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L'interruzione volontaria della gravidanza e l'obiezione di coscienza del personale sanitario: un difficile bilanciamento.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

“ L’interruzione volontaria della gravidanza e l’obiezione

di coscienza del personale sanitario: un difficile

bilanciamento ”

RELATORE: CANDIDATA:

Prof.ssa Angioletta Sperti Chiara Benedetti

Anno Accademico 2016/2017

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Indice

Introduzione………7

Capitolo 1

L’INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA: UNA QUESTIONE IN CONTINUA EVOLUZIONE. Parte Prima:Dalle origini dell’aborto all’attuale disciplina normativa italiana. 1. Premessa………...10

2. Quando l’aborto era un “affare di donne”: dall’antichità al 700………..10

3. Le scoperte del XVII-XVIII secolo: cambia il concetto di feto e il modo di approcciarsi alla gravidanza……….12

4. La gravidanza come relazione tra due entità distinte: chi tutelare in caso di interessi confliggenti?...14

4.1. Repressione dell’aborto: tutelare il nascituro………..14

4.2. I presupposti di un cambiamento: “L’utero è mio”……….16

5. La Corte Costituzionale e la sentenza n. 27/1975: si apre la strada per l’approvazione di una legge che regoli l’interruzione volontaria della gravidanza..18

6. Nasce la legge 194/1978: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”………..20

6.1. L’iter di approvazione della legge……….. 20

6.2. Contenuto della “194”………..21

6.3. Considerazioni sulla Legge 194/1978………..24

6.4. I referendum sulla 194 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 35/1997...25

Parte Seconda: l’aborto in America e in Germania: cenni alle decisioni più importanti. 7. Cenni alle decisioni più importanti in materia di aborto in altri Paesi: premesse………27

7.1. Corte suprema americana: Roe vs Wade……….27

7.2. Planned Parenthood vs Casey: la Corte Suprema rivede i principi sanciti in Roe………..29

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Capitolo 2

GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE IN TEMA DI INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA E ACCESSO ALL’ABORTO.

1. Uno sguardo all’Europa: la Giurisprudenza della CEDU……….35

1.1. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo e l’aborto………...35

1.1.1.Open Door c. Irlanda: tra libertà di informazione e libertà di circolazione………35

1.1.2. Caso Vo c. Francia: aborto procurato non intenzionalmente da un medico. Il feto è da considerarsi persona ai sensi dell’Art. 2 CEDU?...37

1.1.3. Aborto volontario e restrizioni all’accesso all’aborto………...40

1- Bruggemann e Scheuten c. Repubblica Federale Tedesca………...40

2- Tysiąc c. Polonia ..40

3- A. , B. , C. , c. Irlanda………...42

4- R.R. c. Polonia………..45

5- P. e S. c. Polonia………...46

2. Considerazioni conclusive………47

3. L’aborto e i trattati internazionali……….48

Capitolo 3

L’OBIEZIONE DI COSCIENZA ALL’INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA. Parte Prima:la questione dell’obiezione di coscienza. 1. Premessa………...51

2. Ricostruzione e definizione dell’istituto dell’obiezione di coscienza (O.C.)…...52

3. Il rapporto antinomico tra obbedienza alla legge e obiezione di coscienza……..55

4. La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di obiezione di coscienza: l’obiezione di coscienza è un diritto immediatamente azionabile o è necessario l’intervento del legislatore?...59

5. Il rapporto tra l’obiezione di coscienza e l’obbligo giuridico a cui si vuole obiettare. I caratteri dell’obiezione di coscienza………...61

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Parte Seconda: l’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza: l’articolo 9 della L. 194/1978.

7. L’articolo 9 della legge 194/1978: l’obiezione di coscienza all’IVG. Un

sabotaggio della Legge?...66

7.1. Contenuto dell’art. 9 della L. 194/1978………...67

7.2. Considerazioni sull’art. 9 della legge 194/1978. I dati statistici dell’obiezione………..70

Capitolo 4

LE SOLUZIONI PROSPETTATE DALLE REGIONI PER FAR FRONTE ALLE ALTE PERCENTUALI DI OBIEZIONE DI COSCIENZA ALL’IVG. LA GIURISPRUDENZA SUL TEMA. 1. Premessa………...75

2. I concorsi riservati a personale non obiettore e le prime prese di posizione dei T.A.R. : decisioni diverse per questioni analoghe………76

3. “Caso Puglia” e “Caso Lazio” a confronto: l’obiezione di coscienza del personale operante nei Consultori familiari………..78

3.1. Il ruolo dei consultori familiari statuito nella L. 194/1978 e la possibile obiezione di coscienza all’interno degli stessi………...79

3.2. Il “caso Puglia”: sentenza TAR n. 3477/2010. Il “problema” dei bandi di concorso “riservati”………...82

3.3. Il “caso Lazio”: sentenza TAR n. 8990/2016. Il ruolo del personale medico all’interno dei Consultori familiari………..85

3.4. Brevi considerazioni sul “caso Puglia” e sul “caso Lazio”………....87

4. Il recentissimo caso dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma………88

4.1. Premessa………...88

4.2. Il “caso San Camillo”: la vicenda………...89

4.3. Bandi di concorso riservati e principio di uguaglianza………...90

4.4. Concorsi riservati: strumenti legittimi, ma non risolutivi. Il problema delle obiezioni tardive………....94

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Capitolo 5

CE LO CHIEDE L’EUROPA.

1. La condanna dell’Italia da parte del Comitato Europeo dei Diritti Sociali……..98 1.1. Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS) e la Carta Sociale

Europea……….98 1.2. Cenni alla procedura del reclamo collettivo al CEDS………...100 2. Il reclamo collettivo presentato dall’International Planned Parenthood Federation European Network contro l’Italia………...102 3. Il reclamo collettivo presentato dalla CGIL contro l’Italia……….107

Conclusioni:

L’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza: un fenomeno da arginare. Possibili soluzioni per far fronte al dilagare del fenomeno obiettorio……….113

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Introduzione

L’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) costituisce un tema fortemente dibattuto a livello politico, dottrinale e giurisprudenziale.

In Italia arrivare a una normativa che la disciplinasse in maniera compiuta e soprattutto che la elevasse a diritto esercitabile da tutte le donne (almeno fino ai primi tre mesi di gestazione) non è stato facile.

La Legge 22 maggio 1978 n. 194 rubricata come “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”, è il frutto di compromessi e di accesi dibattiti e polemiche che si sono susseguiti per anni e, ancora oggi, continua a far parlare di sé.

Particolarmente discusso è l’art. 9 che disciplina “L’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza garantita al personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie”. E’ come se, fin da subito, il legislatore avesse voluto porre un freno e un correttivo alla legalizzazione dell’aborto -forse consapevole della portata fortemente innovativa della Legge, considerato che l’aborto era un reato espressamente previsto dal Codice Rocco- ammettendo la possibilità per i medici e per il personale sanitario di rifiutarsi di compiere interventi interruttivi di gravidanza qualora la propria coscienza glielo impedisse.

Alla luce dei dati che emergono ogni anno dalla “Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza” potremmo spingerci a ritenere che obiettare sia diventata la regola e la non obiezione l’eccezione, viste le alte percentuali dei medici che si dichiarano obiettori (nel 2014 si dichiaravano obiettori il 70,7% dei ginecologi, il 48,4% degli anestesisti e il 45,85% del personale non medico).

Tutto questo provoca risultati drammatici che vedono donne fortemente in difficoltà, soprattutto in certe zone d’Italia come il Sud, ad accedere all’interruzione volontaria della gravidanza, costrette spesso a spostarsi dalla propria Regione, con i tempi che sempre più si restringono e mettendo sempre più a rischio la loro salute.

