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Varianti e invarianti nei tentativi di revisione della Costituzione

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA

VARIANTI E INVARIANTI NEI TENTATIVI DI

REVISONE DELLA COSTITUZIONE

La Candidata Il Relatore Roberta Vertone Prof. Gian Luca Conti

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Sommario

INTRODUZIONE...4

CAPITOLO I ...6

1. Nozione di bicameralismo e origini storiche...6

2. Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana...9

2.1 Commissione Forti...11

2.2 La commissione dei 75...13

3 Il Senato dell'assemblea costituente...16

4 La legge costituzionale n.2 del 1963: il bicameralismo oggi...19

CAPITOLO II...42

1. Le proposte di iniziativa governativa...42

1.1 Il Decalogo Spadolini...42

1.2 Il comitato Speroni...48

1. 3 Il Governo Berlusconi...53

1.4 Il Governo Letta...60

2. Le proposte di iniziativa parlamentare ...67

2.1 I comitati di studio Riz e Bonifacio...67

2.2 La Commissione Bicamerale Bozzi(1983-1985)...70

2.3 Commissione Bicamerale De Mita – Iotti (1993-1994)...75

2.4 Commissione Bicamerale D'Alema (1997) ...78

2.5 Progetto di riforma all'avvio della XV Legislatura: la c.d Bozza Violante...83

2.6 La riforma del bicameralismo nella XVI Legislatura: il pro-getto di legge A.C5386A ...88

3. L'iniziativa del Presidente della Repubblica Napolitano...93

CAPITOLO III...100

1. La riforma Renzi -Boschi...100

1.1 Il contesto politico e istituzionale...100

1.2 Il procedimento di approvazione ...105

2. Il disegno di legge Renzi- Boschi: un'analisi comparata...110

2.1 Il Senato della Repubblica e la sua composizione...110

2.1.1 La durata in carica e la disciplina della decadenza dalla carica di Senatore ...112

(3)

2.1.2 I Senatori di nomina presidenziale...114

2.1.3 Lo status di Senatore: il doppio incarico, l'indennità e l'immunità...114

2. 2 Le funzioni del Senato della Repubblica ...122

2. 3 Il procedimento legislativo ...126

2.3.1 Bevi cenni sul procedimento legislativo in generale ..128

CAPITOLO IV...137

1.La presunta illegittimità del Parlamento...137

2. Osservazioni sul metodo della riforma: l'art.138 cost. e l'iniziativa governativa...140

3. Sul nuovo Senato e le sue funzioni...147

3.1 La composizione del Senato ...149

3.2 I Senatori di nomina presidenziale e gli ex-Presidenti della Repubblica...153

3.3 Lo status dei Senatori ...154

3.4 Le funzioni del Senato ...156

4. Sul procedimento legislativo...159

5. L'Italicum...166

CONCLUSIONI...171

BIBLIOGRAFIA...175

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(5)

INTRODUZIONE

Il bicameralismo: il lungo cammino delle riforme

Il tema delle riforme istituzionali è stato al centro del dibattito politico-parlamentare, ininterrottamente, a partire almeno dalla fine degli anni '70, avendo come principale obiettivo il superamento del bicamerali-smo paritario, così come risultato dalla Costituzione del 1948 e succes-sivamente modificato con la legge costituzionale n.2 del 1963.

Il carattere paritario dell'attuale ordinamento lo rende assolutamente un

unicum. Infatti, nonostante la quasi totalità dei paesi democratici

pre-sentino un sistema bicamerale, l'Italia è rimasta sola a possedere un si-stema bicamerale paritario, in cui alle due Camere sono attribuite le stesse funzioni e la stessa composizione.

Il tema della riforma del bicameralismo italiano ed, in particolare, della modifica della seconda Camera è stato l’indiscusso protagonista degli intenti riformistici - in quanto principale indiziato di colpevolezza dei limiti del funzionamento del nostro sistema costituzionale1- da più

parti reclamati a gran voce e che si sono tradotti in progetti più o meno articolati. Così la convinzione di dover giungere ad un bicamera-lismo differenziato al fine di conferire celerità e sistematicità all'iter

le-1 Riezzo Annamaria, Bicameralismo e procedimento legislativo : note sulla

na-vette, in Il Parlamento della Repubblica : organi, procedure, apparati / Camera dei deputati. - Roma : Camera dei deputati. Ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico, 2008. - Vol. 2

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gis e di garantire solidità alla struttura democratica e governabilità si è

pian piano fatta strada.

