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Identita', differenza e dinamiche relazionali tra desiderio di conoscenza e paura

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione 3

I LA COMPLESSITA' DELLE RELAZIONI 5

1.1 L'incontro con l'altro e l'empatia 8

1.2 La costruzione dell'individualità 13

1.3 L'identità e l'identificazione 23

1.4 L'identità e l'alterità 27

1.4.1 La paura delle differenze 34

II IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONE NEL RAPPORTO CON L'ALTRO 42 2.1 Le relazioni di potere nella dinamica dell'apprendimento 44

2.1.1 L'autorità che crea dipendenza 47

2.2 L'uscita dallo stato di minorità 49

III RELAZIONE DI COPPIA: UOMO – DONNA 56

3.1 Patologia nei rapporti di coppia 61

3.2 Discontinuità di ruoli nella coppia 66

IV RELAZIONE GENERAZIONALE: MADRE – FIGLIO 70

4.1 Diade madre bambino 75

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V NORMALITA' E PATOLOGIA NELL'IDENTITA' E NELLE RELAZIONI 84

5.1 Patologie della personalità 86

5.2 Disturbo di personalità Narcisistico e Antisociale 88

5.3 Disturbo di personalità Borderline 98

Conclusioni 103

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INTRODUZIONE

In questo elaborato di tesi verrà analizzato il concetto di identità, la sua costituzione e il significato che ricopre.

L'identità sarà necessariamente messa in relazione al concetto di alterità, poiché senza quest'ultimo l'identità stessa non potrebbe esistere; verrà dunque parimenti analizzato il rapporto che intercorre tra questi due concetti e l'importanza delle differenze che inevitabilmente nascono tra gli individui.

Sarà quindi esaminata la complessità del rapporto che un soggetto può vivere con gli altri, seguendo diversi filoni analitici: la formazione della personalità del bambino nel rapporto con la madre, le dinamiche che sussistono nelle relazioni di coppia, e in ultimo il problema dell'educazione che spesso nasce nel rapporto con l'altro.

Nel processo dell'apprendimento infatti, che si origina tra genitori e figli, o tra insegnanti e allievi, o anche tra persone che non hanno apparentemente alcun legame tra loro, non di rado viene a crearsi una dipendenza dall'autorità di colui che detiene il “potere” del sapere, e che quindi svolge un ruolo di insegnante in questa dinamica. Questi rapporti possono trasformarsi in vere e proprie relazioni di potere, e conseguentemente in stati di dominio, nei quali chi viene sottomesso entra in uno stato di minorità, per uscire dal quale è necessaria l'acquisizione di un'autonomia e un'indipendenza intellettiva: questo stato di minorità infatti è caratterizzato dal limitato uso del proprio intelletto, che viene piuttosto plasmato e indirizzato. Venire fuori da questa condizione, rendersi dunque indipendenti, non risulta sempre facile e immediato, soprattutto perché nella gran parte dei casi la

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permanenza nella minorità viene vissuta come una condizione utile e conveniente, poiché ci si astiene da qualunque decisione o posizione.

Si esamineranno infine, le patologie ritenute più importanti che possono sorgere nell'individuo e nelle relazioni che questo intraprende con gli altri.

Alcuni disturbi di personalità infatti, come quello narcisistico o come il borderline possono compromettere in maniera significativa anche le relazioni, specialmente quelle di coppia.

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CAPITOLO I

LA COMPLESSITA' DELLE RELAZIONI

Un rapporto, in quanto tale, è formato dall'interazione tra più individui.

La complessità dei rapporti in generale è data dal fatto che bisogna tenere in considerazione non solo il comportamento dei singoli individui ma anche il comportamento di questi in relazione tra loro: ne consegue una visione globale, che tiene quindi presente la relazione nel suo complesso, nella sua interezza. Le relazioni tra persone sono il risultato di un incontro di opinioni, caratteristiche, percezioni, emozioni, esperienze passate e progetti futuri diversi e per questo inevitabilmente forieri anche di scontri, di conflitti.

“ Ogni cosa è retta dal conflitto e chi rimuove il conflitto non fa che precipitare il mondo degli uomini e delle donne nel gorgo dell'irreale. Un elogio del conflitto, lungi dal celebrare la necessità dello scontro, afferma il principio stesso della creazione e del nuovo. […]

Le azioni di una persona, di un popolo, di un qualsiasi essere vivente hanno l'unico scopo di consentire a quello stesso organismo di perseverare nel suo essere, individuale o collettivo che sia. […] Il dispiegamento dell'agire è il solo fine dell'agire, il dispiegamento delle molteplici dimensioni del conflitto è l'unico scopo del conflitto.

[…]

Solo nel dispiegarsi delle molteplici dimensioni dell'esistenza la vita può perdurare e può dispiegarsi appieno.

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Ogni elogio del conflitto è un elogio della vita. Ogni elogio del conflitto parla del conflitto come fondamento della vita ”.1

Così, dal conflitto, per esempio, tra il desiderio di possedere e consumare qualcosa e il desiderio di preservarlo per sempre, può scaturire un atteggiamento non utilitaristico nei confronti dell'oggetto in questione. Esso così può iniziare a essere considerato come un qualcosa da ammirare, ma non da consumare.

“ La nozione di conflitto è il mezzo per mantenere uno scarto tra ciò che è possibile e ciò che è permesso. L'individuo moderno è in fondo sempre in guerra con se stesso: per essere ricongiunto a se stesso deve prima essere disgiunto da sé. ”2

La condizione dell'essere soli, al di là del fatto che non richiama l'esperienza dell'aver vicino a sé qualcuno, diventa una condizione esistenziale difficoltosa poiché elimina completamente la possibilità di comunicare se stessi a qualcuno e la possibilità di avere un riconoscimento e una risposta da un altro diverso da sé: non si può essere accolti da qualcuno e non si può manifestare il proprio Io.

“ Centrati su se stessi, chiusi nel proprio guscio, si è incapaci di accogliere l'altro, offrirgli il tempo per raccontarsi, comunicargli espliciti quanto continuati messaggi di disponibilità, stimarlo nella sua singolarità di pensiero, coltivare e consolidare in lui fiducia e speranza, essere qualcuno per lui, accompagnarlo e sostenerlo nella pratica della propria libertà di 1 Benasayag M., Del Rey A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 204 – 206. 2 Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999, p. 12.

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essere e di rivelarsi secondo la sua originalità ”.3

La comprensione dell'altro infatti rende possibile il dialogo, l'incontro e l'apertura verso il mondo e per comprendere autenticamente l'altro bisogna approcciarsi ad esso senza catalogarlo o etichettarlo. Per arrivare a questa comprensione c'è bisogno di un impegno che deve tendere all'apprezzamento di una soggettività altra, portatrice di significati, valori e comportamenti inevitabilmente diversi. Bisogna tenere in considerazione che l'altro da noi ha anch'esso emozioni e percezioni alla stessa stregua di quelle provate e pensate da ognuno di noi; solo con questa presa di consapevolezza l'interazione tra individui sarà completa e veritiera, genuina e autentica.

3 Rossi B., L'educazione dei sentimenti. Prendersi cura di sé, prendersi cura degli altri, Unicopli, Milano 2004, p. 179.

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1.1 L'incontro con l'altro e l'empatia

L'incontro con l'altro è un momento fondamentale e imprescindibile della vita di tutti noi.

Una vita senza l'interazione con altri individui non è pensabile e nemmeno possibile poiché dal momento in cui veniamo al mondo abbiamo necessariamente a che fare con altri soggetti.

Anche in un caso estremo, come può essere quello dell'eremitaggio, la persona che vive da sola, in totale solitudine e lontanza dal resto del mondo, attua questo processo solo in seguito a una scelta, quella appunto di distaccarsi dall'altro da sé. In quanto scelta, dettata magari dall'esigenza di separarsi dalla società perché non soddisfatti di questa, o da motivazioni spirituali o religiose, l'eremitaggio è conseguente e successivo all'interazione con l'alterità, fenomeno questo imprescindibile e necessario per tutti.

“ Credo di amare la società come la maggioranza degli esseri viventi, e sono pronto ad attaccarmi come una sanguisuga a ogni uomo sanguigno che venga verso di me. Per natura non sono un eremita; ma potrei battere in resistenza il più incallito frequentatore di osterie, se i miei interessi mi chiamassero in quei luoghi.