Trovare una soluzione a questa situazione è assolutamente necessario.

Le Regioni sono quindi obbligate ad adottare espedienti volti a fronteggiare le altissime percentuali di medici obiettori di coscienza: è sempre più frequente, infatti, il fenomeno dei “concorsi riservati”, bandi diretti all’assunzione negli Ospedali e nei Consultori familiari di personale medico non obiettore per rendere più agevole la fruizione del servizio interruttivo di gravidanza da parte delle donne; soluzioni di dubbia legittimità e senz’altro non risolutive se considerate isolatamente.

E la situazione italiana è nota anche all’Europa; infatti il Comitato Europeo dei diritti sociali (CEDS) per ben due volte, nel 2014 e nel 2016, ha condannato l’Italia poiché in violazione di

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diversi articoli previsti dalla Carta Sociale Europea, esortandola a rimediare a questa falla del sistema.

Di fronte a una situazione di questo tipo, si auspica un intervento del legislatore diretto a bilanciare l’obiezione di coscienza con una garanzia effettiva del diritto all’aborto e che preveda condizioni più stringenti per l’invocazione dell’obiezione nonché conseguenze, anche particolarmente gravose, per i medici che si dichiarino obiettori di coscienza onde evitare che la stessa obiezione, da eccezione rispetto alla legge, diventi la regola con ciò rendendo quasi impossibile per le donne godere di un diritto loro espressamente riconosciuto dalla legge. Il presente lavoro è suddiviso in cinque capitoli.

Nel primo capitolo ho ripercorso da un punto di vista storico il fenomeno dell’interruzione volontaria della gravidanza sottolineando come dall’essere un momento esclusivamente femminile, dove erano solamente le donne a praticare gli interventi e ad essere depositarie delle tecniche tramandate di generazione in generazione, sia divenuto nel corso della Rivoluzione francese un’operazione praticata da medici e dunque più sicura per le donne che vi si sottopongono con un’attenzione particolare riservata anche al feto e non più soltanto alla gestante.

Ho poi ripercorso le varie tappe che in Italia hanno portato all’approvazione della normativa regolante l’aborto, la Legge n. 194/1978, ponendo l’attenzione sul come non sia stato facile giungere ad un accordo che fosse soddisfacente per tutte le istanze coinvolte. Ne ho quindi analizzato la disciplina anche in una prospettiva comparatistica con la normativa statunitense e tedesca.

Nel capitolo numero due ho affrontato la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, come è intuibile, si è dovuta confrontare spesso con la tematica dell’interruzione volontaria della gravidanza.

Ho esaminato le sentenze maggiormente note cercando di mettere in luce di volta in volta gli atteggiamenti assunti dalla Corte quando si è trovata costretta a confrontarsi con un tematica così delicata.

Nel capitolo successivo sono invece passata ad esaminare l’articolo 9 della legge 194 che disciplina l’obiezione di coscienza riconosciuta al personale sanitario che, in forza del presente articolo, può rifiutarsi legittimamente di praticare aborti senza dover apportare motivazioni o giustificazioni in merito.

Ho cercato di fornire una definizione di obiezione sottolineando come al proposito non vi sia una formula univoca; alcuni ritengono infatti l’obiezione un diritto direttamente azionabile; altri invece vedono l’obbedienza alla legge la regola e l’obiezione l’eccezione esercitabile esclusivamente in forza di una legge che la preveda espressamente; altri ancora non ritengono esercitabile in alcun modo l’obiezione di coscienza.

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Partendo dunque dal constatare come non sia facile definire l’obiezione, ho rilevato come la stessa, per essere considerata tale, deve avere determinate caratteristiche che sono riassumibili in un rifiuto a) pubblico; b) individuale; c) personale; d) di un obbligo giuridico; e) di fare. Ho quindi analizzato nel dettaglio l’articolo 9 evidenziando chi siano i soggetti legittimati ad esercitare l’obiezione e le modalità con cui questa deve essere esercitata citando inoltre i dati forniti dal Ministro della Salute nella Relazione sull’attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza del 7 dicembre 2016 evidenziando come nell’anno 2014, su tutto il territorio nazionale, la presenza di obiettori di coscienza all’aborto fosse particolarmente elevata.

Ecco allora che nel capitolo numero quattro ho illustrato come le Regioni, attraverso l’indizione di concorsi riservati a personale medico non obiettore, tentino di arginare le alte percentuali di medici obiettori che nella pratica ostacolano l’accesso all’interruzione volontaria della gravidanza da parte delle donne.

Ho quindi esaminato le sentenze, partendo dalle più risalenti fino alle più recenti, dei Tribunali Amministrativi Regionali che si sono dovuti pronunciare sulla legittimità dei suddetti concorsi rilevando come gli orientamenti dei Tar chiamati a decidere non siano sempre coincidenti. Nel quinto e ultimo capitolo ho affrontato le due condanne inflitte all’Italia da parte del Comitato europeo dei Diritti Sociali il quale è stato chiamato a pronunciarsi proprio sulla situazione italiana a fronte della difficoltà per le donne di accedere all’IVG e della situazione dei medici non obiettori che sono costretti a farsi carico di un numero particolarmente elevato di interventi abortivi.

Nelle conclusioni infine prospetto possibili soluzioni che possano bilanciare il fenomeno obiettorio con il diritto delle donne di accedere all’IVG rilevando come un intervento del legislatore sia assolutamente necessario per riequilibrare una situazione particolarmente precaria.

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Capitolo 1

L’interruzione volontaria della gravidanza: una questione in continua

evoluzione.

Parte Prima: dalle origini dell’aborto all’attuale disciplina normativa

italiana.

1. Premessa.

Il tema dell’interruzione volontaria della gravidanza ha da sempre coinvolto la storia delle

società umane ed è difficile se non impossibile rintracciarne un inizio e una fine. Di aborto si è sempre parlato e sempre si continuerà a fare perché è una questione che, coinvolgendo l’inizio e la fine della vita umana, sarà sempre destinata a evolversi facendo emergere concezioni assai divergenti.

Quello però che è possibile fare è tracciare una storia dell’aborto mettendo in luce come nel corso dei secoli sono cambiate le nozioni e le tecniche mediche nonché i soggetti, gli interessi, le connotazioni etiche e le regolamentazioni giuridiche coinvolte.

La legge 194/1978 ossia la legge che in Italia regola l’interruzione volontaria della gravidanza, frutto di accesi dibattiti e compromessi, contiene nozioni che ad una prima lettura possono sembrare naturali e scontate ma che rappresentano il frutto di un difficile travaglio maturato nei secoli.

Nella prima parte del presente capitolo ho inteso tracciare un excursus storico circa il tema dell’aborto per mettere in luce proprio come è cambiato il modo di approcciarsi alla questione e soprattutto come cambia il ruolo della donna e dei soggetti coinvolti e destinati a stare accanto ad essa in questa pratica molto delicata per poi passare ad analizzare nel dettaglio il contenuto della Legge 194 del 1978.

2. Quando l’aborto era un “affare di donne”1: dall’antichità al 700.

Di aborto si parla già ai tempi di Greci e Romani: in questa epoca il feto è considerato un’appendice del corpo materno. La gravidanza non è dunque definibile in termini di relazione in quanto è un processo fisiologico che si svolge per intero nel corpo della donna2 e si ritiene

1 S. Mancini, Un affare di donne. L’aborto tra libertà eguale e controllo sociale, Cedam, Milano, 2012. 2 G. Galeotti, Storia dell’aborto, il Mulino, 2003, p.10-11.

