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Basi farmacologiche per l'impiego del solfuro d'idrogeno nella chemioterapia del carcinoma pancreatico

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Academic year: 2021

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Indice

Capitolo 1

Introduzione

... 1

1.1 Il tumore del pancreas ... 1

1.1.1 Diagnosi e stadiazione del tumore ... 6

1.1.2 Trattamento chirurgico del tumore del pancreas ... 9

1.1.3 Terapie farmacologiche disponibili ... 10

1.2 Il solfuro di idrogeno ... 16

1.2.1 Chimica e biosintesi di H

2

S ... 18

1.2.2 Catabolismo di H

2

S ... 23

1.2.3 Meccanismi dell’azione biologica di H

2

S ... 25

1.2.4 L’effetto ormetico di H

2

S ... 26

1.2.5 Ruolo e produzione del solfuro di idrogeno nei tumori ... 30

1.2.6 Effetti pro-cancerogeni di H

2

S ... 31

1.2.6.1 Induzione dell’angiogenesi ... 32

1.2.6.2 Stimolazione della bioenergetica mitocondriale ... 33

1.2.6.3 Accelerazione del ciclo cellulare ... 33

1.2.6.4 Funzione anti-apoptotica di H

2

S ... 35

1.2.6.5 Induzione dell’autofagia ... 36

1.2.7 Effetti anti-cancerogeni di H

2

S ... 38

1.2.7.1 Acidificazione intracellulare incontrollata ... 38

1.2.7.2 Induzione dell’arresto del ciclo cellulare ... 40

1.2.7.3 Induzione dell’apoptosi ... 41

1.3 Possibile impiego di H

2

S donors nel trattamento dei tumori ... 41

1.4 Isotiocianati come antitumorali ... 50

(2)

Capitolo 2

Scopo della ricerca

... 62

Capitolo 3

Materiali e metodi

... 64

3.1 Materiale utilizzato per la sperimentazione in vitro ... 64

3.1.1 Colture cellulari ... 64

3.1.2 Mezzo di coltura ... 65

3.1.3 Sostanze e soluzioni tampone ... 65

3.1.4 Soluzioni delle sostanze utilizzate ... 66

3.2 Protocollo sperimentale ... 67

3.2.1 Scongelamento ... 67

3.2.2 Piastratura ... 68

3.2.3 Esperimenti ... 69

3.2.3.1 Vitalità cellulare: effetto antiproliferativo ... 69

3.2.3.2 Effetto di Gemcitabina e p-COOHPhNCS sulla proliferazione cellulare ... 70

3.2.3.3 Rilevazione del rilascio di H

2

S in substrati biologici con sonda fluorescente

(WSP-1) ... 70

3.2.3.4 Analisi del ciclo in seguito a trattamento ... 71

3.2.4 WST - 1 ... 72

3.2.5 WSP – 1 ... 73

3.3 Analisi dei dati ... 74

Capitolo

4

Risultati e discussione

... 75

(3)

1

Capitolo 1

Introduzione

1.1 Il tumore del pancreas

Il cancro del pancreas rappresenta oggi la quarta causa di morte per neoplasia nei paesi industrializzati e, tra tutti i tumori solidi, è sicuramente quello associato ad una delle prognosi più infauste; il tasso di sopravvivenza nei cinque anni successivi alla diagnosi, infatti, è generalmente inferiore al 5% e il numero di morti per anno supera in media i 300.000 [Siegel et al., 2013; Oettle, 2014; Takai e Yachida, 2015]. Questi dati fortemente scoraggianti sono legati non solo alla mancanza di sintomi specifici, condizione che non permette una diagnosi precoce della malattia, ma anche alla velocità con cui le cellule cancerose pancreatiche sono in grado di formare metastasi; in più, la marcata resistenza del tumore nei confronti della chemioterapia e della radioterapia limita notevolmente qualsiasi forma di intervento terapeutico [Stathis e Moore, 2010] e al tempo stesso, nel 15-20% dei pazienti in cui l’asportazione chirurgica della massa risulta praticabile, la massiccia presenza di cellule staminali a livello pancreatico e di micrometastasi in tessuti diversi da quello di origine aumentano il rischio di ricadute post-operatorie nella quasi totalità dei casi [Murr et al., 1994; Simeone, 2008].

Dal punto di vista istopatologico, il tumore del pancreas è caratterizzato dall’infiltrazione di strutture tubulari anomale distribuite in uno stroma altamente fibroso (Figura 1) e caratterizzato da vasi sanguigni, cellule endoteliali e immunitarie, fibre nervose, numerose proteine solubili e abbondante matrice extracellulare (ECM) [Apte et al., 2004; Chu et al., 2007] i cui componenti principali sono rappresentati dal glicosaminoglicano non solforato ialuronano e dalle proteine fibronectina, laminina, collagene e periostina che intervengono sia nello sviluppo della malattia sia nei meccanismi intrinseci ed estrinseci di chemioresistenza [Grzesiak e Bouvet, 2006; Erkan et al., 2007]. Nelle prime fasi della carcinogenesi, la fibrosi stromale sembra in gran parte dipendere dalla attivazione delle cellule stellate pancreatiche (PSC) che costituiscono il 4-7% della ghiandola e che secernono sia metalloproteinasi della matrice (MMP) coinvolte nella degradazione della ECM sia loro inibitori tissutali (TIMP), assicurando così il corretto

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2 mantenimento della normale architettura del tessuto pancreatico. Dunque, se da un lato le cellule stellate pancreatiche garantiscono in condizioni fisiologiche un equilibrio costante tra i processi di sintesi e degradazione della matrice extracellulare, dall’altro la massiccia produzione di proteine della matrice causa la formazione di tessuto fibroso e contribuisce alla progressione della patologia [Apte et al., 2004]. Infine, dal momento che il tessuto neoplastico pancreatico è scarsamente perfuso e che i vasi sanguigni presenti sono generalmente caratterizzati da diametro irregolare e membrana basale mancante o alterata, la formazione di nuove strutture vascolari permette alle cellule tumorali di sopravvivere in condizioni altrimenti ipossiche favorendo al contempo la disseminazione a distanza [Fukumura e Jain, 2007].

Figura 1. Cancro del pancreas e reazione stromale. Tessuto tumorale pancreatico caratterizzato

dalla presenza di anomale strutture tubulari simili a dotti (indicati da frecce) in uno stroma altamente fibrotico (indicato da asterischi) [Xu et al., 2014].

Tra tutti i tumori del pancreas, l’adenocarcinoma duttale è riscontrabile in circa il 90% dei casi e rappresenta perciò la forma più comune; i principali fattori che predispongono allo sviluppo della malattia sono diabete mellito, età avanzata, sesso maschile, etnia afro-americana, obesità, dieta ricca di grassi e carne e povera di folati e verdure, storia familiare di tumore pancreatico, esposizione occupazionale ad agenti cancerogeni, gruppo sanguigno diverso da 0, pancreatite cronica e infezione gastrointestinale da Helicobacter pylori [Amundadottir et al., 2009; Wolpin et al., 2009; Raimondi et al., 2009]; al contrario, l’assunzione di caffè ed il consumo di etanolo non sembrano contribuire alla patogenesi del cancro del pancreas, sebbene pazienti affetti da

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3 pancreatite cronica alcolica presentino un rischio 14 volte maggiore di insorgenza del tumore rispetto alla popolazione generale per un meccanismo che coinvolge molteplici vie di segnalazione comuni sia ai processi infiammatori che a quelli neoplastici [Chu et al., 2007; Pandol et al., 2012]. Anche se la causa della malattia è complessa e multifattoriale, il fumo di sigaretta e la storia familiare di cancro del pancreas sono al momento considerati i due principali fattori di rischio; in particolare, la probabilità di sviluppare la patologia aumenta di nove volte nel caso in cui a una coppia di parenti di primo grado sia stato diagnosticato il tumore e diviene trentadue volte maggiore quando il cancro del pancreas affligge più di tre parenti di primo grado, soprattutto se di età inferiore ai 50 anni [Petersen et al., 2006; Brune et al., 2010]. Esistono quindi numerose conferme dell’esistenza di una predisposizione genetica allo sviluppo del carcinoma pancreatico e l’identificazione delle sequenze nucleotidiche che costituiscono la base ereditaria della malattia permette oggi di riconoscere eventuali alterazioni genomiche che possono rendere alcuni individui più vulnerabili così da sottoporsi, se necessario, a screening periodici e chemioprevenzione; tuttavia, a causa della difficile diagnosi, spesso non risulta possibile ricostruire una storia familiare adeguata e raramente vengono effettuati test specifici in soggetti geneticamente predisposti [Takai e Yachida, 2015]. Ad ogni modo, l’elevata eterogeneità genetica del cancro del pancreas sembra essere dovuta sia ad anomalie nell’espressione genica sia a cariotipi con cromosomi multipli o aneuploidie, molto frequenti in tumori scarsamente differenziati [Biankin et al., 2012; Waddel et al., 2015]; come ormai noto, l’accumulo di simili alterazioni promuove la formazione di lesioni pre-cancerose non invasive di cui la più comune è rappresentata da PanIN (neoplasia pancreatica intraepiteliale) che origina a livello dei dotti pancreatici di piccolo diametro (< 5 mm) e che lentamente progredisce fino allo sviluppo del tumore (Figure 2 e 3) [Maitra et al., 2005; Chu et al., 2007].