Avevo tre sedie, in casa; una per la solitudine, due per l'amicizia, tre per la compagnia. Se veniva a trovarmi un maggiore e inaspettato numero di persone, c'era per tutti solo la terza sedia; ma di solito economizzavamo lo spazio restando in piedi ”.4

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Uno dei primi sentimenti e delle prime sensazioni che si provano nella dinamica interpersonale è costituita dall'empatia.

L'empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui e di portare questo stato d'animo dentro di sé, come suggerisce l'etimologia stessa della parola; deriva infatti dal greco empatheia, composto di en e pathos, ossia sentire dentro, soffrire dentro. L'empatia costituisce un vero e proprio modo di comunicare in quanto è una forma molto profonda di comprensione dell'altro. Si differenzia dalla simpatia, dalla pietà o dalla commozione essendo più complessa: questi altri sentimenti infatti sono già racchiusi nell'empatia poiché essa presuppone la capacità di commuoversi per un altro, anche sconosciuto, che si trovi magari in una situazione di difficoltà o di sofferenza.

Perché sia possibile un coinvolgimento realmente empatico è necessario penetrare nel mondo interno dell'altro individuo facendo ricorso all'analogia con il proprio, magari con un ricordo o comunque con uno sforzo emotivo in grado di farci vivere una condizione simile a quella di chi ci sta di fronte.

Alla base dell'empatia c'è la comprensione dei comportamenti dell'altro e il perché di quei determinati comportamenti; c'è la percezione delle emozioni vissute dall'altro, i suoi valori, le ideologie e le sue strutture mentali.

L'incontro con l'altro è dunque il fondamento dell'empatia stessa, incontro che in qualche modo assume le fattezze di una fusione emotiva, per raggiungere la quale è necessaria la conoscenza più intima dell'Io.

La relazione con l'altro, dal primo incontro, porta dentro di noi nuovi sentimenti, nuove percezioni, e in alcuni casi nuovi affetti.

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quali dare valore e qualità; perciò si guarda a questo tipo di emozioni come a realtà in grado di svolgere funzioni provviste di una loro logica, di un loro fine.

“ Va affermandosi infatti il convincimento che per la vita personale e sociale si avrebbe senz'altro un progresso a seguito della nascita di una nuova consapevolezza del ruolo, della funzione e della natura dei fenomeni affettivi e di una loro conoscenza e interpretazione da parte delle persone ”.5

Per questi motivi l'affettività è vista essere come il fondamento della vita psichica, come un fattore di fondamentale importanza per la formazione del senso del Sé e della costruzione della coscienza dell'Io; avere a cuore la dimensione affettiva significa voler consolidare i processi di singolarizzazione della persona, e di conseguenza, i processi di interazione tra le persone.

L'affermazione dell'Io, l'autoformazione della persona e della propria autonomia infatti porta a una maggiore consapevolezza nel momento in cui si decide di intraprendere una relazione interpersonale. Le radici dell'identità possono essere individuate nelle emozioni e nei sentimenti, nell'affettività in generale, e nella loro individuazione si trovano le premesse per conoscere se stessi e l'altro, per accettare la propria individualità e quella altrui.

D'altra parte un'inadeguata formazione affettiva può determinare squilibri interiori e conseguenti difficoltà di interazioni con l'altro da sé.

Nella formazione del carattere personale la sfera affettiva riveste dunque un ruolo di primaria importanza e “un'educazione dei sentimenti” è per questo una priorità

5 Rossi B., L'educazione dei sentimenti. Prendersi cura di sé, prendersi cura degli altri, cit., p. 19.

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nell'iter della costruzione della propria identità.

L'identità, infatti, non è un qualcosa di contenuto in noi fin dalla nascita che cresce in maniera spontanea, ma è frutto di un lavoro di costruzione e rifinitura che si nutre di diversi modelli: persone che circondano l'individuo a partire dalla famiglia d'origine, l'ambiente formativo come la scuola, le amicizie, gli affetti, le istituzioni. Tutti questi modelli vengono inglobati e successivamente rielaborati sotto la spinta di variabili ideali dell'Io.

Anche la letteratura e la cultura in genere svolgono un ruolo fondamentale nella personalità di ciascuno. Il lettore per esempio quasi sempre si immedesima in qualche personaggio che ritrova nei romanzi, o in quelli che va a vedere a teatro o al cinema.

Una dinamica che molto spesso accade all'individuo che incontra il mondo della finzione letteraria o teatrale o cinematografica, ma anche il mondo musicale o artistico in generale è infatti quella di non sentirsi unico e di creare alias e personaggi che risultano essere variazioni dell'Io: questo processo non è una mera invenzione di interlocutori immaginari ma diventa una vera e propria penetrazione nel cuore della creazione artistica. L'arte in genere infatti consente all'individuo di sperimentare, di poter diventare qualcuno di diverso da se stessi, per poi ritornare da dove si è partiti senza conseguenze negative.

Leggendo un libro, assistendo a uno spettacolo teatrale, guardando un quadro o ascoltando un brano musicale capita di calarsi interamente in un luogo che non è fisicamente quello in cui l'individuo si trova e ci si dimentica della propria identità: si empatizza completamente con l'essenza artistica della rappresentazione a cui si sta partecipando.

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“ L'individuo non è un atomo sempre uguale a se stesso, né un essere autosufficiente. È piuttosto un baricentro mobile di relazioni molteplici e variabili sia con se stesso sia con altri (sebbene nel crescere l'influenza di modelli esterni generalmente diminuisca e la forza sintetica dell'io, la coerenza della personalità e l'inerzia statica delle abitudini si consolidino e ne stabilizzino maggiormente la personalità). […] Quanti più sono i repertori di modelli a disposizione, pronti per essere imitati, tanto più complessa è la trama dell'identità personale e, quanto più imprevedibile diventa il mondo, tanto più assume rilevanza il compito di individuare e fissare il perno su cui far ruotare la propria identità. Questa deve costantemente aggiornarsi e “ricaricarsi” [...] ”.6

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1.2 La costruzione dell'individualità

Chi è esattamente “l'altro”, colui che è “fuori di noi”?

Per definire l'altro da sé bisogna capire prima di tutto chi è l'individuo.

Il concetto di individuo è spesso legato a quello di reale, è un concetto funzionale a stabilire il tipo di uomo più adeguato ad attualizzare un processo inteso a riprodurre la realtà, un uomo quindi conforme alla realtà stessa.

Letto in quest'ottica l'individuo rimane al servizio della realtà e si uniforma ad essa, invece di crearla e dinamizzarla secondo la sua volontà.

“Individuo” sta in effetti a significare qualcosa di non ulteriormente divisibile, qualcosa dunque di statico e immobile nel tempo. Ma questa concezione porterebbe a pensare che l'individuo esista a prescindere dal contesto in cui è inserito e che questo contesto non influisca sulla sua formazione.

L'esistenza degli altri individui rende invece il concetto stesso di individuo dinamico, sinonimo di “divenire” piuttosto che di “essere”.

“ L'individuo è il risultato emergente di un processo e la sua configurazione dipende strettamente in ogni momento dato dalle esperienze che vive nei contesti con i quali viene a contatto. Peraltro, ciò non significa assolutamente negare che esista un nucleo non ulteriormente divisibile in ciascun individuo in cui consiste ciò che è propriamente individuale, né che tale nucleo sia ininfluente o superfluo. […] Esiste un nucleo non ulteriormente divisibile e unico all'interno di ciascuno di noi e questo nucleo è ciò che propriamente ci distingue da tutti gli altri esseri umani, ciò che ci rende irriducibilmente diversi l'uno dall'altro per quanti caratteri possiamo individuare che ci

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accomunano ad altro. Il punto è piuttosto che questo nucleo non è sottoponibile a indagine razionale, per il banale motivo che ciò presupporrebbe la possibilità di dare per scontato fin dall'inizio ciò che invece dovrebbe costituire il risultato dell'indagine razionale. Si dovrebbe infatti presupporre che esistano elementi condivisi fra gli infiniti nuclei individuabili prima di individuarli, ma ciò potrebbe inficiare l'indagine fin dal principio, non da ultimo perché un tale giudizio confuterebbe proprio l'assunzione che tali nuclei siano irriducibili l'uno all'altro ”.

