UNIVERSITÀ DI PISA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE Dottorato di Ricerca in Filosofia
XXIX Ciclo
TESI DI DOTTORATO La storia in figura.
Itinerari sul concetto di storia a partire dagli studi vichiani di Erich Auerbach.
RELATORE
Prof. Alfonso Maurizio Iacono
CANDIDATO Matteo Bensi
Indice
Introduzione: La storia come problema ... p. 4
a. Auerbach e la filologia come arte critica b. Il punto di partenza c. Il filo conduttore d. I membri intermedi e. Il frammento f. La collezione e l’archeologia g. Figura
h. Ma come può l’individuo giungere alla sintesi?
1. La mente geroglifica – Auerbach lettore di Vico ... p. 20 a. La scienza senza nome
b. Vico barocco
c. Il senso del barocco in Auerbach nel confronto con Benjamin (da completare) d. La Provvidenza e. Natura e storia f. Il primo uomo g. La mente geroglifica i. Uomini poeti ii. Lingue e epoche iii. La Lingua Divina
iv. Permanenze e rottami della Lingua Divina h. La Scienza Nuova come filologia che comprende
2. La storia a pezzi ... p. 53
a. I frammenti della Weltgeschichte b. Individualità e sviluppo
c. Individualità e tipo
d. Il carattere poetico come un tipo
e. Sopravvivenze: storia di una paradigma da Vico, Vignoli, Usener e Warburg. (da completare)
3. Ricomporre l’intero ... p. 91
a. Alla ricerca di “qualcosa di universale” b. Corso storico. Un’idea di sviluppo c. Ansatzpunkt
d. Figura [Auerbach] e allegoria [Benjamin]: due proposte di interpretazione e ricomposizione del tempo
i. Figura ii. Allegoria
iii. Figura, allegoria, storia e. Sintesi/Ricomposizioni:
i. Sintesi culturale del presente: Troeltsch ii. Mnemosyne, l’atlante figurativo di Warburg
iii. Rappresentazione perspicua e membri intermedi: Wittgenstein iv. La collezione e la lista
v. Lo storicismo di Erich Auerbach
Conclusione: cercare una sintesi, oggi ... p. 142
a. Dalla frammentarietà della storia alla frammentarietà dei dati b. Di nuovo sul punto di partenza
Appendice
a. Introduzione alla Scienza Nuova (1924) ... p. 1 b. Introduzione alla Scienza Nuova (1947) ... p. 23 c. Figura [nuova edizione] (1939) ... p. 49
Introduzione: La storia come problema
La ricerca storica, ci ricorda Momigliano, ha a che fare primariamente con tre aspetti: selezione, spiegazione e valutazione1. Di cosa? Delle “evidenze” e dei
“fatti” raccolti e collezionati dallo storico. In un ambito di ricerca storicista poi, si dovrà dar conto del punto di vista sempre mutevole e determinato dell’osservatore; dei presupposti che guidano la ricerca, la selezione dei fatti ma ne orientano anche la spiegazione e la valutazione. Questi presupposti sono come categorie, in senso kantiano, che consentono quindi di collocare i fatti in un orizzonte di significato e di narrabilità; senza di essi non è neppure possibile riconoscere l’evidenza storica di un fatto nel suo contesto di appartenenza né tantomeno iscriverlo in nuovi contesti di spiegazione e valutazione. Mantenendo ancora provvisoriamente un lessico kantiano, si può sostenere che i fatti senza i presupposti, le categorie, siano ciechi, quindi non evidenti e del tutto opachi per lo storico. Così interpretata la storiografia sarà quindi sempre una narrazione da un punto di vista preciso e ben determinato temporalmente: quello del presente, del “noi qui ed ora”. È questo anche il senso della celebre tesi crociana, che si mantiene nel solco della teoria del giudizio kantiana seppur individuando in un “bisogno pratico” la “categoria/presupposto”: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’»2.
Il tema di questa tesi è la storia con la “s” minuscola – non abbiamo in mente la grande Storia – la narrazione storica come modo di rappresentazione dei fatti e dei dati e quindi come possibile forma di sintesi e di generalizzazione. Discuteremo il modello di spiegazione storica a partire da alcuni autori del tardo storicismo tedesco e cercheremo di capire se questa non sia, come dice Wittgenstein, solo uno dei modi di raccogliere i dati, della loro sinossi e se si possa pervenire per altre
1 A. Momigliano, Storicismo rivisitato, in Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, p. 459. 2 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, p. 5.
strade a una sintesi, a «un’immagine generale che non abbia la forma di un’ipotesi sullo sviluppo cronologico […]» . Oltre a queste domande ci guideranno alcuni paradigmi3, tra gli altri: punto di partenza – figura – sviluppo – frammento –
membri intermedi – rappresentazione perspicua. Ciascuno di questi risulterà intelligibile dall’esibizione dei casi singoli riconducibili ad essi e infine dalla big picture che vorremmo tratteggiare e che interloquisce con la domanda di Wittgenstein se non esistano modi alternativi allo sviluppo cronologico per la presentazione dei dati, se sia possibile una sintesi che renda i dati, i fatti del passato e i big data del presente, comprensibili indipendentemente da ogni orizzonte di significato esterno ad essi, e dalle categorie o presupposti del soggetto che li discrimina. Descrivere la sintesi qui in oggetto comporta la messa in discussione di tutti e tre gli aspetti fondativi della tradizione storicista indicati da Momigliano: selezione, spiegazione e valutazione. Come per ogni ricerca, perché questa sia delimitata e non divagante, è necessario individuare un punto di partenza determinato che sia anche una prospettiva sulla materia di studio: il nostro punto di partenza sarà l’opera di Erich Auerbach, con particolare riferimento ai testi legati all’interpretazione di Giambattista Vico. Tre di questi testi sono stati tradotti per questa tesi e si trovano in appendice: l’introduzione alla Scienza Nuova del ’24; l’introduzione inedita alla Scienza Nuova del ’47; il saggio Figura. Faremo dialogare Auerbach con Vico ma anche con autori a lui coevi: Benjamin, Warburg, Wittgenstein.
a. Auerbach e la filologia come arte critica
Nello stesso anno in cui compare il saggio crociano La storia come pensiero e come azione, Erich Auerbach si pone alcune domande sul metodo storiografico, seppur indirettamente, nel saggio Figura, uno dei suoi testi più programmatici e più
3 Per la nozione di paradigma si veda G. Agamben, Signature of All Things: On Method, MIT Press, Cambridge MA 2009, «The paradigm is a singular case that is isolated from its context only insofar as, by exhibiting its own singularity, it makes intelligible a new ensemble, whose homogeneity it itself constitutes».
difficilmente classificabili: si può definire un contributo di semantica storica debitore del canone spitzeriano, ma per molti versi, in particolare per le possibilità interpretative del tempo storico che se ne ricavano, è anche un saggio di filosofia della storia, di metodologia della ricerca storica. Auerbach non è uno storico, eppure, formato alla scuola dello storicismo tedesco, di se stesso dice: «Io ho sempre avuto l’intenzione di scrivere storia; mi accosto dunque al testo non considerandolo isolatamente, non senza presupposti»4. La scrittura della storia non
può che porsi come un problema per Auerbach filologo e studioso del metodo della filologia, perché quel metodo è in gran parte condiviso anche dalla storiografia. In Figura ci si propone di fornire una chiave di interpretazione del corso degli eventi a partire da un tropo utilizzato per dare perspicuità all’interpretazione dei testi, la “figura” per l’appunto. Il “fatto” è come un testo quindi, la cui leggibilità dipende dalla paziente ricostruzione della tradizione, dalle emendazioni proposte, dalle lacune ricucite. Ne risulta una proposta di interpretazione del corso storico che fa della discontinuità la chiave di lettura del tempo e della citazione la malta tra fatti e frammenti lontani, eppure richiamantisi in forma di prefigurazione e adempimento. La storia così interpretata è discontinua e frammentaria e in essa non si rispecchia più, come accadeva nelle storie universali, la limpida coscienza ordinatrice dell’uomo moderno. È una storia barocca, come un dramma, iscritta in una temporalità pieno di cicli, ricorrenze, ritorni, sopravvivenze e rottami. Auerbach dialoga, da vicino, con i contemporanei consapevoli della crisi dell’idea di storia propria dello storicismo, fra tutti con il maestro Ernst Troeltsch, e da lontano con colui che più profondamente ha influenzato il suo pensiero: Giambattista Vico. Mentre le costruzioni storiche dei razionalisti «si sforzano di comprendere il mondo all’interno dell’Io, per farlo sentire a casa propria […] Vico al contrario, più focoso di tutti loro, se ne sta da solo nella gelida aria di un ghiacciaio e su di lui si inarca l’immensa cupola barocca