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4 Sono circa 63 le mutazioni del genoma riscontrabili nell’adenocarcinoma pancreatico duttale (PDAC), delle quali le più numerose sono puntiformi e interessano i geni KRAS, CDKN2A, SMAD4 e TP53 (Figura 3) [Jones et al., 2008]. In particolare, KRAS codifica per proteine GTP-asiche che intervengono in molteplici vie di segnalazione intracellulare, tra cui la cascata delle chinasi attivate da mitogeni (MAPK) coinvolta nei processi di proliferazione, differenziazione e sopravvivenza cellulare [Campbell et al., 1998; Malumbres e Barbacid, 2003; Jancík et al., 2010]; le alterazioni geniche più frequenti si verificano principalmente a livello dei codoni 12, 13 e 61 [Almoguera et al., 1988; Jones et al., 2008] e causano una attivazione costitutiva di MAPK nel 90% degli individui affetti da PDAC [Rozenblum et al., 1997; Löhr et al., 2005]. Il gene CDK2A codifica invece per la proteina p16, un inibitore delle chinasi ciclina dipendenti (CDK) che controlla la transizione G1/S del ciclo cellulare e che esiste in forma inattiva nei pazienti con tumore del pancreas; a questo proposito, è stato osservato che le mutazioni di CDK2A sono spesso conseguenza di quelle di KRAS [Moskaluk et al., 1997; Wilentz et al., 1998]. SMAD4, noto anche come DPC4, è un gene che risulta inattivo nel 55% dei PDAC e che normalmente codifica per un fattore di trascrizione coinvolto nella segnalazione della superfamiglia dei fattori di crescita trasformanti beta (TGF-β) [Wilentz et al., 2000; Lüttges et al., 2001]. TP53, infine, è uno dei geni più soggetti a mutazioni in molti tipi di cancro e codifica per p53, fattore di trascrizione che controlla l’arresto del ciclo cellulare e l’apoptosi interagendo con specifiche sequenze del DNA; TP53 è inattivato nel 75% circa dei PDAC a causa di alterazioni puntiformi o piccole delezioni e il conseguente cambiamento di un singolo amminoacido nella proteina p53 può modificarne fortemente il ruolo nel processo di trascrizione, soprattutto se interessa residui che normalmente si legano al DNA [Cho et al., 1994]. Di fatto, l’attività di p53 nelle cellule sane è decisamente bassa ma aumenta in modo considerevole in risposta al danneggiamento del DNA e a numerosi altri segnali di stress [Barton et al., 1991; Redston et al., 1994; Vousden e Prives, 2009]; la mutazione del gene TP53 o la sovrapproduzione di inibitori quali Mdm2 e Mdm4 comportano dunque una profonda alterazione della funzionalità delle cellule cancerose, accompagnata non solo dall’acquisizione di nuove caratteristiche ma anche da una maggiore resistenza alle terapie antitumorali e da un discreto aumento delle capacità di proliferazione, invasione regionale e formazione di metastasi [Crook e Vousden, 1992; Hsiao et al., 1994; Kim et al., 2015]. La delezione di p53 nelle cellule stellate pancreatiche può infatti causare sia modificazioni del microambiente tumorale (TME) sia un concomitante incremento della trasformazione maligna delle cellule cancerose, a dimostrazione del fatto che cambiamenti nello stroma sono in grado di influenzare direttamente lo sviluppo della malattia; in altre parole,

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5 p53 sembra controllare anche la composizione del microambiente tumorale che gioca un ruolo fondamentale nella progressione del carcinoma del pancreas [Hanahan e Weinberg, 2011; Lujambio et al., 2013]. Le alterazioni che coinvolgono geni codificanti per proteine di rimodellamento della cromatina (ARID1A, MLL3, EPC1) o di riparazione del DNA danneggiato (ATM) sono invece meno frequenti [Biankin et al., 2012], così come le mutazioni germinali associate a storia familiare di cancro del pancreas; tra queste, la più comune è l’alterazione che inattiva il gene oncosoppressore BRCA2 e che aumenta il rischio di sviluppare il tumore di 3.5-10 volte rispetto alla media [Goggins et al., 1996; Klein, 2012].

Figura 3. Progressione genetica del tumore del pancreas. Da sinistra verso destra sono

rappresentati un tessuto epiteliale istologicamente normale, una forma di neoplasia intraepiteliale pancreatica (PanIN) di basso grado prima e di alto grado poi, un esempio di carcinoma invasivo che si sviluppa a seguito di mutazioni geniche tardive [Maitra e Hruban, 2008].

Lo sviluppo di tecnologie innovative di sequenziamento del DNA consente oggi di conoscere dettagliatamente il genoma delle cellule tumorali in modo da riuscire potenzialmente a trattare alcune forme di cancro con terapie personalizzate e basate su specifiche alterazioni geniche; un target terapeutico ovvio è, ad esempio, il gene KRAS che assume notevole importanza nel mantenimento e nella progressione della malattia [Brummelkamp et al., 2002; Fleming et al., 2005] mentre altri bersagli farmacologici sono rappresentati da fattori che intervengono nella trascrizione genica o dai sistemi MEK/MAPK e PI3K/Akt/mTOR, effettori a valle che risultano

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6 generalmente iperattivi nelle cellule cancerose e che rivestono un ruolo fondamentale nel tumore del pancreas [Schlieman et al., 2003; Agbunag e Bar-Sagi, 2004].

1.1.1 Diagnosi

e stadiazione del tumore

Nelle prime fasi della malattia, le caratteristiche cliniche del cancro del pancreas sono decisamente aspecifiche e contribuiscono perciò a ritardare la diagnosi; i sintomi più comuni riportati dai pazienti sono perdita di peso, ittero ostruttivo accompagnato da prurito e mal di schiena continuo e generalmente invalidante. Meno frequentemente compaiono invece nausea, vomito, diarrea, anoressia ed una forma secondaria di intolleranza al glucosio che si sviluppa nel 10-15% dei pazienti nei 6-12 mesi precedenti alla diagnosi; soltanto in un quarto degli individui affetti da adenocarcinoma pancreatico duttale la cistifellea diventa palpabile (segno di Courvoisier-Terrier) a causa dell’ostruzione maligna del dotto biliare [Murr et al., 1994]. Ad oggi, sfortunatamente, non esistono metodi efficaci per diagnosticare precocemente il cancro del pancreas [Takai e Yachida, 2015] ma specifiche analisi routinarie di laboratorio consentono di evidenziare un eventuale aumento dei livelli ematici di alcuni indicatori di ittero extraepatico ostruttivo quali fosfatasi alcalina, bilirubina e γ -glutamiltransferasi. Negli ultimi anni del secolo scorso particolare significato dal punto di vista diagnostico è stato attribuito alla determinazione nel sangue e nelle urine degli antigeni CEA (antigene carcino-embrionale), POA (antigene pancreatico oncofetale) e AFP (alfa -fetoproteina) e di altri marcatori tumorali quali le proteine mucino-simili CA 19-9, CA 50, CA 242 e CA 494 [Beretta et al., 1987; Schmiegel, 1989; Friess et al., 1993]. Per monitorare l’estensione del tumore e la sua evoluzione nel tempo, nella pratica clinica vengono valutati principalmente i livelli dell’antigene glicoproteico CA 19-9 spesso in combinazione con quelli di CA 242 per migliorare la specificità dell’analisi; ad esempio, un aumento massiccio e persistente dello stesso CA 19-9 (oltre 100–200 U/mL) a seguito dell’operazione di resezione è correlato a scarsa sopravvivenza [Rothlin et al., 1993].

Uno dei metodi strumentali largamente impiegato nella diagnosi del cancro del pancreas è rappresentato dalla ultrasonografia (o ecografia) che permette di identificare la massa tumorale, l’ostruzione biliare extraepatica ed eventuali metastasi al fegato dal diametro maggiore di 1 cm ma che non è affatto sensibile alla disseminazione neoplastica nei linfonodi regionali o ad un possibile coinvolgimento della vena portale e mesenterica; l’ultrasonografia endoscopica è invece una più recente modalità di diagnosi del carcinoma pancreatico che consente di

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7 individuare masse di 2.5 cm e di stabilire un’ eventuale invasione della vena portale ma che risulta purtroppo associata ad un discreto numero di falsi positivi, soprattutto nel caso di pancreatiti pseudotumorali [Rösch et al., 1992; Palazzo et al., 1993]. A differenza della risonanza magnetica nucleare (RMN) che non presenta alcun vantaggio se paragonata ai precedenti metodi diagnostici, la colangiopancreatografia endoscopica retrograda (ERCP) è l’esame strumentale più sensibile ma non necessario quando altri metodi non invasivi hanno già permesso di stabilire la stadiazione del tumore [Niederau e Grendell, 1992]; similmente, nonostante l’elevata sensibilità nella diagnosi di numerose neoplasie, l’aspirazione bioptica con ago sottile (FNAB) riveste un ruolo limitato in pazienti con carcinoma pancreatico sia perché registra ancora un tasso non trascurabile di falsi negativi sia perché l’ago aspirato può causare gravi complicazioni tra cui emorragia o disseminazione tumorale.