La realtà circostante quindi, composta da altri, è il presupposto fondamentale per la costituzione dell'individuo, che in essa si crea e si trasforma.

L'interazione tra l'individuo e l'ambiente che lo circonda è la base per la formazione delle esperienze: ci si avvicina a qualcosa che non si conosce poiché non si è mai incontrato prima, si esperisce e poi si tirano le somme di ciò che è accaduto. È questo iter a rendere l'individuo dinamico, un soggetto in grado di mutare a seconda delle interazioni che avvengono nel corso della sua vita.

“ L'esperienza avviene nel momento della sovrapposizione tra il sé e l'altro da sé. […]

É infatti questo incontro a costituire la condizione di possibilità dell'esperienza, persino quando l'altro coincide con una parte del sé, come avviene nel caso della cosiddetta esperienza interiore ”.7

Il fattore quindi che determina questa dinamica è proprio l'interpretazione di

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esperienze che non possono essere previste o programmate ma avvengono in virtù dell'incontro con l'altro, e quindi dell'esistenza dell'altro.

La relazione che viene a crearsi con l'altro diventa condizione necessaria per la costruzione della propria identità individuale. Una madre, ad esempio, non è tale finché non mette alla luce un figlio: la sua identità di madre quindi si concretizza nel momento della nascita di questa relazione.

“ Finché l'interazione non è concretamente vissuta la funzione che l'individuo vi ricopre resta una mera potenzialità. Si potrebbe allora affermare che l'individuo è un fascio di potenziali funzioni che si dispiegano nel corso del tempo diventando concrete man mano che egli attualizza le relative interazioni, cristallizandole in relazioni. Per far questo tuttavia egli ha sempre bisogno dell'altro da sé ”.8

Questa “dipendenza” dalle relazioni con l'altro per la costruzione della propria individualità porta inevitabilmente a pensare che la propria persona sia in continua evoluzione e continuo mutamento nel tempo, poiché le relazioni stesse cambiano e le interazioni che l'individuo si trova ad affrontare con l'altro non saranno mai identiche.

Ma, allora, in che misura l'individuo dipende dalla relazione se la stessa relazione è composta dagli individui? Il mutamento delle interazioni si verifica perché alla base si sarà venuto a creare un cambiamento degli individui che compongono e danno vita a quella relazione e che sono quindi i soggetti protagonisti delle interazioni.

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La relazione è sempre da intendersi in quanto frutto della commistione di più individui, e sarà determinante per la creazione dell'identità dei singoli in virtù della sua dinamica interna di unione tra i soggetti. La dipendenza è quindi relativa sempre all'altro da sé e non all'interazione in quanto tale.

La stessa questione si può porre per quanto riguarda la connessione che c'è tra l'individuo e la realtà: in che relazione si trovano questi due elementi? É l'individuo a creare la realtà o è la realtà che influenza lo sviluppo dell'individualità del soggetto?

Secondo Monceri la realtà non esiste di per sé ma solo in dipendenza del fatto che quel particolare oggetto ha rilevanza per l'individuo.

“ Quel che nego è di poter dimostrare che la realtà esista di per sé e in particolare che possa essere costruita un'argomentazione razionale tale da dimostrare incontrovertibilmente che la penna abbia un'esistenza ulteriore rispetto al fatto che essa esiste per me, che essa sia in altri termini quell'oggetto specifico la cui essenza coincide piuttosto con le caratteristiche che di esso hanno rilevanza per me.

In altri termini, nego che possa darsi una corrispondenza non ulteriormente dubitabile fra la penna per come io la definisco e la penna per come essa è. […]

Quando affermo che si conosce soltanto ciò che si crea non intendo dire che conosciamo solo quel che prima non c'era e che noi stessi abbiamo creato dal nulla, quanto piuttosto che conosciamo soltanto ciò che siamo in grado di ricavare, letteralmente costruendolo, a partire da un materiale dato e che per noi, fino all'attualizzazione del processo, non esiste.

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Il non essere è propriamente ciò che c'è, benché questo suo non essere si configuri come tale soltanto per noi esseri umani, che non possiamo percepirlo per come esso è, essendo piuttosto costretti a cavarne fuori una forma adeguata alle nostre strutture, proprio come uno scultore la crea dal marmo, in realtà piuttosto costruendola. […]

Dunque la nostra opera creativa consiste nel ridurre in nostro potere quelle parti di divenire che siamo in grado di percepire sulla scorta dei nostri individualissimi strumenti, conferendo a una loro particolare configurazione lo status di essere, ossia trasformandoli nella nostra realtà. […] Ancora, il fatto che tutti noi riteniamo che gli oggetti siano reali, che le idee siano reali, che i valori siano reali potrebbe venirci in aiuto per stabilire la corrispondenza soltanto se potessimo eliminare il riferimento obbligato a impedire una decisione definitiva sull'esistenza della realtà. Se noi abbiamo accesso alla realtà soltanto attraverso il filtro delle nostre strutture, come potremmo emettere un giudizio di fatto definitivo su di essa, visto che non abbiamo altri strumenti oltre ai nostri? ”.9

Un discorso analogo può essere sviluppato per quanto riguarda la connessione tra l'individuo e la verità, ciò che quindi è reale e considerato “vero”.

Che cosa si intende per verità? Questo concetto è relazionabile a quello di realtà, poiché la verità ha un senso solo se messa in condizione di essere reale.

“Perché sia tale la verità di una qualsiasi affermazione deve coincidere, perlomeno in misura necessaria e sufficiente con una qualche realtà di fatto, persino quando […] si vuol dimostrare la verità di qualcosa che è per 9 Monceri F., Pensiero e presente. Sei concetti della filosofia, cit., pp. 44 - 55.

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definizione estraneo al mondo dell'esperienza comunemente intesa. Verità e verificabilità […] si implicano sempre in una qualche misura, perché l'unica garanzia della correttezza di un concetto o di una proposizione che collega concetti consiste nella possibilità di rintracciare nella realtà per come essa è una qualche corrispondenza (che diviene mancata nel caso della falsificabilità) ”.10

Ogni verità è dunque tale se esiste una corrispondenza con la verificabilità dell'enunciato in questione; inoltre la stessa corrispondenza tra i due elementi, per essere tale, deve necessariamente avere la connotazione di “vero” e questo implica che la verità e la verificabilità non possono essere scollegate tra loro.

Le verità dipendono però sempre dagli individui, dal momento che sono essi a poter e dover effettuare la verifica di tale corrispondenza: in questo senso la verità acquisisce la caratteristica di giudizio di valore, giudizio che sarà appunto dipendente esclusivamente dal valore che gli verrà attribuito dal soggetto.

“ Al posto della verità esistono le infinite puntuali verità dei singoli individui nonché un numero finito di verità altrettanto puntuali sulle quali in qualche modo ci si accorda, senza che sia mai possibile per nessuna di esse assurgere al rango di unica verità incontrovertibile e durevole nel tempo. Ciò equivale ad affermare che la verità non è un giudizio di fatto, quanto piuttosto un giudizio di valore, consistente in un tener per vero qualcosa come se esso corrispondesse a una qualche realtà indipendente da colui o coloro che la costruiscono.

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[…] Il processo conoscitivo umano procede dal valore al fatto, perché il giudizio di valore è il presupposto della discriminazione che distingue ciò che rileva da ciò che non rileva. Esso è un giudicare la cui essenza consiste nello stabilire che ciò che viene discriminato, separato dal resto del divenire concreto, assume rilevanza per l'individuo che giudica in uno spaziotempo dato ”.11

Lo scopo ultimo delle verità è, per l'individuo, quello di poter contare sull'efficacia e l'adeguatezza degli enunciati che costruisce; in caso contrario infatti non si potrebbe verificare l'interazione tra sé e l'ambiente circostante, con la conseguenza del non funzionamento dell'intero suo sistema di vita.

Per questo motivo si ha bisogno della verità, che inevitabilmente ha a che fare con la realtà in cui è inserito l'individuo.