4 E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli Editore, Milano 1960, p. 26.
del cielo»5. La fascinazione di Auerbach per il barocco si deve, oltre che a Vico, al
collega e amico Walter Benjamin e al suo studio L’origine del dramma barocco tedesco. Sembra essere proprio nel confronto con la proposta di Benjamin di assumere un atteggiamento allegorico nei confronti delle macerie del tempo, evidenziando di queste la vuotezza intrinseca, che Auerbach inizia a lavorare a una formula di interpretazione della storia in dialogo con quella benjaminiana, desumendola a sua volta dalla critica testuale; stiamo parlando dell’interpretazione figurale. Barocco e allegoria sono espressione di un secolo, il Seicento, che è anche il secolo, ce ne dà ampia testimonianza Momigliano, dell’antiquaria. Il Vico barocco di Auerbach, dinanzi all’immensa congerie di fatti, frammenti e macerie che la sua epoca esibisce, ripensa la scrittura storica a partire da questi reperti, che producono un attrito irresistibile al continuum evenemenziale. Lo strumentario della filologia testuale, risemantizzata su nuove funzioni – fanno parte della nuova filologia anche l’epigrafia, la numismatica e la cronologia (Vico, De Constantia) – è il più idoneo a raccogliere le sfide di questa nuova dimensione della scrittura storica. Una «Nuova arte critica», così la chiama Vico, nasce all’incrocio fra storia universale e antiquaria; ha come oggetto un sapere empirico, deputato a ricostruire la storia delle cose. È sufficientemente ampio il campo epistemologico della filologia per ospitare questa ridefinizione dei suoi oggetti? È una scienza senza nome6, come la chiama Agamben: il suo oggetto ha la natura del frammento,
eppure il suo scopo è sempre quello di trovare una sintesi, un universale concreto, di ricostruire i nessi disponibili e non disponibili tra i suoi frammenti e pervenire così a una qualche generalizzazione, a un sapere a sua volta non frammentario. Auerbach, in Mimesis, trova la chiave per esibire questa sintesi nella storia della letteratura e negli esempi letterari. La risposta alla domanda che cosa sia il realismo di Auerbach, non la dobbiamo cercare in una definizione suscettibile di diverse declinazioni nel corso della storia letteraria, non la troveremmo in Mimesis.
5 E. Auerbach, Introduzione alla Scienza nuova (1924), app., p. 16.
6 G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome [1975], in "Aut-Aut", 199-200, 1984, pp. 51-66, ora in Id., La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 123-146.
Alle obiezioni riguardanti la mancanza di definizioni dei concetti usati all’interno di Mimesis, Auerbach risponde con una rivendicazione di metodo che riassume e conferma quanto abbiamo detto finora:
Mimesis è un tentativo di storia della cosa stessa, e non è una storia delle sue definizioni; scrivere una simile storia con i mezzi a disposizione ad Istanbul sarebbe stato proprio impossibile. […] Spesso si è detto che la mia elaborazione concettuale non è univoca, e che le espressioni da me usate per categorie ordinative richiederebbero una definizione più nitida. È vero che non definisco questi termini, anzi, che nell’usarli non sono affatto coerente. Ma lo faccio con intenzione e con metodo. Il mio sforzo interpretativo è teso al particolare e al concreto. L’universale, invece, con cui si confrontano, collazionano o delimitano i fenomeni, dovrebbe essere elastico e duttile; dovrebbe, fin dove è possibile, adattarsi al particolare considerato. Talvolta, infatti, si può capire soltanto dal contesto. Identità e rigorosa normatività nella Geistesgeschichte non esistono, e concetti astrattamente riassuntivi falsano e distruggono i fenomeni. L’azione ordinativa deve procedere in modo da lasciar vivere il fenomeno individuale nella sua piena espansione. Potendo, non avrei addirittura usato espressioni generali, bensì suggerito l’idea al lettore mediante la pura e semplice rappresentazione di una serie di particolari7.
Perché la storia letteraria si presta così bene a farsi banco di prova della nuova arte critica e bacino di approvvigionamento degli esempi da cui desumere la nuova sintesi ricercata? A nessuno interessa possedere un sapere scientifico che insegue la fiction, intendiamoci, ma tutti noi abbiamo bisogno di immaginare tutte le vite
7 E. Auerbach, Epilegomena zu Mimesis, in Romanische Forschungen, LXV, n° 1-2, 1953-1954, trad. it: Id., Epilegomena a Mimesis, in Da Montaigne a Proust, Ricerche sulla storia della cultura francese, Garzanti, Bari 1970, pp. 233-253.
che potremmo avere e tutti i mondi che ci sono dentro al mondo8 per avere una
rappresentazione il più perspicua possibile della realtà e delle sue parti. Vivere le vite degli altri, allargare le maglie della propria esperienza alimenta il senso che rende possibile la filologia come scienza, il senso comune: «La filologia è possibile perché basata sul presupposto che gli uomini possono comprendersi fra di loro, che esiste un mondo umano comune a tutti, appartenente ad ognuno, accessibile a chiunque: senza questa fede non ci sarebbe la scienza dell’uomo storico, non ci sarebbe la filologia»9. La frequentazione della letteratura e quindi di mondi distanti
dal nostro, non veri né falsi ma verosimili, così come l’immedesimazione in punti di vista diversi allenano il senso comune, quella facoltà feconda che consente di scoprire l’altro in se stessi10: «Il senso comune si genera dal verosimile, come la
scienza si genera dal vero e l’errore dal falso - ci dice Vico nel De nostri temporis studiorum ratione - e in effetti il verosimile è come intermedio tra il vero e il falso, giacché, essendo per lo più vero, assai di rado è falso»11. La nuova scienza di cui
Vico getta le fondamenta epistemologiche non rinuncia a definirsi “scienza”, a cercare quindi una sintesi che si pretenda vera; eppure la strada che conduce a questa sintesi non è un’ampia via maestra, ma una strada tortuosa e piena di insidie, di sentieri scoscesi e vicoli ciechi; per percorrerla non servono i limpidi strumenti dell’ episteme, logiche deduttiva o induttiva, rigore assiologico e ragione critica, ma quelli più propri della techne – non a caso anche Auerbach, sulla scorta di Vico, parla di una arte critica – espressione di una metis12 vivace più che di un
8 Montesano, Lettori selvaggi, Giunti Editore, Firenze 2016, pp. 7-12.
9 E. Auerbach, Giambattista Vico und die Idee der Philologie, In Homentage a Antoni Rubió i Lluch, I., Barcelona 1936, trad. it.: Id., Vico e l’idea di filologia, in Id., San Francesco, Dante, Vico, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 64.
10 E. Auerbach, Introduzione alla Scienza Nuova (1947), app., p. 47: «Non plasmò l’uomo secondo la propria immagine, non scoprì se stesso in un altro a lui affine interiormente, ma scoprì in se stesso il totalmente estraneo altro».