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che il feto acquisti l’anima e dunque diventi essere umano animato solo al momento della nascita. Per questo motivo se nel corso della gravidanza sopraggiungono delle complicazioni è sempre la vita della donna ad essere preferita in quanto essere già formato.

In quest’epoca ciò che ruota intorno alla gestazione è di competenza esclusivamente femminile e questo trova giustificazione nel fatto che intorno alle parti intime femminili c’è un forte senso di pudore che ha ritardato proprio la partecipazione dei medici a queste pratiche. E’ la donna stessa ad accorgersi della gravidanza e ad annunciarla agli altri e l’unico segnale che le consente di avvertire la presenza del feto nel suo corpo è il movimento dello stesso3. Tutto ruota dunque

intorno alle figure femminili; sono le sole donne ad avere il monopolio su ciò che riguarda la propria sfera più intima. Sono sempre e solo loro a suggerire consigli e accorgimenti alle gestanti, ad assistere ai parti e a praticare aborti secondo saperi tramandati di generazione in generazione. Per realizzare aborti le donne ricorrono a farmaci, esercizi fisici violenti e strumenti che in certe circostanze possono anche risultare letali.

Se una donna non annuncia la propria gravidanza, dato che solo lei può sapere dell’esistenza della stessa, non può essere accusata di avere abortito perché non ci sono altri riscontri per provare il concepimento.

In quest’epoca l’aborto non è però considerato reato, rimane una questione privata a cui si ricorre per fronteggiare situazioni di povertà o come conseguenza della prostituzione o per salvare la vita della madre. Non sembra plausibile sostenere che possa essere considerato come metodo di controllo delle nascite in quanto la natura stessa provvede già in questo senso dato l’alto livello di mortalità infantile dovuto a condizioni di vita alquanto precarie.

L’unico limite è connesso alla tutela dell’interesse maschile il quale può, per mezzo dell’aborto, essere privato della discendenza. Solo se l’uomo vuole tutelare il proprio interesse si possono avviare dei procedimenti ma l’aborto non può comunque essere considerato omicidio dato che il feto, privo dell’anima, non è un essere vivente.

Nell’antica Roma, però, una volta che la gravidanza è venuta allo scoperto è l’uomo a decidere sulle sorti del feto e dunque la libertà della donna circa l’aborto è circoscritta alle sole donne non soggette a potestà.

L’aborto non è considerato reato fino al periodo classico quando sono state introdotte due sanzioni penali: esilio temporaneo a carico delle divorziate o delle sposate che si fossero procurate l’aborto contro il volere del coniuge; lavori forzati in miniera e relegazione in un’isola con parziale confisca dei beni per chi avesse somministrato infusi. In caso di morte della donna è prevista la pena capitale. Questo è un passaggio notevole perché l’aborto da questione privata diviene reato sanzionato da una legge penale e dunque sono sempre più frequenti gli “aborti clandestini”, eseguiti senza particolari accorgimenti che saranno causa di molte morti.

3 G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., p. 15.

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E’ interessante soffermarci anche sulla concezione che di aborto ha il nascente Cristianesimo: esso lo condanna aspramente in quanto non rispettoso dei principi di amore e rispetto verso il prossimo. Qui oggetto di interesse diviene il feto e non più gli interessi del padre, della famiglia, dello Stato, e in ultimo della donna. Il feto diviene un’entità autonoma distinta rispetto alla madre. L’aborto è equiparato all’omicidio perché con esso viene meno una vita umana. Questa affermazione però non è univoca ma merita una specificazione: quando infatti si può parlare di essere umano in senso pieno e completo? Quando è il momento in cui Dio infonde l’anima nel concepito? Rispondere a queste domande è utile per segnare il punto di partenza a partire dal quale l’aborto può essere classificato come omicidio.

Prima dell’infusione dell’anima l’aborto resta comunque condannato ma non costituisce omicidio perché ancora non siamo di fronte a un essere vivente. Sant’Agostino condanna qualsiasi forma di aborto ma esitava a considerare come omicidio quello ai danni di un feto inanimato mentre per San Tommaso Dio introduce l’anima solo quando il feto acquista anima vegetativa e poi sensitiva; dunque distruggendo il concepito nelle fasi iniziali della gravidanza si compie il peccato di distruggere un seme e quindi violazione dell’invito divino a trasmettere la vita; se il feto ha però acquisito anima razionale il peccato ricade nell’omicidio.

La legislazione civile interviene sul tema dell’aborto andandolo a disciplinare ma è fortemente influenzata dalla Chiesa e si limita a ricalcare le disposizioni ecclesiastiche filtrandole attraverso una percezione sociale.

Avendone ripercorso le tappe fondamentali possiamo concludere che fino alla metà del 700 erano le donne le protagoniste indiscusse sulla scena del parto e anche nell’altra faccia dell’aborto erano ancora loro a dominare il panorama.

Le cose cambieranno a partire dalla Rivoluzione Francese quando l’aborto viene ad assumere una valenza pubblica anche grazie alle scoperte scientifiche che vanno a sancire un nuovo modo di concepire la gravidanza.

3. Le scoperte del XVII-XVIII secolo: cambia il concetto di feto e il modo di approcciarsi alla gravidanza.

Il Seicento e il Settecento sono anni di importanti acquisizioni scientifiche grazie all’uso del microscopio e di attenti studi anatomici che comportano un inquadramento nuovo dei fenomeni gravidanza e aborto. Il feto è ora considerato un’entità autonoma, cambia il ruolo della donna e della gestante, cambia il significato della gravidanza e del parto.

Il feto non è più un’appendice del corpo materno che acquista l’anima una volta venuto al mondo, bensì, l’embrione prima e il feto poi, sono formati fin dall’inizio e il loro sviluppo è un manifestarsi di qualcosa che già esiste.

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Le pratiche relative al parto si perfezionano e migliorano; nascono testi ostetrici che condannano l’aborto perchè contro i principi della morale, ma da ciò traspare anche la preoccupazione dei medici relativamente a questa pratica in quanto causa di molte morti fra le donne.

Il parto cessa di essere una “questione di donne”4 per aprire le porte all’intervento di

chirurghi, inizialmente circoscritto ai casi più difficili, e poi anche nelle situazioni “normali”. Questo cambiamento non è tuttavia repentino a causa anche di quel senso di pudore legato alle parti intime femminili (in Italia le levatrici dominano sempre la scena) ma segna comunque un inizio verso una maggiore attenzione per la madre e per il nascituro. Nel XIX Secolo si affermano anche le prime specializzazioni della medicina e la ginecologia e l’ostetricia diventano una branca autonoma della scienza medica. Nel 1849 il New Universal Etymological,

Technological and Pronouncing Dictionary of the English Language definisce la “ginecologia”

come “la dottrina della natura e delle malattie delle donne”. Il corpo delle donne diviene dominio dei ginecologi che sono rigorosamente di sesso maschile e che pretendono di svelarne i misteri e ottenerne un dominio incontrollato5.

La gravidanza da fatto interno alla donna diviene pubblica nel senso che è possibile vedere il feto prima che questo venga alla luce e dunque diviene chiara e visibile l’autonomia esistenziale dello stesso che esiste come entità autonoma da quando è concepito nonostante abbia con la madre una relazione unica e intima che lo tiene in vita. Non è più la donna che dichiara la propria gravidanza ma è la scienza a dire la verità e la donna stessa ha bisogno della scienza per conoscere il suo stato.

