel corso del tempo.

Novità e tradizione è la prima antinomia, che illustra la dicotomia nel consumare

nuovi piatti diversi dai soliti consumati; la seconda contrappone la salute con la

soddisfazione, rappresentando l’opposizione tra l’autodisciplina nel consumo di

cibi salutari con la contentezza nel consumare, invece, cibi appaganti; la terza è tra economia e lusso, semplice contrapposizione tra cibi ordinari e lussuosi; l’ultima riguarda la cura e la convenienza, che presenta la dualità tra la cura della famiglia e la pressione del tempo che porta a consumare cibi pratici e non sempre salutari. Sebbene tutti gli elementi delle antinomie siano presenti negli anni ’60 e anche negli anni ’90, tuttavia Warde ha illustrato un cambiamento nella presentazione contemporanea del cibo. Una trasformazione caratterizzata da un declino della novità, del lusso e del prendersi cura degli altri contro una crescente attenzione per la salute e la convenienza. Uno dei motivi elencati è dovuto alla società moderna che è caratterizzata da un processo di deregolamentazione delle sovrastrutture, così che il consumo diventi, come ormai ben risaputo, uno strumento per esprimere la propria identità.

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All’inizio degli anni ‘90 il filosofo Deane Curtin propose una vera e propria filosofia centrata sul cibo, che eliminava la ormai salda idea occidentale che contrapponeva in modo rigido il sé al dualismo. Anche lui sosteneva che, dal momento che ingeriamo gli alimenti, diventano una parte di noi stessi, obbligandoci a ri-concettualizzare non solo gli altri ma anche la nostra identità. Altri ricercatori hanno chiaramente ribadito come il cibo sia un ottimo veicolo per esprimere la propria identità e i propri valori (Senauer, 2001). Il prepararlo, il cucinarlo e il mangiarlo diventano un iter complesso che rompe le barriere dicotomiche tra l’individuo e gli altri e, in questo, il cibo diventa una risorsa unica nel suo genere. Allende (1998) ci invita e riesaminare questa relazione e, come Curtin, a conferire a questo bene un ruolo più definito e centrale. In questo senso diventa un mediatore che aiuta a “marcare” la propria identità (tenendo conto di come, cosa, dove e perché mangiamo quella pietanza).

La pratica del comprare, cucinare e mangiare il cibo è un’attività quotidiana che plasma i nostri corpi e la nostra identità. È ormai assodato che per mezzo di questi atteggiamenti diamo un senso diverso al mondo e alle nostre personalità (Fischler, 1988). Questo riflette il concetto del cucinare di Curtin, ascrivibile ad un lavoro combinato tra il corpo e la mente, divenendo un modo per sfidare la dualità e definire nuove identità. Il simbolismo che racchiude il cibo rappresenta un eccezionale contesto per lo studio del processo di acculturazione del consumatore, dato che ogni contesto culturale ha le proprie peculiarità in termini di tipo e regole per la preparazione delle pietanze (Counihan, 1999). Affermando ciò si sta in pratica dicendo che il cibo di una determinata cultura costituisce un sistema di simboli che funzionano come linguaggi paralleli che contribuiscono a facilitare la nascita di organizzazioni sociali e comunitarie (Counihan, 1999). Miller (1987) ha addirittura definito i beni culinari, in particolare i libri di cucina, come rappresentanti della cultura in quanto mezzo per creare la nostra identità in un contesto sociale. Sembrano che siano in grado di fornire risposte riguardanti questo scopo grazie alle loro immagini, istruzioni

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e narrazioni. Warde (1994) sostiene che le ricette possano essere comprese come simboli delle relazioni sociali. La rappresentazione che ora domina nelle teorie e nelle credenze della maggior parte degli studiosi è che il cibo sia in effetti un facilitatore delle comunicazioni sociali. Ciò che possiamo carpire da questa dichiarazione è che c’è un collegamento evidente e già richiamato tra il cibo e l’identità sociale e, nello specifico, verso la comunità. Il cibo diventa così un riferimento per specifici atteggiamenti di consumo, una sorta di ponte sociale (Brownlie et al. 2005). Gli studi hanno quindi subito un’impennata senza precedenti, coinvolgendo temi delicati come il femminismo, la storia e la filosofia.