11 G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione (1709), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, t. I, Mondadori, Milano 1990, p. 105
12 Sulla metis e sulla sua presenza nell’universo mentale dei greci cfr. M. Detienne, J-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Editori Laterza, Roma-Bari 1984, p. XI: «La metis è una forma d’intelligenza e di pensiero, un modo di conoscere; essa implica un insieme complesso, ma molto coerente di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità, l’abilità in vari campi, un’esperienza acquisita dopo lunghi
logos rigoroso. Si tratta di rifondare il modo della presentazione della realtà nelle forme organizzate del discorso, disinnescare l’astrattezza della logica, disinnescare anche i presupposti/categorie di cui abbiamo parlato all’inizio e lasciar voce al colpo d’occhio [eustochía], all’acutezza di spirito [anchínoia], alle qualità dell’ankulométes, di colui che dispone di una metis torva ed è «capace di rendere la propria intelligenza così elastica e ritorta da poterla piegare in tutti i sensi, rendere la propria andatura così “curva” da aprirsi contemporaneamente a tutte le direzioni»13. Bisogna prendere ad esempio quello che fa Elstir, nella Recherche, che
dipinge il mare come un prato, come lo vede e non come lo sa, attitudine alla rappresentazione della realtà, questa, che Proust, come ricorda Carlo Ginzburg14,
prende ad esempio in una pagina stupenda di Il tempo ritrovato, parlando di Robert de Saint Loup, morto in guerra: «C’è un lato della guerra ch’egli cominciava ad afferrare, cioè che la guerra è umana, la si vive come un amore o come un odio, potrebbe essere raccontata come un romanzo, e per conseguenza, se il tale o il tal altro van ripetendo che la strategia è una scienza, questo non li aiuta per nulla a capire la guerra, perché la guerra non è strategica. E se volessimo supporre che la guerra sia scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare, alla rovescia, a partire da illusioni e credenze che vengono a poco a poco rettificate, come avrebbe fatto Dostoevskij nel raccontare una vita».
Tra mondo scritto e mondo non scritto, il compito del romanziere sembra cioè quello di dar forma, provvisoria e ironica al mondo (alla rovescia). Una forma che, occorre sottolinearlo, è, alla maniera di G.B. Vico, tutta poetica, perché allo stesso tempo universale e particolare. Ciò che è caratteristico del romanzo, ma del mondo letterario in generale, è il tentativo di descrivere l’universale nel particolare, cercando di trovare una via di accesso, provvisoria e reversibile, a ciò che è comune. In questa prospettiva, il lavoro del filologo – nel senso di colui che
anni; essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso».
13 M. Detienne, J-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, ed. cit., p. XIII.
14 Carlo Ginzburg, Che cosa gli storici possono imparare da una narrazione sui generis come la Recherche, in L’Indice dei libri del mese, Giugno 2013.
ricolloca il testo nella sua vitale storicità (materiale e culturale) – e quello del romanziere si confondono: «è indispensabile – scrive E. Auerbach nella sua Philologie der Weltlitterature (1952) – individuare un fenomeno parziale, il più possibile circoscritto, concreto, descrivibile con strumenti tecnico-filologici, da cui i problemi si sviluppino e in base al quale diventi possibile dar forma all’obiettivo». Romanziere e filologo cioè, a partire da un punto di partenza anche parziale, gettano luce su un universale, su una sintesi, che non cessa però di mantenere i caratteri della singolarità. Del resto, ricorda Mazzoni15, «la filologia è l’esempio
estremo di come la logica narrativa sia penetrata nel dominio dei concetti» e dà ai suoi reperti la capacità di incapsulare una dialettica tra rappresentazione e realtà.
b. Il punto di partenza
La ricerca filologica ha a che fare col ritrovamento dei principi, del punto o dei punti di partenza, dell’inizio di una tradizione. Trovare un inizio non vuol dire necessariamente riavvolgere il nastro della tradizione, di essa non è scontato infatti che si conoscano le tappe. Un inizio si fa largo tra gli eventi per la sua densità di significato e si dimostra capace di raccordare attorno a sé una costellazione di elementi che compongono la sua storia. La Scienza Nuova è il più grandioso tentativo di raggiungere una sintesi storica a partire dal ritrovamento del principio del mondo civile in un preciso atto dell'uomo, ancora nel suo stato ferino: un atto di divinazione – la scienza che Vico inaugura è infatti una teologia civile ragionata. Immaginarsi Dio è una prerogativa della nazioni gentili, che le differenzia dal popolo ebraico, quasi una qualità antropologica fondamentale. Nel suo Beginnings Said caratterizza ogni nuovo inizio come questo primordiale inizio: quasi un atto di divinazione, che istituisce un'autorità per ciò che segue e rappresenta una discontinuità rispetto a ciò che lo precede. Un buon inizio magnetizza elementi intorno a sé, crea una rete di relazioni, di citazioni (per adiacenza, contiguità,
analogia, parallelismo, complementarietà) in una dimensione più vicina a quella spaziale che a quella temporale.
c. Il filo conduttore
Mantenendo la similitudine del romanzo, dopo un buon inizio occorrerà individuare il filo conduttore di una narrazione: il bisogno di un filo conduttore porta con sé il rischio di assecondare un altro bisogno, quello della coscienza dell'uomo moderno di riconoscersi nella materia del passato, di raccontare quindi una sua storia. Si sceglie un soggetto dominante, l'uomo, di volta in volta definito dai suoi predicati (l'uomo bianco, l'uomo italiano, l'uomo illuminista etc.) e da esso si ricavano le tassonomie per ordinare il magazzino dei materiali accumulati. Schiller, nelle sue lezioni sulla storia universale16, distingueva le "teste filosofiche"
dagli "esperti prezzolati", per essere le prime quelle in grado di orientare gli eventi [gegebenheit] e i frammenti del passato in una concatenazione coerente e necessaria di fatti [factum] che conducessero al presente, al «noi qui ed ora». Allo stesso modo, come "testa filosofica" lui stesso, racconta i primordi del genere umano «secondo il filo conduttore del documento mosaico»17. Senza bisogno di risalire
alle grandi narrazioni illuministiche della storia universale o della storia congetturale, che facevano di questa necessità ordinatrice della ragione un manifesto della loro epoca, troviamo la stessa necessità "genealogica" nelle storie particolari di matrice post-nietzschiana o post-foucaultiana. La differenza sta nel fatto che lo storico Schiller, storico della storia universale, spiega gli eventi passati a partire dal presente, mentre lo storico contemporaneo spiega il presente a partire da una selezione di eventi passati, magari marginali o dimenticati, ma comunque corroboranti la necessità del soggetto narrante di riconoscersi in ciò che non è. Il
16 F. Schiller, Was heißt und zu welchem ende studiert man Universalgeschichte [1789], in Id., Gesammelte Werke, 6. Band, Berlin, Aufbau-Verlag; trad. it.: L. Calabi (a cura di), Lezioni di Filosofia della storia, ETS, Pisa 2012.
17 F. Schiller, Etwas über die erste Menschengesellschaft nach dem Leitfaden der mosaischen Urkunde, in Id., Gesammelte Werke, 6. Band, Berlin, Aufbau-Verlag, ed. it. cit.
rischio rimane, sempre, che punto di partenza e punto di arrivo di una "spiegazione" siamo sempre noi stessi.
d. I membri intermedi
Dopo aver individuato il punto di partenza e aver colto la necessità di scegliere un filo conduttore, sorge il problema di come rintracciare o inventare i membri
intermedi18, i nessi appunto, per dare perspicuità alla sintesi che stiamo cercando e ai
suoi elementi. Questa ricerca ci consente di attenuare i rischi di autoreferenzialità insiti nella scelta di un filo conduttore, di denaturalizzare19 la rappresentazione che
ne abbiamo; essa infatti getta luce sui gangli del sistema, le condizioni di possibilità, di rappresentabilità e di comprensibilità dell’intero. «Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. La nostra grammatica manca di perspicuità». Così dice Wittgenstein nel paragrafo 122 delle Ricerche logiche; ciò che manca di perspicuità non è solo il linguaggio ma anche la realtà, sempre bisognosa di configurarsi in nuove rappresentazioni e essere, così, compresa: «La rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi ‘vediamo connessioni’. Di qui l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi. Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose». Com’è che vediamo le cose? Le vediamo attraverso un colpo d’occhio, un Überblick, per dirla con Nietzsche. «La übersichtliche Darstellung [rappresentazione perspicua N.d.A.] è dunque una veduta d’insieme, una presentazione d’insieme. È come se in essa tutto stesse in primo piano, senza profondità, senza prospettiva. Proprio per questo forse la rappresentazione perspicua non ci fornisce la comprensione
18 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen [1953]; trad. it.: M. Trinchero (a cura di), Ricerche filosofiche, PBE, Torino 2014, p. 60.