Tutto questo ha ripercussioni anche sulle concezioni che la Chiesa ha della gravidanza, del parto e dell’aborto. Con le scoperte scientifiche non ha più senso continuare a fare distinzioni tra feto animato/inanimato, formato/non formato. Innocenzo XI nella Bolla Papale del 1679 afferma che il feto è persona fin dall’inizio e l’aborto rimane ammissibile solo se la vita della madre è in pericolo e non ci sono speranze di salvare il nascituro6.

Teologi, religione e scienza devono dialogare: tra medico e sacerdote esiste una particolare relazione perché diagnosi e terapia fatta dal medico sono valide e applicabili se non contrastano con le indicazioni morali. Il feto morto può essere addirittura battezzato con strumenti da inserire nel corpo materno per garantirgli la salvezza spirituale altrimenti negatagli. “Peccato” in gravidanza, per la Chiesa, è tutto ciò che può causare danni al feto.

La legislazione civile fino alla Rivoluzione Francese non si è pronunciata autonomamente in materia di aborto ma ha recepito le indicazioni religiose.

4 G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., p. 57.

5 S. Mancini, Un affare di donne. L’aborto tra libertà eguale e controllo sociale, cit., p. 80. 6 G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., p. 65.

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Nel periodo Illuminista si va affermando l’ideologia che uno Stato è tanto più forte quanti più cittadini ha, ogni bambino e, prima ancora, ogni feto è una fonte di ricchezza che porterà profitto allo Stato. Ogni vita ha importanza e la tutela della salute diviene un ambito in cui è interesse dello Stato investire. Lo Stato ha bisogno della madre e divenire madre è considerata una missione che ogni donna deve portare a compimento pena il sacrificio anche della sua stessa vita. Il feto è visto come futuro cittadino e lo Stato instaura con lui un rapporto diretto. L’antica figura della levatrice viene vista con sdegno perché priva dei requisiti della scienza moderna ma legata a saperi magici e segreti, e perché ritenuta la principale responsabile degli aborti eseguiti in clandestinità. Viene dunque progressivamente sostituita con nuove levatrici, potremmo definirle come le moderne ostetriche, destinate ad assistere la donna nel parto e formate in scuole moderne, ma relegate a ruolo di semplice assistenza alla donna.

Si può dunque concludere che lo Stato entra nel complesso universo femminile e pretende di controllarne i comportamenti durante la gravidanza; proibisce loro di decidere se avere figli o meno perchè numerose sono le leggi di condanna di contraccezione e aborto; il parto e quanto a esso è collegato diviene evento di cui si appropria la scienza e la politica e viene governato da regole scientifiche e norme giuridiche.

L’ingresso della scienza e della politica nel terreno dell’universo femminile non è tuttavia negativo in quanto le morti per parto di donne e bambini si riducono drasticamente ma innegabilmente porta a una riduzione dell’autonomia e dell’indipendenza che la donna aveva nei secoli precedenti quando era lei la padrona assoluta del proprio corpo e di ciò che portava in grembo.

4. La gravidanza come relazione tra due entità distinte: chi tutelare in caso di interessi confliggenti?

Come è stato precedentemente detto, le acquisizioni scientifiche del Sei-Settecento mostrano come la gravidanza sia una relazione tra due entità distinte: madre e nascituro. Praticare un aborto e dunque interrompere questo processo comporta necessariamente un sacrificio di uno degli interessi coinvolti. Vediamo dunque come cambia nel corso della storia il modo con cui vengono tutelate e protette le istanze coinvolte.

4.1. Repressione dell’aborto: tutelare il nascituro.

Per tutto l’Ottocento e fino alle leggi degli anni Sessanta/Settanta del Novecento la decisione dello Stato è quella di privilegiare il nascituro attraverso una forte repressione dell’aborto. Ciò che più preoccupa non è tanto il diritto del nascituro a nascere quanto piuttosto la lesione dello Stato che con l’aborto verrebbe privato di un potenziale nuovo cittadino. I secoli Ottocento e

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Novecento, infatti, si caratterizzano per un calo delle nascite e quindi la repressione dell’aborto è dovuto più a istanze politiche piuttosto che per motivi religiosi.

Il XIX secolo è il periodo delle grandi codificazioni e anche il diritto penale comincia a occuparsi di aborto emanando legislazioni organiche in materia. Le nuove legislazioni ridefiniscono e riqualificano il reato di aborto, ampliano l’ipotesi criminosa e le pene vengono inasprite.

Il codice francese del 1810 colloca l’aborto fra i reati contro la persona così come la maggioranza dei Codici ottocenteschi; il Codice Sardo lo colloca invece tra i reati contro l’ordine della famiglia. A tal proposito nasce poi un acceso dibattito giuridico circa l’individuazione di quale interesse le norme penali vanno effettivamente a tutelare: l’aborto è atto lesivo della vita del nascituro o è un’offesa a un interesse della collettività? La soluzione a questa domanda troverà risposta nel continuo della trattazione.

Le pene variano da 5 a 10 anni e a parità di condizioni si tende a punire maggiormente chi ha provocato l’aborto piuttosto che la donna stessa. Le aggravanti sono la morte della donna a seguito dell’intervento e professione del colpevole. Le attenuanti sono circoscritte alle cause d’onore cioè aborto eseguito per nascondere il frutto di un concepimento illegittimo mentre viene meno la causa di povertà.

La sanzione normativa verso contraccezione e aborto si inasprisce dopo la Prima Guerra Mondiale. Dietro a questo si nasconde l’interesse dello Stato ad accrescere le nascite perché ritenuta condizione per lo sviluppo economico e nazionale e per una più efficiente conquista territoriale e coloniale.

In Italia il delitto di aborto procurato, contenuto già nel Codice Zanardelli del 1889 tra i reati contro la persona, viene incluso nel titolo X del Codice Rocco del 1930 intitolato “Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Questa scelta dimostra come l’obiettivo sia quello di riconoscere l’interesse primario alla tutela della maternità e all’incremento demografico della Nazione, dimostrando quindi che la tutela è rivolta più al nascituro che alla donna, considerato che niente viene previsto circa il diritto alla vita e alla salute della donna la quale è vista come un mezzo per la crescita demografica7. Sempre nel titolo X sono previste nuove fattispecie di

reato come l’incitamento a pratiche contro la contraccezione e l’istigazione all’aborto8. Di tali

articoli, come vedremo, se ne occuperà successivamente la Corte Costituzionale dichiarandoli

7 Lo stesso Alfredo Rocco nella relazione al Re che accompagna il nuovo Codice sostiene che nella proibizione all’aborto ”ad ogni altra deve ritenersi prevalente l’offesa all’interesse della Nazione ad assicurare la continuità della stirpe,senza la quale verrebbe, in definitiva, a mancare la stessa base personale dell’esistenza della Nazione”.

8 Il Codice Rocco prevedeva una serie di norme (dall’art. 545 all’art. 550) in cui erano indicate le fattispecie penali in tema di aborto per le quali era prevista una pena che variava da caso a caso: si prevedeva il caso in cui la donna fosse consenziente alla pratica abortiva, il caso in cui la donna non era consenziente, il caso in cui era la donna stessa a procurarsi l’aborto, l’istigazione all’aborto e le aggravanti (lesione della salute e morte della donna) e le attenuanti (il delitto è stato compiuto per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto).

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illegittimi perché lesivi del diritto alla vita e della salute della donna. Possiamo però constatare da subito che un regime normativo così severo non argina il problema, ma anzi aumenta la clandestinità degli aborti andando dunque a mettere sempre più a repentaglio la vita di molte donne.