2.5 Il cibo come espressione dell’identità di genere

Innanzitutto è giusto ribadire questo concetto: il cibo e il suo simbolismo si prestano benissimo alla definizione del genere, essendo uno dei suoi principali significati (Mennell, Murcott e van Otterloo, 1992; Lupton, 1996; Counihan, 1999). Non sono soltanto le culture ad essere definite da specifici cibi ma anche l’identità di genere, soprattutto in riferimento all’approvvigionamento e alla preparazione delle pietanze (DeVault, 1991; Counihan, 1999). Questa identità e, conseguentemente, l’interpretazione del cibo devono essere, però, sempre contestualizzati. La stessa donna, infatti, può elargire differenti ruoli di genere in base al contesto in cui si trova; questo ci porta a dire che sono sempre diversi i significati attribuibili al cibo e, mediante la sua preparazione, è come se si inscenassero diversi “copioni”. L’identità di genere assume, in questo modo, una consistenza fluida, mutevole (Chytkova, 2011). Sul rapporto tra donna e cibo è intervenuto anche lo studio di Cronin et al. (2014); dal loro contributo empirico sono emersi quattro temi importanti. Il primo concerne la creazione da parte della donna di un’identità familiare combinando la ricchezza della tradizione offerta dalle loro stesse madri, durante i pasti principali, con il contesto generazionale attuale; il secondo riguarda invece l’accettazione

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coscienziosa di un conflitto interno tra gratificazione e sforzo relativo al processo di creazione del cibo; il terzo si focalizza sulla tensione tra il sé e il cibo, un’interazione che favorisce, sempre in virtù del contesto, sia desideri positivi che negativi; infine il quarto delinea come le donne debbano sottostare alle approvazioni e alle pressioni sociali, che le affidano un determinato ruolo e compito riguardo al suo rapporto col cibo. Le donne aspirano a costruire la loro identità familiare prendendo spunto dal passato, in cui il cucinare era l’aspetto centrale dell’unità familiare. Esiste però una tensione tra due situazioni opposte: da un lato l’assumersi la responsabilità della cura della famiglia e, dall’altro, andare aldilà di questo ruolo. Questo oscillamento del sé tra la gratificazione e il gusto comporta un conflitto interno che si ripresenta in determinate situazioni. Nonostante le donne siano storicamente inquadrate come casalinghe, il cibo continua ad essere, invece, uno strumento fondamentale di rivalsa nelle loro vite in termini di esperienze sociali e di messa in atto della loro identità.

Ma il discorso sul genere non riguarda esclusivamente quello femminile, tutt’altro. Gli uomini sono sempre più coinvolti da questo fenomeno, si può addirittura dire che forse lo sono in misura superiore rispetto alla controparte femminile. In effetti, se pensiamo alle figure dei master chef, molti sono uomini. Il perché di questa discrepanza è evidenziato dallo studio di Szabo (2013), che ha indagato come gli uomini avvertono e interpretano il cucinare. Normalmente, infatti, ci si trova dinanzi a questa concettualizzazione diametralmente opposta: gli uomini percepiscono il cucinare come un passatempo, uno svago, un divertimento, mentre le donne lo percepiscono come un lavoro, un dovere familiare. In effetti, la già richiamata presenza di chef uomini nei programmi televisivi e il crescente numero di libri, blog e riviste che hanno come protagonisti uomini che cucinano, sembrano sottolineare l’aspetto spensierato e entusiasta di questo fenomeno. Questo spirito leggero e friendly è motivato, da alcuni studiosi, dalle iniquità di genere che esistono al riguardo (Hollows, 2003; Julier, 2002). La responsabilità della cucina quotidiana in casa, infatti, è ancora