19 A. M. Iacono, Attorno al concetto di rappresentazione perspicua. Spengler e Wittgenstein, in «Lebenswelt», 2011/1, pp. 21-30: «vedere le connessioni attraverso l’individuazione di membri intermedi è un processo di denaturalizzazione perché ci mostra l’aspetto costruttivo della rappresentazione».
[das Verstehen]. Il ponte tra la rappresentazione perspicua e la comprensione è costituito infatti dalla capacità che noi abbiamo di vedere le connessioni»20.
e. Il frammento
La similitudine del romanzo, la logica della rappresentazione, la narrazione come paradigma di leggibilità del reale sono tutti aspetti messi in tensione l’uno con l’altro da Gianni Celati in un importante articolo intitolato Bazar archeologico, frutto di una discussione, condotta tra il ’68 e il ’72, tra lo stesso Celati, Calvino, Ginzburg, Neri e Melandri. Il saggio prende avvio così: «Per una rassegna di quella sindrome che è l’essere moderni conviene tornare a un punto di partenza. Da Rimbaud al Dada ai Surrealisti, l’imperativo categorico sul dover essere moderni si sposa con la passione per frammenti, oggetti, relitti d’un passato ormai privo di contesto, rovine della storia ormai perdute per la storia: nuovi silenzi che sorgono là dove poco prima c’era un linguaggio capace di parlare dell’esperienza originale e delle motivazioni di quegli oggetti»21. Se il punto di partenza è il dato singolo, e
quindi l’oggetto guida sul contesto a priori, viene ribaltata la prospettiva storicista che abbiamo ricordato all’inizio; il raccontare lascia spazio alla collezione, la storia all’archeologia, il museo al bazar22. Il dato singolo ha sempre una natura
frammentaria, è frammentario rispetto al contesto di provenienza e è un frammento del nuovo contesto potenziale.
Qual è lo statuto del frammento? Pensiamo al frammento in senso filologico, o al reperto archeologico, entrambi incapsulano una dialettica tra ciò che presentano e la realtà nella quale cercano di trovare un significato. Sono portatori di dialettica perché hanno il potenziale di mutare forma, di evocare tempi e contesti di significato sempre diversi e nuovi e di trasfigurarsi da testo/oggetto a realtà. La
20 A. M. Iacono, Attorno al concetto di rappresentazione perspicua. Spengler e Wittgenstein, ed. cit., p. 22. 21 G. Celati, Il bazar archeologico, in Id., Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 1975, p. 197.
22 Archeologia è un termine kantiano per mediazione di Enzo Melandri, anche lui coinvolto nel dibattito sulla rivista, e bazar è il luogo dove si trovano, in ordine sparso e non catalogati, i rottami, le tracce, i reperti e gli oggetti desueti e rari del passato.
storia raccontata da un frammento quindi, proprio per questa iridescenza del frammento stesso nei confronti della realtà e dell'interpretazione, è come un dramma: si mette in scena. Un frammento evoca molteplici trame, la cui direzione è vincolata al rinvenimento di nuovi frammenti e ancora di più alla composizione e al montaggio di questi. Eppure sembra ancora che rimanga sospesa la domanda socratica, definitoria, "che cos'è un frammento". Il frammento non è mai solo un dato singolo e non è mai autosussistente, perché è sempre frammento di qualcos'altro, di una cosa, di un tempo, di uno spazio, interi. Questa parzialità, questa lacunosità, lo rende più perspicuo dell'intero stesso, passato, di cui è figura, e del nuovo intero, del nuovo contesto di significato in cui può essere collocato, di cui è prefigurazione. È in questa condizione di intermedietà che si comprende meglio lo statuto del frammento, che io direi quindi un modo di essere, uno stato delle cose, del tempo, dello spazio. Intermedio e quindi non completo, ma oscillante tra il desiderio di completezza e di incompletezza, come è sempre una collezione, il frammento è figura, si potrebbe dire anche testimonianza, del suo intero passato, che costituisce il suo significato letterale, e prefigurazione di non un solo spirito, o nuova sintesi/significato, ma di molte, tante quante sono le combinazioni possibili. La collezione è una di queste combinazioni, altre metafore di combinazione sono la lista (Eco), il montaggio (Benjamin – Warburg – Didi-Huberman), la costellazione (Benjamin), l'atlante (Warburg). Tutte queste combinazioni sono modi di dispiegare la discontinuità del tempo e della storia, che si dimostra piena di sorprese, ricorrenze, sporgenze, rovine, sopravvivenze e ritornanze. Quello che conta mi sembra che non sia però né l'ordine né il disordine, ma il nuovo significato, sempre provvisorio e proliferante, che la lista, il montaggio, la costellazione e l'atlante riconfigurano per avvicinamenti analogici e anacronici.
Non è una ragione classificatrice quella che orienta la comprensione e la costruzione di queste riconfigurazioni, ma un'intelligenza, come abbiamo già detto, molto più simile alla metis, e che ha a che fare con la retorica. Proprio nella
Retorica, Aristotele ci testimonia un'antica sinonimia di peras, il limite, e tekmar, cioè il segnale, l'indizio, il punto di riferimento. Il frammento mi sembra che sia questo limite, una cerniera che consente di intravedere gli indizi, i nessi e le aperture della storia per montare insieme ordini di realtà eterogenei semanticamente, temporalmente e rendere possibili rappresentazioni davvero perspicue.
f. La collezione e l’archeologia
Al polo opposto della storia stanno l'archeologia e la collezione, che producono estraniamento e non identificazione e che muovono dal reperto, dal frammento per descriverlo o indicarlo, senza pretese classificatorie o necessitanti una sua inclusione in un disegno o in intenzioni di una coscienza superiore narrante. Il collezionista libera l’oggetto dal suo contesto originale e dall’insieme delle sue relazioni funzionali per collocarlo in un nuovo intero, come dice Benjamin in «un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione»23.
Quella del collezionista è quasi una capacità divinatoria, da un frammento decontestualizzato riesce a ricostruire l’aria di famiglia delle sue somiglianze e a intuire un nuovo intero, a colpo d’occhio. Condivide questa facoltà, ce lo dice ancora Benjamin, con il fisiognomico24: «i collezionisti sono i fisiognomici
dell’universo delle cose»25. La nuova sintesi della collezione è paragonabile,
rimanendo nell’ambito della fisiognomica, a un ‘ritratto composito’ di Galton26, sia
per il carattere predittivo di questo rispetto alle qualità antropologiche degli
23 W. Benjamin, Das Passagenwerk, in Id., Gesammelte Schriften, volume V.1-2, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1991, trad. it.: E. Ganni (a cura di), I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 214.
24 R. Tiedemann, Introduzione, in W. Benjamin, I “passages” di Parigi, trad. it. cit., p. XXV: «La fisiognomica deduce l’interno dall’esterno, decifra la totalità dal dettaglio, rappresenta l’universale nel particolare; prende le mosse, nominalisticamente, dal questo-qui corporeo, opera induttivamente a partire dalla sfera della perspicuita».
