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Inibizione delle chinasi PDK1 e Aurora A: effetto su cellule di glioblastoma multiforme e sulla sottopopolazione staminale.

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Farmacia

Laurea Magistrale in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

Inibizione delle chinasi PDK1 e Aurora A: effetto su cellule

di glioblastoma multiforme e sulla sottopopolazione

staminale

Relatori:

Prof.ssa Claudia Martini

Dott.ssa Simona Daniele

Candidato:

Iacopo Viti

Anno accademico 2015/2016

SSD: BIO 10/11

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Indice

Riassunto Introduzione

1.1 Il glioblastoma multiforme………...1

1.1.1 Alterazioni molecolari del GBM………...5

1.1.2 Terapie per il trattamento del GBM...……….………..6

1.2 Cellule Staminali Cancerose (CSCs)……….……...8

1.3 Le proteine Aurora chinasi...12

1.3.1 Il ciclo cellulare ...12

1.3.2 La proteina Aurora-A chinasi .………...15

1.3.3 Inibitori delle Aurora chinasi in sperimentazione ……….………...17

1.4. La proteina PDK1...21

1.4.1 Inibitori di PDK1 in sperimentazione...23

1.5 Scopo della tesi ...27

Materiali e Metodi 2.1 Composti...29

2.2 Linee cellulari tumorali umane…...………...31

2.2.1 Cellule di glioblastoma multiforme umano (U87MG)...31

2.2.2 Isolamento delle cellule staminali cancerose (U87MG-CSC)……...31

2.3 Analisi dell’espressione genica………....……32

2.3.1 Preparazione del pellet di cellule.………..…..32

2.3.2 Estrazione RNA...33

2.3.3 Quantificazione RNA….………...35

2.3.4 Retrotrascrizione……….………...35

2.3.5 Real time RT-PCR…….………...…...36

2.4 Saggio di vitalità cellulare: MTS assay...39

2.5 Valutazione della morfologia delle CSC………...………41

Risultati e discussione 3.1 Effetto dell’inibizione di PDK1 ed Aur-A sulla proliferazione delle cellule U87MG…...43

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3.2.1 Analisi dell’espressione genica………...…46

3.2.2 Sensibilità alla temozolomide ... ... 47

3.3 Effetto dell’inibizione di PDK1 ed Aur-A sulla proliferazione delle CSC……...……..48

3.4 Effetto dell’inibizione di PDK1 ed Aur-A sul grado di differenziamento delle cellule di GBM...50

3.4.1 Analisi morfologica delle neurosfere ………...….50

3.4.2 Analisi dell’espressione genica……...…53

3.5 Conclusioni...55 Bibliografia

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Riassunto

Il glioblastoma multiforme (GBM) è la forma di tumore maligno intracranico più frequente. Tale tumore, che interessa prevalentemente la componente astrocitaria delle cellule del sistema nervoso centrale, è caratterizzato da alta aggressività e tendenza a dare recidive, associate alla rapida comparsa di farmacoresistenza. La terapia attuale, che si avvale dell’intervento chirurgico associato a terapia farmacologica (Temozolomide) e radiazioni ionizzanti, risulta inefficace, e l’aspettativa di vita nei pazienti affetti da GBM è di circa 12 mesi dalla diagnosi.

L’alta aggressività del GBM è stata associata ad alterazioni molecolari a livello dei meccanismi che controllano il ciclo cellulare ed i normali processi apoptotici. Tra queste, risulta alterata l’attività di due proteine fondamentali nella regolazione dei suddetti processi: Aurora-A (Aur-A), e la Phosphoinositide-dependent kinase 1 (PDK1). Aur-A è una serin-treonin chinasi, dotata di funzione regolatoria in numerosi meccanismi inerenti la divisione cellulare, e la cui espressione appare aumentata in molti tipi di tumore, tra cui il GBM, correlando con una peggiore prognosi. PDK1 è una serin-treonin chinasi coinvolta nella propagazione del segnale del pathway della phosphatidylinositol 3-kinase (PI3K), con effetti sul metabolismo energetico, sul differenziamento neuronale e sulla migrazione cellulare. Questo pathway risulta iper-attivato in circa l’80% dei pazienti affetti da GBM, contribuendo a conferire le notevoli capacità invasive di questo tipo di cellule tumorali.

Negli ultimi anni, inoltre, la ricerca oncologica ha messo in risalto il ruolo svolto da alcune cellule dotate di caratteristiche staminali (cellule staminali cancerose, CSC) nella genesi e nella progressione della malattia, oltre che nell’insorgenza di meccanismi di resistenza e di fenomeni recidivanti. Perciò è di cruciale importanza mettere a punto strategie terapeutiche antitumorali che abbiano come target anche la componente di CSC, al fine di garantire una remissione completa da questo genere di patologie. Aur-A e PDK1, oltre agli effetti precedentemente citati, sono risultate essere coinvolte nella proliferazione e regolazione delle CSC.

Sulla base di quanto detto, inibitori di Aur-A e PDK1 potrebbero rivelarsi una valida strategia terapeutica nel trattamento del GBM e della sua componente staminale.

In questo lavoro di tesi, si è voluto sperimentare a tale scopo l’inibizione simultanea di queste due proteine chinasiche, la cui espressione risulta aumentata nel GBM.

Si è quindi valutato l’azione di un nuovo derivato a struttura OXID (2-osso indolica/imidazolinica) piridonilica, SA16, sintetizzato nel laboratorio della Prof.ssa S.

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Rapposelli, del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, capace di inibire contemporaneamente le chinasi Aur-A e PDK1, su una linea di cellule tumorali umane di GBM (U87MG) e sulle CSC da esse derivate, sotto forma di neurosfere. I benefici di un farmaco dotato di azione multitarged sono molteplici, e di recente comprensione da parte della comunità medica. La disponibilità di un unico principio attivo capace di agire a livello di più pathway, infatti, garantisce l’efficacia fornita da una terapia diretta sugli stessi bersagli terapeutici, eliminando tuttavia le criticità connesse all’assunzione simultanea di farmaci diversi. Tra queste la maggior prevedibilità dei parametri farmacocinetici di una singola sostanza; la maggior sicurezza, derivante dall’assenza di possibili interazioni farmaco-farmaco; ed infine una maggiore compliance del paziente dovuta alla semplificazione del regime terapeutico. Come confronto per valutare l’efficacia di SA-16, e per comprendere maggiormente il ruolo biologico svolto dall’uno o dall’altro pathway, sono stati utilizzati degli inibitori specifici delle due proteine, testati da soli ed in combinazione: Alisertib, inibitore di Aur-A, e MP7, inibitore di PDK1.

Per prima cosa, abbiamo valutato l’effetto di MP7 ed Alisertib sulla proliferazione delle cellule U87MG. Gli esperimenti hanno mostrato una scarsa attività antiproliferativa di tali composti quando testati singolarmente, a conferma dei risultati presenti in letteratura. La co-somministrazione dei due composti, al contrario, ha portato ad una inibizione significativa della proliferazione delle cellule tumorali. Il nuovo derivato ha mostrato effetti paragonabili alla combinazione Alisertib/MP7, confermando l’ipotesi di un effetto additivo/sinergico dettato dall’inibizione simultanea delle due proteine.

In seguito, si è voluto osservare l’effetto dei composti sulla componente staminale del GBM. A tale scopo, abbiamo realizzato un arricchimento delle colture di U87MG in CSC, sotto forma di neurosfere. L’efficacia del protocollo d’isolamento utilizzato è stata confermata grazie ad un’analisi quantitativa, tramite real time RT-PCR, sull’espressione di alcuni marker di staminalità convalidati in letteratura, quali CD133 e Nestin, e su un marker di differenziamento astrocitario, la proteina fibrillare acida della glia (GFAP). L’isolamento della componente staminale è stato inoltre confermato valutando la risposta delle U87MG e delle CSC alla Temozolomide. Le CSC sono risultate significativamente meno sensibili all’azione dell’agente alchilante rispetto alle U87MG, confermando la maggiore chemioresistenza della componente staminale. Una volta appurata la validità del metodo di isolamento, gli esperimenti di proliferazione eseguiti sulle U87MG sono stati ripetuti sulla componente staminale. La proliferazione delle CSC è risultata essere scarsamente alterata dall’inibizione di PDK1, mentre Alisertib, inibitore di Aur-A, ha determinato una riduzione

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della proliferazione delle CSC dose-dipendente, suggerendo un ruolo rilevante di questa proteina nella loro crescita. L’inibizione contemporanea delle due proteine ha infine causato una significativa diminuzione della proliferazione delle CSC dose-dipendente, in misura maggiore rispetto a quella osservata in seguito ai singoli trattamenti. Risultati paragonabili o sensibilmente maggiori si sono ottenuti con SA16, confermando un effetto additivo/sinergico dovuto all’inibizione concomitante di Aur-A e PDK1.