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percepita come un compito rivolto alle donne, mentre gli uomini tendono a cucinare nei weekend o in occasioni speciali, con gli amici e contesti simili (Adler, 1981; Beagan et al., 2008; Murcott, 1983; Roos et al., 2001). Questa maggiore flessibilità, questa maggiore libertà nel poter cucinare non tanto per dar da mangiare e prendersi cura della famiglia ma per far fuoriuscire la propria attitudine e la propria personalità, porta appunto alla percezione, da parte del genere maschile, della cucina come un momento di relax (Aarseth e Olsen, 2008; Cairns et al., 2010; Hollows, 2003; Julier, 2002).Dagli studi di Swenson (2009), Hollows (2003) e Parasecoli (2008) si propone un uomo che cucina nei principali show televisivi, mentre le donne sono spesso raffigurate intente a preparare il cibo per i propri cari. Gli uomini hanno questo orientamento perché, quando cucinano, svolgono un hobby o, per di più, si percepiscono come artisti. Ciò permette loro di utilizzare il cibo come strumento per manifestare la propria creatività mentre le donne, nell’avere un atteggiamento simile, esprimerebbero loro stesse in una sorta di riscatto rispetto al ruolo in cui sono confinate. Ciò non esclude a priori che le donne non riescano a divertirsi mentre cucinano, sono molte quelle che, infatti, apprezzano proprio questo ruolo di responsabili della cura della famiglia (Bove e Sobal, 2006; Wright-St Clair et al. 2005). Ciononostante, la pressione relativa al dovere non fa altro che alimentare esperienze altrettanto negative (Hollows, 2003; Short, 2006). Ovviamente questa classificazione non può essere oggetto di generalizzazione, fortunatamente questo orientamento è sempre più labile e soggetto a trasformazioni. Quello che è importante sottolineare è sempre il ruolo e la potente forza del cibo che può servire, e in effetti è servito, a sovvertire dei ruoli che lui stesso aveva definito. Gli intenti sono così diversi tra loro, eppure il mezzo è sempre lo stesso.

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2.6 Il cibo come espressione dell’identità familiare

Altri contributi molto interessanti, ad esempio, sono offerti da Moiso (2004) e Valentine (1999), che trattano il ruolo del cibo nel rappresentare e definire l’identità del nucleo familiare. Viene in pratica evidenziata l’importanza della famiglia nei cibi fatti in casa e, al contempo, il ruolo di questi ultimi nell’esprimere la realtà domestica e i cambiamenti qualitativi nella riproduzione dell’identità sociale familiare. I significati dei cibi, infatti, incorporano sia le strutture che le relazioni sociali e sono connessi con il contesto culturale ed economico (Fischler, 1980). L’adattamento dei consumatori alle pressioni normative ha spesso alterato le abitudini di vita e di consumo familiare (Oswald, 2003; Ritzer, 2004; Watson, 1997). Da qui, la ragione nel produrre pasti a livello domestico, ha permesso di costruire il senso di casa e famiglia attorno alle pratiche di consumo, cercando quindi di ostacolare le influenze limitanti provenienti dall’esterno (DeVault, 1991). La casa offre forse uno degli ambienti più intriganti per lo studio della relazione tra le persone e ciò che consumano. Conciliante con questa prospettiva è l’affermazione secondo la quale il cibo domestico è un mezzo tramite il quale creare una visione autentica di ciò che è la famiglia (Groves, 2001). L’alimentazione diventa dunque importante per la sua riproduzione sociale, sia nella famiglia nucleare che in quella estesa; le pratiche legate al cibo permettono di rinforzarne e mantenerne una coerente ideologia (Charles e Kerr, 1988). I pranzi familiari diventano centrali nel generare significati (DeVault, 1991). È dunque presente una sorta di tensione fra le logiche di mercato e l’homemade ma, l’attuazione di pratiche di consumo all’interno della famiglia, mitigano questa problematica.

L’intero discorso è riassunto in quattro punti: il primo riguarda la circostanza in cui il cibo rappresenta un modello per le attività casalinghe che definiscono le cure, l’altruismo e l’amore familiare e intergenerazionale, contrariamente a quanti hanno invece sostenuto che le pressioni normative riguardanti il cibarsi rovescino il ruolo della famiglia; il secondo punto evidenzia nuovamente che il

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cibo esprime questa identità opponendosi alla logica del mercato che tenta di “mercificare” il cibo fatto in casa. La realtà del mercato è completamente isolata rispetto a quella che si crea nella sfera domestica; il terzo punto sottolinea il fallimento del tentativo del mercato di definire l’identità familiare: è soltanto il connubio produttore/consumatore e l’homemade food che facilitano e arricchiscono i valori della famiglia e della vita (Borgmann, 2000); il quarto e ultimo punto afferma che i cambiamenti nel cibo fatto in casa provocano altrettante modifiche qualitative nella riproduzione di questa identità. In questo modo è possibile comprendere come le persone impieghino il cibo per costruire storie su se stessi nei diversi contesti familiari, lavorativi e istituzionali. Tutti questi contributi sottolineano come un semplice atto, che riteniamo ormai di routine, abbia in realtà insiti dei significati molto profondi.