25 W. Benjamin, I “passages” di Parigi, trad. it. cit., p. 217.
26 Per approfondire questo tema si consiglia lo studio di C. Ginzburg, Family Resemblances and Family Trees: Two Cognitive Metaphors, Critical Inquiry 30, no. 3, 2004, pp. 537-56.
individui che intendeva tipizzare, sia per la modalità costruttiva per via di sovrapposizioni di immagini somiglianti. C’è un eco di questo parallelismo tra fisiognomica e formulazione di concetti, universali e sintesi in termini non essenzialistici anche in Wittgenstein, che parla a sua volta di sovrapposizioni: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc.»27. Anche Auerbach nel saggio Figura utilizza una citazione da Lucrezio
ascrivibile all’ambito semantico delle “somiglianze di famiglia” per chiarire il valore della nozione di “figura” nella distinzione tra copia e originale: i figli sono utriusque figurae del padre e della madre.
g. Figura
Il nesso che si stabilisce tra i momenti di una relazione figurale, tra padri e figli, tra copia e originale, tra eventi richiamantisi genealogicamente, non è di tipo causale, nel senso che uno causa o determina l’altro; anzi, si tratta piuttosto di sovrapposizioni ateleologiche. Consideriamo le innumerevoli figure odiassiache: l’Ulisse di Joyce come quello di Pascoli, quello di Ungaretti, quello di Gozzano e quello di D’Annunzio evocano e fanno esplicito riferimento, per volontà stessa degli autori che le hanno create, al primo Odisseo, ma nessuna di queste discende per linea dinastica dal celebre eroe omerico; tutte stanno accanto a questo, si comprendono, nella loro diversità, a partire da questo su un piano di contiguità e contribuiscono, se ne intuiscono le interconnessioni, a restituire un’idea più complessa del personaggio, un qualcosa di universale. Un altro esempio di costruzione figurale di una sintesi è l’universale fantastico vichiano, un tentativo di presentare la diversità fantastica nella universale unità: il carattere poetico di
Goffredo di Buglione rappresenta «il vero Capitano di guerra che finge Torquato Tasso; e tutti i Capitani, che non si conformano in tutto, e per tutto a Goffredo, essi non sono veri Capitani di guerra»28. “Goffredo di Buglione” è una forma particolare di
universale sotto il quale si raccolgono rappresentazioni di diverse individualità, figure e adempimenti del vero Capitano di guerra. Il rapporto che lega un punto di partenza alla rete di connessioni da esso inaugurate è dunque un rapporto che diremmo figurale: gli elementi che si coagulano intorno a un determinato punto di partenza sono figure l’uno dell’altro, così come il realismo biblico è figura del realismo ottocentesco, e questo del realismo contemporaneo. Per capire che cos’è il realismo biblico o se si può parlare di realismo in Omero, Auerbach affianca una pagina dell’Antico Testamento a una dell’Iliade e le compara riempiendo la distanza tra questi due testi, comprendendone i nessi, le metamorfosi, gli slittamenti di significato, le differenze.
h. Ma come può l’individuo giungere alla sintesi?29
Abbiamo visto che occorre individuare un buon punto di partenza, concreto e pregnante, e che bisogna poi saper vedere o inventare i membri intermedi per allargare il potenziale di irradiamento di questo Beginning30, ricostruire le
connessioni figurali e ricomporre i frammenti in unità, collezioni, liste, montaggi dotati di nuovo e provvisorio significato. Se il problema dell’uomo moderno era di trovarsi dinanzi a una congerie di frammenti inintelligibili e rovine del passato, quindi di operare una selezione in base ad alcuni presupposti, oggi riusciamo a tassonomizzare i dati a nostra disposizione, anche di natura molto frammentaria, e a stoccarli in grandi data warehause. I data warehause sono tuttavia di proprietà di giganteschi gruppi industriali, che sostengono l’onere dello storage dei dati e al
28 G.B. Vico, La Scienza nuova, Degnità XLVII, cit., p. 197.
29 E. Auerbach, Philologie der Weltliteratur, in Weltliteratur: Festgabe für Fritz Strich zum 70. Geburtstag, Francke, Bern 1952, pp. 39-50; trad. it.: Filologia della letteratura mondiale, in San Francesco, Dante e Vico, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 167.
contempo ne determinano l’usabilità imbrigliandone la ricerca in coordinate non mappabili.
Orientare la ricerca è forse il nuovo traguardo della ragione umana, imbrigliarla in algoritmi pressoché inaccessibili che riproducono in modo molto complesso i nostri presupposti, le nostre categorie, motivazioni e interessi, portandoci sempre al punto di partenza: noi qui ed ora, consumatori. Chi guida e orienta oggi la ricerca, sto pensando principalmente ai motori di ricerca come google, sono compagnie private guidate da interessi prevalentemente di profitto. L'infallibile coscienza raziocinante e la sua esigenza di rappresentare e riprodurre se stessa all'infinito sono vendute a caro prezzo alle aziende che intercettano gli interessi del soggetto consumatore, felicissimo di trovare con estrema facilità proprio ciò che sta cercando. In questa cornice qual è lo spazio per la scoperta casuale, per l'emergenza del reperto, della spia o della traccia che ci sveglino da veglia sonno hd della ragione? L’unica sintesi che possiamo rappresentare se la selezione del dato iniziale, del punto di partenza è così fortemente eterodeterminata è lo storytelling, cioè una vuota narrazione impiegata come strategia di comunicazione persuasiva e del tutto disinteressata alla ricerca di qualsiasi valore di verità, per quanto provvisorio. Occorre un nuovo illuminismo, perché quello della ragione autonoma ci ha condotto in una nuova gabbia, anonima, che seleziona, spiega e valuta al posto nostro.
Ogni grigio una volta scomposto in granelli chiari e scuri, luccicanti e opachi, sferici, poliedrici, piatti, non si vede più come grigio o comincia solo allora a farti comprendere il significato del grigio. [...] Forse fissando la sabbia come sabbia, le parole come parole, potremo avvicinarci a capire come e in che misura il mondo triturato ed eroso possa ancora trovarvi fondamento e modello.
Citazioni
Si è soliti citare la Scienza Nuova secondo la paragrafatura Nicolini, qui si preferisce adottare il sistema proposto da Cristofolini in La Scienza Nuova di Vico, introduzione alla lettura. La siglatura evidenzierà quindi l’anno di pubblicazione: SN25, SN30;
SN44; le citazioni si faranno richiamando i numeri di pagina dell’anastatica.
Per le due introduzioni di Auerbach alla edizione tedesca della Scienza Nuova si utilizzeranno le abbreviazioni: EE, Erste Einleitung, per l’introduzione del 1924; ZE, Zweite Einleitung, per l’introduzione del 1947. Per le traduzioni di questi testi e del saggio Figura si rimanda alle pagine in appendice.
1. La mente geroglifica – Auerbach lettore di Vico
Quando Auerbach inizia ad occuparsi di Vico su suggerimento del maestro Ernst Troeltsch, l’unica traduzione esistente, quella pubblicata da Wilhelm Ernst Weber per Brockhaus a Lipsia, risale al 1822, ed è pressoché introvabile. Di fronte alla scelta, impostagli dall’editore, se operare una selezione di capitoli o un riassunto dell’intera opera, si decide per la seconda ipotesi, sintetizzando i passi contenenti le fantasiose speculazioni filologico-mitologiche come anche la tavola cronologica con tutto il suo apparato esplicativo.