Per “costruire” l'immagine del mondo infatti l'individuo opera sulla base di una continua discriminazione tra ciò che per lui è rilevante e ciò che non lo è, e in questa differenziazione ha ragione di esistere il giudizio di valore.

In questa dinamica si inserisce l'elemento che diversifica le interazioni tra i soggetti e il contesto in cui si trovano: non tutte le interazioni saranno uguali e soprattutto non tutti gli individui accoglieranno in sé queste interazioni alla stessa maniera.

“ Tutte le ricostruzioni dell'ambiente che vengono effettuate a partire dall'esperienza sono finalizzate alla possibilità di operare efficacemente al suo interno e dunque si deve poter presumere che esse siano vere ossia 11 Monceri F., Pensiero e presente. Sei concetti della filosofia, cit., pp. 107 - 113.

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costruite in modo tale da poter essere validamente impiegate nelle interazioni. La loro correttezza – che consiste in definitiva la loro verità – dipende dalla loro capacità di funzionare in modo tale da permettere la realizzazione delle aspettative che il singolo individuo si forma sull'ambiente, con il minor margine possibile di errore ”.12

Lo stesso si verifica anche a livello intersoggettivo, quando cioè l'individuo ha a che fare con altri soggetti. Quando infatti si viene a creare una sorta di accordo tra più individui si creano dei modelli, riconosciuti a livello sociale; per attuare questo passaggio però è necessario che i giudizi di valore siano riconosciuti e “approvati” dai più, arrivando così alla creazione di convenzioni sociali ammesse dalla maggioranza degli individui.

“ Perchè tale accordo possa emergere è necessario che il singolo individuo sia disposto a modificare la propria interpretazione del mondo per adeguarla alla visione del mondo altrui, dunque che sia disposto in primo luogo a declinare le proprie generalità, ossia a identificarsi in modo comprensibile ad altri, il che significa a sottolineare gli elementi che lo rendono simile ad altri, piuttosto che diverso ”. 13

La costruzione di questi modelli sociali è necessaria agli individui per sopravvivere nell'ambiente in cui si trovano: l'identità come istituzione sociale consiste proprio nella formazione di queste convenzioni che servono all'uomo per interfacciarsi con gli altri individui. Nella sostanza si tratta di una selezione di 12 Monceri F., Pensiero e presente. Sei concetti della filosofia, cit., p. 108.

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caratteri tipici che concorrono a configurare un determinato tipo di uomo portatore di una specifica identità.

“ L'origine di una qualsiasi istituzione sociale può essere rintracciata nella necessità per gli individui di costruire criteri o regole orientativi per la sopravvivenza nell'ambiente, adeguati alla loro struttura cognitiva e che permettono loro di evitare il maggior numero di conflitti, i quali sono sempre provocati dalla percezione della diversità, vale a dire di uno scarto fra il sé e l'altro da sé. […] La possibilità dei modelli identitari di funzionare dipende proprio dalla loro capacità di minimizzare l'incidenza della diversità, dunque dal riconoscere il relativo individuo come membro di una classe, piuttosto che come un elemento non collocabile in nessuna classe.

[...]

A livello intersoggettivo una delle conseguenze di tale funzione riduzionistica e normalizzatrice dell'identità consiste nella necessità di imporre il relativo modello all'individuo identificato per suo tramite, dunque di convincerlo ad accettare di autoidentificarsi nei suoi termini, rinunciando almeno in parte alla propria diversità ”.14

“ […] E qui sta uno dei mutamenti decisivi delle nostre forme di vita, dal momento che queste nuove forme di regolazione non sono una scelta privata di ognuno di noi ma una regola comune, valida per tutti, pena l'emarginazione. Esse attengono allo spirito generale della nostra società, sono le istituzioni del Sé. […] L'individualismo democratico gode della singolarità di fondarsi su un doppio ideale: essere una persona in sé e per sé 14 Monceri F., Pensiero e presente. Sei concetti della filosofia, cit., pp. 87 - 91.

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– quindi un individuo – in un gruppo umano che matura in sé il senso della propria esistenza – quindi una società.”15

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1.3 L'identità e l'identificazione

L'identità è ciò che caratterizza ogni singolo individuo.

Un individuo è un essere umano riconosciuto nella sua individualità e nella sua unicità. Questa centralità degli esseri umani è espressa dal fatto che gli individui sono portatori di un insieme specifico di caratteristiche e valori socialmente riconosciuti.

Non ci sarebbe però individualità se ognuno di noi non fosse capace di distinguere un individuo da un altro e per raggiungere tale obiettivo è necessaria la facoltà di riconoscere.

“ Il riconoscimento di un particolare individuo è la premessa necessaria per poter trattare ciascuno in modo diverso, in base al suo aspetto, al suo comportamento presente e passato […]; la maggior parte delle persone sono per ognuno di noi prive di significati emotivi particolari. Ce ne sono alcune però verso i quali non siamo emotivamente indifferenti […]. L'emotività dunque, guidata dal riconoscimento e dalla conoscenza delle caratteristiche di ogni singolo, porta alla definizione di individualità ”.16

Ciascuno di noi è al centro di una rete di rapporti cognitivi ed emotivi che individua un certo numero di esseri umani singoli; ci si trova dunque di fronte a una doppia valenza di individualità: la pluralità degli io, ossia dei mondi interiori appartenenti ai singoli individui, e la pluralità degli individui riconosciuti come

16 Boncinelli E., Io sono, tu sei. L'identità e la differenza negli uomini e in natura, Mondadori, Milano 2004, p. 147.

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tali da ciascuno di noi.

Il singolo io dunque riconosce i vari individui l'uno dall'altro e li tratta in maniera specifica e diversa.

Questa dinamica che intercorre tra un singolo e un altro singolo si basa sul concetto di diversità, poiché l'identità è costituita per sua natura da caratteristiche individuabili, che rendono ogni singolo diverso dall'altro: diversità è in questo caso da intendersi in quanto differenziazione tra identità.

Di fatto l'identità è finalizzata esclusivamente all'interazione con gli altri; per gli altri infatti non è importante sapere chi io sia nel mio complesso ma solo come io mi situi relativamente a loro.

A livello personale il riferimento all'identità non è necessario perché l'elaborazione delle caratteristiche che trasformano un individuo generico in quel particolare individuo non interessa il singolo in questione ma diventa necessario solo nel momento in cui egli entra in relazione con gli altri.

Questo starebbe a significare che l'esistenza dell'individuo è volta esclusivamente all'interazione con gli altri, e a questo scopo sarebbe rivolto anche il rapporto con se stessi: in effetti per il singolo, l'identità risulta essere un processo dinamico fatto da continue costruzioni di sé per comprendere fino in fondo le peculiarità del proprio essere, ma l'obiettivo ultimo di questa comprensione rimane quello di comportarsi in una determinata maniera con gli altri in base al proprio e personale Io.

L'individuo infatti si relaziona con il mondo esterno in concordanza al suo modo di essere, che, allo stesso tempo, non può prescindere dal mondo esterno.

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dall'ambiente circostante, ma non separandosi da esso. Per poter vedere noi stessi come altri dobbiamo conoscere e comprendere la natura complessa dei confini e delle cornici al cui interno siamo diventati tali da poter affermare di essere quello che siamo.

Questi aspetti però diventano parte integrante del processo di costruzione, non sono il fine per cui l'individuo debba decidere come modellare la sua identità.

“ Il significato di identità fa riferimento a ciò che è identico a se stesso nel concreto individuo, che è/ha/diventa quell'identità ”.17

L'identità del singolo deve avere a che fare con la sua totalità e quindi sono fondamentali allo scopo di costruire quest'identità tutte le differenze del singolo: sono questi gli elementi che rendono l'individuo quello che è, ossia identico a se stesso in maniera unica nel corso del tempo.

“ Abbiamo bisogno del permanere dell'identità nel tempo, della conservazione del passato grazie alla memoria, ma altrettanto, e indissolubilmente, dell'apertura al nuovo per mezzo del pensare e dell'agire, un nuovo cui si accede a partire dall'abbandono delle configurazioni di quel che eravamo. L'equilibrio è precario, ma nonostante ciò riusciamo di norma a ritrovare alcune tracce del cammino che riconduce alle nostre molteplici incarnazioni psichiche durante un'unica vita ”.18

Il fatto che la definizione di identità sia funzionale solo al rapporto con gli altri e 17 Monceri F., Oltre l'identità sessuale. Teorie queer e corpi transgender, ETS, Pisa 2010, p. 33. 18 Bodei R., Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, cit., p. 79.