2.7 Il cibo come espressione della condivisione e del rapporto con gli

altri

Si è dunque richiamato il cibo nelle questioni riguardanti il genere e l’identità del nucleo familiare. Una prospettiva individuale e una collettiva. Quest’ultima visione può essere rivolta anche a soggetti estranei, ovvero diversi dai nostri familiari? Più precisamente si vuole intendere: è possibile, con le proprie scelte di consumo, creare dei risvolti e delle conseguenze anche per gli altri? Le ricerche hanno sempre evidenziato un’incorrelazione tra i valori cosiddetti egoistici con quelli altruistici (Schwartz, 1992); la sfera individuale e altruistica sono viste come concettualmente distinte e incompatibili (Suitner e Maass, 2008). Ciononostante, le recenti ricerche hanno invece ravvisato che queste due situazioni possono coesistere e convivere. Kareklas et al. (2014) hanno ad esempio ravvisato la presenza di una componente “altruistica” nel consumo dei cibi biologici. Nonostante, infatti, molti dei nostri acquisti siano circoscrivibili in una sfera egoistica e centrata su noi stessi, le decisioni sugli acquisti di prodotti biologici si estendono aldilà della sfera individuale, includendone

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anche altre come quella ecologica o sociale. Addentrandoci nello specifico, i cibi biologici sono considerati come “environmentally friendly”, prodotti di cui tutti ne beneficiano (Wilkins e Hillers, 1994) perché, a dispetto dei cibi convenzionali, sono prodotti senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici dannosi per il terreno, erbicidi e pesticidi. Nello studio di Aaker e Lee (2001) questo altruismo nel consumo ha un’importante implicazione a livello pubblicitario. L’obiettivo degli autori è quello di individuare se, nell’acquisto di cibi biologici, i fattori associati con la visione indipendente del sé, e correlati dunque con considerazioni d’acquisto egoistiche (Michaelidou e Hassan, 2008), siano collegabili alle attitudini altruistiche. In effetti la caratteristica peculiare di questa categoria di cibo è che, oltre al fatto che sono presenti sia l’una che l’altra componente, esse non si presentano separatamente. Assistiamo infatti ad un intreccio e ad una contemporaneità di presenza tra i due intenti d’acquisto: lo scopo, infatti, è sia associato con considerazioni egoistiche (il cibo biologico migliora la salute), sia con quelle altruistiche (l’agricoltura biologica fa bene all’ambiente). È proprio questa convivenza di valori che spinge l’individuo ad acquistare questi prodotti, perché riesce a conciliare situazioni che in passato non si pensava di poter collegare. Questa funzione del cibo continua a marcare la sua importanza nel contesto fenomenologico trattato in questo elaborato; esprimendo sia valori personali che altruistici, il proprio sé diventa molto più incisivo, ampio, profondo, rispetto invece ad altri beni in cui domina una componente individuale. La forza del cibo sta in questo, nella sua credibilità ad essere condiviso con altri soggetti.

Richiamando la condivisione, è il momento di trattare anche un altro movimento che coinvolge in prima persona l’ormai sempre presente rapporto tra cibo e identità: lo Slow food, fenomeno internazionale nato per preservare i sapori unici, le tradizioni locali, la qualità del cibo e salvaguardarne il suo consumo come un momento di piacere e serenità (Pietrykowski, 2004). Difendendo il cibo dalle logiche del mercato attuale, si rinforzano le relazioni tra consumatori