La prima edizione della traduzione auerbachiana risale al 1924, ma sappiamo per certo che l’editore berlinese de Gruyter aveva intenzione di mandarla in ristampa subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale; per questa ragione Auerbach, che pure non vide questa seconda edizione, aveva approntato una nuova introduzione, che sarebbe rimasta negli archivi della casa editrice berlinese fino al giorno in cui, fortuitamente, il prof. Martin Vialon non l’avesse trovata. Le due introduzioni, tra cui intercorrono ventitré lunghi anni, dedicano entrambe una buona attenzione alle vicende biografiche di Vico; lo fa in modo particolare quella
del ’24, che deve presentare al pubblico tedesco un autore assai poco conosciuto, se non in ambienti strettamente accademici. Diverse in lunghezza ma simili per contenuto, le sezioni biografiche mettono in luce l’isolamento intellettuale di Vico nel suo tempo, che è corrisposto a una generale incomprensione della sua opera, sia da parte dei contemporanei, influenzati dal dilagare del cartesianesimo nelle scienze naturali, sia da parte dei posteri, che si sono più spesso appropriati del suo pensiero, fraintendendone i presupposti fondamentali. Auerbach vuole esplicitare il rapporto idiosincratico che Vico intratteneva con il suo tempo e presenta ai lettori tedeschi un curioso ritratto a tinte barocche del filosofo, un timido insegnante di retorica, vissuto a cavallo tra il fastoso e misticheggiante Barocco napoletano e l’epoca dei lumi e della ragione rischiaratrice. La sua particolare posizione storica e geografica sono, nell’ottica di Auerbach, due importanti fattori per avanzare un’interpretazione della sua opera, immersa com’è in dilanianti contrasti tra opposte tendenze, tra due secoli e due visioni del mondo.
a. La scienza senza nome
Al traduttore risulta difficile anche avanzare proposte per una definizione della SN, definizioni comprensibili al pubblico dei nuovi potenziali lettori di Vico. La SN è un’opera alla quale gli interpreti hanno guardato come a una filosofia della storia, a una morfologia della storia, a un’antropologia filosofica e di cui Vico stesso enumera diversi aspetti senza darne mai una definizione univoca: la SN è una rappresentazione razionale dell’agire della Provvidenza divina nella storia; una filosofia dell’“autorità”, dove questa parola esprimere “l’origine delle istituzioni umane”; una storia delle idee umane, in particolare dei loro inizi irrazionali e fantastici; una critica filosofica delle tradizioni antiche; una storia ideale eterna, ovvero il piano ideale di uno sviluppo storico, secondo il quale la storia di tutti i singoli popoli si snoda nel tempo; un sistema del diritto naturale dei popoli, infine una scienza degli inizi della storia del mondo. Su tutti questi aspetti campeggia la personale prospettiva del suo autore, di un uomo del suo secolo o, come dice
Auerbach, collocato «in un determinato momento di picco del corso storico, in un kairós nel quale si rivela il segreto della provvidenza alla ragione umana tutta spiegata»31.
La “Scienza senza nome” è anche il titolo di un importante contributo di Agamben su Aby Warburg, che riprende la boutade di Robert Klein sullo storico dell’arte come creatore di una disciplina qui n’a pas de nom32. Auerbach, anche se Agamben
non lo nomina, è, insieme a Spitzer, Mauss, Kenényi, Dumézil, Usener, Benveniste e Warburg, tra coloro che contribuiscono a scrivere la storia epistemologica di questa scienza. Non è un caso che, seppur per vie diverse e con diversa consapevolezza della fonte, sia Auerbach sia Warburg arrivino alle premesse e ai metodi di questa scienza, che il primo farà rientrare sotto l’alveo della filologia e dello storicismo e il secondo dell’antropologia, partendo da Vico o da uno dei suoi più importanti epigoni, Tito Vignoli. Agamben ricostruisce così le motivazioni dell’inclito giovanile di Warburg verso questa nuova scienza:
L’incontro con la cultura primitiva americana lo aveva definitivamente allontanato dall’idea di una storia dell’arte come disciplina specialistica, confermandolo in un proposito su cui aveva riflettuto a lungo mentre seguiva a Bonn le lezioni di Usener e di Lamprecht. Usener aveva attratto la sua attenzione su uno studioso italiano, Tito Vignoli, che, nel suo libro Mito e scienza, aveva sostenuto la necessità di un approccio congiunto di antropologia, etnologia, mitologia, psicologia e biologia allo studio dei problemi dell’uomo. [...] Si può dire che tutta l’opera di «storico dell’arte» di Warburg, compresa la celebre biblioteca che egli aveva cominciato a mettere insieme già dal 1886, ha senso solo se la si intendo come uno sforzo compiuto
31 E. Auerbach, Vorrede des Übersetzers, in G.B. Vico, Die neue Wissenschaft über die gemeinschaftliche Natur der Völker, nach der Ausgabe von 1744, Allgemeine Verlaganstalt, München 1924, pp. 9-39, app., p. 14.
attraverso e al di là della storia dell’arte verso una scienza più ampia per la quale egli non riuscì a trovare un nome definitivo, ma alla cui configurazione lavorò tenacemente fino alla morte33.
La particolare prospettiva di Auerbach su Vico, che gli consente di utilizzare la sua opera come punto di partenza per la costruzione della sua scienza nuova, colloca Vico nel pieno barocco napoletano, in contrapposizione al romanticismo herderiano. Da una parte «L’umanità di Herder, l’animo conservatore dei romantici e anche lo spirito assoluto di Hegel hanno, se paragonati a Vico, l’impronta di un perfetto ordine domestico, nel quale l’Io crede di essersi procacciato un punto inerte, o almeno crede, anela o sogna di averlo fatto […]:in tal modo si ha come l’atmosfera di una Stube all’interno della quale molti stanno seduti per discutere su questioni molto intelligenti». Dall’altra Vico, che se ne sta da solo nella gelida aria di un ghiacciaio e su di lui si inarca l’orizzonte del cielo nella forma di un’enorme cupola barocca»34. L’originalità dell’interpretazione di
Auerbach si intuisce già in queste parole, almeno per lo scarto che la distingue dalla lettura idealisticheggiante sostenuta da gran parte della critica a lui contemporanea e capeggiata da Croce35. L’affrancamento di Vico
dall’interpretazione crociana è anche una personale presa di distanza dall’interpretazione idealistica della storia, e corrisponde quindi al tentativo di affermazione di uno storicismo che si costruisce su nuove basi, diverse da quelle dell’Historismus tedesco. Da queste fondamenta prendono le mosse la descrizione della scienza senza nome vichiana insieme al personale contributo di Auerbach alla storia di questa scienza.
33 G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, ed. cit., p. 126. 34 EE, app., p. 16.
35 Sul Vico di Croce e il Vico di Auerbach cfr.: A. Battistini, Limpide voci dello spirito europeo: il Vico di Croce e il Vico di Auerbach, in Tra storia e simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi, Olschki, Firenze 1994; D. Della Terza, Auerbach e Vico, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Vittorio E. Alfieri, Padova 1970; Id., Carteggio Croce – Auerbach, Ottavio Besomi (a cura di), in Archivio storico Ticinese Bellinzona, n° 69, marzo 1977.
Chi è quindi il Vico di Auerbach36?
b. Vico barocco
La EE propone decisamente l’idea che Vico sia un solido esponente del secolo Barocco. Questa stessa idea non ritorna con la stessa forza nella ZE, ma rimane un punto fermo di ogni lettura auerbachiana di Vico. Bisogna supporre che nel 1924 Auerbach sia ancora molto influenzato dagli anni di studi a fianco dei suoi maestri tedeschi e, in questo caso, in particolare da Meinecke, che parlava di Vico come perfetto Barockmensch nel suo Le origini dello storicismo. Anche in Italia una parte della critica si è orientata in questa direzione interpretativa; ricordiamo qui Battistini e Anceschi. Il primo sintetizza efficacemente nel seguente elenco alcuni degli elementi a conferma di questa ipotesi: «La rivalutazione del linguaggio non verbale; lo studio di imprese, emblemi, blasoni; le indagini sulla natura della metafora; il rilievo accordato all’ars memoriae; il gusto iconologico visibile nella “dipintura” e nella cura dei caratteri tipografici; le teorie sulla natura dell’ingegno; l’enciclopedismo inclusivo piuttosto che selettivo; le incursioni nel mondo dei miti; le tecniche descrittive di uno stile tendente alla massima espressività; l’ambizione costante a oggettivare le idee in immagini; la struttura circolarmente gremita anche a rischio della ridondanza: sono tutti motivi ereditati dalla cultura secentesca»37. Anceschi invece è fautore di una lettura del Vico come l’ultimo
esponente del Barocco: «Vico chiude di fatto l’epoca barocca: e se, in realtà, ne riassume in una vasta sintesi la molteplicità di interessi culturali, dall’altro ne risolve la multipolarità spirituale nel movimento della storia ideale ed eterna; e dà a
36 La letteratura secondaria su questo argomento è relativamente ampia, tra i contributi più significativi citiamo: T. Bathi, Vico, Auerbach and Literary History, in Philological Quarterly, LX, 1981; W. Busch, Geschichte und Zeitlichkeit in Mimesis. Probleme der Vico-Rezeption Erich Auerbach, in Wahrnehmen Lesen Deuten. Auerbachs Lektüre der Moderne, V. Klostermann, Frankfurt/M. 1998; S. Caianiello e O. Pöggeler, Philologiam ad Philosophiae Principia Revocare: La recezione di Vico in Auerbach, in Bollettino del Centro di Studi Vichiani, XXII-XXIII, 1992-1993. D. Della Terza, Auerbach e Vico, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Vittorio E. Alfieri, Padova 1970; D. Meur, Auerbach und Vico: Die unausgesprochene Auseinandersetzung, in Erich Auerbach, Geschichte und Aktualität eines europäischen Philologen, Kulturverlag, Kadmos, Berlin 2007.