In Francia il codice della famiglia del 1939 introduce norme più dure in materia. Una legge del 1942 definisce l’aborto non più come crimine contro le persone ma una minaccia per la famiglia e la razza e un attentato alla sicurezza interna e esterna dello Stato.

In Russia l’aborto viene liberalizzato nel 1920 anche se verrà ripristinato sedici anni dopo da Stalin visto l’alto numero di interventi eseguiti.

Nella Repubblica Spagnola il Ministro della Sanità rende l’aborto legale nel 1936 ma l’esperienza sarà di breve durata visto che il regime franchista reintroduce il reato di aborto nei primi anni Quaranta.

Quello che possiamo dire a conclusione di queste riflessioni è che fino alla seconda metà del Secolo scorso una donna non poteva decidere liberamente se avere o non avere un figlio; tale scelta doveva essere compiuta in clandestinità perché lo Stato con la propria legislazione andava a incidere profondamente sull’autodeterminazione delle donne stesse, non lasciandole libere di scegliere e di disporre del proprio corpo anche in relazione a eventi in grado di sconvolgere permanentemente la loro stessa vita.

4.2. I presupposti di un cambiamento: “L’utero è mio”.

E’ a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che la società tutta si appresta a subire cambiamenti sociali e di costume. Le donne stesse divengono maggiormente consapevoli di loro stesse sia per le richieste da avanzare che nelle posizioni da sostenere.

Le donne riacquistano a mano a mano un maggior controllo sul proprio corpo e un segnale di questo è costituito anche dalla messa in commercio nel 1960, non senza contrasti e opposizioni, della prima pillola anticoncezionale mediante la quale le donne possono scegliere se diventare madri. La maternità diventa dunque una libera scelta.

E’ negli anni Sessanta che si sviluppano i movimenti femministi con slogan come “L’utero è mio” o “Padrone della nostra pancia” mediante i quali le donne esprimono la loro volontà di riappropriarsi del proprio corpo, rivendicando il diritto di poter esse stesse scegliere liberamente della propria vita e della propria salute senza subire condizionamenti esterni. E l’aborto costituisce la rivendicazione unificante del femminismo; esso pretende di diventare diritto civile e la lotta per ottenere una legge che ammetta l’interruzione volontaria della gravidanza va ad accomunare donne di diversa età, classe e ceto e questa battaglia diviene uno degli elementi fondativi dell’azione femminista e dell’identità delle donne come cittadine. Le donne vogliono

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che l’opinione pubblica e la politica si concentrino sulla loro libertà di essere madri e sulla possibilità di poter scegliere di non esserlo.

Le campagne a favore dell’aborto seguono tutte lo stesso schema: si vuole porre l’opinione pubblica davanti al dramma dell’aborto clandestino attraverso gesti clamorosi come ammissioni di colpevolezza di massa e autoincriminazioni. I processi sul tema vengono strumentalizzati e il singolo caso concreto diviene occasione per porre al centro dell’attenzione le leggi che lo disciplinano chiedendone una modifica. Sono dunque le stesse donne a portare l’attenzione sul tema dell’aborto che da anni veniva ignorato in Italia.

Il primo tentativo di richiamare l’attenzione sul problema dell’aborto clandestino è da ricondurre al settimanale “Noi donne”, rivista dell’Unione Donne Italiane, che nel 1961 aveva pubblicato un’inchiesta intitolata “I figli che non nascono” portando per la prima volta alla luce il problema dell’aborto clandestino in Italia9.

A partire dal 1973 in Italia vengono celebrati processi a carico di donne anche molto giovani che finiscono per rappresentare casi umani grazie alla mobilitazione del movimento femminista che si impegna affinchè vicende isolate vengano portate a conoscenza nazionale e diventino casi di interesse della politica10.

Nel gennaio del 1974 il Procuratore della Repubblica di Trento incrimina 263 donne per “procurato aborto”: l’inchiesta prende slancio a causa della morte di una giovane donna ricoverata in ospedale a seguito di un aborto clandestino. Il ginecologo che ha eseguito l’intervento possiede le cartelle cliniche di altre donne che avevano eseguito interventi analoghi e così è stato possibile incriminarle tutte11. Per questa occasione viene organizzata una

manifestazione nazionale con l’appoggio dei Radicali, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna fondato nel 1971 e il CISA (Centro Informazione Sterilizzazioni e Aborto) fondato nel 1973 che si propone di educare a una sessualità responsabile e di creare centri che vadano a eseguire aborti praticati illegalmente ma allo scoperto. Quasi tutti i gruppi femminili e femministi intervengono sul tema organizzando manifestazioni e campagne di stampa focalizzando l’attenzione sugli aborti clandestini e sul guadagno dei ginecologi che li

9 G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., p. 113.

10 Dall’altra parte dell’oceano,negli Stati Uniti, il 1973 è un anno altrettanto cruciale nel dibattito sull’aborto. E’ l’anno della sentenza “Roe vs Wade” : U.S. Supreme Court “Roe vs Wade”, 410 US 113 (1973). Come approfondirò in seguito è una delle sentenze più discusse della storia legislativa americana che introdusse il diritto all’aborto nell’ordinamento statunitense. I giudici della Corte Suprema stabilirono che la maggior parte delle leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza fino ad allora promulgate non rispettavano il diritto alla privacy, garantito dal quattordicesimo emendamento della Costituzione. Questa decisione fu innovativa perché tutte le leggi statali e federali che proibivano o restringevano la possibilità di non portare a termine la gravidanza vennero stravolte. Si stabilì che l’aborto fosse possibile a prescindere dalle motivazioni della madre e fino al punto in cui il feto è in grado di sopravvivere fuori dall’utero materno anche con l’aiuto di un supporto artificiale (7 mesi). In caso di pericolo per la salute della donna l’aborto è sempre possibile in qualsiasi momento.

11 Codice penale italiano (1930), Libro II, Titolo X: art. 546. Aborto di donna consenziente. Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha acconsentito all’aborto. […]

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praticano in cliniche private. Grandi contributi a queste campagne furono offerti dell’Aied (Associazione Italiana educazione demografica) e dal suo presidente Luigi De Marchi.

A partire dal gennaio 1975 il settimanale “L’Espresso” insieme a “la Lega del 13 maggio” ha intrapreso una campagna per promuovere un nuovo referendum volto a abrogare gli articoli del codice penale che vietano l’interruzione volontaria della gravidanza.

Il 1975 è anche l’anno in cui Parlamento e Corte Costituzionale12 intervengono sul tema

dell’aborto e il dialogo con le istituzioni è finalmente aperto. Tra gli eventi che hanno reso possibile questo c’è l’entrata in vigore della Corte Costituzionale e il nuovo diritto di famiglia del 1975 che vuole dare dignità alla donna nella famiglia.

I partiti politici sono obbligati a prendere posizioni su tematiche fino ad allora evitate, legate al mondo sessuale, di cui non hanno né linguaggio né concetti, di cui non conoscono i termini descrittivi né hanno la percezione reale delle sue implicazioni13.

La prima presa di posizione della Corte Costituzionale circa la scarsa tutela riservata alla donna è la sentenza n. 49/1971 con cui dichiara l’incostituzionalità dell’art. 553 del Codice Penale14 ossia l’articolo che impediva la diffusione e il commercio dei metodi anticoncezionali.

Momento fondamentale però della regolamentazione dell’aborto in Italia è la Sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale la quale, come vedremo nel prossimo paragrafo, rappresenta la prima risposta alle pronunce della giurisprudenza di merito che avevano già sottolineato un’eccessiva gravosità delle pene previste dal Codice Rocco.