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e produttori diretti. Il movimento comprende tre ideali: il primo è l’educazione al gusto, un obiettivo in cui si cerca di incrementare la cultura del cibo; il secondo si impegna ad esaltare i gusti dei soggetti per proteggere questa cultura e per promuovere la convivialità e gioia nel condividere un pasto, sensazioni che non si conciliano con l’ambiente creato dalla moderna industrializzazione, verso cui c’è un atteggiamento di scetticismo. Questa logica produttiva nasconde dei lati oscuri, tra cui la compressione tra spazio e tempo e una continua ansia esercitata dall’esterno. In controtendenza, il movimento si focalizza sul piacere di stare a tavola, simbolo della cultura e metafora di una comunità che cresce condividendo emozioni e esperienze. La convivialità del pasto espande il concetto del consumo del cibo, diventando attributo del capitale culturale. Con questa visione il movimento presenta le scelte di consumo come un modo, per l’individuo, di far parte di un network interdipendente; il terzo e ultimo filone è definito “l’Arca del gusto”, un’ideologia che preserva l’agricoltura e i prodotti a rischio d’estinzione. L’obiettivo è creare una comunità locale di produttori agricoli e consumatori, valorizzando le connessioni e i rapporti sociali.

Anche nell’elaborato di Cappellini e Parsons (2014), il cibo gioca un ruolo centrale nello sviluppo delle comunicazioni dei valori culturali. Questi contributi non si riallacciano solo con le scelte riguardanti il consumo del cibo, ma anche nel modo e nella maniera in cui è consumato. Ecco perché ci sono delle regole che definiscono come e cosa mangiare e cosa non bisogna attuare a seconda del contesto in cui ci si trova (Murcott, 1982). In questo senso il cibo diventa il cuore pulsante delle culture e una rappresentazione dettagliata delle stesse. Nel paper di Marshall (2005) viene ampiamente richiamato il rapporto stretto che sussiste fra il cibo e le norme, soprattutto per ciò che concerne la preparazione dei pasti. Pur non essendoci nessuna regola scritta, esistono più che altro delle consuetudini, dei comportamenti ormai routinari che ci portano, forse inconsapevolmente, a preparare, durante i pranzi e le cene, le stesse

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categorie di pietanze. Sembra dunque che sia il pasto che determini le nostre scelte culinarie e che strutturi le routine degli individui riguardo ciò che è appropriato consumare. Nelle occasioni speciali, come ad esempio il Natale, non si preparano solo categorie simili di cibi ma addirittura le stesse cose; sembrerebbe che non ci sia spazio alcuno per esprimere la propria personalità. Ma ciò a cui assistiamo ultimamente è una sempre più crescente informalità del cibo che consumiamo, guidata da un intento di fondere le routine con un desiderio di provare nuovi piatti. Queste regole, quindi, non minano assolutamente l’estro creativo e la possibilità da parte del soggetto di esprimere se stesso con ciò che mangia, cucina e presenta. Escludendo le occasioni speciali, infatti, la definizione di questi principi fanno invece protendere verso un’affermazione opposta, ovvero che il cibo non assume sempre lo stesso significato, nonostante la sua struttura in pasti possa renderlo monotono. Altrimenti risulterebbe anonimo, privo di alcun contributo simbolico. Invece, partendo da alcuni dettami socioculturali, la collocazione del cibo in determinati e giusti contesti definisce e chiarisce il pattern in cui ci si trova. Distinguiamo subito, per fare un esempio, un piatto della tradizione casalinga da un piatto

gourmet; questi due esempi sono destinati a due scenari completamente opposti,

apparentemente inconciliabili. Ma nulla vieta, ad esempio, di rivisitare un piatto della tradizione o di presentare un piatto gourmet in una cena con amici. Soprattutto nel primo caso, coniugare alcune modifiche al piatto originale permette di accostare, accanto ai ricordi legati alla storia, anche alcuni tratti dei propri gusti e della propria personalità, rendendo il piatto finale originale e unico (si ricordi la differenziazione richiamata nel personal branding). Preparare il cibo diventa un ottimo veicolo per la gratificazione del sé, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Ecco motivato il perché il cucinare, nonostante sia avvertita come un’attività legata alla tradizione, si sia perfettamente adeguata al contesto digitale e della condivisione, perché coinvolge anche la sfera relazionale e collettiva dell’individuo. Il settore alimentare, in generale, rappresenta oggi un territorio fertile per l’appagamento del desiderio di