La contrastata origine del bicameralismo italiano e l’assenza di una po-sizione comune circa l’identità di compopo-sizione e funzioni delle due camere rappresentative porta ad un elevato numero di proposte e dise-gni di legge volti ad incidere soprattutto sulla struttura e sulle funzioni del Senato, presentati durante ogni legislatura e promossi nel tempo dalle più diverse correnti politiche.

I vari tentativi di proposte di revisione costituzionali, inoltre, hanno co-nosciuto differenti approcci metodologici: comitati di studio, sioni bicamerali, fino alla procedura di esame da parte delle commis-sioni permanenti, nell'ambito dell'art.138. Cost.2 . Questi tentavi,

infi-ne, hanno avuto genesi diverse: alcune hanno avuto impulso da una proposta dell'Esecutivo, altre – per la maggior parte – da una iniziativa parlamentare, ed infine vi è stata anche una iniziativa a cui ha dato av-vio il Presidente della Repubblica Napolitano.

L'intento di questo studio è quello di analizzare come il tema del supe-ramento del bicameralismo paritario venga affrontato nei vari tentativi di revisione costituzionale, partendo dall'esaminare l'origine e i motivi che hanno portato ad optare per il carattere paritario fino ad analizzare l'ultima proposta in campo, ossia la legge costituzionale n.88 del 15 Aprile 2016, cercando di catturare gli elementi comuni e di capire come questi siano mutati nel tempo a seconda delle condizioni stori-che, politiche e istituzionali.

2 Documenti e ricerche “ il bicameralismo nei progetti di riforma costituzionale -le-gislature IX- XVI-, giugno 2013. atti della camera dei deputati

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CAPITOLO I

1. Nozione di bicameralismo e origini storiche

Prima di avviarci nell'analisi delle problematiche relative al vigente si-stema parlamentare è necessario condurre un analisi storia e concettua-le.

Con il termine «bicameralismo» si indica generalmente la forma tipi-camente assunta dall’organo titolare del potere legislativo allorché ri-sulti diviso in due distinti rami3 .

Il bicameralismo si distingue dall’unicameralismo che dà vita ad un si-stema basato su un’unica assemblea legislativa e dal multicameralismo che è caratterizzato dal contemporaneo funzionamento di assemblee in numero superiore a due che, con varie modalità, collaborano alla for-mazione dell’ordinamento normativo. Il multicameralismo oggi non ha più attuazione, poiché tutti gli Stati contemporanei sono retti con siste-mi mono o bicamerali.

Ci sono diverse varietà di assetti bicamerali: in una prima forma rientra il caso di due Camere che godono di eguale o ineguale potere e questa differenza è data dalla legittimazione da cui hanno origine; la seconda forma di bicameralismo si ha quando le camere sono simili o dissimili nella loro natura o composizione. Quando la loro forza è decisamente ineguale abbiamo un bicameralismo debole (o asimmetrico); mentre nel caso in cui è all'incirca uguale abbiamo un bicameralismo forte (simmetrico). Quando, invece, le due Camere sono, sotto il profilo dei 3 L. CASTELLI, Il Senato delle autonomie: ragioni, modelli, vicende, CEDAM

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poteri complessivi su un piano di parità si può parlare di

bicamerali-smo perfetto. Viceversa quando queste condizioni non si danno

abbia-mo un bicameralisabbia-mo differenziato.

Un primo punto da notare è che dove il potere delle due camere è ine-guale, la più debole è sempre la Camera Alta (Camera dei Lord, Sena-to, Bundesrat. In origine la Camera alta aveva, o si conveniva che avesse, l'ultima parola, mentre oggi è la Camera Bassa (Camera dei Comuni, Camera dei Rappresentanti, Camera dei Deputati, Bundestag) e che generalmente prevale.4 La ragione risiede nel fatto che

solitamen-te oggi la Camera alta non è elettiva (come nel caso della Camera dei Lord inglese), oppure lo è solo in parte (ad esempio, il Senato Canade-se). Originario del sistema inglese il bicameralismo presenta in ogni ordinamento un proprio equilibrio interno, solitamente determinato dal ruolo attribuito alla Camera alta, la quale può vedere amplificata la sua posizione di garanzia, o di collegamento con le autonomie territoriali, ovvero, come in Italia, avere un ruolo parificato a quello della Camera bassa.