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non interessi invece al singolo diventa fondamentale proprio perché senza questa costruzione l'individuo non potrebbe far parte di un qualsiasi gruppo poiché senza identità non potrebbe essere riconosciuto dal gruppo, che è a sua volta formato da individui che si riconoscono nell'insieme delle caratteristiche diffuse e condivise e si identificano in queste.

L'identità, intesa come dinamica di relazione con l'altro, dipende dall'identificazione poiché il singolo identifica se stesso in un modello, in un criterio, di identificazione appunto, che lo metterà in relazione all'altro singolo, al gruppo, alla società.

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1.4 L'identità e l'alterità

L'identità è strettamente connessa all'alterità.

Il termine identità infatti da un lato è il veicolo di un'autoaffermazione, esprime cioè uno dei modi attraverso cui viene rivendicata la particolarità di una posizione; dall'altro, quest'autoaffermazione è sempre rivolta verso l'altro, come accade ad esempio nella dinamica di autoaffermazione e di distinzione di un gruppo, di un popolo, di una comunità religiosa, di una società: ci si rivolge sempre all'altro da sé per affermare la propria identità.

Il concetto di identità dunque rimanda a un'alterità, a quell'altro che delimita e da cui viene determinato.

“ Qualcosa viene espresso nei termini di identità nella misura in cui si cerca di ritagliare il suo spazio rispetto ad altro e in relazione con altro ”.19

L'esperienza dell'identità è quella di un fenomeno che è sempre rispetto a qualcuno o qualcosa di altro, non è quindi un segno di isolamento come si potrebbe pensare, come elemento di chiusura in se stessi, ma un accadimento, un concetto da accogliere nei termini di un rapporto e quindi di un rapporto con l'alterità.

L'autosufficienza del concetto di identità non ha ragione di esistere dato che il significato di identità si rivela nella sua totalità solo nel momento in cui viene espresso davanti “ad altri”: l'identità vive solo grazie all'alterità.

19 Fabris A., Identità e alterità. Una prospettiva filosofica, in Fabris A., Ferrucci F., Giomi E., Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro. Identità e diversità a confronto, Lavoro, Roma 2006, p. 20.

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Anche nel momento in cui semplicemente capita di guardare l'altro da sé, si riveste l'altro inevitabilmente di se stessi; idealizzandolo, ad esempio, gli si attribuiscono parti di sé che afferiscono al proprio ideale dell'Io, o anche, viceversa, usando l'altro come specchio delle proprie parti indesiderate, trovando quindi in esso atteggiamenti o caratteristiche ritenute negative che però vengono riscontrate anche nel proprio Io e che si vogliono eliminare o quantomeno migliorare.

L'alterità, in funzione della costruzione del concetto di identità, può assumere una doppia specificità; da una parte infatti è considerata in quanto autoaffermazione dell'identità ma da questa autoaffermazione l'alterità è esclusa poiché è solo funzionale al processo di “imposizione” dell'identità senza farne effettivamente parte: questa visione assume una valenza negativa dal momento che l'altro viene considerato e valorizzato solo a partire dalla sua esclusione. L'autoaffermazione dell'identità quindi arriverà a conclusione grazie alla negazione dell'altro, che è fondamentale in questo iter ma esclusivamente perché poi da questo processo ne dovrà uscire.

Dall'altra, invece, l'alterità è chiamata in causa semplicemente come occasione della riconferma dell'identità. La sua funzione è quella di rispecchiare le posizioni dell'individuo, senza poterle mettere in discussione. L'altro in questo caso è destinato a soccombere e a esistere solo in funzione di “riflesso” dell'identità; anche in questa circostanza l'alterità è funzionale all'identità ma in maniera del tutto passiva: l'identità esiste perché l'altro ne dà la conferma.

A ogni modo, in entrambi i casi l'identità risulta tale esclusivamente grazie all'esistenza dell'altro.

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L'alterità inoltre porta con sé la questione della comunicazione; esiste infatti una stretta connessione tra il concetto di comprensione e quello di “altro”.

La comprensione implica necessariamente l'elemento di alterità perché la comunicazione, a seguito della quale si verifica o meno la comprensione, si attua sempre tra più soggetti, e quindi tra l'individuo e l'altro da sé.

La comprensione però è molto spesso un'utopia perché credere di poter comprendere un'altra persona è sempre una mera assunzione di principio.20

In effetti non si può mai avere la totale certezza di cosa l'altro intenda e pensi realmente: qualsiasi atto di comprensione contiene delle componenti della propria prospettiva proiettata sull'altro ed è per questo che molto spesso la comunicazione diventa problematica, quando l'altro, e dunque l'elemento di alterità, viene ridotto alla rappresentazione che noi creiamo di esso.

Il rapporto con l'altro in generale, crea inoltre delle dinamiche di “dipendenza” comportamentale nell'individuo: noi assumiamo degli atteggiamenti di un tipo invece che di un altro se sappiamo di essere visti, ad esempio. Oppure proviamo vergogna di un'azione se sappiamo che quella stessa azione è stata notata da qualcuno al di fuori di noi.

La vergogna, infatti, incorpora concezioni relative alla natura di un individuo e dei rapporti che intrattiene con gli altri.

“ La vergogna non dipende solo dall'essere visto ma dell'essere visto da qualcuno che ha una certa opinione. Senza dubbio l'opinione dell'osservatore non deve necessariamente essere critica: per esempio ci si può vergognare di 20 Fabris A., Identità e alterità. Una prospettiva filosofica, in Fabris A., Ferrucci F., Giomi E.,

Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro. Identità e diversità a confronto, cit.

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essere ammirati dal pubblico sbagliato nella maniera sbagliata. […]

Le reazioni degli altri non dovrebbero influenzare le conclusioni morali di un individuo, a meno che non favoriscano la ragione o l'illuminazione ”.21

La vergogna può essere considerata come un' “emozione sociale” in quanto richiede necessariamente non solo il riferimento a sé ma anche al giudizio degli altri. La condizione necessaria della vergogna è proprio l'esposizione di se stessi all'osservazione di un altro e ci si può vergognare di qualsiasi cosa, anche del fatto stesso che ci si vergogna.

La vergogna può, ad esempio, essere conseguente a un fallimento di tipo professionale o personale. Il fallimento, inoltre, non riguarda esclusivamente lo scopo di corrispondere all'immagine di sé che si vorrebbe presentare, ma quello di corrispondere alla pretesa di essere capaci di raggiungere questo scopo. In entrambi i casi, comunque, si tratta di relazionare il senso della vergogna all'immagine del proprio Io rispetto a un altro diverso da sé.

Il senso di vergogna può scattare in seguito a una violazione dell'intimità: il fatto stesso di essere vestiti denota l'implicito diritto di proteggersi dallo sguardo altrui.

“ La vergogna è spesso necessariamente pubblica, ad esempio la vergogna amorale o l'imbarazzo, generati da comportamenti incongrui in una data situazione sociale […]. Naturalmente una persona può vergognarsi, quando è sola, rivivendo un incidente di cui è stata vittima, ma gli altri sono fisicamente assenti, non mentalmente. […]

E' tuttavia pur vero che non basta la presenza degli altri e nemmeno il loro 21 Williams B., Vergogna e necessità, Il Mulino, Bologna 2007, pp, 99 - 111.

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ruolo attivo di umiliatori per generare la vergogna in quanto, in tale esito, sono necessarie altre condizioni […]: innanzitutto occorre che gli altri da cui si è osservati siano importanti, cioè che si tenga al loro giudizio; in secondo luogo occorre che ciò che si vorrebbe, o non vorrebbe, mostrare sia importante, cioè si riferisca a un valore personale; infine occorre la condivisione dei valori fra chi si vergogna e gli altri di fronte a cui ci si vergogna o che fanno sì che ci si vergogni. […]

Se è possibile un puro vergognarsi di fronte a se stessi, in una sorta di divisione dell'Io fra un Sé che guarda e un Sé guardato, come davanti a uno specchio, […] tuttavia la vergogna è ben più devastante se ciò di cui ci si vergogna viene scoperto da altri ”.22

La vergogna ha una funzione anche protettiva della propria identità poiché diventa una sorta di avvertimento del potenziale pericolo di diventare un mero oggetto nelle mani dell'altro. Permane, dunque, la sua componente sociale in quanto la relazione con l'altro non scompare, ma in questo caso il senso di vergogna funge da richiamo alla propria separatezza e quindi all'affermazione della propria identità.