Del resto è inevitabile che anche le Istituzioni comincino a interessarsi seriamente della questione e si apprestino a prendere decisioni sul tema. Ovunque le autodenunce di donne che si espongono alle possibilità di sanzioni penali si sommano a processi a carico di donne ed è naturale che ci si cominci a chiedere se una legge così palesemente violata sia ancora da considerare una legge giusta e conforme ai canoni del tempo.

La Chiesa dal canto suo rimarrà una ferrea oppositrice della decriminalizzazione dell’aborto ed esso è posto sullo stesso piano dell’omicidio e del genocidio.

5. La Corte Costituzionale e la sentenza n. 27/1975: si apre la strada per l’approvazione di una legge che regoli l’interruzione volontaria della gravidanza.

In questa sentenza si discute della legittimità costituzionale del reato di procurato aborto disciplinato nell’art. 546 del Codice Rocco15, il codice penale vigente all’epoca. Il procurato

12 Corte Cost., sent. n. 27/1975.

13 G. Scirè, L’aborto in Italia. Storia di una legge, Milano, Bruno Mondadori editore, 2008.

14 Art. 553. Incitamento a pratiche contro la procreazione. “Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire quattrocentomila. Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro”

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aborto viene considerato lesivo di interessi disparati quali la vita, l’ordine delle famiglie, il buon costume, l’accrescimento della popolazione.

La Corte ritiene che la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale: l’art. 31 comma 2 Cost. impone la protezione della maternità e l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo fra i quali deve essere fatta rientrare anche la condizione giuridica del concepito sia pure con i dovuti accorgimenti del caso. Questa premessa, che giustifica l’intervento del legislatore volto a prevedere sanzioni penali, può venire in contrasto con altri diritti costituzionali ossia i diritti relativi alla donna e dunque la legge non può dare al concepito una prevalenza totale ed assoluta negando alla donna un’adeguata protezione. Ed è proprio questo il vizio di legittimità costituzionale dell’attuale disciplina penale dell’aborto.

La Corte dichiara dunque l’incostituzionalità dell’art 546 c.p. con riferimento agli articoli 31 comma 2 e art. 32 comma 1 Cost. nella parte in cui punisce chiunque cagioni l’aborto di donna consenziente, anche in caso di accertamento della pericolosità della gravidanza per il benessere fisico e l’equilibrio psichico della gestante qualora non ricorrano gli estremi dell’art 54 c.p. ossia lo stato di necessità. In base allo stato di necessità infatti, si ammette il ricorso alle pratiche abortive qualora ci sia l’eventualità di un danno grave, attuale e inevitabile per la salute e la vita della donna conseguente allo stato di gravidanza. La condizione della gestante, dice la Corte, è del tutto particolare e non trova adeguata tutela in una norma di carattere generale come l’art. 54 c.p. che esige non soltanto la gravità e l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto ma non sempre è immediato. La scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto dell’equivalenza tra bene offeso da chi commette il delitto e bene che la previsione vuole tutelare. Nel caso di specie non è possibile instaurare una equivalenza fra il diritto alla vita e alla salute proprio di chi è già persona cioè la madre e la salvaguardia dell’embrione che è persona in fieri. La Corte quindi crea una scala gerarchica tra diritti facenti capo alla donna e interessi costituzionalmente protetti del nascituro, concludendo che chi persona ancora non è, è portatore di interessi meritevoli di tutela ma in misura minore (la posizione giuridica della donna è declinata in termini di diritto, per il concepito si usa l’espressione interesse costituzionalmente protetto). Il concepito tuttavia non resta privo di protezione ma anzi, come precedentemente detto, la sua posizione è garantita dall’art. 2 Cost. e dall’art. 31 comma 2 Cost.

15 Art. 546: Aborto di donna consenziente.

Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni.

La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto. Si applica la disposizione dell’articolo precedente:

1. se la donna è minore degli anni quattordici, o, comunque, non ha capacità d’intendere o di volere; 2. se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero è carpito con inganno.

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La Corte conclude, ed è forse questa la parte più interessante della sentenza, che è obbligo del legislatore (dunque esorta il legislatore a prendere provvedimenti e a intervenire in materia) predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla. Quindi la Corte sprona il legislatore a intervenire con una legge che regoli l’interruzione volontaria della gravidanza, tenendo conto delle osservazioni compiute dalla stessa Corte, ma che ancori l’aborto a presupposti seri e specifici qualificandolo come extrema ratio.

La Corte in sostanza afferma che ricorrere all’aborto è conforme a diritto non in assoluto bensì nei casi indicati dalla legge, una legge di cui tale sentenza pone le premesse e che sfocerà nella legge 194/1978, che, riprendendo le questioni trattate in questa sentenza, va a realizzare un vero e proprio sistema di regole in materia di interruzione volontaria della gravidanza.

La Corte fa sentire la propria voce, facendo proprie le richieste che provengono da più strati sociali della popolazione perché è necessario modificare una disciplina codicistica ormai obsoleta alla luce dei principi contenuti nella Carta Fondamentale.

6. Nasce la legge 194/1978: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”.

6.1. L’iter di approvazione della legge.

La Legge 194/1978 ha introdotto nel nostro Paese un diritto che oggi riteniamo fondamentale ovvero quello all’autodeterminazione rispetto alle scelte procreative di ognuno. La Legge introduce infatti il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG). A differenza della precedente disciplina, che reprimeva ogni forma di aborto, la nuova disciplina segna una svolta in senso liceizzante; essa riconosce che l’IVG, in presenza di condizioni espressamente previste dalla Legge medesima, non è punibile bensì lecita nell’ottica di un contemperamento dei diritti della madre e del concepito.

Il percorso che porta all’approvazione della presente legge non è semplice e lineare ma anzi, è il frutto di accesi dibattiti e compromessi tra le forze politiche dell’epoca che ancora una volta dimostrano come le posizioni sull’argomento “aborto” siano divergenti e come sia complicato trovare un punto di convergenza.

Le forze parlamentari, consapevoli che la normativa vigente di stampo fascista andasse revisionata, cominciano a elaborare proposte in materia.

La prima proposta viene dal socialista Loris Fortuna nel 1973. Seguono proposte di socialdemocratici, comunisti, repubblicani, liberali. Anche la Democrazia Cristiana presenta un

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progetto che, pur non prevedendo la depenalizzazione del reato, indica attenuanti come: ragionevole timore di gravissime anomalie del nascituro, gravidanza conseguenza di una violenza carnale, condizioni economiche e sociali che rendono difficile il mantenimento del nascituro; inoltre il reato non viene più classificato nel codice tra i delitti contro la stirpe ma contro la persona.

Il dibattito collettivo si occupa sempre in modo più penetrante della questione e in un clima di fervente discussione anche voci non giuridiche esprimono la loro opinione: Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975 intitolato “Sono contro

l’aborto” esprime la sua voce di dissenso alla legalizzazione di tale pratica perché legalizzare

l’aborto per lui equivaleva a legalizzare un omicidio.

Le proposte in Parlamento continuano a susseguirsi e il 1975 è l’anno della già ampiamente ricordata sentenza della Corte Costituzionale16.

Peraltro, in assenza di una regolamentazione in materia, tale sentenza viene tenuta in considerazione nel “caso Seveso”. Nel 1976 a Seveso, un paesino della Brianza, esplode un reattore dell’ICMESA, una fabbrica chimica di proprietà della multinazionale svizzera Hoffman-La Roche, a seguito di cui si sprigiona nell’aria una nube di diossina in grado di provocare gravissime malformazioni fetali. I giornali accusano le autorità di non informare le donne incinte di quanto stava accadendo e di quanto tale situazione venutasi a creare potesse risultare pericolosissima per i nascituri e della possibilità, peraltro, di ricorrere all’aborto terapeutico considerato possibile in casi eccezionali e di urgenza. Non essendoci ancora la legge 194 a giustificazione degli aborti eseguiti in tale circostanza (26 sulle 462 gravidanze accertate nei consultori della zona) è stata utilizzata la sentenza della Corte.