Per l'esimio costituzionalista Costantino Mortati «il sistema bicamerale vero e proprio è quello in cui le due assemblee sono poste in una posi-zione di assoluta parità, dunque, pur costituendo organi distinti ed au-tonomi, possono dar vita a manifestazioni di volontà imputabili allo Stato solo con la confluenza dei consensi di entrambe sullo stesso testo di deliberazione »5.

4 Vedi. G. SARTORI, Ingegneria costituzionale,il Mulino, Bologna, edizione 2004, pag 197.

5 L. CASTELLI, Il Senato delle autonomie: ragioni, modelli, vicende, CEDAM (Collana Luiss dipartimento di scienze giuridiche), Padova, 2010, p. 11.

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Al sistema bicamerale si attribuiscono molti vantaggi, e cioè: l'integra-zione democratica, la riflessione politica – lo stesso Mortati fu fautore della concezione del Senato come Camera di riflessione – e l'equilibrio costituzionale; a questi però si possono opporre anche alcuni difetti, dato il fatto che molto spesso è difficile equilibrare la struttura e le fun-zioni della seconda Camera, la quale spesso risulta essere un inutile doppione, comportando eccessivi contrasti, paralisi o quanto meno len-tezza parlamentare.

Dal punto di vista storico, il percorso che conduce all’affermazione del moderno concetto di bicameralismo prende avvio in un’epoca ben re-mota dalla nostra: il sistema bicamerale nasce nell'Inghilterra del XIV secolo, tale sistema prevedeva una Camera elettiva e l'altra vitalizia o di nomina regia. Questa soluzione veniva vista come un eccellete com-promesso tra le istanze democratiche, di cui era naturale interprete la Camera elettiva , e il potere del Re e della nobiltà, di cui invece era in-terprete la Camera alta. Dall'Inghilterra il sistema si diffuse in tutta l'Europa continentale, nonché nelle colonie di lingua inglese6.

La storia dell'Italia unitaria ha sempre visto presente due camere legi-slative: il Senato del Regno d'Italia prima e il Senato della Repubblica poi.

6 F. RESCIGNO, in disfunzioni e prospettive di riforma del bicameralismo italia-no: la camera delle regioni. Giuffrè Editore, Milano, pag. 3.

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2. Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana

Come è stato poc'anzi ricordato, l'ordinamento bicamerale era presente ancor prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Il quadro Statutario era, per l'appunto, caratterizzato da una forma di bi-cameralismo cosiddetto attenuato7, con la presenza di una Camera di

nomina regia, 'il Senato del Regno'; e di un'altra a carattere rappresen-tativo, 'la Camera dei deputati'. Le due Camere si differenziavano an-che per il potere loro attribuito.

In particolare non era in potere del Senato del Regno provocare una crisi di governo, come scrisse Carlo A. Jemolo “ non era pertanto dato al Senato di costringere alle dimissioni il Gabinetto che avesse la fidu-cia del Sovrano e della Camera”8; ma era possibile per esso non

appro-vare un disegno di legge presentato dal Governo ed approvato dalla Camera, con la tacita intesa che, in caso di dissenso tra le due Camere su un intervento legislativo, l’ultima parola sarebbe spettata al corpo elettorale.

Quanto all’esercizio del potere legislativo l’articolo 3 dello Statuto Al-bertino prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato collettiva-mente dal Re e dalle due Camere, formula che sarà sostanzialcollettiva-mente ri-prodotta – escluso il riferimento al Capo dello Stato – nell’articolo 70 della Costituzione.

7 La definizione di bicameralismo attenuato, è stata data da Negri, bicameralismo, in enciclopedia del diritto, vol.v, Milano, Giuffrè, 1959, p.352

8 Jemolo A. C, Camera e Senato: rapporti e contrasti, in il centenario del Parla-mento, Roma, 1948, p.359

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Il bicameralismo in epoca statutaria rimase nell'ombra, in quanto il Se-nato regio ebbe sempre coscienza della sua provvisorietà e del fatto di essere a continuo rischio di riforma9.