La procedura diagnostica di elezione per pazienti itterici e con sospetta neoplasia è di fatto la tomografia computerizzata (TC) che, rispetto alla semplice ecografia, fornisce immagini più definite sia di piccoli tumori pancreatici (Figura 4) sia di metastasi a distanza della grandezza di 1 cm; inoltre, la tomografia computerizzata ad alta definizione tramite infusione di un mezzo di contrasto intravenoso consente di rilevare anche i segni dell’invasione delle strutture vascolari.

Figura 4. Esempio di tomografia computerizzata che mostra la presenza di una massa tumorale

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8 Un’accurata stadiazione del tumore è poi essenziale per la scelta del trattamento chirurgico o terapeutico e il metodo attualmente più diffuso è rappresentato dal sistema TNM (Tumor-Nodes-Metastasis) che consente di classificare la malattia in base a numerosi parametri che influenzano la resecabilità del tumore e la prognosi del paziente, come le dimensioni della massa, la presenza di invasione locale e di metastasi a livello dei linfonodi regionali o a distanza (Tabella 1) [Murr et al., 1994].

Classe T Classe N Classe M

Stadio I T1, T2 N0 M0

Stadio II T3 N0 M0

Stadio III T1, T1a/b, T2, T3 N1 M0

Stadio IV T1, T1a/b, T2, T3 N0, N1 M1

Tabella 1. Criterio di stadiazione TNM (Tumor-Node-Metastases) [Schmiegel, 1989].

Legenda

T1 Nessuna estensione del tumore primario

T1a/b Dimensione della massa tumorale di circa 2 cm

T2 Estensione del tumore primario al duodeno, al dotto biliare o ai tessuti peripancreatici T3 Estensione del tumore allo stomaco, alla milza, al colon o ai vasi sanguigni adiacenti N0 Nessuna metastasi a livello dei linfonodi regionali

N1 Presenza di metastasi a livello dei linfonodi regionali M0 Nessuna metastasi a distanza

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1.1.2 Trattamento chirurgico del tumore del pancreas

La resezione pancreatica rappresenta oggi l’unica possibilità di cura nei pazienti affetti da cancro del pancreas ma, sfortunatamente, i primi sintomi della malattia compaiono spesso quando il tumore non è più operabile; infatti, circa il 90% dei pazienti non può essere sottoposto ad intervento al momento della diagnosi poiché il tumore risulta disseminato a livello dei linfonodi regionali o dei vasi mesenterici ed è per questo che ogni operazione deve essere necessariamente preceduta da un’esplorazione intra-addominale per escludere con certezza la presenza di metastasi al di fuori dei margini di resezione. La pancreaticoduodenectomia (operazione di Whipple) è al momento la procedura scelta per il trattamento chirurgico dell’adenocarcinoma duttale della testa del pancreas e prevede l’escissione della testa della ghiandola, del terzo distale dello stomaco, del duodeno, della cistifellea e del colèdoco; la continuità gastrointestinale viene successivamente ristabilita ma il rischio di complicanze postoperatorie è decisamente alto e circa l’80% delle morti è dovuto ad infezioni intra-addominali, perdita di bile, sanguinamento gastrointestinale ed emorragia intra-addominale [Miedema et al., 1992]. In alternativa, è possibile procedere con la PPPD (pancreaticoduodenoectomia con conservazione del piloro) che differisce dalla classica resezione di Whipple perché permette di salvare tutto lo stomaco, piloro compreso, ed anche qualche centimetro del duodeno prossimale; sebbene questa operazione mostri il vantaggio teorico di mantenere la normale funzionalità gastrica, in pochi rari casi si osservano benefici effettivi nella pratica clinica [Pitt e Grace, 1990]. Infine, la pancreatectomia totale rappresenta un’ulteriore possibilità di intervento che prevede sia la resezione della porzione distale dello stomaco, del duodeno, della cistifellea e del colèdoco sia l’escissione di tutto il pancreas, del tessuto peripancreatico e della milza; l’operazione elimina da un lato eventuali neoplasie disseminate nell’organo presenti nel 30% dei casi, dall’altro limita l’eventuale fuoriuscita del tumore che può verificarsi nel momento in cui il pancreas viene reciso. Sfortunatamente, però, la pancreatectomia totale non può essere considerata una soluzione sicura e conveniente poiché non sembra recare alcun vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto ad altri interventi; normalmente, infatti, tutti i pazienti sviluppano insufficienza del pancreas esocrino ed endocrino, resistenza all’insulina ed altre complicanze metaboliche a lungo termine [van Heerden et al., 1988].

La sopravvivenza generale nei primi cinque anni a seguito dell’operazione dipende quindi dal tipo di resezione scelto ma mediamente si aggira intorno al 5-10 % dei pazienti sottoposti ad

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10 intervento [Spencer et al., 1990; Livingston et al., 1991]; in particolare, gli indicatori di una prognosi post operatoria infausta includono presenza di metastasi linfatiche, grado istopatologico scarsamente differenziato, dimensioni del tumore maggiori di 2.5 cm e aneuploidia [Herrera et al., 1992; Porschen et al., 1993]. Dal momento che la resezione pancreatica risulta spesso impraticabile, è chiaro che l’obiettivo primario del trattamento del carcinoma pancreatico sia da ricercare nella riduzione dei sintomi ad esso associati quali ittero ostruttivo, forte mal di schiena ed ostruzione duodenale; ciò è possibile sia mediante il ricorso al drenaggio enterico-biliare, alla sezione chirurgica dei nervi splancnici che innervano i visceri addominali (splancnicectomìa) e ad altre pratiche di palliazione operativa, sia attraverso l’inserimento transtumorale di endoprotesi biliari o di un sondino con metodiche endoscopiche che non consentono ai pazienti di cibarsi per via orale ma che sollevano dai sintomi della malattia negli stadi terminali riducendo, al contempo, l’assunzione di farmaci antalgici per os [Murr et al., 1994].

1.1.3 Terapie farmacologiche disponibili

L’unico farmaco attualmente impiegato nel trattamento del carcinoma pancreatico metastatico è gemcitabina [Burris et al., 1997], somministrata una volta ogni sette giorni alla dose di 1000 mg/m2 per via endovenosa (30 minuti) per tre settimane consecutive [Sakamoto et al., 2006]. Inizialmente studiata come antivirale, gemcitabina ha mostrato una potente attività citotossica e antiproliferativa su molte linee cellulari isolate da tumori solidi ed ematologici e la sua spiccata azione antitumorale è stata confermata anche dagli esiti della sperimentazione clinica [Mini et al., 2006]. In particolare, sulla base dei risultati ottenuti da un importante studio condotto alla fine del secolo scorso, è possibile oggi riconoscere in gemcitabina un farmaco più efficace del 5-Fluorouracile (5-FU) nell’alleviare alcuni dei sintomi correlati al tumore del pancreas in stadio avanzato e nel garantire ai pazienti un modesto aumento della sopravvivenza generale [Burris et al., 1997]; per questi motivi, nel 1997 la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato gemcitabina come trattamento di prima linea dell’adenocarcinoma pancreatico locale o metastatico [Long et al., 2011].

Chimicamente, gemcitabina (2’,2’-difluoro 2’-deossicitidina, dFdC) è un analogo del nucleoside deossicitidina ottenuto a partire da citosina arabinoside (Ara-C) attraverso l’inserimento di due atomi di fluoro in posizione 2’ dell’anello furanosico (Figura 5) [Mini et al., 2006]; nonostante le numerose analogie strutturali, Ara-C e gemcitabina differiscono notevolmente sia nel

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11 meccanismo d’azione che nel metabolismo e questo rappresenta uno dei motivi per cui, tra le due molecole, l’analogo fluorurato risulta più efficace nel trattamento di molti tumori solidi [Gandhi et al., 1995].

Figura 5. Strutture di gemcitabina e citosina arabinoside (Ara-C) a confronto.