In seguito, è stata valutata anche la morfologia delle CSC dopo trattamenti con MP7 e/o Alisertib. Entrambi i composti, quando somministrati individualmente, hanno determinato una riduzione dell’area occupata dalle neurosfere, effetto particolarmente evidente nelle cellule trattate con Alisertib. In seguito al trattamento con Alisertib, inoltre, le CSC hanno mostrato una modesta ma significativa fuoriuscita di processi cellulari (neuriti), indice della capacità di questo composto d’indurne il differenziamento. Ancora una volta, l’inibizione simultanea delle due chinasi ha prodotto un effetto additivo/sinergico nella riduzione dell’area occupata dalle neurosfere. L’induzione di differenziamento è stata confermata valutando l’espressione dei marker di staminalità. Il nuovo derivato SA16 è risultato in grado di ridurre il numero di neurosfere con un effetto concentrazione-dipendente, e di indurre differenziamento delle CSC.

I dati ottenuti, hanno dimostrato che l’inibizione simultanea dei pathway regolati da Aur-A e PDK1, si traduce in una marcata riduzione della proliferazione delle cellule tumorali di GBM, e, fatto più significativo, della sottopopolazione staminale del tumore, tramite il suo differenziamento. Tutto questo a fronte di risultati non soddisfacenti quando l’inibizione è stata indirizzata verso una sola delle due proteine, a conferma degli scarsi effetti, già noti in letteratura, riguardanti l’attività antitumorale di composti inibitori di Aur-A o PDK1 selettivi, quando testati singolarmente. L’inibizione simultanea delle due proteine chinasiche, PDK1 ed Aur-A, si profila quindi come una valida strategia nel contrastare lo sviluppo del GBM.

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1.1 Il glioblastoma multiforme

Il glioblastoma multiforme (GBM) è una neoplasia cerebrale di IV grado secondo la scala di classificazione dei tumori del sistema nervoso centrale dell’OMS del 2007. Si tratta del massimo grado assegnato ai tumori maligni, con prognosi infausta, attivi mitoticamente, inclini alla formazione di aree necrotiche, all’angiogenesi e alla metastatizzazione (Louis DN et al., 2007). Per la sua aggressività e farmacoresistenza la terapia attuale, che comprende l’asportazione chirurgica associata a radio e chemioterapia, garantisce un’aspettativa di vita di soli 12-14 mesi dalla diagnosi (Willems E. et al., 2016).

I tumori del SNC sono stati suddivisi, fino al 2007, in base al tipo di cellula dal quale erano ritenuti originare ed in base a differenze fenotipiche osservabili al microscopio. La più recente classificazione dell’OMS, datata 2016, tiene conto anche delle caratteristiche genomiche dei differenti tumori, per assicurare una classificazione più oggettiva e definita rispetto alla precedente, e garantire perciò una maggiore accuratezza diagnostica, facilitando l’individuazione del trattamento terapeutico migliore (Louis D.N. et al., 2016).

Secondo le ultime linee guida dell’OMS, si possono pertanto individuare:  Tumori astrocitari diffusi e tumori oligodendrocitici

 Altri tumori astrocitari  Tumori ependimali  Altri gliomi

 Tumori del plesso coroideo

 Tumori neuronali e tumori misti neuronali-gliali  Tumori della regione pineale

 Tumori embrionali

 Tumori dei nervi cranici e paraspinali  Meningiomi

 Tumori mesenchimali, non meningoteliali  Tumori melanocitici

 Linfomi

 Tumori istiocitari

 Tumori delle cellule germinali  Tumori della regione sellare  Tumori metastatici

Il GBM interessa gli astrociti, il tipo di cellula gliale più abbondante nel SNC, i quali formano anche la barriera emato-encefalica, ed hanno principalmente funzione di sostegno e nutritiva. Perciò viene classificato tra i tumori astrocitari diffusi, ed è suddiviso in GBM IDH-wild type e GBM IDH-mutant. Il GBM IDH-mutant costituisce il 10% dei casi, e origina molto spesso da astrocitomi di grado inferiore, per questo viene definito secondario. Il wild type invece si sviluppa ex novo ed è definito primario, colpisce in genere i pazienti più anziani, ha una velocità di proliferazione più veloce e una prognosi peggiore rispetto al

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secondario. I due tipi non sono tuttavia distinguibili da un punto di vista morfologico (Brandes A. et al., 2015)

Sebbene la sua incidenza in Europa e Nord America di 3-4 nuovi casi l’anno ogni 100000 persone lo renda un tumore raro, il GBM rappresenta il 60-75% di tutti gli astrocitomi e il 54% di tutti i gliomi diagnosticati, è di fatto il tipo di neoplasia maligna intracranica più frequente, il 15,7% del totale (figura 1.1). Esso colpisce principalmente adulti di età compresa tra 45 e 70 anni, di sesso maschile, con incidenza maggiore nella popolazione caucasica residente nelle aree maggiormente industrializzate (Ostrom Q.T. et al., 2014).

Figura 1.1: distribuzione dei tumori del SNC. CBTRUS Statistical Report 2007–2011.

L’eziologia del tumore rimane ancora controversa, ma i dati raccolti finora fanno pensare che il GBM sia un tumore spontaneo, poiché l’ereditarietà della malattia è stata osservata solo nell’1% dei casi. L’esposizione a radiazioni ionizzanti rimane il principale fattore di rischio sin qui individuato, così come l’appartenenza a categorie di lavoratori esposte a sostanze quali il cloruro di vinile, composti aromatici policiclici e pesticidi. Tra gli agenti eziologici investigati il citomegalovirus umano ha fornito qualche evidenza di correlazione, così come la presenza di trauma cranico nella storia clinica del paziente.

La malattia ha un alto tasso d’incidenza nel caso di patologie del sistema immunitario, come la sindrome di Bourneville-Pringler e la sindrome di Turcot (Urbańska K. et al., 2014). Il GBM si presenta tipicamente negli emisferi cerebrali e meno frequentemente al tronco encefalico e al midollo spinale. È caratterizzato da un’elevata capacità infiltrante verso i tessuti circostanti: per questo motivo la massa tumorale non è distinguibile in modo netto dal resto del tessuto sano. Ciò rende la completa asportazione chirurgica praticamente impossibile. Il potenziale metastatico di questo tipo di tumore è invece basso, a causa della

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barriera fisica costituita dalla BEE, tuttavia, anche la rapida crescita tumorale ed il breve corso della malattia contribuiscono a quest’aspetto (Urbańska K. et al., 2014).

Clinicamente il GBM si presenta con sintomi aspecifici da aumentata pressione intracranica, quali cefalea, atassia, vertigini, disturbi visivi e frequenti sincopi o convulsioni, che ne rendono la diagnosi spesso non immediata. La gravità e il tipo di sintomatologia è correlata alla sede anatomica del tumore e alla sua estensione, che influiscono anche sul tipo di funzione cognitiva eventualmente compromessa (Grossman S.A. et al., 2004).

Se vi è sospetto di GBM, lo strumento diagnostico principale per confermare l’ipotesi è la risonanza magnetica, con Gadolinio utilizzato come mezzo di contrasto (figura 1.2). Il diametro della massa tumorale alla diagnosi è generalmente tra i 4 ed i 5 cm. Quando il tumore interessa il corpo calloso e cresce bilateralmente nel lobo occipitale e temporale appare nell’immagine RM con una caratteristica forma a farfalla. La diagnosi definitiva è effettuata tramite esame istologico sulla parte di tessuto rimossa chirurgicamente (Kanu O.O. et al., 2009).

Figura 1.2: immagine RM di GBM, nella quale si nota l’anello di enhancement, indice di aumentata attività metabolica di origine tumorale, intorno ad una vasta area necrotica.

Da un punto di vista morfologico, le cellule di glioblastoma appaiono molto eterogenee, da cui la denominazione “multiforme”, e si distinguono per la dimensione ridotta, la forma allungata, i margini cellulari poco visibili, la distribuzione della grandezza dei nuclei non omogenea e per l’anaplasia (Schultz S. et al., 2005).

Anatomicamentela lesione tumorale è caratterizzata da una vascolarizzazione abbondante ma funzionalmente inefficiente, composta da vasi sanguigni disorganizzati ed in rapida proliferazione. Le cellule endoteliali dei vasi di nuova formazione sono morfologicamente differenti rispetto a quelle normalmente presenti nel tessuto cerebrale, e si distinguono per la superficie rivestita da uno strato discontinuo di periciti. É frequente inoltre la presenza di trombosi che porta a danneggiamento vascolare e fuoriuscita di globuli rossi (Urbańska K. et al., 2014).

La peculiarità del GBM è tuttavia la presenza di focolai necrotici, che possono essere di due tipi, a seconda della loro grandezza e localizzazione. Un primo tipo è dovuto all’ insufficiente rifornimento di sangue al centro della massa tumorale primaria, dove la mancanza di vascolarizzazione dà luogo ad una superficie necrotica di discreta ampiezza; l’altro tipo è

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invece contraddistinto da piccoli nuclei necrotici dalla forma irregolare, circondati da “palizzate” costituite dai nuclei allungati di cellule tumorali (figura 1.3), caratteristica peculiare del GBM, presente sia nei tumori primari che secondari (Brat D.J. et al., 2004). La presenza di vaste zone necrotiche è una delle cause principali di radio e chemioresistenza: l’assenza di vascolarizzazione causa infatti la mancata distribuzione dell’entità terapeutica in queste aree tumorali.