La relazione con l'altro nella dinamica del senso di vergogna è molto rilevante: nella vergogna, infatti, l'altro ha un ruolo attivo in quanto ricopre le vesti di un giudice che osserva e chi si vergogna, invece, è posto nel ruolo passivo, nel ruolo di colui che viene “umiliato” per quel qualcosa che ha commesso o subìto e che ha provocato in lui la vergogna.

Considerando, dunque, l'importanza che riveste l'altro nella vergogna si capisce 22 Battacchi M. W., Vergogna e senso di colpa. In psicologia e nella letteratura, Cortina, Milano

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anche perché la vergogna possa addirittura diventare distruttiva; in effetti la vergogna nasce dalla constatazione dell'impotenza a far valere le proprie pretese e le proprie posizioni e ha la natura di una risposta a una dichiarazione (di adeguatezza, capacità, dignità) che in qualche modo viene smarrita.23

A questo poi si aggiunge anche una finalità effettivamente costitutiva dell'identità perché la vergogna costringe a prendere coscienza di sé e a conoscersi attraverso ciò che si è per gli altri. Quest'accezione fa sì che la vergogna svolga anche una funzione positiva, al contrario della distruttività che il più delle volte viene attribuita alla vergogna e alla visione di questa come esperienza dolorosa e negativa in quanto produttrice di effetti devastanti sull'autostima e sulle relazioni sociali.

In effetti il fatto stesso che la vergogna sia di tipo gruppale, quindi un'esperienza non solitaria, ma quasi sempre di relazioni con l'altro, rende la stessa favorevole proprio alla costruzione dell'identità stessa del singolo e vantaggiosa per il gruppo sociale. Non provare vergogna, infatti, significherebbe quantomeno non avere nessun tipo di relazione davvero soddisfacente con un altro singolo in quanto priva di condivisione di valori con l'altro, o potrebbe significare non avere relazioni con una persona significativa di fronte la quale sentirsi umiliato.

Ci si può vergognare anche da soli, senza la presenza dell'altro da sé, e forse in questo caso la vergogna tende ad essere un meccanismo perlopiù negativo, mentre invece acquisisce connotati costruttivi quando c'è la presenza dell'altro o del gruppo sociale.

L'inevitabile appartenenza del singolo a una comunità storica e la conseguente

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ottica soggettiva che scaturisce da questa relazione crea l'individuo in tutto e per tutto. Ognuno di noi è un tutto, un nodo di relazioni che comprende anche i rapporti con gli altri.

“ Conoscere se stessi per uscire dal proprio Io limitato vuol dire sciogliere – per esaminarlo e poi ricomporlo – il nodo di relazioni a partire dal quale ci siamo costruiti. Significa ricordarsi degli altri che sono in noi e che siamo noi. L'esame di quel che siamo diventati rivela la nostra natura plurale e ci permette di riconoscere il fatto che la nostra vita è essenzialmente solidale con quella degli altri, partecipa e riceve significato, reattivamente, anche dalle loro esigenze, speranze, paure, inadeguatezze o malvagità. Tale constatazione aiuta a non essere ospiti ingrati ed egoisti della nostra stessa vita ”.24

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1.4.1 La paura delle differenze

Il termine “identità” ha un significato ambivalente poiché indica sia la permanenza psichica del singolo sia la propria differenza rispetto all'altro. 25

Assumere un'identità significa sentirsi parte di un gruppo, ma anche, contemporaneamente, essere diverso rispetto a ogni altro membro del gruppo. In questo contesto si inserisce il tema della paura dell'altro, in relazione alla certezza identitaria.

Categorizzare qualcuno come diverso o simile a se stessi e al gruppo dipende in gran parte dai criteri su cui si basano le somiglianze o le differenze; è proprio in dipendenza di questi criteri che si creano gruppi di appartenenza e conseguenti processi di marginalizzazione.

L'associazione mentale che si instaura tra la percezione delle differenze e la conseguente paura subentra nei processi di socializzazione, quando cioè vi è un'accessibilità di soggetti in relazione tra loro. Molto spesso durante queste fasi vengono alimentati stereotipi negativi che assolvono la funzione di conferire ordine alle numerose informazioni che l'individuo riceve dall'ambiente in cui è inserito.

Il rispetto verso l'altro è un modo di esprimersi: questo significa che per trattare gli altri con rispetto è necessario trovare i modi di comportarsi e di comunicare adeguati a colui con cui ci si interfaccia.

Questi modi e gesti di espressione dicono qualcosa anche sul carattere dell'individuo, carattere inteso come aspetto del Sé capace di entrare in contatto 25 Galanti M. A., Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, ETS, Pisa

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con gli altri.

In generale la diversità spaventa perché viene vissuta come una disconferma della certezza identitaria che il singolo crea in se stesso, e la paura che ne viene fuori assume molteplici forme poiché si può temere la lontananza delle persone intesa come diversità di origini, abitudini, culture, sesso, ma si può temere anche la diversità delle persone che sentiamo a noi più vicine.

La paura però che forse affligge maggiormente l'individuo è quella relativa alla dimensione interna, quella legata a noi stessi.

La fisiologicità della paura è un fattore fondamentale dell'esistenza poiché determina la crescita e la trasformazione dell'individuo in rapporto con l'ambiente che lo circonda e con l'adattamento a questo.

Quando però questa paura assume sembianze estreme diventa un ostacolo a tutto questo. La paura della relazione con l'altro, ritenuto diverso, si basa su una concezione binaria: l'altro è diverso poiché in lui non vengono riconosciute le caratteristiche a noi familiari.

Questo aspetto porta a una riduzione delle differenze individuali proprio perché si limitano ad essere inserite in due sole categorie, quella nota e quella sconosciuta. Una prospettiva interculturale, fondata sull'importanza della diversità invece, porterebbe alla decostruzione di questa visione binaria grazie alle interazioni e alla considerazione del fatto che ogni individuo rappresenta una cultura a sé stante.26 La diversità culturale tra individui, ad esempio, intesa come identificazione culturale del singolo individuo, è la base da cui partire per definire la “cultura sociale”.

26 Monceri F., Sguardi prospettici. La filosofia del film tra etnocentrismo e interculturalità, in

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“ La cultura sociale può essere definita come una cultura che conferisce ai propri membri modi di vivere dotati di senso in un ampio spettro di attività umane, ivi comprese la vita sociale, formativa, religiosa, ricreativa, ed economica, nonché la sfera pubblica come quella privata ”.27

In questo contesto la libertà individuale è intesa come libertà e autonomia anche dalle costrizioni culturali poiché il riconoscimento dell'importanza della cultura per la vita individuale si fonda proprio sulla cultura sociale interpretata come scelta fra varie alternative.

Il concetto di diversità potrebbe partire dal presupposto che l'individuo è tale in quanto il risultato continuamente in divenire del processo interattivo che lo connette all'ambiente nel suo complesso: un insieme sempre mutevole di relazioni con un ambiente dall'interazione con il quale emerge la sua individualità in ogni momento dato. Individualità questa che è frutto di scelte e caratteristiche del tutto uniche e non riproducibili, poiché l'interazione del singolo con l'ambiente che lo circonda è totalmente personale ed esclusiva.

“ […] La relazione tra individuo e cultura ad esempio è un processo dinamico e interattivo nel quale, accanto all'affermarsi di modelli culturali condivisi (ciò che è comune fra di noi) che definiscono l'identità individuale come “questa e non un'altra” si dà pur sempre la possibilità della rinegoziazione di tali modelli entro il contesto dato, sulla base di ulteriori differenze individuali e di gruppo (ciò che è diverso fra noi) ”.28

27 Monceri F., Ordini costruiti. Multiculturalismo, complessità, istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 5.