L’azione citotossica di gemcitabina è dovuta ad una potente inibizione della sintesi del DNA ed è il risultato di numerosi eventi intracellulari che vedono coinvolti i suoi metaboliti attivi [Huang et al., 1991]; gemcitabina è, infatti, un profarmaco la cui trasformazione nel citoplasma è condizione necessaria per l’espletamento dell’attività farmacologica [Mini et al., 2006], così come il suo trasporto all’interno della cellula mediato da specifici trasportatori per i nucleosidi (hNTs) localizzati a livello della membrana plasmatica (Figura 6). Anche se con diversa affinità, la molecola è substrato sia di hNTs sodio-indipendenti (hENT1 e hENT2) che sodio-dipendenti (hCNT1, hCNT2 e hCNT3) e la sua efficacia come antitumorale è in gran parte legata proprio alla loro sintesi [Mackey et al., 1998]; al contrario, come dimostrano alcuni studi pre-clinici e clinici, la ridotta espressione degli hNTs sulla membrana cellulare o l’inibizione del trasporto dei nucleosidi e dei loro analoghi all’interno della cellula possono causare una forma di resistenza intrinseca al trattamento con gemcitabina [Gati et al., 1997]. Una volta nel citoplasma, gemcitabina viene rapidamente trasformata in gemcitabina monofosfato (dFdCMP) attraverso una reazione di fosforilazione catalizzata dalla deossicitidina chinasi (dCK) e poi convertita nei metaboliti attivi gemcitabina difosfato (dFdCDP) e trifosfato (dFdCTP) [Heinemann et al., 1988]; in misura minore, gemcitabina viene fosforilata anche dall’enzima mitocondriale timidina chinasi 2 (TK2) [Wang et al., 1999]. Gemcitabina difosfato è un inibitore della ribonucleotide reduttasi (RR), responsabile della produzione di deossicitidina trifosfato (dCTP) e degli altri deossinucleotidi necessari per la sintesi e per la riparazione del DNA; la riduzione dei livelli intracellulari di dCTP rappresenta per il farmaco un’importante forma di auto-potenziamento

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12 che favorisce l’incorporazione nel DNA di gemcitabina trifosfato, metabolita con cui dCTP compete per il legame alla DNA polimerasi [Ghandi et al., 1995]. In particolare, l’aggiunta di una sola molecola di dFdCTP al filamento in via di formazione provoca una brusca interruzione del processo di sintesi del DNA poichè la DNA polimerasi, una volta inserito il deossinucleotide successivo, non è in grado di procedere con l’allungamento della catena e, allo stesso tempo, la posizione non terminale di dFdCTP impedisce agli enzimi di riparazione di rimuovere il nucleotide anomalo dal DNA (mascheramento della catena terminale) [Huang et al., 1991; Ghandi et al.,1996]. Inoltre, la massiccia deplezione di dCTP che risulta dall’inibizione della ribonucleotide reduttasi (RR) e della CTP-sintetasi (Figura 6) provoca un aumento considerevole dell’attività dell’enzima deossicitidina chinasi (dCK); questo ulteriore meccanismo di auto-potenziamento non solo favorisce una fosforilazione più efficiente della stessa gemcitabina ma consente di mantenere elevate concentrazioni intracellulari dei suoi metaboliti attivi per un tempo prolungato [Heinemann et al.,1990]. Come illustrato in figura 6, è possibile poi che gemcitabina inibisca l’enzima timidilato sintasi (TS) con conseguente riduzione dei livelli di timidina monofosfato (TMP) necessari per la sintesi del DNA [Ruiz van Haperen et al., 1995] ma la sua azione citotossica sembra essere legata anche all’inibizione degli enzimi citidina trifosfato sintetasi (CTP-sintetasi) e deossicitidilato deaminasi (dCMP deaminasi) nonché all’inserimento del metabolita dFdCTP nella sequenza nucleotidica dell’RNA; ad oggi, tuttavia, le conseguenze di questa incorporazione sulla funzionalità cellulare non sono del tutto note [Ruiz van Haperen et al., 1993]. Uno studio condotto nei primi anni duemila suggerisce, infine, una possibile interazione tra gemcitabina e topoisomerasi I, enzima che riveste un ruolo fondamentale nel processo di duplicazione del DNA dal momento che è in grado di creare delle interruzioni transitorie su una delle due catene nucleotidiche riducendo così il superavvolgimento della doppia elica; in vitro, la scissione del DNA mediata da topoisomerasi I sembra aumentare considerevolmente nelle cellule trattate con gemcitabina piuttosto che in quelle non trattate (probabilmente a causa di una maggiore stabilità del complesso topoisomerasi I-DNA indotta dal farmaco) e la rottura della doppia elica che ne consegue causa morte cellulare per apoptosi [Pourquier et al., 2002; Gmeiner et al., 2003].

Nell’ambiente intracellulare, gemcitabina viene poi trasformata nel metabolita inattivo 2’-2’-difluorodeossiuridina (dFDU) dall’enzima deossicitidina deaminasi (dCDA) [Heineimann et al., 1992]. Insieme alla reazione di conversione dei nucleotidi in nucleosidi catalizzata dalla 5’-nucleotidasi citoplasmatica (5’-NT), la deaminazione di dFdCMP a 2’-2’-difluorodeossiuridina monofosfato (dFdUMP) ad opera della dCMP-deaminasi nonchè la sua successiva

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13 trasformazione in dFDU rappresentano un’ulteriore via di inattivazione del farmaco e, conseguentemente, l’inibizione dell’enzima dCMP-deaminasi in presenza di alte concentrazioni di dFdCTP ne riduce notevolmente il catabolismo (Figura 6) [Mini et al., 2006]; infine, dal momento che né gemcitabina né dFdU sono substrati della pirimidina nucleoside fosforilasi, il farmaco non può essere ulteriormente degradato [Heineimann et al., 1992].

Il ruolo dell’enzima dCDA nello sviluppo della resistenza al trattamento non è ancora noto ma alcuni studi in vitro mostrano una possibile correlazione tra un aumento della sua attività e una riduzione degli effetti di gemcitabina; a questo proposito, si è infatti osservato che individui affetti da carcinoma pancreatico avanzato con elevata espressione della dCDA mostrano un maggiore grado di progressione del tumore primario e un ridotto tasso di sopravvivenza [Neff e Blau, 1996; Bengala et al., 2005].

Figura 6. Metabolismo, meccanismo di azione e auto-potenziamento di gemcitabina. 1,

trasporto mediato da trasportatori dei nucleotidi (hNTs); 2, fosforilazione; 3 e 4, deaminazione; 5, defosforilazione; 6, accumulo di gemcitabina trifosfato; 7, incorporazione nel DNA; 8, incorporazione nell’RNA; 9, inibizione della ribonucleotide reduttasi; 10, inibizione della CTP-sintetasi; 11, inibizione della timidilato sintasi (TS); 12, inibizione della deossicitidina monofosfato deaminasi (dCMPDA). Abbreviazioni: dCK, deossicitidina chinasi; TK2, timidina chinasi; dCDA, deossicitidina deaminasi; 5’-NT, 5’-nucleotidasi [Mini et al., 2006].

Pertanto, la conoscenza delle proprietà farmacologiche di gemcitabina e dei molteplici meccanismi di resistenza messi in atto dalle cellule tumorali ne consentono un uso più razionale

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14 sia in monoterapia che in associazione così da potenziarne gli effetti benefici riducendone, possibilmente, quelli tossici [Mini et al., 2006]; infatti, recenti studi clinici randomizzati di fase III hanno permesso di osservare come la combinazione di diversi chemioterapici antitumorali garantisca un modesto miglioramento in termini di sopravvivenza rispetto alla somministrazione della sola gemcitabina nel trattamento del cancro del pancreas in stadio avanzato. In particolare, i parametri principali solitamente valutati in uno studio clinico sono la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la sopravvivenza generale (OS); di questi, il primo rappresenta il periodo di tempo che intercorre tra la data di randomizzazione e quella di progressione della malattia, documentata mediante specifici esami, mentre l’altro viene calcolato dalla data di randomizzazione fino a quella del decesso [Gresham et al., 2014]. In uno studio clinico multicentrico randomizzato di fase III condotto su pazienti affetti da adenocarcinoma metastatico, ad esempio, si è osservato un incremento sia di OS che di PFS con il regime a quattro farmaci PEFG (cisplatino, epirubicina, 5-FU e gemcitabina) piuttosto che con la somministrazione della sola gemcitabina [Reni et al., 2005]. Come mostrato in tabella 2, un risultato simile è stato ottenuto qualche anno dopo con la terapia combinata FOLFIRINOX (acido folinico, 5-FU, irinotecano e oxaliplatino) che ha permesso a pazienti con carcinoma pancreatico metastatico di raggiungere una sopravvivenza generale mediana di circa 11 mesi ed una sopravvivenza libera da progressione di 6.4 mesi contro i 3.3 di gemcitabina; sfortunatamente però, questo studio ha evidenziato anche un notevole aumento della tossicità rispetto al trattamento con il farmaco di riferimento ed è per questo motivo che il regime terapeutico di cui sopra risulta attualmente impraticabile (Tabella 3) [Conroy et al., 2011]. Anche lo studio clinico PA.3, l’unico ad aver mostrato un significativo ma modesto incremento della sopravvivenza globale a seguito del trattamento con gemcitabina ed erlotinib (inibitore del recettore per il fattore di crescita epidermico EGFR), ha messo in luce una maggiore comparsa di effetti collaterali associati alla terapia combinata rispetto a quella con il principio attivo di prima linea per il tumore del pancreas (Tabelle 2 e 3) [Moore et al., 2007].