quell’infinito che animava la ricerca dei filosofi predecessori la chiusa forma del circolo. La nuova dignità dell’uomo è nel suo fare storico; e nella storia trovano il loro luogo razionale e comprensibile le diverse disposizioni speculative»38.
Il senso del Barocco vichiano è iscritto nella multipolarità del suo pensiero, in cui trascendenza e storia, filosofia e filologia, teologia e scienza, vero e certo si richiamano a vicenda e si contaminano l’uno con l’altro. Se adottiamo le direttrici della cultura barocca proposte da Wölfflin nel suo studio del 1888, Renaissance und Barock, una che sprofonda verso il basso e l’altra che si spinge verso l’alto, dalla materia più cruda allo spirito più elevato, troviamo anche la doppia tendenza vichiana a descrivere e contemplare l’uomo «qual è» realmente, e «qual dee essere».
d. La Provvidenza e l’interpretazione figurale come modo di leggere la storia dell’uomo
La Provvidenza è l’orizzonte di irriducibilità entro il quale si rende possibile credere e conoscere il proprio mondo; essa guida gli uomini in tutte le fasi della loro storia e del loro processo creativo, a tal punto che Auerbach sostiene che ci sia uno iato profondo tra ciò che essi vogliono e ciò che effettivamente creano. Su come ciò accada, ovvero su come sia possibile la mistica sintesi degli opposti, di storia empirica e decreto divino, dice di non avere alcuna informazione; è comunque certo che non si possa disconoscere l’elemento trascendente all’interno del mondo storico, come motore della creazione umana e come orizzonte di riferimento di ogni comprendere. È infatti la Provvidenza, e non l’uomo, il Dio della storia e la sua è una «Teologia civile ragionata della Provvidenza divina».
Dov’è quindi il soggetto vichiano della conoscenza? Il nodo concettuale che sta alla base di tutto ciò è molto comprensibile: dal momento che Vico, secondo la tradizione cattolica, lascia coesistere in
38 L. Anceschi, Le poetiche del Barocco letterario in Europa, in Aa.Vv., Momenti e problemi di storia dell’estetica, Marzorati, Milano 1979, vol. IV, pp. 486-487.
mistica armonia il libero arbitrio e la Provvidenza, l’uomo esercita una propria azione conformatrice della storia, e il principio vichiano della comune umanità, grazie al quale possiamo comprendere la storia intuitivamente e dal di dentro, a differenza della natura, è assolutamente plausibile.39
È plausibile che l’uomo possa ambire a comprendere la storia intuitivamente e dal di dentro dal momento che esercita una propria azione concomitante sulla stessa, concomitante a quella della Provvidenza divina. Bisogna però in sostanza ammettere la contraddizione tra una Provvidenza che guida l’uomo in tutti gli stadi della sua storia, determina quindi la sua storia, segnando il solco della sua possibilità di azione e la conoscenza che l’uomo può conseguire di ciò che ha fatto, ovvero della sua storia. Proseguendo letteralmente; l’uomo conosce ciò che la Provvidenza gli fa fare, la sua storia e le sue istituzioni nei limiti solcati da essa; è evidente che la sua conoscenza, anche la sua conoscenza storica, non possa essere né quantitativamente né qualitativamente comparabile con quella che Dio avanza nei confronti della natura.
La conoscenza dell’uomo si applica al dominio del certum, alle autorità dell’umano arbitrio, un dominio circoscritto e ben delimitato che Auerbach rende, nella ZE, con il sostantivo Setzung. La scelta è significativa perché traduce l’idea di qualcosa che è frutto di una “presa di posizione”, è quindi ordinato e posto e bene si contrappone al verum, per parte sua illimitato e inaccessibile. Del certum fanno parte le istituzioni politiche, le lingue, i costumi e le usanze dei popoli, insieme a tutti quelli che oggi sarebbero chiamati oggetti sociali e che per Vico sono gli oggetti del sensus communis generis humani. Lo scarto epistemologico tra certum e verum è enorme e su di esso si basa, agli occhi di Auerbach, l’insostenibilità della interpretazione crociana di Vico. La ZE ci permette forse di trovare una via d’uscita dall’impasse in cui anche noi, con l’Auerbach della EE, siamo caduti. La
domanda se sia possibile che questo irriducibile orizzonte della Provvidenza lasci sussistere la libertà dell’uomo, come soggetto di azione e quindi di conoscenza, trova risposta nella scoperta che Auerbach definisce il «risultato e il coronamento della sua opera: la Provvidenza non opera dall’esterno con interventi miracolosi, ma all’interno della storia, che è essa stessa un fatto storico»40. L’uomo non è il
Dio della storia, può conoscere se stesso e le sue alienazioni perché egli stesso le ha fatte, ma non può comprenderne il significato immediato, nel momento stesso in cui le fa; piuttosto, nella considerazione complessiva del corso delle cose del mondo, come storia ideale eterna, egli può intravedere i piani della Provvidenza, può ripercorrerne i confini tracciati, cercare di comprenderne le motivazioni, perché è essa stessa un fatto storico. L’orizzonte della Provvidenza, che sovrasta l’uomo come «un cielo in forma di enorme cupola barocca», è la cornice di riferimento che delimita l’agire e il conoscere umani, mai immediatamente trasparenti a se stessi, ma opachi e per ciò stesso oggetto dei più svariati tentativi di comprensione degli studiosi.
Se Vico è ben lungi dall’operare una storicizzazione del concetto di Provvidenza, sarà Auerbach a farlo al posto suo, tentandone una traduzione laica, ma pur sempre molto diversa da quella secolarizzata di progresso dell’idealismo tedesco. Come indica a ragione Rivoletti: «Non è l’uomo, il singolo soggetto interpretante a creare le regole che ordinano la storia: quelle regole sono già lì, sono già insite nelle cose e nel corso della storia. Il compito dell’uomo-interprete è di riconoscere il disegno della storia, di individuarlo all’interno della massa caotica degli eventi, di comprenderlo e di trasmetterlo agli uomini»41. Il corso storico si predispone così
all’interpretazione dell’uomo, ma non si confà ineluttabilmente ad essa, le resiste, come resiste un fatto, con la cui evidenza bisogna in ogni modo fare i conti. È come se la Provvidenza vichiana stesse lì a dirci che il mondo storico esiste,
40 ZE, app., p. 39.
41 C. Rivoletti, Auerbach inedito, in R. Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà, studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009, p. 110.