Nel 1977 il Parlamento costituisce una Commissione ristretta e viene formulato un progetto di legge unico che viene approvato dalla Commissione Giustizia della Camera e dalla Camera stessa ma sarà poi bocciato dal Senato grazie all’alleanza della democrazia cristiana e missini che proposero di votare a scrutinio segreto.

La legge passerà l’anno seguente: il 22 maggio 1978 viene definitivamente approvata in Senato con 160 voti favorevoli contro 148 contrari: è nata finalmente la legge 194/ 1978 tanto nota da essere citata con il solo numero: “La 194”.

6.2. Contenuto della “194”.

La legge regola le modalità e le condizioni in base alle quali una donna può decidere di interrompere la gravidanza; infatti l’aborto rimane un reato se non compiuto rispettando le condizioni imposte dalla 194 la quale si fonda sul bilanciamento tra l’interesse alla vita del

16 Corte Costituzionale sent. n. 27/1975.

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nascituro e l’interesse della donna a disporre liberamente del proprio corpo, ma procediamo per gradi.

La legge nell’articolo di apertura17 afferma i principi fondamentali a cui la normativa si ispira

e da subito emerge come l’obiettivo sia tutelare la vita umana fin dal suo inizio: l’aborto non deve diventare un mezzo di controllo delle nascite e lo Stato deve garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Una procreazione è cosciente se la donna è consapevole delle conseguenze che possono derivarle dalla gravidanza; è responsabile quando la scelta di affrontare una gravidanza è presa liberamente dalla donna e meditata. La maternità ha un valore sociale e questo costituisce una caratteristica che il legislatore ha voluto fortemente sottolineare visto che la stessa rubrica della legge contiene tale definizione. Se la maternità ha valore sociale significa che la comunità ha interesse alla stessa quindi essa va garantita, tutelata, protetta ma anche promossa e lo Stato deve impegnarsi con mezzi economici e con sostegno morale affinchè le donne possano diventare madri se lo desiderano.

La legge poi stabilisce le condizioni per interrompere la gravidanza nei primi 90 giorni di gestazione e successivamente ad essi, prevedendo condizioni e limiti più stringenti a seconda del momento in cui tale operazione viene eseguita.

Nei primi 90 giorni le condizioni richieste sono più blande; una donna è legittimata a abortire se la gravidanza costituisce un serio pericolo per la sua salute psico-fisica, in relazione al suo stato di salute, alle condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento; se il feto presenta malformazioni o anomalie.

La donna può sì ricorrere all’aborto, ma a certe condizioni, quindi si configura come un diritto, ma vincolato e dunque la donna non è completamente libera di autodeterminarsi ma la sua scelta richiede sempre un bilanciamento tra quelli che sono i suoi interessi e la posizione del concepito18. Non esiste quindi una libertà costituzionalmente garantita di abortire, né si accorda

alla donna il diritto di rifiutare o meno liberamente la propria maternità. La donna che intenda avvalersi dell’IVG deve rivolgersi a un consultorio pubblico19, a una struttura socio-sanitaria

17Art. 1: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile , riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana sin dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite…”

18 Www.unibioetica.it, Rosanna Fattibene, Maria Pia Iadicicco “L’aborto nella giurisprudenza costituzionale”.

19 La funzione dei consultori pubblici nella vicenda abortiva è disciplinata dall’art. 2 della legge 194/1978 e gli stessi sono stati istituiti dalla Legge 405/1975.

Legge 29 luglio 1975 n. 405, Istituzione dei consultori familiari, art.1 “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi: a) l’assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia, anche in ordine alla problematica minorile;

b) la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti; c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento; d) la divulgazione delle

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abilitata o a un medico di sua fiducia i quali entreranno nel merito dell’autenticità della decisione di abortire e ne valuteranno le ragioni. Il personale sanitario deve però indicare alla donna le possibili alternative all’aborto. All’esito dell’incontro, il medico, senza obbligo di motivazioni, decide se rilasciare o meno alla donna il certificato che le permette di accedere all’IVG ma la invita a soprassedere per altri sette giorni alla decisione20 (a meno che non si

presenti una situazione di particolare urgenza dove è opportuno intervenire il prima possibile). Al centro della vicenda abortiva c’è esclusivamente la donna: infatti il padre è presente al colloquio con il medico solo se la donna lo consente21.

Dopo 90 giorni di gestazione le motivazioni richieste sono più serie perché l’aborto può essere praticato solo quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita e la salute della donna (non più solo serio come detto precedentemente22) ovvero quando si siano

accertati processi patologici a carico del feto che possono compromettere la salute fisica o psichica della madre23. Si tratta dell’aborto terapeutico da eseguire appunto in presenza di

particolari condizioni trascorso il primo trimestre di gravidanza. Qui i presupposti si fanno più seri a dimostrazione del fatto che praticare un aborto a questo punto della gravidanza è più grave perché il feto è maggiormente formato.

Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso in cui si prospetti un grave pericolo per la vita della donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto. Quindi se il feto risultasse avere gravi malformazioni e la madre chiedesse di interrompere la gravidanza pur senza un serio rischio per la propria vita l’aborto non potrebbe essere praticato. Eseguendo l’aborto si persegue la salvaguardia della vita e della salute della donna ma rimane sempre l’altro dovere costituzionale ossia quello di rispettare e salvaguardare il diritto alla vita del nascituro.

La legge prevede poi il diritto del medico a rifiutarsi di praticare l’aborto in ragione della propria coscienza24 e questa previsione è sicuramente quella che più ha fatto discutere e che

tutt’oggi solleva critiche nonché numerosi contenziosi giurisprudenziali per l’alto tasso di medici obiettori che rendono nella pratica molto difficoltoso per le donne esercitare un diritto che pure è stato loro riconosciuto. Ma su questo punto non mi soffermo oltre perché tale questione verrà ampiamente trattata in un’apposita parte del testo.

informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso […]”.

20 Art. 5 legge 194/1978.

21 A questa affermazione della legge si contrappone, secondo alcuni, l’art.29 Cost. Giuliano Amato in un articolo pubblicato su “L’Espresso” nel 1988 ha scritto “l’aborto deciso dalla madre senza neppure informare il marito ignora il valore costituzionale dell’unità familiare”.

22 Art. 4 Legge 194/1978. 23 Art. 6 Legge 194/1978. 24 Art. 9 Legge 194/1978.

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La 194 disciplina inoltre l’aborto di ragazza minorenne per il quale è richiesto l’assenso di chi ne esercita la potestà o la tutela e l’aborto di donna interdetta dove la richiesta può essere presentata oltre che dal tutore anche dalla donna personalmente o dal marito con cui non sia legalmente separata previo parere del tutore.

Il medico e la struttura devono garantire il rispetto alla privacy della donna che ricorre all’IVG25.

La Legge termina enunciando a chiare lettere l’abrogazione del titolo X del Codice Rocco e insieme a questo anche il n. 3 del primo comma e il n. 5 del secondo comma dell’art. 583 del Codice Penale26.