Considerato il ruolo chiave del microambiente tumorale nella progressione della malattia e nei meccanismi di resistenza alla chemioterapia, negli ultimi tempi si è focalizzata l’attenzione su nuovi agenti terapeutici che riconoscono proprio nei componenti dello stroma il principale bersaglio d’azione [Oettle, 2014]. Nab-paclitaxel, ad esempio, è una formulazione alternativa di paclitaxel legato a nano particelle di albumina in grado di interagire con la proteina acida SPARC sovraespressa nel cancro del pancreas e probabilmente responsabile della resistenza al trattamento con gemcitabina; più precisamente, SPARC è una proteina matricellulare che regola

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15 i processi di proliferazione, invasione e metastatizzazione delle cellule tumorali attraverso un meccanismo albumina-dipendente [Arnold e Brekken, 2009]. In un recente studio preclinico, cellule tumorali pancreatiche umane impiantate su topi sono state trattate con la combinazione nab-paclitaxel e gemcitabina e i risultati hanno evidenziato un cospicuo aumento del tasso di regressione del tumore con la terapia combinata accompagnato da un forte aumento della concentrazione intracellulare del farmaco di riferimento. Nella parte clinica dello studio MPACT, la co-somministrazione della dose maggiormente tollerata di gemcitabina e di nab-paclitaxel in pazienti con carcinoma pancreatico avanzato ha poi permesso di osservare un incremento significativo della sopravvivenza media globale (OS), della sopravvivenza libera da progressione (PFS) e del tasso di risposta al trattamento (ORR) in confronto alla monoterapia con gemcitabina (Tabella 2) [Von Hoff et al., 2011]; inoltre, i due principi attivi in combinazione sembrano causare una tossicità più maneggevole rispetto a quella legata ad altre associazioni (Tabella 3) ed anche questa evidenza rende nab-paclitaxel più gemcitabina un nuovo possibile regime terapeutico nel trattamento del tumore pancreatico avanzato [Oettle, 2014].

Tabella 2. Sopravvivenza media globale e tasso di risposta associato al trattamento con

gemcitabina e ad alcune terapie combinate oggetto di studi clinici randomizzati di fase III [Oettle, 2014].

GEM GEM/ERL FOLFIRINOX GEM/NAB-P

OS (mesi) 5.65 6.24 11.1 8.7

ORR (% pazienti) 5.4 8.6 31.6 29.2

Tabella 3. Principali eventi avversi osservabili durante il trattamento con gemcitabina o associati

ad alcune terapie combinate oggetto di studi clinici randomizzati di fase III [Oettle, 2014].

GEM GEM/ERL FOLFIRINOX GEM/NAB-P

Neutropenia 25.9 24 45.7 38

Neutropenia febbrile / / 5.4 3

Astenia / 15 23.6 17

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16 Un complesso studio di meta-analisi condotto nel 2014 ha infine permesso di confrontare, seppur indirettamente, l’efficacia e la sicurezza di molteplici terapie oggetto di precedenti studi clinici randomizzati di fase III. In particolare, per effettuare una comparazione simultanea di tutti i dati a disposizione, sono stati considerati diversi regimi chemioterapici sperimentati su pazienti con diagnosi di adenocarcinoma pancreatico metastatico sensibili alla terapia di prima linea con gemcitabina (GEM), scegliendo la stessa gemcitabina come farmaco di riferimento; sono stati poi specificati a priori sia i parametri da considerare (OS, PFS e ORR) sia gli eventi avversi da valutare, ossia neutropenia febbrile di grado 3-4, neutropenia, vomito, diarrea, astenia e neuropatia sensoriale. Dallo studio è emerso non solo un aumento statisticamente significativo di OS e di PFS a seguito del trattamento con FOLFIRINOX, PEFG, GEM/NAB-P, GEM/capecitabina, GEM/oxaliplatin e GEM/erlotinib ma anche un maggiore tasso di eventi avversi associati a ciascuna co-somministrazione rispetto alla terapia con la sola gemcitabina [Gresham et al., 2014]; l’ azione terapeutica di questi trattamenti risulta generalmente accompagnata da intensi effetti collaterali e, sfortunatamente, il solo confronto indiretto tra le varie combinazioni non consente di stabilire quale di esse sia la più efficace e la più sicura [Gresham et al., 2014]. In conclusione, questo studio di meta-analisi suggerisce che il ricorso ad una terapia di combinazione nel trattamento del cancro del pancreas in stadio avanzato, seppur costosa, possa offrire un deciso miglioramento in termini di sopravvivenza e di qualità della vita rispetto all’impiego del solo farmaco di prima scelta; allo stesso tempo, però, i risultati mettono in luce un rapporto rischio/beneficio spesso sfavorevole e sottolineano la necessità di apportare modifiche alle suddette associazioni tra farmaci oppure, in alternativa, di spingersi verso nuove prospettive terapeutiche [Oettle, 2014].

1.2 Il solfuro di idrogeno

Il solfuro di idrogeno (H2S) è un gas incolore a temperatura e pressione ambiente, dal caratteristico odore di uova marce e tradizionalmente conosciuto come un potente agente tossico in grado di causare un brusco arresto della respirazione cellulare; infatti, in qualità di agente riducente, H2S inibisce in modo non competitivo il complesso enzimatico mitocondriale citocromo c ossidasi (CcO o complesso IV) attraverso una reazione di ossidoriduzione che prevede il consumo di ossigeno molecolare [Nicholls e Kim, 1982; Cooper e Brown, 2008; Hellmich et al., 2015]. Tuttavia, se da un lato l’esposizione a concentrazioni di gas comprese tra 50 e 100 ppm può causare una riduzione reversibile della sensibilità olfattiva anche nei confronti dello stesso H2S e se quantità più elevate di solfuro di idrogeno (> 500 ppm) sono in grado di

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17 condurre in breve tempo a perdita di coscienza e paralisi del sistema respiratorio fino a morte [Hughes et al., 2009; Olas, 2014], è altresì vero che gli antichi greci e romani erano soliti fare il bagno in sorgenti sulfuree naturali per cercare rapido sollievo dai sintomi tipici di numerose patologie tra cui reumatismi, malattie della pelle e disturbi delle prime vie respiratorie. Infatti, recenti evidenze scientifiche hanno appurato che le proprietà antibatteriche, antifungine, antiinfiammatorie e vasodilatatorie delle acque contenenti zolfo sono con molta probabilità da attribuire al solfuro di idrogeno che, quando presente in quantità dell’ordine di poche decine di micromoli, esplica le sue azioni benefiche [Reigstad et al., 2003; Li e Moore, 2008; Moss, 2010]. Molti studi epidemiologici hanno inoltre riportato che una dieta ricca di composti solforati capaci di rilasciare H2S, contenuti ad esempio nelle piante edibili del genere Allium, è generalmente associata ad un discreto aumento della longevità e ad una notevole riduzione della mortalità; questa ulteriore osservazione dimostra dunque che gli effetti tossici e benefici di H2S, attribuibili alle diverse concentrazioni, costituiscono due facce della stessa medaglia e ciò giustifica ampiamente il ruolo fisiologico di una produzione endogena di idrogeno solforato a basse concentrazioni [Mulrow et al., 2000].

Nonostante sia nota da molti anni la presenza di H2S a livello dei tessuti biologici, soltanto studi più recenti hanno infatti permesso di individuare nel solfuro di idrogeno un “gas trasmettitore” endogeno coinvolto in molte funzioni fisiologiche e fisiopatologiche. In particolare, H2S esercita una spiccata azione cardioprotettiva e gioca un ruolo fondamentale nella regolazione della pressione sanguigna poiché induce rilasciamento della muscolatura liscia vascolare con un meccanismo legato principalmente alla attivazione di canali al potassio ATP-dipendenti (KATP) e voltaggio-dipendenti (Kv7) [Martelli et al., 2013a]; H2S modula, inoltre, molte funzioni dei sistemi endocrino, respiratorio, gastrointestinale e nervoso centrale e sembra svolgere effetti anti-infiammatori a basse concentrazioni e pro-anti-infiammatori a concentrazioni maggiori [Vandiver e Snyder, 2012]. In accordo con gli effetti benefici sul sistema cardiovascolare, eventuali deficit nella produzione di H2S endogeno possono contribuire alla patogenesi dell’ipertensione, favorire la formazione di trombi e causare ulteriori complicazioni associate a diabete mellito [Brancaleone et al., 2008; Grambow et al., 2014].