Figura 1.3: immagine da esame istologico di GBM, nella quale si può ben notare la “pseudopalisading necrosis”, caratteristica tipica di questo tumore.

La diagnosi, effettuata valutando la presenza dei suddetti fattori, è infine confermata con tecniche immunoistologiche, andando a ricercare la presenza dei seguenti marker molecolari:

 Proteina fibrillare acida della glia (GFAP): unità proteica essenziale dei filamenti intermedi del citoscheletro degli astrociti. È il marker astrocitario più specifico, sia in condizioni normali che patologiche. La progressione della malattia causa una marcata diminuzione dell’espressione di GFAP.

 Mutazione 1: la valutazione della presenza di mutazioni a carico del gene IDH-1 codificante l’enzima isocitrato deidrogenasi NADP+ dipendente permette la distinzione dei tumori primari, wild type, dai secondari, mutanti nell’85% dei casi.  Proteina S100: la rivelazione per colorazione della proteina S100 nelle cellule del

SNC è un indicatore tumorale consolidato.

 Metilazione gene MGMT: indica la responsività al trattamento con agenti farmacologici alchilanti.

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1.1.1 Alterazioni molecolari del GBM

Da un punto di vista molecolare, le cellule di GBM ospitano una serie di mutazioni genetiche che consentono loro un alto tasso di proliferazione, anche in ambienti ostili come quelli ipossici.Il 30-40% delle cellule di GBM mostra una sovra-espressione del recettore per il fattore di crescita epidermico (EGFR), recettore tirosin-chinasico coinvolto nella regolazione della proliferazione, migrazione e adesione cellulare, tramite l’attivazione di varie cascate di segnalazione, tra cui la cascata della mitogen activated protein kinases (MAPK) e della fosfoinositide 3-chinasi e della proteina chinasica B (PI3K/Akt) (Ramirez Y.P. et al., 2013).

La cascata MAPK/ERK, tramite una serie di effettori cellulari, trasmette un segnale di crescita dall’esterno della cellula fino al suo DNA. Le proteine MAPK, originariamente chiamate “extracellular signal regulated kinases” (ERK), hanno come fine ultimo quello di regolare la traduzione e la trascrizione di alcuni geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare. Il segnale scatenante è il legame al recettore per i fattori di crescita epidermica (EGFR) di un ligando, che causa la fosforilazione di una proteina Ras, la c-Raf, una GTPasi, che porta ad uno scambio della sua GDP con una GTP, attivandosi. La proteina c-Raf, una serina/treonina chinasi, attiva quindi la proteina MEK, una serina/tirosina/treonina chinasi, che attiva la proteina MAPK, anch’essa una serina/tirosina/treonina chinasi. MAPK, tramite la sua funzione chinasica, regola l’attività di diversi fattori di trascrizione, come myc, C-Fos, CREB, RSK e MNK, importanti nella regolazione del ciclo cellulare (Avruc J. et al., 2001).

La cascata della PI3K/Akt, anch’essa attivata dall’EGFR, origina dall’attivazione per fosforilazione della fosfoinositide 3-chinasi (PI3K). Per il meccanismo molecolare dettagliato si rimanda al paragrafo sulla proteina PDK1. Essa è ugualmente importante nella regolazione del ciclo cellulare: causa infatti l’attivazione della proteina chinasi B (PKB), conosciuta anche come Akt, una serina/treonina chinasi che agisce da regolatore di numerosi processi cellulari, tra cui l’apoptosi, la proliferazione e la migrazione cellulare, essendo un importante regolatore della trascrizione. Tale via è inibita dalla proteina “phosphatase and tensin homolog” (PTEN), che per questo motivo viene classificato tra i geni onco-soppressori. Tuttavia questo gene risulta down-regolato nel GBM, contribuendo all’iperattivazione della cascata PI3K/Akt, causando resistenza all’apoptosi e aumento della proliferazione e nella migrazione cellulare (Nagashima K. et al., 2011). L’attivazione di questo pathway è coinvolta inoltre nella differenziazione e nel mantenimento delle cellule staminali neuronali, processo cruciale nella patogenesi del GBM, come vedremo in seguito (Signore M. et al. 2014).

Alcuni sottotipi di GBM hanno cellule che esprimono una variante di EGFTVIII mancante del dominio extracellulare, che porta ad un’attivazione costituzionale del recettore (Wikstrand C.J. et al., 1998). Geni onco-soppressori come p21, p53, p16 ed il già citato PTEN sono generalmente mutati nelle cellule di GBM (Zhang X. et al., 2012). L’espressione di Aurora-A, proteina fondamentale nella regolazione e progressione del ciclo cellulare, risulta aumentata (Willems E. et al., 2016). Per il suo meccanismo di funzionamento si rimanda al paragrafo dedicato.

Questo lavoro di tesi è basato sull’inibizione simultanea della proteina Aurora-A e di PDK1, un intermedio nella trasduzione del segnale nella cascata della PI3K/Akt, come strategia terapeutica nel trattamento del GBM. Tale scelta è stata determinata dall’inefficacia dell’attuale standard terapeutico nel medio e lungo periodo; dal fallimento dei trattamenti

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indirizzati ad altri target terapeutici, come EGFR; dalle nuove scoperte in ambito oncologico, per quanto concerne la comprensione del ruolo svolto dalle cellule staminali cancerose, e di queste due proteine nella loro formazione e proliferazione; ed infine dalla necessità di superare la chemioresistenza osservata in seguito alla sola inibizione di PDK1 o Aur-A. La disponibilità di un unico principio attivo capace di agire a livello di più pathway, infatti, garantisce l’efficacia fornita da una terapia indirizzata su molteplici bersagli terapeutici, eliminando tuttavia le criticità connesse all’assunzione simultanea di farmaci diversi. I vantaggi riguardano la maggior prevedibilità dei parametri farmacocinetici di una singola sostanza; la maggior sicurezza, derivante dall’assenza di possibili interazioni farmaco-farmaco; e infine una maggiore compliance del paziente dovuta alla semplificazione del regime terapeutico.

1.1.2 Terapie per il trattamento del GBM

La terapia attuale del glioblastoma prevede la rimozione chirurgica della lesione tumorale abbinata a radio e chemioterapia.

L’importanza della resezione chirurgica nel caso di gliomi è stata ampiamente confermata dal Glioma Outcome Project, che tra il 1997 e il 2001 ha arruolato 788 pazienti operati con diagnosi di glioma di grado III e IV. Questo studio ha evidenziato che l’intervento chirurgico è associato in modo statisticamente significativo ad un aumento temporale della sopravvivenza. Tale studio è stato effettuato su pazienti di età inferiore ai 65 anni, per cui la correlazione non può dirsi applicata per i pazienti più anziani (Laws E.L. et al., 2003). I benefici di un approccio chirurgico sono molteplici: esso produce un sensibile miglioramento clinico alleviando i sintomi dovuti ad aumentata pressione intracranica; riduce il carico tumorale, aumentando l’ossigenazione del residuo con conseguente potenziamento della risposta alla radio e chemioterapia; un minore residuo tumorale rallenta inoltre la comparsa di chemioresistenza. Un’analisi retrospettiva su pazienti affetti da GBM ha evidenziato come l’asportazione di almeno il 98% della lesione macroscopica produca un vantaggio significativo di sopravvivenza (13 mesi al di sopra di tale soglia contro 8,8 mesi al di sotto della stessa). Le cellule di GBM hanno tuttavia elevata capacità invasiva nel tessuto circostante sano, risultano infatti riscontrabili anche a vari centimetri oltre il confine macroscopico della neoplasia. Di conseguenza, una radicalità chirurgica microscopica è pressoché impossibile, e la recidiva post-operatoria è la regola anche in assenza di residui radiologicamente evidenti, che in più dell’80% dei casi si verifica proprio in prossimità del letto chirurgico (Lacroix M. et al., 2001).

La radioterapia postoperatoria prolungain modo significativo la sopravvivenza mediana dei pazienti affetti da GBM fino a circa 12 mesi. La radioterapia è un tipo di terapia fisica che prevede l’utilizzo di radiazioni ionizzanti (IR) nella cura dei tumori. Queste vengono dirette contro le cellule cancerose, allo scopo di provocarne la distruzione per apoptosi a causa delle alterazioni provocate a carico del DNA, che determinano errori in fase di duplicazione. Il trattamento radioterapico standard dei tumori gliali di alto grado prevede l’erogazione di 60 Gy in 30 frazioni giornaliere da 2 Gy ciascuna (sei settimane totali di trattamento). La riduzione della quantità di ossigeno nei pressi delle aree tumorali, causate dalla presenza di vaste regioni ipossiche, limita l’efficacia delle radazioni ionizzanti nel generare i radicali liberi responsabili del danneggiamento del DNA delle cellule tumorali (Cairncross G. et al., 2006).