Nel nostro ordinamento il diritto all’interruzione della gravidanza rientra nel diritto alla tutela della salute psico-fisica della persona, nel contesto di uno Stato che garantisce la salute e il benessere dell’individuo. I requisiti che la presente legge richiede rispondono alla logica di limitare l’autodeterminazione del singolo in vista dell’interesse della generalità o di soggetti deboli e di escludere che la tutela dell’autonomia possa configurarsi come esercizio di un diritto egoista che non richiede alcuna giustificazione27.

6.3. Considerazioni sulla Legge 194/1978.

La legge 194/1978 , “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” tanto voluta e desiderata, una volta adottata, però, solleva da subito numerose critiche e le stesse femministe ritengono di avere fallito nei propri intenti. Si ritiene infatti, che il principio di autodeterminazione sia assente e che l’aborto rimanga comunque un reato seppure sanzionato lievemente rispetto al passato.

La legge è il prodotto di una mediazione mal riuscita tra le forze politiche: la Dc accetta di ritirare ogni clausola che caratterizzi l’aborto volontario come crimine e con ciò fa infuriare le

25 Art. 21 Legge 194/1978.

26 L’art. 583 prima della riforma compiuta dalla legge 194/1978 prevedeva: “La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a sette anni:

1)se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa,ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni;

2)se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo

3)se la persona offesa è una donna incinta e dal fatto deriva l’acceleramento del parto.

La lesione personale è gravissima, e si applica la pena della reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva:

1)una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2)la perdita di un senso;

3)la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;

4)la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso;

5)l’aborto della persona offesa.

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gerarchie ecclesiastiche; la Chiesa cattolica disapprova il testo nella sua interezza, il Pci fa scatenare le femministe perché accetta che vengano posti limiti alla libera scelta delle donne28.

Questa legge dunque, per quanto fortemente voluta, ha finito per non soddisfare pienamente nessuno pur rimanendo comunque la legge che ancora oggi regola l’IVG nel nostro Paese. Con la Legge 194 l’aborto ha cessato di essere un “affare di donne”29 ed è stato portato nello

spazio pubblico e della legge, come una questione di cittadinanza30.

Dall’analisi della Legge possiamo concludere che il legislatore non ha liberalizzato l’aborto ma ne ha previsto la non punibilità alle condizioni previste legalmente. Infatti la Corte Costituzionale nella sentenza 27/1975 ha sì spronato il legislatore a ridefinire la disciplina dell’aborto, ma predisponendo tutte le cautele del caso affinchè l’interruzione della gravidanza si configuri come l’extrema ratio a cui ricorrere se non si può agire diversamente.

Come dice Lidia Ravera accedere all’aborto infatti non è mai semplice per una donna, ma “può succedere che una donna resti incinta per sbaglio o per caso, per violenza o per imprevidenza. E non è giusto né etico diventare madre per sbaglio o per caso, per violenza o per imprevidenza. Dare la vita a un essere umano, amarlo e sorreggerlo fino alla fine dei suoi giorni è una faccenda troppo seria perché la regoli un obbligo: deve essere il frutto di una libera scelta. […]”.

Dal canto suo la Chiesa non può essere d’accordo con la Legge: quello che più di tutto le contesta è di considerare esclusivamente il punto di vista della madre e ciò che invece arriva a tollerare, sia pure con tutte le cautele del caso, è di eseguire interventi che indirettamente provocano l’interruzione della gravidanza quando la vita della madre è fortemente compromessa. La Chiesa comunque era d’accordo che un aggiornamento della disciplina fosse necessaria ma quello che assolutamente non poteva permettere era di disporre della vita altrui e questo nemmeno nelle fasi iniziali del processo vitale.

6.4. I referendum sulla 194 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 35/1997.

Nel 1981, ad appena tre anni dall’ingresso della legge 194, la Corte Costituzionale si trova a decidere dell’ammissibilità di tre referendum31 che volevano abrogare parzialmente la Legge in

questione. Due delle tre proposte referendarie sono state giudicate ammissibili dalla Corte e pertanto la 194 è stata oggetto di due referendum: uno, “minimale”, sostenuto dal Movimento per la Vita che ha ad oggetto l’abrogazione di ogni circostanza giustificativa ed ogni modalità dell’interruzione volontaria della gravidanza, fatta eccezione per l’aborto terapeutico; il secondo “radicale” che propone la liberalizzazione completa della scelta di interrompere la gravidanza,

28 G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., p. 123-124.

29 S. Mancini Un affare di donne. L’aborto tra libertà eguale e controllo sociale, Cedam, Milano,2012. 30 C. Mancina, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, Il Mulino, 2002, p. 99-100. 31 Corte Costituzionale, sentenza n. 26 del 1981.

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anche in strutture private dove la donna avrebbe potuto rivolgersi e che la Legge 194 escludeva32. Il terzo referendum, che è stato dichiarato inammissibile, proveniva anch’esso dal

Movimento per la Vita.

Gli elettori si sono recati alle urne il 17 e 18 maggio 1981 e le due proposte sono state entrambe respinte: gli italiani, forse non ancora pronti a giudicare una Legge tanto innovativa e recente, hanno dato fiducia al legislatore del 78 e hanno lasciato inalterata la normativa.

Nel 1997 c’è un'altra richiesta referendaria in cui si chiede di abrogare vari articoli della Legge 194 tra cui art. 1, 4, 5, 12, 13, art. 6 punto b), parte dell’art. 7 e art. 8; in sostanza gli articoli della legge 194 che ostacolano maggiormente la libera scelta della donna. Infatti la proposta abrogativa mira a liberalizzare l’aborto entro i primi 90 giorni eliminando i vincoli che di fatto possono bloccare la donna all’accesso dell’interruzione volontaria della gravidanza. La Corte Costituzionale dichiara inammissibile tale quesito referendario con la sentenza n. 35/1997.

La Corte in questa sentenza ricorda affermazioni della precedente sentenza, la n. 27/1975 e ne richiama i punti fondamentali: in particolare richiama espressamente i principi di ordine costituzionale ossia tutela del concepito, protezione della maternità, necessità di un bilanciamento tra tutela del concepito e salvaguardia della salute e della vita della madre. La Corte dice poi che la 194 è una legge ordinaria a contenuto costituzionalmente vincolato, cioè vincolato dalle disposizioni costituzionali, perché di diretta attuazione della Costituzione e anche per questo motivo la Corte la ritiene non sottoponibile a referendum. Alcune delle sue disposizioni si ispirano infatti a quei “criteri di tutela minima di interessi ritenuti fondamentali

dalla Costituzione che la [… ] sentenza n. 27 del 1975 aveva additato al legislatore, facendone l’oggetto di un vero e proprio obbligo dello stesso”. Abrogare articoli come l’art.1, 4, 5, 12, 13

della Legge (ma la richiesta è unitaria e inscindibile e quindi di riflesso anche gli altri) travolgerebbe “disposizioni a contenuto costituzionalmente vincolato sotto più aspetti in quanto renderebbe nullo il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell’infanzia e della gioventù”. Il diritto alla vita è un diritto inviolabile, è un limite alla revisione costituzionale e pertanto non è ammesso referendum perché tale Legge tocca diritti inviolabili dell’uomo e interessi costituzionalmente rilevanti. Non sarebbe possibile toccare con referendum parziale neppure le disposizioni che attengono alla protezione della vita del concepito quando non vengono in considerazione esigenze di vita e salute della madre né tanto meno le disposizioni che tutelano il diritto di abortire quando l’embrione è più piccolo di 90 giorni. La Corte dunque afferma la

32 G. Brunelli., L’interruzione volontaria della gravidanza: come si ostacola l’applicazione di una legge (a contenuto costituzionalmente vincolato), in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli, Jovene, 2009, p. 828-829.

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