I primi mediatori endogeni gassosi ad essere stati scoperti sono l’ossido nitrico (NO) e il monossido di carbonio (CO), piccole molecole lipofile con emivita piuttosto breve che, come H2S, diffondono rapidamente attraverso le membrane biologiche andando ad agire su specifici target intracellulari [Wang, 2002; Kasparek et al., 2007]. Tutti i “gas trasmettitori”, la cui produzione è altamente regolata a livello endogeno, hanno la capacità di modulare numerose funzioni

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18 biologiche a basse concentrazioni ma, in maggiori quantità, possono rivelarsi potenzialmente tossici; come è noto, elevati livelli di CO impediscono il legame dell’ossigeno con l’emoglobina portando rapidamente a morte [Prockop e Chichkova, 2007] mentre NO endogeno può indurre la formazione di specie reattive dell’ossigeno provocando un danno tissutale principalmente a livello del sistema nervoso e cardiovascolare [Wei et al., 2000; Sarkela et al., 2001; Calabrese et al., 2007]. Se in eccesso, H2S può invece compromettere la respirazione mitocondriale ed essere allo stesso tempo responsabile di svariate condizioni patologiche tra cui infiammazione, ictus e setticemia [Lowicka e Beltowski, 2007; Hellmich et al., 2015]. Di fatto, a concentrazioni fisiologiche, il solfuro di idrogeno possiede tutti gli effetti benefici dell’ossido nitrico sul sistema cardiovascolare senza produrre metaboliti tossici quali, ad esempio, le specie reattive dell’ossigeno (ROS); al contrario, H2S mostra spiccate proprietà antiossidanti e citoprotettive strettamente legate alla sua natura di “scavenger” delle specie reattive dell’ossigeno [Whiteman et al., 2004]. Studi recenti suggeriscono inoltre una possibile correlazione tra le funzioni fisiopatologiche dei “gas trasmettitori” H2S e NO, seppur complessa e ancora largamente sconosciuta; tale ipotesi tende a spiegare il coinvolgimento diretto del solfuro di idrogeno nel mantenimento dell’omeostasi cardiovascolare, ruolo che diviene particolarmente importante quando l’attività di NO risulta essere compromessa e che giustifica un eventuale nesso tra la riduzione dei livelli di H2S endogeno e la progressione della disfunzione endoteliale [Hosoki et al., 1997; Kolluru et al., 2013; Testai et al., 2015].

1.2.1 Chimica e biosintesi di H

2

S

Il solfuro di idrogeno è un acido debole (pKa = 6.98 a 25°C) che, in soluzione acquosa, si dissocia in H+ e HS-; a sua volta, l’anione bisolfuro (HS-) può dissociarsi in H+ e anione solfuro (S=) secondo la seguente reazione:

H

2

S ⇌ H

+

+ HS

-

⇌ 2H

+

+ S

=

Come teoricamente prevedibile dall’equilibrio di Henderson-Hasselbach, a temperatura e pH fisiologici circa il 20% del solfuro totale esiste come acido indissociato mentre il restante 80% è presente sotto forma di HS-(Figura 7). Dato che in queste condizioni coesistono quantità significative di H2S e HS-, si presuppone che entrambe le forme contribuiscano all’effetto

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19 biologico finale del “gas trasmettitore”; al contrario, i livelli della specie ionica S= sono decisamente trascurabili poichè un’apprezzabile dissociazione di HS- richiederebbe un ambiente più alcalino rispetto a quello fisiologico [Dorman et al., 2002; Dombkowski et al., 2004; Hughes et al., 2009].

Figura 7. Dissociazione pH-dipendente di H2S in soluzione acquosa [Hughes et al., 2009].

A causa della spiccata lipofilia e delle dimensioni ridotte, H2S attraversa liberamente le membrane biologiche delle cellule di tutti i tessuti; essendo però l’anione bisolfuro altamente reattivo, la sua emivita risulta decisamente breve e le concentrazioni intracellulari di H2S/HS -rilevate in alcuni esperimenti sono nettamente inferiori rispetto a quelle misurabili in soluzione acquosa, tipicamente dell’ordine del submicromolare [Furne et al., 2008; Whitfield et al., 2008]. Il solfuro di idrogeno viene prodotto nei mammiferi sia attraverso una via enzimatica che una non enzimatica e, una volta formato, può essere immediatamente rilasciato nell’ambiente circostante oppure immagazzinato all’interno delle cellule [Wu et al., 2015].

La via biosintetica non enzimatica, meno importante, prevede la riduzione dello zolfo elementare ad H2S e vede coinvolti gli equivalenti di riduzione ottenuti dall’ossidazione del glucosio; ogni due molecole di glucosio consumate ne vengono prodotte tre di acido lattico e di anidride carbonica e sei di solfuro di idrogeno, come riassunto nella seguente reazione:

2 C

6

H

12

O6 + 6 S

0

+ 3 H

2

O → 3 C

3

H

6

O

3

+ 6 H

2

S + 3 CO

2

Oltre al glucosio, altri substrati sostengono la produzione endogena di H2S e, a questo proposito, è stato osservato che in lisati cellulari di eritrociti umani sia i trasportatori di elettroni NADH e

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20 NADPH sia il glutatione (GSH) sono in grado di stimolare la biosintesi del gas; probabilmente, il glutatione è il diretto responsabile della produzione di H2S mentre il NAD(P)H riduce il glutatione ossidato (GSSG) così da poterlo riutilizzare [Searcy e Lee, 1998; Wang, 2002].

La maggior parte di H2S endogeno deriva, tuttavia, dalla attività catalitica di due enzimi citosolici piridossale-5-fosfato (Vit.B6) dipendenti, ossia cistationina β-sintasi (CBS) e cistationina γ-liasi (CSE); l’ipotesi secondo cui CBE e CBS rappresentino gli enzimi maggiormente coinvolti nella biosintesi di questo “gas trasmettitore” è supportata da studi che dimostrano come la loro inibizione causi una cospicua riduzione dei livelli di H2S endogeno [Snyder e Vandiver, 2012]. Oltre ai due appena citati, la biosintesi di H2S vede coinvolto anche l’enzima 3-mercaptopiruvato solfotransferasi (3-MST) che agisce in combinazione con la cisteina amminotransferasi (CAT) in presenza di α-chetoglutarato [Wu et al., 2015]; poiché 3-MST mostra attività ottimale a valori di pH piuttosto elevati, non è ancora noto in quale misura esso sia responsabile della formazione di H2S endogeno [Snyder e Vandiver, 2012]. In ogni caso, tutti e tre gli enzimi sono largamente espressi nei tessuti dei mammiferi ma la loro distribuzione non è affatto omogenea. CBS, per esempio, si trova soprattutto a livello del sistema nervoso centrale e del fegato, principale organo in cui avviene la detossificazione dell’amminoacido omocisteina da cui H2S deriva, e può essere presente nel tessuto vascolare soltanto se indotto in specifiche condizioni mentre CSE rappresenta la fonte principale di H2S a livello cardiovascolare dove la produzione del gas si aggira intorno a 3-6 nmol/min/g di tessuto e deriva principalmente dalla attività della CSE endoteliale piuttosto che da quella espressa nelle cellule della muscolatura liscia dei vasi; 3-MST, invece, è localizzato perlopiù nei mitocondri delle cellule renali, epatiche, cardiache, polmonari, vascolari e nervose [Wang et al., 2003; Kamoun, 2004; Kimura, 2011; Zhao et al., 2014]. Molti fattori sia esogeni che endogeni possono poi influenzare l’attività degli enzimi CSE e CBS e, dunque, la biosintesi del solfuro di idrogeno. Nel cervello, per esempio, l’attività della CBS è strettamente regolata dalla concentrazione di ioni calcio e dalla calmodulina per cui la produzione di H2S CBS-dipendente risulta quantitativamente maggiore a seguito di un aumento dei livelli di calcio intracellulare indotto da agonisti dei recettori NMDA (N-metil-D-aspartato) e AMPA (α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isoxazolone propionato); a livello cardiovascolare, invece, la sintesi di H2S mediata da CSE sembra intensificarsi con la somministrazione di NO-donors in maniera cGMP-dipendente, evidenza che rafforza l’ipotesi di una possibile correlazione tra i mediatori endogeni gassosi H2S e NO che si traduce in un’ inibizione cooperativa delle fosfodiesterasi e nella conseguente attivazione del sistema cGMP/PKG [Zhao et al., 2003; Coletta et al., 2012].

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21 Indipendentemente dal tessuto di distribuzione, tutte queste proteine concorrono alla produzione di H2S utilizzando come substrati L-Cisteina e suoi derivati. L-Cisteina è un amminoacido solforato introdotto con la dieta o biosintetizzato a partire da L-Metionina attraverso un processo che prevede la formazione dell’intermedio omocisteina, dalla cui condensazione con una molecola di serina si ottiene il tioetere cistationina (Figura 8); a sua volta, il prodotto della reazione di trans-solfurazione catalizzata da CBS viene idrolizzato dall’enzima CSE per dare ione ammonio, α-chetobutarrato e Cisteina [Stipanuk e Ueki, 2011].

Figura 8. Biosintesi dell’amminoacido solforato Cisteina [Stipanuk e Ueki, 2011].

In ogni caso, il solfuro di idrogeno nei mammiferi può essere prodotto attraverso quattro diverse vie enzimatiche, ciascuna delle quali richiede l’intervento di specifici catalizzatori biologici. La prima via biosintetica, ad esempio, vede coinvolta la cistationina β-sintasi (CBS) che idrolizza l’amminoacido L-Cisteina per dare L-Serina e H2S in quantità equimolari (Schema 1) [Porter et al., 1974].

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22 Nella seconda via due molecole di L - Cisteina reagiscono a formare il dimero L- Cistina che viene poi scisso in piruvato, ammoniaca e tiocisteina attraverso una reazione catalizzata dalla cistationina γ-liasi (CSE). La tiocisteina, a sua volta, può essere sottoposta a due diverse reazioni di cui una di natura non enzimatica ed una di natura enzimatica; in particolare, dalla prima si ottengono L - Cisteina e H2S [Cavallini et al., 1962] mentre dalla seconda, catalizzata da CSE in presenza di composti contenenti un gruppo tiolico quali cisteina o glutatione, si formano H2S e CysS-R (Schema 2) [Yamanishi e Tuboi, 1981; Stipanuk e Beck, 1982].