indipendentemente da ogni tentavo di interpretazione o strumentazione retorica che lo relativizzi. Il tentativo di Auerbach è dare all’interprete gli strumenti adeguati proprio per fare i conti con quest’idea di corso storico. La nozione di “Figura” e quella di “Ansatzpunkt” sono due di questi strumenti; la prima, come vedremo più avanti, costruisce una connessione tra due elementi, entrambi estratti dal corso storico, prefigurazione e adempimento l’uno dell’altro; la seconda stabilisce il punto di partenza concreto e capace di inaugurare relazioni di significato intorno a sé per allargare l’ambito della ricerca e della comprensione. Entrambe queste nozioni partono da un presupposto fondamentale: che ciò che possiamo interpretare e di cui quindi possiamo avere comprensione è solo e soltanto ciò che possiamo descrivere perché ne abbiamo testimonianza, perché è “dato”. La Provvidenza è la garante di questo realismo del dato e, nell’ottica di Auerbach, ha anche la capacità di disinnescare l’ordigno del relativismo che pesa sullo storicismo rivisitato e sulla circolarità della comprensione.
e. Natura e storia
Strettamente collegato al tema della Provvidenza in Vico è il tema della Natura. Prima della ZE Auerbach interviene su questo in un contributo del 1937 sull’Archivum romanicum, Contributi linguistici all’interpretazione della «Scienza Nuova» di G.B. Vico, ponendo il problema di quale sia, per Vico, alla luce delle osservazioni e delle difficoltà interpretative che abbiamo rilevato, la vera natura dell’uomo; se essa si trovi in un momento preciso della storia dell’uomo, in un idillico passato o in un futuro utopico.
La natura dell’uomo è dunque contenuta in tutte le sue mutevoli nature; gli stadi del suo sviluppo nel cammino complessivo, e la provvidenza divina, che agisce in lui, lo hanno dotato di tale natura sotto forma di predisposizione, ed essa si evolve naturalmente in ogni attimo della sua storia. I primi uomini, «per una dimostrata necessità
di natura» sono poeti; nel corso successivo acquistano una «natura eroica», e nell’ultima età, quella illuminata, una «natura» razionale ed equilibrata, mite e nel contempo incline alla astrazione matematica.42
Auerbach ha chiarissimo che per Vico non esiste propriamente “la natura” dell’uomo, né uno Stato di natura in cui ricercare l’autenticità perduta o verso il quale orientare la progettualità politica e sociale per renderlo possibile. D’altra parte il corso della civiltà non conosce per Vico alcuno scopo, né uno scopo teologico, né uno scopo secolare, non c’è mai una rappresentazione ideale di uno Stato storico. La natura dell’uomo è piuttosto contenuta in tutte le sue mutevoli nature, ovvero non è identificabile con un dato momento storico, ma può essere ricostruita nell’osservazione complessiva della storia e degli stadi di sviluppo dell’uomo; è un concetto estremamente dinamico. Parlare di uno Stato di natura è di fatto un non senso se teniamo presente la particolare accezione che la parola “natura” ha in questo contesto. L’aspetto più interessante di questa riflessione è infatti che qui stiamo parlando di “natura” in un senso ben diverso da quello che daremmo allo stesso termine quando lo contrapponiamo a “storia” nella definizione dei rispettivi domini di creazione e conoscenza di Dio e dell’uomo. Quella Natura, che da ora in avanti indicheremo con la maiuscola, è la physis intesa come insieme degli elementi che costituiscono il mondo naturale, tutte le cose della cui esistenza l’uomo può solo prendere atto, affatto esterne e resistenti, perché non sono da lui stesso create. Natura nel secondo significato, natura con la minuscola, significa sempre “natura di qualcosa” e acquisisce quasi una sfumatura appositiva e predicativa.
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose». Di per se stessa la natura delle cose non è nulla; essa
42 E. Auerbach, Sprachliche Beiträge zur Erklärung der Scienza Nuova von G. B. Vico, in Archivum romanicum, XXI, n° 2-3, Firenze 1937, trad. it.: Id, Contributi linguistici all’interpretazione della «Scienza Nuova» di G. B. Vico, in Id., San Francesco, Dante e Vico, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 73.
coincide con la situazione storica dalla quale scaturiscono le cose. Abbiamo dunque una completa storicizzazione della natura. Natura è storia, stadio di sviluppo, sviluppo storico; ciò che tutti i popoli hanno in comune, la loro natura, non è nient’altro che il corso regolare della loro storia. È perciò che nel Vico molto spesso la parola “natura” si può intendere proprio nel senso di “storia”: nella frase «i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati», “natura” significa “stadio di sviluppo”; le espressioni «tali nature di cose umane» o «la natura civile» si intenderanno di preferenza come «l’essenza dell’evoluzione storica».43
Sulla storicizzazione del concetto di Natura è ancora più chiaro nella ZE: D’altra parte storicizza il concetto Natura molto spesso, attribuisce agli uomini e ai fatti storici una natura mutevole, o un cambiamento naturale, e la parola natura si può tradurre in lui talvolta con “Entwicklung” talaltra con “Entwicklungszustand”; si confrontino il 14 o il 69 degli elementi (Libro 1., Sezione 2.); nel primo caso sarebbe stato molto sensato, tradurre “Entwicklungszustand” al posto di “natura”, sennonché lo stile di Vico sarebbe alterato dal vocabolo moderno e subito si perderebbe l’approfondimento storicizzante del saldo concetto razionalistico di natura, perché proprio l’alternanza degli stadi di sviluppo è per Vico “la comune natura delle nazioni”.44
La storicizzazione di questo concetto di natura, il suo farsi storia, sposta l’attenzione dal diritto naturale al naturale sviluppo del diritto, come dice Auerbach poco più avanti, dallo Stato di natura dell’uomo alla sua evoluzione storica, dal singolo individuo e dal singolo popolo all’intera umanità. Questa ampiezza di orizzonte è ciò che contraddistingue maggiormente la filosofia di
43 Ibid.
Giambattista Vico da quella di Herder e dei romantici tedeschi. Vico «non mostrò alcun interesse particolare per il Volksgeist delle diverse nazioni. Egli mirava a individuare leggi eterne, le leggi della provvidenza divina che reggono la storia. I romantici al contrario si interessarono soprattutto alle singole forme dei fenomeni storici, cercarono di capire lo spirito particolare, di trovare il sapore particolare dei diversi popoli e periodi»45. Lo storicismo tedesco, il suo interesse per l’individuale
che emerge dall’incessante corso storico, si alimenta di questo spirito romantico descritto acutamente da Auerbach. Vico descrive invece il cammino complessivo dell’uomo in tutti i suoi stadi di sviluppo, ne coglie la ciclicità e nell’intero vede la sua Natura. Il suo particolare cosmopolitismo si regge sulle istituzioni del senso comune che tutti i popoli condividono, è un cosmopolitismo storico perché è riaffermato dal succedersi delle età e delle configurazioni sociali comuni a tutte le nazioni, si sorregge sulla varietà e sulla molteplicità delle forme storiche e non sulla identità di una vera o originale e immutabile natura umana. Stato di natura significava per Herder uno stato di libertà: «libertà del sentimento e del libero istinto, libertà di ispirazione, assenza di leggi e d’istituzioni, in acuto contrasto con leggi, convenzioni e regole della società razionalizzata. Herder non avrebbe mai pensato ad una fantasia primitiva capace di creare istituzioni più severe e feroci, frontiere più anguste e insopportabili di quelle che potrebbe istituire qualunque società civile. […] Nel sistema vichiano l’antico contrasto fra legge naturale e legge positiva, fra physis e thesis, tra natura primigenia e istituzioni umane, non ha più significato: l’età poetica di Vico, l’età dell’oro, non è un’età di libertà naturale, ma di istituzioni»46. Il contrasto fra physis e thesis perde di significato, perché in ogni
stadio della storia dell’uomo non c’è più differenza tra ciò che è posto, le istituzioni umane, e ciò che è per natura, dal momento che la natura dell’uomo si esprime di volta in volta nelle sue istituzioni sociali e l’uomo non ha altra natura all’infuori della sua storia, la prima è anzi funzione della seconda. Nella frase
45 E. Auerbach, Vico e lo storicismo estetico, in Id., San Francesco, Dante e Vico, ed. cit., p. 94. 46 Ivi, p. 93.