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La terapia farmacologica attuale del GBM prevede la somministrazione di Temozolomide (Temodar®, Temodal®, TMZ). La TMZ è un agente alchilante somministrabile oralmente, in grado di penetrare la barriera emato-encefalica. Questa si comporta da pro-farmaco, in quanto viene convertita in forma attiva a pH fisiologico: l’anello tetrazinico viene idrolizzato a formare la carbossamide monometil triazeno imidazolo (MTIC), la forma attiva del farmaco. Essa ha la capacità di metilare la posizione N7 della guanina ed in misura minore l'adenosina in O3 e l'atomo O6 della guanosina, portando a un errore nella fase di duplicazione cellulare e quindi morte (figura 1.4).

Figura 1.4: attivazione per idrolisi della temozolomide (TMZ).

Lo standard terapeutico per i pazienti con glioblastoma è TMZ (75 mg/m2 /die) per tutta la durata della radioterapia (60 Gy/30 frazioni) per un massimo di 7 settimane, seguita da 6 cicli di temozolomide adiuvante (150-200 mg/m2 x 5 giorni, ogni 28). I pazienti trattati con temozolomide concomitante alla radioterapia hanno ottenuto un miglioramento significativo della sopravvivenza mediana (12.1 mesi vs 14.6 mesi) e della sopravvivenza a 2 anni (10,4% vs 26,5%).Il trattamento concomitante con temozolomide può portare ad un potenziamento degli effetti della radioterapia. Ciò può tradursi in un aumento della necrosi nelle lesioni neoplastiche ed in una maggiore rottura della barriera ematoencefalica, che può dar luogo a quadri neuro-radiologici di pseudo-progressione della malattia, indistinguibili da quelli reali. I pazienti affetti da glioblastoma trattati con temozolomide concomitante ed adiuvante a radioterapia, possono presentare, alla prima RM di rivalutazione, eseguita ad un mese dal termine del trattamento concomitante, una pseudo progressione in circa il 22-31% dei casi. Tale fenomeno è presumibilmente legato ai fenomeni di necrosi indotti dai trattamenti citotossici (Linee guida AIOM per neoplasie cerebrali ed. 2015).

Un fattore limitante l’efficacia terapeutica del trattamento può essere, ancora una volta, la presenza di zone tumorali non vascolarizzate e quindi incapaci di ricevere e distribuire la TMZ. Si è tentato di risolvere questa problematicità impiantando, direttamente nella sede tumorale, dei wafers biodegradabili contenenti carmustina, una nitrosourea (Gliadel®). Il trattamento prevede l’inserimento fino ad un massimo di 8 wafers nella cavità tumorale post operatoria, capaci di garantire la somministrazione del principio attivo per un periodo di 3 settimane.

Anche la carmustina, una volta metabolizzata nella sua forma attiva, lo ione cloroetil carbonio, agisce da agente alchilante della catena di DNA, inibendone la replicazione ed espletando così la sua attività antineoplastica. I dati, tuttavia, non hanno mostrato alcun

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aumento dell’efficacia di questo trattamento rispetto a quello con TMZ, che rimane il trattamento standard a causa della maggior semplicità d’assunzione (Noel G. et al., 2012). Il meccanismo principale legato alla farmacoresistenza verso TMZ è dato dalla proteina riparatrice del DNA, la metil guanina metil trasferasi (MGMT), che possiede la capacità di rimuovere i gruppi metilici aggiunti agli O6 della guanosina, le lesioni maggiormente citotossiche prodotte dal trattamento con TMZ. La metilazione del promoter del gene MGMT, avente effetto di silenziamento genico, è stata osservata nel 45% dei pazienti affetti da GBM, e rappresenta il più influente fattore prognostico di responsività al trattamento (Ramirez Y.P. et al., 2013).

I processi di angiogenesi che caratterizzano fortemente questo tipo di cellule tumorali, sono stati sfruttati in terapia, ma con scarsi risultati. All’abbondante vascolarizzazione delle cellule di GBM è infatti associata una sovra-espressione del fattore di crescita dell’epitelio vascolare (VEGF), che, legandosi al recettore VEGF-R dà luogo alla differenziazione e proliferazione delle nuove cellule endoteliali che vanno a formare la disorganizzata rete vascolare descritta in precedenza. È stato perciò testato un anticorpo monoclonale umano diretto contro VEGF, il bevacizumab (Avastin®), con lo scopo di impedire l’attivazione di VEGF-R e di conseguenza la vascolarizzazione del tumore. I risultanti sono stati inizialmente promettenti, con un significativo aumento della sopravvivenza nei 6 mesi e un’evidente normalizzazione dell’angiogenesi. In tutti i casi si sono tuttavia manifestate recidive caratterizzate da tumori dotati di un potere infiltrante molto maggiore di quello d’origine. Il DNA microarray su queste cellule tumorali secondarie ha rivelato uno switch del tipo di metabolismo delle cellule tumorali da ossidativo a glicolitico, che dona alle cellule tumorali la capacità di sopravvivere all’ambiente ipossico che lo stesso farmaco ha l’obbiettivo di creare, peggiorando pertanto la prognosi del tumore (Ramirez Y.P. et al., 2013).

Questi risultati hanno spinto la Food and Drug Administration a concedere l’approvazione del farmaco solo nei confronti di GBM recidivanti e non per quelli di nuova diagnosi, mentre l’European Medicine Agency non ha ritenuto opportuno procedere all’autorizzazione del trattamento, alla luce delle problematiche riscontrate.

1.2 Cellule staminali cancerose (CSC)

La presenza di cellule tumorali cancerose (CSC, da “Cancer Stem Cell”) è stata ipotizzata per la prima volta nel 1875 da Julius Cohnheim, il quale teorizzò che i tumori avessero origine da cellule staminali che rimanevano tali anche dopo lo sviluppo embrionale. Tale teoria è stata a lungo trascurata a favore del modello dell’evoluzione clonale, secondo la quale una serie casuale di mutazioni genetiche ed epigenetiche può portare alla formazione di una linea di cellule tumorali. All’interno di essa, le cellule cancerose dotate delle caratteristiche più aggressive sono responsabili della progressione del tumore. Ogni cellula tumorale pertanto, in seguito a una serie di mutazioni genetiche, può diventare invasiva e causare metastasi, determinare la resistenza alla terapia e provocare la ricomparsa della malattia. Tale modello è stato considerato l’unico valido fino al 1971, quando fu elaborato per la prima volta il concetto delle cellule staminali cancerose (Park C.H. et al., 1971). Esso teorizza che a condurre l’avanzamento tumorale sia, in realtà, una sottopopolazione di cellule cancerose, del tutto simili alle normali cellule staminali per quanto riguarda la capacità di

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proliferazione (self-renewing) e differenziamento, ma mancanti dei meccanismi che normalmente regolano tali processi (figura 1.5).

Figura 1.5: rappresentazione schematica del modello delle cellule staminali cancerose a confronto con quello dell’evoluzione clonale per la progressione tumorale.

Ciò conferisce a queste cellule un elevato potenziale oncogeno, sia per quanto riguarda tumori primari che secondari. È sufficiente infatti che una sola cellula staminale neoplastica sfugga alla resezione chirurgica o al trattamento terapeutico affinché la crescita incontrollata del tumore riprenda e si abbia un risveglio della malattia (figura 1.6).

Le CSC sono oggi considerate la causa iniziale di molti tumori, tra cui il GBM, e anche della sua resistenza ai trattamenti terapeutici e della sua tendenza a recidivare (White A.C. et al., 2015). Per questo rappresentano i target farmacologici delle più innovative terapie antitumorali, sui quali si concentra anche questo lavoro di tesi. La loro presenza, inoltre, è stata riconosciuta essere la causa principale del fallimento della terapia con inibitori dell’angiogenesi e della limitata efficacia dell’attuale regime terapeutico del GBM (Ramirez Y.P. et al., 2013).

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Figura 1.6: solo una completa rimozione delle CSC può garantire una totale regressione del tumore.

Queste cellule sono state isolate per la prima volta nel 1997 in pazienti affetti da leucemia mieloide acuta (Bonnet D. et al., 1997) e, in seguito, in vari altri tipi di tumore, tra cui il GBM. Cellule CSC e non-CSC coesistono e si interconvertono in un equilibrio dinamico regolato dalle caratteristiche dell’ambiente nel quale si trovano. Esse sono caratterizzate da una spiccata eterogeneità non solo tra tipi diversi di neoplasia, ma anche tra cellule facenti parte dello stesso tumore (Francis P. et al., 2005). Una delle cause di questa variabilità sembra risiedere nell'instabilità del genoma delle CSC, che comporta una maggiore frequenza di mutazioni puntiformi (Burrell R.A. et al., 2013). Questa eterogeneità si traduce nell’espressione da parte delle CSC di marker diversi, non solo tra un paziente e l’altro, ma anche tra cellule provenienti dallo stesso tumore.