Schema 2. Biosintesi di H2S: seconda via.

Nella terza via enzimatica, L-Cisteina e SO3=possono essere convertiti in L-Cisteato e H2S dalla cisteina liasi (Schema 3) [Li, Hsu e Moore, 2009].

(25)

23 Protagonista della quarta e ultima via è invece l’enzima 3-mercaptopiruvato solfotransferasi (3-MST) che riconosce come unico substrato il 3-mercaptopiruvato, uno dei prodotti della reazione tra L- Cisteina e α-chetoglutarato catalizzata dall’enzima amminotransferasi (CAT), portando alla formazione di piruvato e solfuro di idrogeno [Kuo et al., 1983]; inoltre, quando la disponibilità di ioni SO3= è elevata, CAT può convertire il 3-mercaptopiruvato in piruvato e tiosolfato (S2O3=) il quale, a sua volta, reagisce con il glutatione ridotto (GSH) per produrre H2S, SO3= e glutatione ossidato (GSSG) come mostrato nello schema 4 [Martelli et al., 2012]. Secondo alcuni autori, l’enzima può infine trasformare D-Cisteina in H2S in presenza di D-amminoacido ossidasi [Zhao et al., 2014].

Schema 4. Biosintesi di H2S: quarta via.

1.2.2 Catabolismo di H

2

S

Nei mammiferi, il solfuro di idrogeno viene metabolizzato principalmente a livello mitocondriale dove viene ossidato a tiosolfato ad opera di numerosi enzimi tra cui solfuro chinone ossidoreduttasi (SQR), zolfo diossigenasi (SDO) e solfotransferasi rodanasi [Wu et al., 2015]; attraverso una reazione che prevede la conversione del cianuro in tiocianato, il tiosolfato che si forma viene rapidamente biotrasformato dalla rodanasi in solfito e poi ossidato a sua volta

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24 dall’enzima solfito ossidasi (SO) a solfato (Schema 5) [Goubern et al., 2007; Hildebrandt e Grieshaber, 2008]. Il solfato inorganico, pur essendo il prodotto finale più stabile del catabolismo di H2S, non può essere considerato un indicatore specifico della concentrazione del gas nel sangue perché gli stessi ioni solfato possono derivare anche da altri processi tra cui, ad esempio, l’ossidazione diretta della Cisteina ad opera della cisteina diossigenasi e l’ossidazione dei solfiti di diversa origine [Li, Hsu e Moore, 2009].

Schema 5. Principale via catabolica di H2S nei mitocondri.

Una seconda via catabolica è rappresentata invece dalla metilazione di H2S da parte dell’enzima tiolo S-metiltransferasi (TSMT) con conseguente formazione di metantiolo e solfuro di metile; questa reazione avviene esclusivamente nel citoplasma e coinvolge piccole quantità di solfuro di idrogeno (Schema 6) [Wu et al., 2015].

Schema 6. Principale via catabolica di H2S nel citoplasma.

La terza via prevede infine il legame del gas alla metaemoglobina circolante per dare solfoemoglobina, molecola potenzialmente utilizzabile come biomarker della concentrazione plasmatica di solfuro di idrogeno (Schema 7) [Kurzban et al., 1999].

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25

1.2.3 Meccanismi dell’azione biologica di H

2

S

Come dimostrano i risultati di molti esperimenti, concentrazioni relativamente alte di solfuro di idrogeno (circa 50 µM) influenzano l’attività della catena respiratoria mitocondriale provocando un’inibizione non competitiva del complesso IV (o citocromo C ossidasi) [Nicholls and Kim, 1982; Volkel and Grieshaber, 1996] mentre concentrazioni inferiori (minori di 20 µM) si comportano da donatori di elettroni a livello dell’ubichinone nella catena di trasporto così da stimolare la fosforilazione ossidativa ed aumentare la sintesi di ATP (Figura 9) [Gaubern et al. 2007]. Questo particolare dualismo nelle azioni biologiche del solfuro di idrogeno suggerisce l’esistenza di un livello soglia oltre il quale gli effetti benefici vengono sostituiti da eventi citotossici che conducono a morte cellulare [Pun et al, 2010].

H2S < 20 µM H2S > 50 µM

Figura 9. Concentrazioni di H2S > 50 µM causano una completa inibizione del complesso IV della

catena di trasporto degli elettroni mentre concentrazioni di H2S < 20 µM inducono un aumento

della biosintesi di ATP stimolando la fosforilazione ossidativa a livello del coenzima Q (o ubichinone) [Pun et al., 2010].

A differenza del monossido di azoto (NO), il solfuro di idrogeno non sembra agire esclusivamente con un meccanismo mediato da nucleotidi ciclici intracellulari; piuttosto, si ritiene che l’effetto finale di questo “gas trasmettitore” sia legato principalmente all’interazione diretta con numerosi sistemi redox coinvolti nella regolazione di svariate funzioni biologiche. Infatti, in qualità di potente agente riducente, il solfuro di idrogeno viene altamente consumato da numerosi ossidanti endogeni potenzialmente dannosi quali perossinitrito (ONOO-), anione superossido (O2-), anione ipoclorito (ClO-) e perossido di idrogeno (H2O2); H2S può anche

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26 interagire con gli S-nitrosotioli per formare acido tionitroso (HSNO), i cui metaboliti NO, NO- e NO+svolgono importanti funzioni fisiologiche [Kabil et al., 2010; Zhao et al., 2014]. Un ulteriore meccanismo di azione di H2S è invece rappresentato dalla possibilità di formare con i residui cisteinici di specifiche proteine, mediante reazioni di S-sulfidrilazione, gruppi S-SH altamente reattivi capaci di alterare la funzione di svariati enzimi, canali ionici e recettori [Toohey, 1989; Snyder e Vandiver, 2012]. A livello intracellulare, l’idrogeno solforato sopprime poi la produzione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS), riduce l’espressione della proteina caspasi-3 coinvolta nel processo apoptotico e previene la caduta del tripeptide glutatione (GSH) deputato alla neutralizzazione endogena di molte specie dannose di diversa natura [Chen et al., 2009]; inoltre, per la sua natura fortemente nucleofila, H2S è in grado di addizionarsi ai doppi legami C=C per dare solfuri organici nonchè di reagire con diversi lipidi elettrofili di membrana e di legarsi agli atomi metallici di molte molecole biologiche, emoglobina compresa, con cui forma centri ferro-zolfo [Hughes et al., 2009; Schreier et al., 2010]. Nelle colture cellulari di neuroblastoma, H2S ha poi mostrato una spiccata azione citoprotettiva nei confronti dello stress ossidativo derivante non solo dall’aumento della produzione di GSH ma anche dal potenziamento dei trasportatori cistina/cisteina responsabili della distribuzione di GSH nei mitocondri [Kimura et al., 2010]; le proprietà esfolianti delle sorgenti sulfuree sembrano dovute invece alla riduzione dei legami proteici disolfuro a livello delle giunzioni cellulari dei cheratinociti [Matz et al., 2003].

Oltre ai molteplici meccanismi di azione aspecifici sopra elencati, l’idrogeno solforato esplica i suoi effetti biologici interagendo con determinati bersagli molecolari tra cui i canali al potassio ATP-dipendenti (KATP) ampiamente coinvolti nella regolazione della funzionalità cellulare pancreatica, miocardica, scheletrica e muscolare liscia; l’azione di H2S sui canali KATP risulta essere probabilmente mediata dall’interazione con i residui cisteinici 6 e 26 della subunità rvSUR1 [Jiang, 2010]. In ultimo, il solfuro di idrogeno stimola numerosi sottotipi dei canali al potassio attivati dal calcio (KCa) ed alcuni canali al potassio voltaggio dipendenti (Kv) [Henning e Diener, 2009; Martelli et al., 2013a].

1.2.4 L’effetto ormetico di H

2

S

Il termine ormesi deriva dal greco “hormáein” che significa “mettere in moto, spingere, sollecitare” ed è stato coniato nel 1943 da Southam e Ehrlich per descrivere gli effetti degli estratti dell’albero di sidro rosso sulla proliferazione fungina; più generalmente, questo

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27 neologismo viene utilizzato per indicare una risposta adattativa delle cellule in condizioni di stress moderato che si realizza con l’attivazione di specifici sistemi di segnalazione che garantiscono il corretto mantenimento dell’omeostasi permettendo, allo stesso tempo, di sfuggire a senescenza e morte [Son et al., 2008; Kouda e Iki, 2010; Martins et al., 2011]. Il fenomeno ormetico, in altre parole, viene definito come una risposta bifasica che si manifesta a seguito dell’esposizione ad un range molto ampio di stimoli e che si traduce nella comparsa di due effetti diametralmente opposti a seconda della loro intensità [Calabrese et al., 2010]; il concetto di ormesi spiega quindi il motivo per cui numerosi fattori potenzialmente tossici non solo possono risultare innocui a basse dosi ma sono anche in grado di generare una risposta biologica vantaggiosa che aumenta la resistenza cellulare nell’eventualità di una successiva esposizione a concentrazioni maggiori dello stesso agente [Martins et al., 2011]. Ad oggi, è ampiamente nota l’esistenza di una vasta gamma di composti di origine chimica, fisica o biologica (farmaci antivirali, antibiotici ed antitumorali compresi) capaci di generare risposte cellulari bifasiche in modo dose-dipendente e di indurre, a basse concentrazioni, una stimolazione cellulare generalizzabile ed altamente riproducibile [Calabrese e Baldwin, 2003; Kouda e Iki, 2010]; l’effetto ormetico di uno stesso agente, infatti, può essere espletato in diversi gruppi tassonomici e può coinvolgere svariate funzioni biologiche tra cui crescita cellulare, sopravvivenza, sintesi degli acidi nucleici, mitosi, rigenerazione tissutale e risposta immunitaria [Calabrese e Baldwin, 1998].