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espressione e di sviluppo del personal branding. Si potrebbe parlare di un contesto di vera e propria food therapy individuale e collettiva, in cui si sommano e convergono due dimensioni fondamentali dei nuovi processi identitari, l’uno reale e analogico del fare (da mangiare) e l’altro virtuale e digitale del comunicare, che convergono anziché contrastarsi (Jenkins, 2006). Ma su quali basi poggia l’appeal del cibo come ottimo propulsore del nostro estro, creatività e personalità? Cos’è che lo rende anche così adatto al contesto della condivisione digitale? Ancorandoci nuovamente al discorso relativo al

personal branding, fu richiamato il concetto del riconoscimento come esperto

del settore. Nel settore della cucina i professionisti sono i master chef che oggi, grazie ai media, stanno ottenendo un riscontro notevole, avvalendosi del titolo di vere e proprie tv star, testimonial della buona cucina di qualità. È lecito domandarsi il motivo di questo successo perché, in fondo, gli utenti aspirano il più delle volte a essere paragonati ai migliori chef in circolazione. In questo contesto la credibilità la si conquista con delle conoscenze tecniche e con l’uso sapiente degli ingredienti, “segreti” che solo uno chef conosce. Gli studiosi Dion e Arnould hanno evidenziato due caratteristiche legate a questa figura: lo chef è considerato sia come un moderno alchimista che padroneggia le norme della trasmutazione, sia come un artista che crea opere d’arte culinarie. La preparazione del cibo diventa performativa così come il suo consumo. Molti ristoranti e programmi televisivi presentano chef che mostrano agli altri il proprio talento (Martin, 2005). Il master chef diventa una star. La cosa più interessante è che non sono rappresentate tanto le tecniche culinarie, quanto lo stesso chef. C’è una vera e propria devozione verso un leader che trasmette carisma e emozioni (House e Howel, 1992). Queste figure si insinuano nelle coscienze del pubblico non solo come portatori della cultura culinaria contemporanea ma, come si è appena detto, come soggetti carismatici che modificano e guidano il nostro stile di vita (Brownlie et al 2005). La persona diventa un brand (Herskovits e Crystal, 2009; Russell, Norman e Heckler,

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2004), in cui sono esaltate le caratteristiche umane e della personalità (Belk, 1988). È lampante il richiamo all’obiettivo dei soggetti: utilizzare il cibo per esprimersi, mostrare le proprie creazioni al pubblico, produrre per ottenere un riconoscimento, trasformare la propria identità in un brand. Tutto questo ruota attorno al cibo.

Un interesse che, seppur mosso da motivazioni dettate dalla struttura della società, è anche strettamente legato alle influenze sociali, proprio come le celebrità protagoniste dei tv shows. Non abbiamo quindi, ad esempio, solo problematiche sociali generali come l’obesità o il rispetto dell’ambiente ma anche motivazioni personali, sempre legate a questa esigenza di voler comunicare agli altri la propria visione delle cose. Tuttavia esiste anche un’accezione che prende spunto da entrambe le “classi” di temi considerati. In uno studio di Back e Glasgow (1981), si è trattata l’importanza della dieta come un’espressione e anche una definizione del proprio essere (Back, 1977). In questo paper si richiamano le categorie dei gourmet e dei vegetariani, che definiscono proprie credenze, atteggiamenti e valori tramite le loro scelte culinarie. Queste due categorie sono collocate esattamente agli opposti; mentre i vegetariani sono definiti da un senso di rigetto, dato che non consumano determinati cibi, i gourmet sono invece rappresentati dalla preferenza verso determinati tipi di cibi, verso cui cercano determinate esperienze. Da un lato, dunque, una definizione del proprio essere che parte da un atteggiamento negativo, l’altra da uno positivo. Un risultato interessante è che sono altrettanto diversi i comportamenti degli altri nei confronti di questa rappresentazione di sé. Gli studiosi utilizzano un esempio interessante, sostenendo che mentre ci si sentirebbe imbarazzati nell’offrire della carne ad un vegetariano, dall’altro lato siamo molto meno a disagio nell’offrire un cheeseburger ad un gourmet. I vegetariani, quindi, definiscono loro stessi enfatizzando ciò che non fanno, sottolineando la loro diversità dagli altri, mostrando questa separazione come simbolo delle loro preferenze, contrastando le imposizioni sociali e dunque

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