28 Monceri F., Interculturalità e comunicazione. Una prospettiva filosofica, Lavoro, Roma 2006 p. 16.

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Richiamando la Fenomenologia dello Spirito Hegeliana, possiamo considerare il Sé come onnipotente che vuole affermarsi nell'incontro con l'altro. Non può farlo, però dato che riconoscere l'altro significherebbe negare la propria esistenza.

L'autocoscienza, secondo Hegel, si raggiunge solo se si riesce a confrontare la propria esistenza con quella degli altri. Il riconoscimento delle altre autocoscienze però avviene tramite la lotta, il confronto, da cui viene fuori una subordinazione di un'autocoscienza rispetto a un'altra.

Si tratta di conquistare la propria autonomia attraverso il processo del riconoscimento: nella dialettica Hegeliana di signoria/sevitù, questo processo porta da un lato il servo a non dipendere più per la propria identità dal rispecchiarsi nella coscienza del padrone, e dall'altro, il padrone a smettere di essere tale solo perché si riflette nella coscienza del servo.

“ Il diventare consapevoli di se stessi, il poter dire “Io”, presuppone un rapporto con altre “autocoscienze”, esseri umani capaci di riferirsi a sé attraverso l'Altro, di sdoppiarsi al proprio interno, rispecchiandosi dapprima in un “Io” diverso dal proprio e in seguito, in se stessi […] ”.29

Il riconoscimento dell'altro, infatti, porta secondo Hegel a un paradosso: nel momento in cui realizziamo la nostra indipendenza dipendiamo da un altro perché è necessario che l'altro riconosca questa nostra indipendenza. D'altro canto non possiamo prescindere dal riconoscimento dell'altro: per affermare se stesso l'individuo deve relazionarsi inevitabilmente con l'altro.

Questo paradosso del riconoscimento è la condizione essenziale per la costruzione 29 Bodei R., Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, cit., p. 150.

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dell'autonomia individuale all'interno della relazione.

E' dunque a partire dalla diversità, dal riconoscimento dell'altro da sé, che si prendono le mosse per arrivare a conquistare l'autonomia.

In questa dialettica Hegeliana di signoria/servitù il signore si rapporta al servo attraverso l'essere autonomo.

“ Il servo infatti è legato proprio a questo essere da cui non ha potuto astrarre nel corso della lotta e che adesso costituisce la sua catena […]. Il signore invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l'essere autonomo soltanto come un negativo è la potenza che domina su questo essere ”.30

Ogni organismo costruisce la sua autonomia distinguendosi dall'ambiente circostante ma non separandosi da esso; conoscendo il contesto in cui viviamo e da cui non potremmo prescindere, ma allontanandoci allo stesso tempo da esso, possiamo affermare la nostra autonomia di individui.

La conoscenza di cui ciascuno di noi dispone in quanto individuo è infatti il risultato di una costruzione operata a partire dall'esperienza, e per questo tale conoscenza individuale varia da individuo a individuo: la diversità così intesa quindi esiste sempre e da sempre, al di là del suo consapevole riconoscimento da parte degli individui.

Ogni individuo ha un rapporto personale con l'ambiente che lo circonda e la diversità consiste in uno scarto tra gli stimoli che un individuo percepisce e la sua personale modalità di accoglienza di questi stimoli esterni.

30 Hegel G., W., F., IV. La verità della certezza di se stesso, in Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 285.

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“ Dal punto di vista del singolo individuo anche tutti gli altri individui fanno parte dell'ambiente e già in questo senso essi vengono percepiti come diversi […] Tale diversità ha a che fare con il raffronto tra l'ammontare delle informazioni a disposizione di ognuno degli individui coinvolti nell'interazione ”.31

Le esperienze di vita degli individui, per quanto in parte simili e sovrapponibili, rimangono pur sempre uniche e totalmente personali.

“ […] Il fatto che gli individui si riconoscano perlomeno in qualche misura anche come simili, li spinge a interagire sulla base della fondata aspettativa che la propria prospettiva sia estendibile anche all'altro ”.32

Questo confronto interpersonale determina la latente conflittualità fra le diversità che porta alla paura della relazione con colui che si ritiene diverso da noi; dal momento che però per ogni individuo l'interazione con l'altro è necessaria, diventa necessario e inevitabile anche il confronto fra la propria diversità e quella dell'altro. Questa dinamica spesso porta a paure e conseguenti conflitti che devono essere risolti con l'adattamento e l'adeguamento della propria diversità con quella dell'altro.

Un caso particolare di relazione con la diversità è quello della stigmatizzazione: lo stigma è una sorta di “segno distintivo” che caratterizza una devianza dalla 31 Monceri F., L'impermanenza dell'ordine. Appunti sulla diversità come problema politico, in

Fabris A., Ferrucci F., Giomi E., Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro.

Identità e diversità a confronto, cit.., p. 181.

32 Monceri F., L'impermanenza dell'ordine. Appunti sulla diversità come problema politico, in Fabris A., Ferrucci F., Giomi E., Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro.

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“normalità”. La stigmatizzazione dunque è quel fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro del gruppo con la conseguente discriminazione in alcuni casi o con un declassamento a un livello inferiore.

La condizione dello stigmatizzato è quella di chi entra nelle relazioni sociali portando con sé una diversità non voluta e questo lo porta ad avere un problema di accettazione da parte degli altri.

E' il caso ad esempio della stigmatizzazione che si identifica con una disabilità, che può essere fisica, e quindi più visibile, o nascosta come quella psichica; o il caso della stigmatizzazione che si palesa nel colore della pelle, o nello status sociale o in qualunque altra caratteristica che non corrisponde a quelle conosciute o comunque incluse nel proprio gruppo sociale di appartenenza e quindi accettate. La diversità in questi casi è una differenza indesiderata che altera il normale funzionamento delle relazioni sociali, ma non ne mette in discussione la struttura di plausibilità.33

La gestione di questa diversità è una dinamica frequente nella società: l'“etichettamento” infatti consiste nella selezione sociale delle differenze, e questo processo avviene in ogni ambito in cui siano presenti dei gruppi, dunque in ogni dove sociale.

Questo processo selettivo avviene tramite il richiamo agli stereotipi:

“ Gli stereotipi sono categorie culturali presenti a livello preconscio, attingendo alle quali le persone sono in grado di assumere delle decisioni in breve tempo svincolandosi dalla necessità di prendere in esami ulteriori 33 Ferrucci F., La disabilità. Differenza e alterità tra natura e cultura, in Fabris A., Ferrucci F.,

Giomi E., Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro. Identità e diversità a

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elementi. Gli stereotipi sono dunque assimilabili agli schemi di tipizzazione che orientano il nostro agire nella realtà della vita quotidiana favorendone la routinizzazione, cioè il primo passo verso l'istituzionalizzazione ”.34

I gruppi sociali che si arrogano il potere di stigmatizzazione, attribuiscono automaticamente a se stessi il tratto distintivo di umanità e costituiscono il mondo sociale a partire dai propri bisogni, conferendo validità alla propria esperienza (e declassando l'esperienza degli altri gruppi sociali), ignorando che solo nella differenza può attuarsi un vero rapporto, un legame coinvolgente che collega fra loro, in maniera corretta, elementi diversi ma ugualmente importanti.

34 Ferrucci F., La disabilità. Differenza e alterità tra natura e cultura, in Fabris A., Ferrucci F., Giomi E., Maddalena G., Monceri F., Schimada S., Immagini dell'altro. Identità e diversità a

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CAPITOLO II

IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONE NEL RAPPORTO CON L'ALTRO

Un tipo di relazione con l'altro da sé è quello improntato sulla dinamica dell'apprendimento. Molti rapporti infatti si basano sulla trasmissione delle conoscenze: l'apprendimento, nell'immaginario collettivo, è visto come un percorso di passaggio di conoscenze e saperi da parte di colui che insegna e di acquisizione da parte di chi sta imparando.

“ L'apprendimento in realtà non solo si realizza attraverso la trasformazione dei saperi data dal loro incontrarsi ma è un processo complesso che si origina ben prima dell'insediarsi della dimensione conoscitiva di tipo razionale e si snoda poi per tutto l'arco dell'esistenza ”.1

L'apprendimento è un processo infinito nel quale è determinante la volontà dei soggetti che ne sono coinvolti e fondamentale è l'incontro di essi. L'apprendimento infatti non avviene in maniera meccanica o per semplice imitazione, ma attraverso l'esperienza, l'errore.