Nel GBM, è stato tuttavia dimostrato che, nonostante la porzione staminale comprenda cloni geneticamente diversi, alcuni marker di staminalità sono espressi in tutte le CSC, quali CD133 (Stieber D. et al., 2014) e Nestin (Bradshaw A. et al., 2016).

Queste scoperte sono state precedute dal lavoro di ricerca di Reynolds e Weiss, che nel 1992 riuscirono ad isolare una popolazione di cellule staminali nel SNC di un topo adulto, e dal lavoro di Wurmser et al. del 2004, che ha evidenziato la correlazione tra queste cellule staminali e l’angiogenesi tumorale. Queste osservazioni hanno portato a mettere in relazione la tipica vascolarizzazione cerebrale di un paziente affetto da GBM, abbondante, in rapida proliferazione e spesso non funzionale, con le CSC. Le cellule endoteliali dei vasi sanguigni di derivazione tumorale contengono infatti le stesse mutazioni genetiche trovate nelle cellule di GBM (Ramirez Y.P. et al., 2013), suggerendo un’avvenuta differenziazione delle CSC in cellule endoteliali. Questa possibilità è stata confermata osservando la diminuzione dei livelli del marker di staminalità CD133 e del marker progenitore endoteliale CD144 in una popolazione di cellule di GBM fatte crescere in un mezzo di differenziamento endoteliale, al cospetto di un aumento dei livelli dei marker per le cellule endoteliali mature (Wang R. et al., 2010).

Il differenziamento delle CSC è regolato dalla via del NOTCH, essenziale per il mantenimento del loro stato di staminalità; dal pathway della VEGF, necessario al

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differenziamento endoteliale, e dalla presenza di ipossia (Ramirez Y.P. et al., 2013). Le CSC hanno mostrato infatti avere un’espressione aumentata di VEGF e del fattore di derivazione stromale 1 (SDF-1), necessari per lo sviluppo della vascolarizzazione tumorale per difendere le cellule di GBM dall’ipossia.

In modelli animali, GBM originati da CSC hanno mostrato possedere una vascolarizzazione molto più marcata rispetto a quelli iniziati da cellule cancerose non staminali, e il trattamento con inibitori dell’angiogenesi ha portato a una distruzione non completa delle nicchie di CSC, con la formazione di cellule resistenti alla terapia (Folkins C. et al., 2009). Anche se non completamente funzionali, questi vasi sanguigni riescono a portare i nutrienti alle cellule tumorali e a formare una nicchia micro-vascolare per le CSC. Le cellule endoteliali, con le quali le CSC tendono ad associarsi in vivo, secernono una serie di fattori necessari per il mantenimento della staminalità e per favorirne la proliferazione. Questa simbiosi è stata confermata osservando come delle cellule tumorali iniettate intracranialmente in modelli animali, crescano molto più velocemente se inserite insieme a cellule endoteliali, rispetto a quando iniettate da sole (Ramirez Y.P. et al., 2013).

Oltre al mantenimento delle CSC, la micro-vascolarizzazione agisce anche da nicchia protettiva verso gli agenti chemioterapici e le IR. Quando le cellule staminali ed endoteliali sono coltivate insieme, si ha un aumento della proliferazione delle cellule staminali in seguito a trattamento con IR o TMZ. Queste cellule, se reiniettate in un cervello animale, sono in grado di dare origine a un tumore, suggerendo che le CSC siano responsabili delle ricomparse di tumori farmaco e IR resistenti. Il meccanismo di questa farmacoresistenza è stato dimostrato risiedere in una regolazione positiva, operata dalle cellule endoteliali nei confronti dei meccanismi di riparazione del DNA delle CSC adiacenti, oltre che da una protezione fisica (Borovski T. et al., 2009; 2013). Inoltre, recenti studi hanno dimostrato che le CSC contribuiscono alla vascolarizzazione e alla farmacoresistenza del GBM differenziandosi in periciti, cellule dotate di funzione protettiva nei confronti delle cellule endoteliali (Cheng L. et al., 2013).

La chemioresistenza delle CSC deriva anche da un’aumentata attivazione intrinseca dei checkpoint del ciclo cellulare e dei meccanismi di riparazione del genoma. Le proteine riparatrici del DNA, la cui espressione risulta aumentata nelle CSC, sono: la proteina MGMT (Borovski T. et al, 2009; 2013); le proteine dei checkpoint del ciclo cellulare, come la proteina atassia telangioectasia (ATM) o la Checkpoint chinasi 1 e 2 (Chk1/2) (Ramirez Y.P. et al., 2013), che arrestano il ciclo cellulare in presenza di alterazione del DNA indotta dai farmaci antitumorali, dando tempo alle CSC di riparare il danno che altrimenti ne indurrebbe l’apoptosi; il pathway del NOTCH, che, oltre ad avere la funzione di mantenere lo stato di staminalità delle CSC, contribuisce anche alla sua radioresistenza (Wang J. et al., 2010).

Terapie come quella con TMZ e radiazioni ionizzanti, infine, a causa del loro meccanismo d’azione, sono capaci di indurre apoptosi principalmente in cellule a rapida proliferazione. La natura relativamente quiescente delle CSC le rende quindi intrinsecamente resistenti a questo tipo di trattamenti (Ramirez P. et al., 2013).

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La moderna ricerca in ambito oncologico, grazie alla crescente comprensione nei confronti delle CSC nell’ambito dei processi cancerogenici, è indirizzata alla distruzione di questa riserva di cellule staminali. Quest’ultima, infatti, se non eliminata completamente dall’organismo, è causa di farmacoresistenza e recidività della malattia, impedendo di fatto una totale guarigione del paziente. Le strategie per estirpare questo pool di CSC si basano principalmente sull’induzione del differenziamento, a causa della maggior sensibilità delle cellule differenziate ai chemioterapici, e sull’indurne l’apoptosi, andando ad agire sui pathway specificatamente alterati nella componente staminale.

1.3 Le proteine Aurora chinasi

Le proteine Aurora chinasi sono una famiglia di serin-treonin chinasi implicate in numerosi processi della divisione cellulare, quali il corretto assemblaggio e la stabilità del fuso mitotico, la condensazione cromosomica, le interazioni cinetocori-microtubuli e l’orientamento dei cromosomi sul piano metafasico. Si tratta di importanti proteine mitotiche la cui deregolazione è ragione di instabilità genomica, aspetto fondamentale nella genesi tumorale. In particolare, una loro alterazione può portare a difetti della duplicazione e della separazione dei centrosomi, con conseguente anaplodia genetica.

La loro espressione appare aumentata in molti tipi di tumore, tra cui il GBM, ed è correlata a una peggiore prognosi (Lehman N.L. et al., 2012).

Dato il ruolo fondamentale delle Aurora chinasi nella regolazione della divisione delle cellule, si descrivono di seguito le fasi principali del ciclo cellulare.

1.3.1 Il ciclo cellulare

Il ciclo cellulare è l’insieme di eventi che regolano la crescita e la divisione di una cellula in relazione a stimoli esterni. Nelle cellule somatiche consiste nell’alternanza tra interfase e divisione mitotica (figura 1.7).

L’interfase è caratterizzata da tre tappe successive, G1 (gap1, primo intervallo), S (sintesi) e G2 (secondo intervallo): nella fase G1 (fase di pre-sintesi) la cellula replica tutti i suoi organelli e si prepara alla replicazione del DNA e dei cromosomi, che avviene nella fase S; nella fase G2 (fase post-sintesi) la cellula cresce in dimensione e si prepara alla divisione cellulare che ha luogo durante la fase M. Nell’interfase, quindi, avviene la duplicazione esatta dei cromosomi, mentre nella successiva mitosi si ottiene la distribuzione di un assetto cromosomico completo a ciascuno dei due nuclei figli. Le molecole di DNA nucleare completamente duplicate, si condensano e formano strutture bastoncellari ispessite, i cromosomi. Ciascun cromosoma è in realtà duplice, in conseguenza della replicazione del DNA e della duplicazione delle proteine cromosomiche avvenute durante l’interfase precedente. Le due parti duplicate di ciascun cromosoma, chiamate cromatidi fratelli, sono di norma l’uno la copia dell’altro e contengono esattamente la stessa informazione genetica. La mitosi porta alla separazione dei due cromatidi di ciascun cromosoma, e alla loro

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distribuzione verso le estremità opposte della cellula in divisione, dove verranno racchiusi in due nuclei figli distinti.

Figura 1.7: schema del ciclo cellulare.