Caduto il fascismo, il dibattito intorno al bicameralismo venne ripreso, come naturale che fosse, nel periodo di transizione al nuovo ordina-mento costituzionale e prima ancora dell’insediaordina-mento dell’Assemblea costituente. Il dibattito teorico e politico si concentrò sulla fondazione del nuovo Stato democratico di diritto, i cui tratti connotanti venivano concordemente rintracciati nella valorizzazione del pluralismo, nella necessaria rappresentanza degli interessi politici10 e nel ruolo di

raccor-do tra società ed istituzioni svolto dai partiti politici. Tale pluralismo avrebbe trovato sintesi nella stretta relazione tra rappresentanza politi-ca e rappresentatività. Queste furono le ragioni che portarono alla scel-ta unanimemente condivisa di adotscel-tare una forma di governo parla-mentare che avrebbe garantito l’equilibrio politico e la ricerca del com-promesso istituzionale tra forze politiche ideologicamente molto diver-se 11.

9 C.FUSARO, La lunga ricerca di un bicameralismo che abbia senso.

10 Cfr. Mortati F., Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1975, vol. I, pag. 423.

11 Secondo il Ambrosini (DC), nella situazione contingente non sarebbe stato possi-bile ipotizzare per l’Italia né una forma di presidenzialismo nord-americana o di premiership anglosassone (come caldeggiato dagli azionisti), né una forma di go-verno di direttorio, in quanto – a suo avviso – stante la molteplicità dei partiti ita-liani e l’applicazione del sistema proporzionale, non sarebbe mai emerso un tipo di governo unitario; secondo il giurista, il sistema parlamentare avrebbe favorito un “Parlamento di partiti” e da qui si sarebbe proceduto verso un “Governo di partiti” e quindi verso la formula dei “governi di coalizione”. L’intervento di Am-brosini si tenne nella seduta del 4 settembre 1946 della Seconda Sottocommissio-ne, subito dopo le relazioni di Mortati (DC) e di Conti (PRI) sulla forma di gover-no. Cfr. Antonetti N., De Siervo U. (a cura di), Ambrosini e Sturzo. La nascita delle Regioni, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 126. Cfr. altresì Falzone V.,

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Paler-2.1 Commissione Forti

Il problema dell’assetto delle istituzioni parlamentari fu, preliminar-mente, oggetto di discussione in seno alla Commissione Forti la Com-missione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, nota come 'Commissione Forti', 12 in cui si ribadì il principio della bicameralità e

la necessità di una differenziazione della seconda Camera dalla prima. A tal proposito, si dichiarava nella sua maggioranza favorevole di vo-ler “considerare i due tipi di seconda Camera che traggono forza politi-ca, l'una dalla rappresentanza delle autonomie locali, l'altra dall'elezio-ne a suffragio universale entro determinate categorie eleggibili, ma con particolare considerazione per un'Assemblea fondata su una

rappre-sentanza territoriale temperata, cioè non assolutamente paritetica”. 13

Si ipotizzò una seconda Camera con una durata di mandato parlamen-tare più lunga rispetto alla Prima eletta a suffragio universale e, nel dif-ferenziarsi da quest'ultima, doveva basarsi su un “diverso principio po-litico”.

Alcuni commissari ritennero che il criterio su cui basare il “diverso principio politico” per la configurazione della Seconda Camera fosse mo F., Cosentino F., La Costituzione della Repubblica italiana. Illustrato con i la-vori preparatori e corredata da note e riferimenti, Casa editrice Colombo, Roma, 1969, pag. 175 e ss.

http://www.nascitacostituzione.it/05appendici/05p2generali/01/01/index.htm? 002.htm&2

12 Costituita su iniziativa del Ministro per la costituente, On. Nenni, in ottemperan-za alle disposizioni contenute nel decreto legislativo 31luglio 1945, n. 435 al fine di “predisporre gli elementi per lo studio della nuova Costituzione che dovrà de-terminare l'assetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione econo-mica e sociale”. Cfr. Ministero per la Costituente- commissione per gli studi atti-nenti alla riorganizzazione dello Stato – Relazione all'Assemblea Costituente -I- Problemi costituzionali. Organizzazione dello stato, Roma, 1946 (atti della Com-missione Forti) pagg. XIV, XXVII, XXVIII.

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quello regionale, al fine di definirla come l'organo deputato “alla tutela degli interessi specifici delle Regioni, costituite in enti autonomi” 14.

In contrasto a questa ipotesi, altri membri della commissione manife-starono il dubbio che l'uguale rappresentanza di tutte le Regioni in seno alla 'Seconda Camera' avrebbe configurato il nuovo Stato come uno Stato federale, passando ad ipotizzare una rappresentanza regiona-le temperata: non uguaregiona-le per tutte regiona-le Regioni, ma nemmeno direttamen-te proporzionale alla popolazione, in modo da atdirettamen-tenuare le sperequa-zioni che si andrebbero a riproporre.