L'incontro tra l'individuo e l'esperienza costituisce la condizione di possibilità dell'esperienza stessa e finché quest'interazione non viene concretamente vissuta, la funzione che l'individuo vi ricopre è solo potenziale, per questo egli ha sempre

1 Galanti M. A., Complessità, apprendimento e relazione: dalle origini della vita psichica alla

capacità di essere soli, in Cambi F., Galanti M. A., Iacono A. M., Pfanner P., Apprendimento, autonomia, complessità, ETS, Pisa 2007, p. 31.

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bisogno dell'altro da sé.2

L'individuo sente la necessità di imporre la propria volontà sull'ambiente che lo circonda per sopravvivere, e per fare questo inevitabilmente crea una connessione con gli altri individui. Queste interazioni tra individui e tra l'individuo e l'ambiente circostante sono anche il presupposto della possibilità di costruire informazioni, acquisire conoscenze, fine ultimo questo dell'apprendimento.

Il processo formativo coinvolge tutta la personalità e riguarda sia la sfera esteriore, quindi quella relazione tra individui attraverso il confronto dialogico tra soggetti diversi, ma anche quella interiore, poiché coinvolge l'equilibrio di ognuno di noi rispetto all'ambiente che lo circonda.

Lo sviluppo di ogni organismo infatti avviene sempre in un contesto e non può essere disaccoppiato da esso.

Ogni pratica educativa è una relazione asimmetrica poiché caratterizzata da una disparità di potere tra i soggetti coinvolti. Gli elementi di differenziazione possono essere svariati, l'età o il possesso di strumenti culturali diversi, per citarne alcuni.

“ La relazione educativa si struttura pertanto tra un soggetto che detiene il potere di definire il mondo […] e un altro soggetto […] che da tale potere è escluso e che dispiega i suoi tentativi di esistenza in un movimento oscillatorio costante. Egli tenta infatti di sottrarre all'altro, per farle proprie, le regole segrete che spiegano gli eventi; ma nello stesso tempo vi si ribella (non v'è adattamento senza ribellione) e vorrebbe imporre la propria visione del mondo, per quanto confusa e idiosincratica essa possa essere ”.3

2 Monceri F., Pensiero e presente. Sei concetti della filosofia, cit.

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2.1 Le relazioni di potere nella dinamica dell'apprendimento

L'autonomia nella dinamica dell'apprendimento è intesa essere l'autonomia nella relazione tra i soggetti che ne fanno parte; tale apprendimento è concepito nei termini della storia del mutamento della relazione tra chi apprende e chi insegna. Citando Foucault possiamo parlare di due distinzioni, una tra la liberazione e le pratiche di libertà e una tra stati di dominio e le relazioni di potere.

Ogni processo di liberazione che esaurisca in sé tutte le pratiche di libertà finisce con il trasformare le relazioni di potere in stati di dominio.

Non è detto infatti che a un processo di liberazione si accompagni necessariamente il raggiungimento dell'autonomia, anche se i processi di liberazione sono la condizione necessaria perché questo accada.

“ Secondo Foucault le relazioni di potere si trasformano in stati di dominio quando si cristallizzano diventando immobili, quando cioè coloro che vi partecipano non si modificano. Se quindi le relazioni di potere tendono a mantenere rigide le gerarchie e le dissimetrie esistenti fra coloro che vi partecipano oppure i partecipanti usano tutti i mezzi fisici e simbolici per conservare la loro posizione entro il sistema di relazione dato, allora esse si trasformano in stati di dominio ”.4

I rapporti tra genitori e figli, ad esempio, sono relazioni di potere basate su gerarchie ma diventano stati di dominio quando non si modificano e si tende a

4 Iacono A. M., La sfida della complessità: autonomia, relazione, apprendimento, in Cambi F., Galanti M. A., Iacono A. M., Pfanner P, Apprendimento, autonomia, complessità, cit., p. 70.

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conservare il rapporto così com'è nel corso del tempo.

Il potere consiste nella possibilità di conservare queste gerarchie producendo così degli effetti sui soggetti coinvolti (nel nostro caso sui figli) che si definiscono in base a questi nuovi stati di dominio in cui si trovano a sottostare.

Il pericolo di questa cristallizzazione viene fuori quando si sposta la comunicazione e la finalità di essa.

Questo accade quando, ad esempio, il “comando” dato dai genitori al bambino di rimettere a posto i giocattoli non ha l'obiettivo di insegnare al figlio un senso d'ordine ma nasconde piuttosto la necessità di vedere confermato il proprio potere sul figlio, fino a far sentire a quest'ultimo l'obbedienza come bisogno e senso di sicurezza.

Il confine fra relazioni di potere e stati di dominio è dunque molto sottile poiché gli stati di dominio incombono sempre sulle relazioni di potere; potere e sapere sono intimamente congiunti fra loro, i saperi sono relegati dentro le operazioni di potere.

“ Il potere non ha portatori […]. I soggetti stessi sono costituiti, sagomati da meccanismi di potere. Il potere transita, circola nei soggetti […] ”.5

Il potere diventa impercettibile e invisibile, assumendo le sembianze di una guida. Una relazione di potere infatti è caratterizzata dalla peculiarità di condurre il soggetto che subisce questa dinamica, di governarlo nel corso della sua esistenza. Individuando il pericolo della presenza di stati di dominio nelle relazioni di potere

5 Mariani A., Foucault: per una genealogia dell'educazione. Modello teorico e dispositivi di

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si può essere in grado di uscire dallo stato di minorità Kantianamente inteso e acquisire la totale autonomia nelle relazioni con l'altro.

Secondo La Repubblica di Platone, invece, l'apprendimento è una manipolazione operata su una psiche plastica quale quella infantile. Tale manipolazione è finalizzata a trasformare i valori in abitudini, a produrre cioè un'interiorizzazione delle credenze condivise, a indurre la cosiddetta naturalizzazione.

Dal punto di vista pedagogico quindi la preoccupazione maggiore consiste nel trasmettere valori adeguati. L'apprendimento però si consolida non solo tramite la trasmissione di valori, come Platone suggerisce, ma anche e soprattutto grazie al coinvolgimento consapevole: il bambino, o comunque colui che sta apprendendo deve sentirsi parte attiva di questo processo, tramite il quale arriverà alla conoscenza, che non può prescindere quindi dalla consapevolezza.

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2.1.1 L'autorità che crea dipendenza

Si è detto che l'autonomia nella dinamica dell'apprendimento è intesa essere l'autonomia nella relazione tra i soggetti che ne fanno parte: l'apprendimento dunque implica che chi apprende può e deve essere autonomo. Tutto, quindi, dipende dalla relazione che viene a stabilirsi tra colui che detiene il “potere” del sapere e colui che dal detentore di questo potere è condotto.6

Se colui che in questa relazione si trova a indirizzare l'altro trasforma la relazione di apprendimento, che possiamo comunque considerare come una relazione di potere, in uno stato di dominio, il rapporto tra autonomia e apprendimento diventa immobile e i ruoli giocati da coloro che ne fanno parte non possono più mutare. Lo stato di dominio, infatti, è una condizione in cui chi indirizza l'altro si rende insostituibile e colui che viene guidato non può più fare a meno di questa presenza, diventandone alla fine dipendente.

L'apprendimento pertanto non è possibile senza considerare le forme di relazione che si creano; inoltre l'apprendimento implica in colui che apprende la capacità di saper modificare l'apprendimento stesso, e per avere questa capacità è necessario acquisire senso critico e autonomia individuale. Tutto questo si può ottenere solo se si fuoriesce dall'autorità e dal potere dell'altro.

Molto spesso si crea la dipendenza dall'autorità dell'altro poiché lo stesso singolo individuo concede il potere a colui che ne diventerà poi il detentore: si origina una relazione nella quale uno dei membri che ne fa parte accorda, seppure in maniera latente, questa supremazia all'altro e la dipendenza che si genera è una forma di 6 Galanti M. A. (a cura di), In rapido volo con morbida voce. L'immaginazione come ponte tra

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