La mitosi è divisibile in quattro fasi, ed è conclusa dalla citodieresi, che consiste nella divisione del citoplasma per formare le due cellule figlie. Nella profase si ha la condensazione della cromatina nel nucleo della cellula a formare delle strutture visibili al microscopio ottico, i cromosomi, costituiti ognuno da due cromatidi fratelli. In tarda profase, definita anche prometafase, si ha la rottura dell’involucro nucleare, la separazione dei centrosomi o “centri di organizzazione dei microtubuli” (MTOC), strutture dense situate in prossimità del nucleo costituite da una coppia di organelli cilindrici detti centrioli, i quali vengono duplicati durante la fase S e rimangono appaiati fino all’innesco della profase mitotica. Quando, successivamente, si separano migrando ai poli opposti della cellula, i centrosomi divengono i centri focali dell’assemblaggio dei microtubuli costituenti il fuso mitotico. I centrosomi si posizionano ai poli della cellula creando il fuso mitotico, una struttura a raggiera che collega i due centrioli tramite i microtubuli. I microtubuli si associano dunque ai cromosomi legandosi nella loro regione centrale, in una zona chiamata cinetocore. La successiva metafase comincia quando tutti i cromosomi sono stati allineati sulla piastra metafasica, cioè all’equatore del fuso, per azione dei microtubuli provenienti dai due centrioli disposti ai poli della cellula. Nell’anafase i cromatidi fratelli si allontanano l’uno dall’altro muovendosi verso i poli opposti. La telofase, l’ultima fase della mitosi, completa la migrazione dei cromosomi ai due poli. Successivamente le vescicole costituite dalla membrana nucleare si attaccano alla superficie dei cromosomi e si fondono tra loro ricostituendo il cariolemma, i microtubuli del fuso scompaiono e il nucleolo si riforma. Dopo la formazione dei due nuclei avviene la citodieresi, ovvero la divisione del citoplasma della cellula. Alla fine di questo processo si ottengono due cellule distinte, le cellule figlie. Alcune cellule, infine, escono dal ciclo cellulare ed entrano in uno stato di quiescenza chiamato G0,

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le cellule nervose e quelle del muscolo scheletrico striato rimangono in questa fase per tutta la vita dell’organismo.

L’insieme di questi processi è finemente regolato dall’azione di numerose proteine chinasiche, la cui attività fosforilativa determina l’attivazione delle proteine responsabili dei processi precedentemente descritti. Ogni transizione di fase è sottoposta a sistemi di controllo (checkpoint), in grado di rilevare alterazioni a carico del DNA o dei processi utili alla corretta segregazione cromosomica e ad arrestare temporaneamente il ciclo cellulare, permettendo l’intervento dei meccanismi di riparazione. Qualora, pur rallentando la progressione del ciclo cellulare, il danno non sia riparabile, la cellula attiva il processo di apoptosi. La presenza dei punti di controllo è fondamentale, perché nel corso delle generazioni la progressiva alterazione del patrimonio genetico aumenterebbe le probabilità di innesco del processo di trasformazione neoplastica. I principali regolatori della progressione del ciclo cellulare sono le chinasi ciclina-dipendenti (CDKs), una famiglia di protein-chinasi eterodimeriche, la cui attività dipende dalla presenza di una subunità regolatoria denominata ciclina, che fosforilano una serie di effettori responsabili di molti processi cellulari, dalla replicazione del DNA alla mitosi. Tuttavia diverse altre proteine agiscono come importanti regolatori mitotici, sia direttamente che in cooperazione con le CDKs. Tra queste, la famiglia delle chinasi Aurora, attive nella regolazione della segregazione cromosomica e della citocinesi. Appare evidente, quindi, che eventuali mutazioni a carico di queste proteine facilitino lo sviluppo tumorale.

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1.3.2 La proteina Aurora-A chinasi

La famiglia delle Aurora chinasi è stata scoperta nel 1995 in modelli di Drosophila melanogaster (Glover D.M. et al., 1995). Il genoma dei mammiferi codifica per tre diverse Aurora chinasi, la cui funzione e localizzazione è mostrata in tabella 1.

SUBSTRATO

LOCALIZZAZIONE

FUNZIONI

CELLULARE

PP1 Assemblaggio

del fuso; P53

AURORA-A Poli del fuso Citocinesi;

CDH-1 Centrosomi Maturazione e TPX-2 separazione del RAS-GAP centrosoma. ISTONE H3 DESMINA Allineamento e INCENP Cromosomi segregazione

AURORA-B CENP-A del cromosoma;

REC-8 Solco mediano Citocinesi;

VIMENTINA Dinamismo dei

M-CAK microtubuli.

SURVIVINA

Spermatogenesi;

AURORA-C AURORA-B Cromosomi Segregazione

INCENP Solco mediano Cromosomica; Citocinesi.

Tabella 1: localizzazione e funzione delle tre chinasi Aurora nei mammiferi.

La proteina Aurora-A (Aur-A) nell’uomo è costituita da 403 aminoacidi ed ha un peso molecolare di 46 kDa (figura 1.8). Essa è prodotta dal gene BTAK (breast tumor amplified kinase), chiamato anche STK15, che si trova sul cromosoma 20q13, in una regione che risulta amplificata in numerosi tumori. Il dominio catalitico delle Aurora chinasi è altamente conservato tra le isoforme e contiene il sito di auto-fosforilazione necessario per l’attivazione della funzione chinasica in Thr288. L’iperespressione della proteina può derivare, oltre che da amplificazione genica, anche da meccanismi trascrizionali e post-trascrizionali. Il dominio catalitico è preceduto da una piccola regione C-terminale, che comprende una sequenza aminoacidica chiamata “destruction box” (D-box), riconosciuta dal ciclosoma, chiamato anche “anaphase promoting complex/cyclosome” (APC/C), che ne consente la

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degradazione tramite il proteosoma ubiquitina-dipendente. Per l’attivazione del D-box è necessaria la contemporanea defosforilazione della Ser51 nel “D-box activating domain box” (A-box) presente nella regione ammino terminale (Yan M. et al., 2016). Eventuali mutazioni a carico di queste regioni, o a carico delle proteine che interagiscono con esse, promuovendone la degradazione ubiquitino mediata, come la proteina del checkpoint mitotico Chfr o l’oncosoppressore p53, possono infatti portare a concentrazioni anomale della proteina nonostante l’assenza di amplificazione a carico del gene BTAK (D’Assoro A.B. et al., 2015). Aurora-A diventa rilevabile alla fine della fase G2, nella regione dei centrosomi, quando viene attivata. Durante la prometafase e la metafase si localizza sul fuso bipolare in seguito alla rottura dell’involucro nucleare. Alla transizione anafase-telofase la maggior parte di Aurora-A è degradata (Yan M. et al., 2016).

Figura 1.8: struttura della proteina Aurora-A, con il dominio catalitico situato centralmente tra la regione C-terminale contenente il D-Box, a destra, e la regione N-C-terminale contenente l’A-box, a sinistra.

La proteina prende parte a eventi chiave del processo mitotico quali:

 Maturazione del centrosoma: Aur-A causa la fosforilazione della “Acidic coiled coil containing protein” (TACC), che porta alla stabilizzazione dei microtubuli del centrosoma (Kinoshita K. et al., 2005).

 Ingresso nella fase mitotica: Aur-A, in assenza di danno al DNA, si associa alla proteina Bora prima dell’ingresso in fase M, ciò induce fosforilazione e attivazione della “Polo-like kinase 1” (PLK 1), che attiva il complesso CDK1/ciclina B, che promuove la transizione G2/M. La sovra-espressione di Aur-A induce un’attivazione permanente di CDK1 portando all’abrogazione di questo checkpoint (Stark G.S. et al., 2006).

 Formazione del fuso mitotico: durante la profase, Aur-A promuove la rottura dell’involucro nucleare e la separazione dei centrosomi fosforilando una proteina motrice del ciclo cellulare, Eg5 (Giet R. et al, 1995).

 Corretto allineamento dei cromosomi: durante l’allineamento cromosomico in metafase, Aur-A partecipa al corretto funzionamento dei cinetocori fosforilando le proteine CENP-A e CENP-E, garantendo il giusto orientamento bidirezionale dei cromosomi (Kunitoku N. et al., 2003).

 Inizio della citodieresi: alla fine della mitosi, la degradazione tramite il complesso APC/C è richiesta per dare inizio alla citodieresi e uscire dalla fase mitotica (Floyd S. et al., 2008).

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Oltre al fondamentale ruolo svolto nel controllo e nella progressione del ciclo cellulare, recentemente si è scoperto che la proteina Aur-A ha anche altre funzioni, le cui deregolazioni possono risultare cruciali nella genesi e nella progressione tumorale. Questi processi sono direttamente collegati alla componente staminale del GBM, che, come abbiamo visto precedentemente, è la principale ragione dell’aggressività e della farmacoresistenza di questo tipo di neoplasia, oltre che esserne presumibilmente la causa. Questi processi sono:  Divisione cellulare asimmetrica: questo tipo di divisione è caratteristica delle cellule

staminali. Essa ha come fine la formazione di una cellula differenziata e di una staminale a partire da una cellula progenitrice indifferenziata, come una CSC. Ciò garantisce il mantenimento di una riserva di cellule staminali nonostante il processo di differenziamento, ed avviene grazie ad una distribuzione non omogenea del patrimonio genetico tra le cellule figlie, tramite opportuno orientamento del fuso mitotico. Questo determina la distribuzione del fattore citoplasmatico Numb verso una sola delle due cellule, che causerà in essa l’inattivazione della via del Notch, portando così alla differenziazione cellulare (Willems E. et al., 2016). L’inibizione di Aurora-A causerebbe quindi una distribuzione omogenea del fattore Numb con conseguente soppressione della riserva staminale del tumore tramite differenziamento neuronale.