Un'altra ipotesi presa in considerazione dalla Sottocommissione fu quella di configurare la Seconda Camera come la sede della rappresen-tanza organica di interessi culturali ed economici diversi dalla rappre-sentanza degli interessi meramente politici attuata con la Prima. La discussione si arenò sulla determinazione del criterio per la distri-buzione dei seggi fra le varie categorie portatrici di interessi, si pensò quindi di ampliare l'ipotesi e di “integrare e connettere il principio del-la rappresentanza di interessi con queldel-la deldel-la rappresentanza regiona-le” 15. Ma anche questa proposta fu oggetto di numerose critiche, tant'è

che non trovando nessun accordo e in assenza di una soluzione ampia-mente condivisa sul tema, la Commissione Forti concluse i suoi lavori non effettuando una vera e propria scelta ma, dichiarandosi favorevole al sistema su base regionale temperato e a quello a suffragio universale circoscritto a determinate categorie di eleggibili, esprimeva poi una propensione verso il primo.

14 Cfr. Atti della commissione Forti

15 F. RESCIGNO, Disfunzioni e prospettive di riforma del bicameralismo italiano: la camera delle regioni, Giuffrè editore, Milano, 1995

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2.2 La commissione dei 75

Tali proposte furono riprese poi dalla 'Commissione dei 75 - ristretta ri-spetto all'Assemblea Costituente - , dove non mancò l'alternasi delle opposte visioni: quella monocameralista e quella bicameralista.

La suddetta commissione era divisa al suo interno in tre sottocommis-sioni, i lavori riguardo a tale questione furono portati avanti dalla se-conda commissione che aveva, per l'appunto, l'incarico di occuparsi dell'ordinamento del nuovo Stato.

Innanzitutto, gli esponenti dei gruppi comunista e socialista dichiararo-no di essere a favorevoli all'ipotesi modichiararo-nocamerale: la Camera dei De-putati in cui doveva essere rappresentato la volontà popolare espressa attraverso il suffragio universale. Questa visione venne ben espressa dall'On. Nobile – autorevole esponente del Pci – il quale sosteneva come in un sistema bicamerale si presenti il duplice rischio legato alla seconda Camera e al suo essere “superflua” in caso di accordo con la prima, “dannosa” in caso di disaccordo16.

Gli stessi partiti di sinistra, una volta rivelatasi prevalente l’opzione bi-camerale, affermarono la necessità che la seconda Camera non fosse “costituita in modo tale da alterare sostanzialmente la fisionomia poli-tica del Paese, rispecchiata dalla composizione della prima Camera”. Gli altri partiti propendevano, invece, verso una soluzione bicamerale, seppure espressa in forme diverse tra di loro. L'ipotesi avanzata dalla Democrazia Cristiana, alla quale si univa quella liberale, considerava il 16 Cfr. U. NOBILE, Atti della Costituente, seconda Sottocommissione, 6

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bicameralismo (nella specie, il Senato) la forma in cui potevano trova-re esptrova-ressione anche gli intetrova-ressi delle diverse categorie del Paese. Se-condo l'On. Mortati, sono tre le ragioni a sostegno di tale scelta. In pri-mo luogo l'intento di controllare l'operato della Camera dei Deputati, attraverso un doppio passaggio legislativo che avrebbe garantito una maggior ponderazione nell'elaborazione delle leggi. Una seconda ra-gione stava invece nella necessità di integrare la “rappresentanza poli-tica” con una rappresentanza avente una connotazione tipicamente “economica-culturale”, la quale – ed ecco la terza ragione – avrebbe avuto il pregio di selezionare soggetti dotati di maggior competenza.17

Oltre alla composizione delle due Camere, un altro nodo importante da sciogliere fu la divisione del potere legislativo tra le due Camere con medesimi poteri e funzioni. Diverse furono le soluzioni prospettate, in-fatti, non vi era concordanza di opinioni circa il ruolo da attribuire alla seconda camera, seppur tutte erano ispirate dalla necessità di dare con-cretezza alla riconquistata centralità dell'istituzione parlamentare, in modo tale da garantire un sistema politico pluralistico in cui le rappre-sentanze dei partiti e quelle sociali, nonché territoriali, potessero trova-re incontrarsi.