Il primo ad aver descritto dettagliatamente questo particolare modello dose/risposta, successivamente definito ormesi, è stato il medico tedesco Rudolf Virchow quando, nella seconda metà del secolo XIX, osservò che il movimento delle ciglia vibratili tracheali variava fortemente in funzione della concentrazione di sodio e potassio; di fatto, egli riportò un notevole aumento del battito ciliare in presenza di piccole quantità di ioni ed una progressiva riduzione della vibrazione in condizioni di maggiore disponibilità ionica [Henschler, 2006]. Alcuni decenni più tardi, il farmacologo Hugo Schulz dimostrò che basse dosi di disinfettanti chimici erano in grado di provocare un forte incremento della crescita e della fermentazione dei lieviti misurabile in base alla quota di CO2 liberata durante il processo e che alte dosi attivavano, invece, una risposta diametralmente opposta; sulla base di queste importanti evidenze scientifiche egli elaborò, insieme al medico omeopata Rudolf Arndt, la “legge dell’inversione dell’effetto” o “legge di Arndt-Schulz” che descrive l’ormesi come una modesta stimolazione di un sistema biologico a basse dosi seguita da un’inibizione ad alte dosi e che spiega come composti tossici opportunamente diluiti possano talvolta esercitare azioni benefiche, in accordo con la teoria del

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28 medico svizzero Paracelso secondo cui “Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fi” [Calabrese e Baldwin, 2000].

In contrasto con i modelli dose-risposta lineari o soglia, nel caso in cui si misurino funzioni fisiologiche quali proliferazione o sopravvivenza cellulare a seguito dell’esposizione ad un determinato agente stressogeno, le risposte ormetiche sono rappresentabili con una curva a campana (altrimenti detta ad U rovesciata o curva β); come si evince dal grafico riportato in figura 10, per alcune sostanze è infatti possibile registrare una modesta risposta stimolatoria a basse dosi che raggiunge generalmente circa il 30-60% rispetto al controllo individuando, allo stesso tempo, un livello soglia oltre al quale gli effetti espletati non risultano più benefici bensì tossici [Calabrese, 2008]. Il meccanismo molecolare alla base del fenomeno ormetico non è ancora del tutto noto ma sembra dipendere principalmente dai livelli di recettore disponibile, come normalmente accade quando un solo agonista presenta diversa affinità nei confronti di due diversi sottotipi recettoriali dei quali uno stimola un sistema cellulare mentre l’altro lo inibisce [Szabadi, 1977]. In ogni caso, la risposta ormetica può avvenire attraverso una stimolazione diretta o derivare da una iniziale alterazione dell’omeostasi cellulare cui fa seguito una modesta risposta sovracompensatoria mirata a ristabilire le condizioni fisiologiche e che risulta in una apparente stimolazione [Calabrese, 2008].

Figura 10. Esempio di una curva dose-risposta ormetica che mostra una modesta stimolazione

della risposta cellulare a basse dosi e un’inibizione alle alte dosi. 0-A: dose senza effetto osservabile (No Observed Effect Level o NOEL); A-C: zona ormetica, dove B corrisponde alla dose in grado di generare una risposta massima; C: dose senza effetto avverso osservabile (No Observed Adverse Effect Level o NOAEL); >C: dose tossica [Bao et al., 2014].

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29 I risultati di numerosi studi in vitro hanno permesso di evidenziare un simile andamento nella risposta delle cellule tumorali dopo esposizione al solfuro di idrogeno; infatti, il trattamento con H2S e suoi donatori ha messo in luce un effetto pro-cancerogeno a basse concentrazioni ed uno anti-cancerogeno a concentrazioni più elevate. In altre parole, livelli fisiologici di H2S sembrano esercitare un’azione citoprotettiva e pro-proliferativa mentre quantità decisamente più elevate dello stesso gas esplicano un effetto citotossico e anti-proliferativo (figure 11 A e 11 C). L’ipotesi secondo cui l’effetto esplicato sulla proliferazione cellulare non derivi soltanto dalla quota di gas rilasciato da molecole di sintesi ma anche da H2S prodotto a livello endogeno è confermata dai risultati di numerosi esperimenti; l’inibizione dell’enzima CBS con acido amminoossacetico (AOAA), ad esempio, provoca uno spostamento della risposta verso sinistra e, allo stesso tempo, la tossicità del donatore esogeno di H2S risulta limitata soltanto alla massima concentrazione selezionata (figure 11 B e 11 D) [Wu et al., 2015].

Figura 11. Effetto del donatore di H2S GYY4137 (lento donatore del gas) sulla proliferazione di

cellule tumorali del colon HCT116 in assenza o in presenza di AOAA. In A e B, valori positivi e negativi rappresentano, rispettivamente, un aumento o una diminuzione della proliferazione cellulare rispetto al veicolo in risposta al trattamento (p<0,05 in entrambi i casi); C e D mostrano invece l’interpretazione dei risultati in una curva dose-risposta a campana [Hellmich et al., 2015].

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1.2.5 Ruolo e produzione del solfuro di idrogeno nei tumori

Negli ultimi tempi sta prendendo sempre più forma l’ipotesi secondo cui il mediatore endogeno H2S possa essere largamente coinvolto nello sviluppo e nella progressione di molte neoplasie [Wu et al., 2015]; recenti studi hanno mostrato, infatti, un forte incremento dei livelli di H2S nei campioni di aria espirata da pazienti affetti da cancro ed un discreto aumento dell’escrezione urinaria di tiosolfato, principale prodotto del catabolismo di H2S, in relazione allo stadio della malattia [Altomare et al., 2013; Chwatko et al., 2013]. Tale osservazione suggerisce dunque una massiccia produzione del gas nel citoplasma delle cellule cancerose ad opera degli enzimi CSE e CBS, diversamente espressi a seconda della linea cellulare considerata; questa distribuzione enzimatica decisamente variabile risulta evidente, ad esempio, dalla ridotta proliferazione delle cellule tumorali del colon HCT116 a seguito del silenziamento del gene che codifica per CBS e non dopo inibizione di CSE con propargiglicina (PAG) [Szabo e Hellmich, 2013]. L’incremento dell’espressione dell’enzima cistationina γ-liasi (CSE) indotto da S-propargilcisteina (SPRC), analogo strutturale della S-allilcisteina contenuta nell’aglio, è associato poi ad una maggiore biosintesi del gas in cellule di carcinoma gastrico umano SGC-7901 [Ma et al., 2011] mentre la sua inibizione con DL-propargilglicina riduce la produzione di H2S e, di conseguenza, la proliferazione e la migrazione di cellule tumorali del colon umano SW480 [Fan et al., 2014]; inoltre, il sistema CSE/H2S sembra favorire sia la proliferazione delle cellule tumorali epatiche [Pan et al., 2014; Yin et al., 2012] sia quella delle cellule tumorali prostatiche PC-3 [Pei et al., 2011]. Anche l’enzima cistationina β-sintasi (CBS), responsabile di gran parte della biosintesi di H2S, risulta essere largamente espresso in molte cellule cancerose tra cui quelle del carcinoma ovarico [Bhattacharyya et al., 2013], del tumore della prostata androgeno-dipendente [Guo et al., 2012] e del carcinoma mammario [Sen et al., 2015]; la presenza di CBS, invece, non è stata rilevata nelle cellule leucemiche e questa evidenza sperimentale lascia presupporre che l’enzima venga prodotto esclusivamente nei tumori solidi [Zhang et al., 2005]. Sulla scia dei risultati ottenuti, lo sviluppo di specifici inibitori degli enzimi CBS e CSE potrebbe pertanto rappresentare una nuova opportunità per il trattamento di molte forme di cancro [Wu et al., 2015]. Considerato però il ruolo fisiologico di CBS, ossia quello di convertire l’amminoacido solforato omocisteina in cisteina, è lecito ritenere che la sua inibizione possa non essere del tutto scevra da potenziali effetti collaterali; l’accumulo nel plasma di omocisteina, condizione nota come iperomocisteinemia, potrebbe infatti comportare seri rischi per l’organismo tra cui aterosclerosi coronarica, malattia vascolare periferica, ritardo mentale, anomalie scheletriche, lussazione del

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