 Transizione epitelio-mesenchimale: questa transizione è responsabile del conferimento alle cellule di GBM delle proprietà invasive e di migrazione, oltre a concorrere alla loro formazione. Molti fattori di trascrizione di questo tipo di transizione conferiscono alle cellule tumorali un fenotipo mesenchimale multi-potente, che dona ad esse capacità di migrazione e farmacoresistenza. In altri tipi di tumore, come quello del seno, si è notato come l’inibizione di Aur-A aumenti il fenotipo epiteliale delle CSC e prevenga la formazione di metastasi a distanza nel topo (D’Assoro A.B. et al., 2014). Aur-A protegge infatti le proteine della famiglia MYC, fattori di trascrizione coinvolti nell’avanzamento del ciclo cellulare e nella promozione della proliferazione delle cellule staminali, dalla loro degradazione ubiquitino mediata (Yan M. et al., 2016). La loro stabilizzazione causa, inoltre, una iperespressione di VEGF promuovendo l’angiogenesi nel GBM (Romain C. et al., 2014).

1.3.3 Inibitori delle Aurora chinasi in sperimentazione

Data la crescente consapevolezza del ruolo delle Aurora chinasi nei processi neoplastici, e della loro sovra-espressione in molti tipi di tumore, non sorprende che negli ultimi anni queste siano diventate un importante bersaglio farmacologico nella ricerca di terapie antitumorali più efficaci e selettive di quelle attuali. Nell’ultima decade, almeno tredici differenti inibitori sono stati testati in trial clinici di fase 1. Quasi tutti i composti sperimentati inizialmente erano pan-inibitori di Aurora-A, -B e –C, molti di loro hanno mostrato affinità anche verso altre chinasi implicate nei processi di cancerogenesi, quali ABL, FLT3, VEGFR2 e JAK 2/3 (D’Assoro A.B. et al., 2016). Molti di questi trial sono stati tuttavia sospesi a causa della tossicità ematologica manifestata o per la scarsa attività antitumorale. L’unica molecola che ha finora raggiunto una sperimentazione di fase 3 è MLN 8237 (Alisertib), inibitore selettivo di Aurora-A. Il primo degli inibitori specifici di Aurora-A, selettività associata ad un profilo di tossicità ematologica più tollerabile, è stato MLN8054, il quale, tuttavia, dava come importante effetto collaterale una sonnolenza marcata, attribuita

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al legame con la subunità α-1 del recettore GABAA (Dees E.C. et al., 2011). A questo

problema si è tentato di porre rimedio con la sintesi di molecole più specifiche, come Alisertib, e con il frazionamento giornaliero della dose somministrata.

I risultati delle sperimentazioni hanno dimostrato un’efficacia maggiore di questa classe di composti nei confronti dei tumori ematologici, rispetto a quella nei confronti di tumori solidi. Ciò è probabilmente dovuto alla necessità di queste molecole di essere esposte a diversi cicli di replicazione cellulare, per far sì che l’effetto sulla chinasi Aurora inizi ad essere clinicamente rilevante, prima che si manifestino i severi effetti collaterali del trattamento. Il maggiore tasso di proliferazione dei tumori ematologici, unito all’inibizione aggiuntiva di altre proteine coinvolte particolarmente in questo tipo di neoplasie, può spiegare la migliore responsività al trattamento.

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Composto Struttura Inibizione Aurora O ║ R = -P-OH

׀

OH Barasertib R = -H Barasertib-hQPA Aurora-A Ki = 1,4 μM Aurora-B Ki < 0,001μM (per barasertib-hQPA) Alisertib (MLN8237) Aurora-A IC50: 1,2 nM Aurora-B IC50: 396,5 nM Danusertib (PHA-739358) Aurora-A IC50 : 13 nM Aurora-B IC50 : 79 nM AT9283 Aurora-A: 52% inibizione a 3 nM Aurora-B: 58% inibizione a 3 nM PF-03814735 Aurora-A IC50: 5 nM Aurora-B IC50: 0,8 nM AMG 900 Aurora-A IC50: 5 nM Aurora-B IC50: 4 nM

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Attualmente in fase di sperimentazione si trovano i seguenti inibitori delle Aurora chinasi: - Barasertib (AZD1152):

Barasertib, la cui struttura è riportata in tabella 2, agisce da pro-farmaco: in vivo è rapidamente convertito nella sua forma defosforilata, barasertib-hQPA. Quest’ultimo è stato il primo farmaco a mostrare specificità verso B (Ki < 0,001 μM), rispetto ad Aurora-A (Ki = 1,4 μM) (Mortlock Aurora-A.Aurora-A. et al., 2011). Il composto è attualmente al centro di trial clinici in pazienti affetti da tumori solidi ed ematologici. Un target secondario di questo composto si è scoperto essere la “fms-like tyrosine kinase 3” (FLT3), una proteina iperespressa nelle leucemie mieloidi acute, la cui inibizione selettiva porta velocemente all’insorgenza di farmacoresistenza, fenomeno apparentemente assente quando l’inibizione interessa più chinasi (Grundy M. at al., 2010). Il manifestarsi di effetti avversi di grado 3 o maggiore, quali neutropenia febbrile, leucopenia, trombocitopenia, stomatite ed infiammazione delle mucose, prima dell’instaurarsi dell’effetto terapeutico, ha bloccato la sperimentazione del farmaco nei trial per tumori solidi. I tumori ematologici hanno invece dato una buona risposta, con un profilo di tossicità più tollerabile, anche se della stessa natura (Bavetsias V. et al., 2015).

 Alisertib (MLN8237)

Alisertib (MLN8237, tabella 2) è un inibitore selettivo di Aurora-A disponibile oralmente, con una IC50 di 1,2 nM, verso Aur-A e di 396,5 nM verso Aur-B (Manfredi M.G. et al.,

2011). Il farmaco ha mostrato attività antiproliferativa in modelli preclinici su molte linee tumorali umane, sia in vitro che in vivo, in carcinomi quali quello del polmone, della prostata, delle ovaie e delle cellule linfatiche, oltre che per neoplasie pediatriche come neuroblastoma e leucemia linfoblastica acuta. Per il suo ampio spettro di attività, Alisertib è attualmente sperimentato in alcuni trial di fase 1 e 2 su pazienti, anche pediatrici, affetti da tumori solidi, oltre che da tumori ematologici. Recentemente è stata interrotta una sperimentazione di fase 3 in un trial per il linfoma a cellule T periferiche recidivato e refrattario, a causa del mancato raggiungimento dell’endpoint primario, consistente in un aumento del tasso di sopravvivenza libero da progressione, rispetto all’attuale standard terapeutico. Gli effetti avversi più frequenti, correlati con il meccanismo d’azione del farmaco, sono quelli tipici osservati con tutte le classi di inibitori delle Aurora chinasi: neutropenia, leucopenia, anemia, trombocitopenia, senso di affaticamento (Bavetsias V. et al., 2015).

Danusertib (PHA-739358)

Danusertib (PHA-739358, tabella 2), è un potente inibitore di tutte le isoforme delle chinasi Aurora (Aurora-A IC50 = 13 nM, Aurora-B IC50 = 79 nM, Aurora-C IC50 = 61 nM)

(Carpinelli P. et al., 2007). Inoltre possiede attività inibitoria nei confronti di altre chinasi considerate target antitumorali, come ABL, RET e TRK-A. È stato inserito in trial clinici in fase 1 e 2 su pazienti affetti da tumori solidi in stadio avanzato o in metastasi. In queste sperimentazioni la tossicità si è rilevata accettabile, nonostante il manifestarsi di neutropenia, ma l’efficacia antitumorale non è stata sufficiente. In un trial in fase 2, su pazienti affetti da leucemia mieloide cronica resistenti alla terapia con Imatinib (inibitore chinasico), il trattamento ha dato buoni risultati, con due remissioni complete della malattia in individui portanti una specifica mutazione genetica. Gli effetti collaterali di grado 3-4 riportati in questo caso sono stati anemia, diarrea e neutropenia febbrile (Bavetsias V. et al., 2015).

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- AT9283

AT9283, la cui struttura è riportata in tabella 2, è un inibitore chinasico multitarged, molto potente nei confronti delle chinasi Aurora (Aurora-A: 52% inibizione a 3 nM; Aurora-B: 58% inibizione a 3 nM), e attivo nei confronti di JAK2, FLT-3 e ABL (Howard S. et al., 2009). Data la buona attività antitumorale su un ampio range di linee cellulari tumorali umane, il composto è attualmente impiegato in sperimentazioni di fase 1 su pazienti, anche in età adolescenziale, affetti da tumori solidi e non. Il fattore limitante la dose somministrabile è risultato essere la tossicità cardiaca, che include infarto del miocardio, ipertensione e cardiomiopatia, oltre al manifestarsi di sindrome da lisi tumorale e polmonite. In circa un terzo dei pazienti affetti da leucemia mieloblastica acuta, la lesione del midollo osseo è diminuita di almeno il 38% in seguito al trattamento. Tuttavia questa diminuzione è stata transitoria e nessun miglioramento clinico è stato registrato (Bavetsias V. et al., 2015).  PF-03814735

PF-03814735 (tabella 2), è un potente inibitore di Aurora-A e Aurora-B (Aurora-A IC50 = 5

nM, Aurora-B IC50 = 0,8 nM) disponibile oralmente, capace inoltre di inibire quasi

completamente diverse altre chinasi implicate in processi tumorali (e.g., FLT3, JAK2, TrkB, MST3) alla concentrazione di 100 nM (Jani J.P. et al., 2010). Il composto ha mostrato una buona attività antiproliferativa nei confronti di varie linee cellulari tumorali umane, ma in una sperimentazione di fase 1, su pazienti affetti da tumori solidi in stadio avanzato, ha evidenziato una scarsa attività antitumorale, nonostante un profilo di tossicità (neutropenia e incremento dei livelli di aspartato transaminasi) tollerabile (Schoffski P. et al., 2011).  AMG 900

AMG 900 (tabella 2), è un potente inibitore chinasico di tutte le isoforme di Aurora, inibendo Aurora-A, -B e –C con un IC50 di 5, 4, e 1 nM rispettivamente. Il composto ha mostrato in

vitro una potente attività antiproliferativa nei confronti di varie linee tumorali resistenti al trattamento con altri farmaci, mostrando anche un effetto sinergico con il Paclitaxel e Ixabepilone, farmaci antitumorali diretti contro i microtubuli del fuso mitotico, nel trattamento del tumore farmaco resistente del seno triplo negativo (TNBC) (Payton M. et al., 2010). AMG 900 è attualmente in sperimentazione in trial clinici di fase 1 su pazienti adulti, per tumori solidi ed ematologici (Geuns-Meyer S. et al., 2015).

1.4 La proteina PDK1

La phosphinositide-dependent kinase 1 (PDK1), è una serin-treonin chinasi coinvolta in alcuni importanti processi cellulari come il metabolismo energetico (Gagliardi P.A. et al., 2015), la differenziazione neuronale (Zurashvili T. et al., 2013) e la migrazione cellulare (Gagliardi P.A. et al., 2015). La sua deregolazione, presente in molti tipi di tumore, contribuisce a conferire proprietà cancerogene ed invasive alle cellule.

PDK1 a livello molecolare ha la funzione di collegare la “phosphatidylinositol 3-kinase” (PI3K) alla “protein kinase B” (AKT), attivandola, in risposta alla stimolazione dei recettori per i fattori di crescita o per l’insulina (figura 1.9). Ciò si traduce in una promozione della divisione cellulare, inibizione dei processi di apoptosi e in una stimolazione dell’uptake e stoccaggio del glucosio (Medina J.R. et al., 2011). I fattori di crescita, o l’insulina, si legano a recettori tirosin-chinasici che attivano PI3K, che fosforila la posizione 3 dell’inositolo del

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fosfatidil-inositolo 4,5 bisfosfato (PI[4,5]P2) per produrre il secondo messaggero

fosfatidil-inositolo 3,4,5 trisfosfato (PI[3,4,5]P3). PI[3,4,5]P3, si lega ad AKT trasportandolo alla

membrana plasmatica, dove si associa a PDK1, la quale fosforila AKT in Thr308, attivandola. AKT tramite fosforilazione di vari substrati, tra cui MAPK, la cui funzione è stata già descritta, è responsabile della trasduzione del segnale che porta alla proliferazione cellulare (Nagashima K. et al., 2011).

Oltre ad AKT, PI[3,4,5]P3 è capace di legarsi anche ad altre proteine, con i medesimi effetti

di traslocazione ed associazione a PDK1. Un’importante proteina iperattivata da questo meccanismo in molti processi tumorali, è la fosfolipasi Cγ1 (PLCγ1), la quale, in seguito al legame con PI[3,4,5]P3 e all’associazione con PDK1, viene fosforilata da quest’ultima sul

residuo Tyr783, attivandosi. La fosfolipasi, grazie alla sua attività enzimatica, è responsabile dei processi di migrazione ed invasione cellulare, ovvero della disseminazione di metastasi tumorali (Sala G. et al., 2008).

Figura 1.9: rappresentazione schematica dell’attivazione del complesso PDK1/AKT.

PI3K risulta mutata nell’80% dei pazienti affetti da GBM, che presentano una riduzione del numero di copie associato ad una mutazione analoga nel gene PTEN, codificante per la fosfoinositide 5-fosfatasi, la quale defosforila il prodotto di PI3K, la PI(3,4,5)P. Ciò si traduce in un’attivazione permanente della segnalazione PI3K e in un’incontrollata proliferazione cellulare (Waugh M.G., 2016). La stessa proteina PDK1 risulta iperespressa in vari tipi di tumore, tra cui il GBM (Gagliardi P.A. et al., 2015).

PDK1 è costituita da 556 aminoacidi, ed ha una conformazione globulare. È costituita da due domini (figura 1.10): uno serin-treonin chinasico N-terminale e un dominio PH (pleckstrin homology) C-terminale, che lega il secondo messaggero PI[4,5]P2 o PI[3,4,5]P3.

Il dominio PH è presente anche in AKT ed il legame alla forma trifosfata dell’inositolo fa sì che le proteine si co-localizzino entrambe sulla membrana plasmatica (Alessi D.R. et al., 1997). Il dominio chinasico comprende due importanti siti regolatori: il loop di attivazione (T-loop), la cui auto trans-fosforilazione al residuo Ser241, per causa di un’altra PDK1, è necessaria per la sua attivazione, ed il “PDK1-interacting fragment” (PIF pocket), sito di legame idrofobico con cui si associa ai suoi substrati citosolici (Biondi R.M. et al., 2000).

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Un altro importante elemento strutturale del dominio chinasico è la alfa-elica la quale collega PIF al T-loop, che lega l’ATP (ATP-binding site).

Figura 1.10: struttura di PDK1, in evidenza il dominio chinasico N-terminale comprendente il PIF pocket ed il T-loop, ed il dominio PH C-terminale.

Oltre ad essere fondamentale per la proliferazione e migrazione cellulare, alcuni sottoprodotti di questa via di segnalazione cellulare, come IP6,sembrano essere utilizzabili

dalle cellule come energia chimica alternativa all’ATP, rendendo perciò possibile la crescita tumorale in condizioni anaerobiche (Windhorst S. et al., 2013).

1.4.1 Inibitori di PDK1 in sperimentazione

Con la recente comprensione del ruolo svolto da PDK1 nei processi cancerogenici, e a causa della sua sovra-espressione in molti tipi di tumore, questa proteina chinasica è diventata un promettente target farmacologico nelle terapie oncologiche. La loro sintesi è stata condotta sia grazie all’osservazione di molecole già note, capaci di interagire con la PDK1, sia con l’utilizzo di modelli computazionali. Notevoli progressi sono stati raggiunti nella messa a punto di inibitori dotati di selettività verso PDK1, grazie alla progettazione di ligandi affini verso domini recettoriali diversi dall’ATP-binding site, come il dominio PH, a causa della somiglianza strutturale del sito di legame per l’ATP in molte proteine chinasiche. Questa selettività verso PDK1 tuttavia, se da una parte permette di caratterizzare inequivocabilmente l’effetto biologico derivante dall’inibizione di questo specifico pathway, da un punto di vista clinico dà luogo a fenomeni di farmacoresistenza, a causa dell’implementazione di meccanismi alternativi nell’attivazione di AKT, abbassando notevolmente l’efficacia antitumorale di questi composti. AKT infatti, oltre al meccanismo d’attivazione dipendente dalla co-localizzazione sulla membrana con PDK1, mediata dal legame del dominio PH di queste due proteine con PIP3, possiede un sistema secondario di

regolazione citosolica. Questo consiste nella fosforilazione del residuo Ser473 sul motivo idrofobico (HM) di AKT da parte della “Mammalian target of rapamycin complex 2” (mTORC2), che permette ad HM di associarsi al PIF pocket di PDK1. A questo punto segue la fosforilazione citosolica del residuo Thr308 di AKT, da parte di PDK1, che ne causa l’attivazione (Medina J.R., 2013). Questa via d’attivazione diventa quella principale quando la co-localizzazione PH-mediata di PDK1 e AKT, meccanismo sfruttato dai composti più selettivi, viene inibita. Non sorprende, quindi, che dei vari inibitori di PDK1 solo quelli dotati di attività su più proteine chinasiche, o quelli provati in associazione con altri farmaci antitumorali, abbiano dato risultati apprezzabili nelle sperimentazioni cliniche.

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