Il sistema bicamerale sarebbe stato il miglior sistema capace di rispon-dere all’esigenza di ottenere una maggiore ponderazione nell’elabora-zione delle leggi ed un più efficace esercizio di talune funzioni di con-trollo da parte del Parlamento. Tuttavia, dall’analisi dei lavori prepara-17 Cfr F. SAGRÒ, Il senato e il principio della divisione dei poteri,pag. 119-120; U.

DE SIERVO, Parlamento, partiti e popolo nella progettazione costituzionale di Mortati, in M. GALIZIA, P. GROSSI (a cura di), Il pensiero giuridico di Costan-tino Mortati, Milano, 1990, pag.314 ss.

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tori in sede di Assemblea costituente (e ancor prima nelle sottocom-missioni investite della questione istituzionale) si evince chiaramente che forma e natura del bicameralismo italiano si concretizzarono non già come il risultato di un progetto complessivo ed omogeneo teso a realizzare un assetto organizzativo e funzionale razionale, definito e condiviso, ma come la somma di numerosi e talvolta eclatanti compro-messi tra partiti, “strappati” da ciascuna forza politica a tutte le altre più per precludere il raggiungimento degli obiettivi delle forze antago-niste che per realizzare un proprio programma preciso.

Il bicameralismo, nella sua genesi repubblicana, è stato in sostanza il frutto più di “veti incrociati”18 - un compromesso - più che di una

scel-ta positiva dei costituenti.

Essendo in maggioranza i partiti favorevoli al sistema duale, si giunse alla fine ad un calcolato compromesso (entrambe le camere elettive e con pari funzioni) che, escludendo qualsiasi differenza nella rappresen-tanza, risultava giustificato in nome della maggiore ponderazione e mi-gliore qualità tecnica della produzione legislativa e di un rinvigorito ruolo di controllo del Parlamento19; non possono tuttavia sottacersi

quelle motivazioni più segrete, legate ai temi del costituzionalismo classico, che tradivano talora timori nettamente conservatori quando si insisteva, ad esempio, sulla funzione di freno che il Senato avrebbe po-tuto esercitare su eccessi ed intemperanze della prima camera o quando si pensava ad esso come indispensabile remora contro eventuali ditta-ture dell’Assemblea.

18 In tal senso si è espresso Mattarella S., Il bicameralismo , in Riv. Trim. Dir. Pub-bl., 1983, pag 1163

19 Cfr. Mazzoni Honorati M.L., Lezioni di diritto parlamentare, Giappichelli, Tori-no, 1995, pag. 54 e ss.

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3 Il Senato dell'assemblea costituente

In questa sede fu confermata a maggioranza l'adesione al sistema bica-merale e nello stesso senso si pronunciò poi definitivamente l'Assem-blea Costituente, con l'approvazione dell'ordine del giorno firmato da Bozzi e Einaudi, il 7 Settembre del 1946, il quale annunciava: «la se-conda Sottocommissione riconosce l'utilità del sistema bicamerale, che esprime la rappresentanza di tutte le forze vive della Nazione»20. Il 26

Settembre dello stesso anno venne approvato anche l'ordine del giorno Leone (Dc), sulla parificazione delle funzioni delle due Camere . Nacque cosi la il Senato della Repubblica caratterizzato, nella Costitu-zione del 1948 da:

1) l'età di 25 anni per l'elettorato attivo e di 40 per quello passivo ; 2) la nomina a Senatori di cinque personalità eminenti riservata al Capo dello Stato, oltre all'assegnazione di diritto della carica agli ex- Presidenti della Repubblica;

3) la durata del Senato maggiore di un anno di quella della Came-ra;

4) il numero complessivo dei Senatori sensibilmente inferiore a quello dei Deputati21.

Senz'altro il Senato della repubblica così come risulta all'esito è frutto di uno dei primi e più grandi compromessi, seppur necessario, ma che si discosta dall'intendo iniziale di dare al Parlamento una forma

bica-20 Cfr. Assemblea Costituente, 7 settembre 1946

21 F. RESCIGNO, Disfunzioni e prospettive di riforma del bicameralismo italiano: la camera delle regioni, Giuffrè editore, Milano, 1995, pag. 15

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merale 'differenziato' vero e proprio, dovendo invece a questo aggiun-gersi l'aggettivo ' attenuato'.

Come è stato riportato all'inizio di questa trattazione, il sistema bica-merale presenta taluni vantaggi, quali l’integrazione democratica, la ri-flessione politica, l’equilibrio costituzionale22. Questo sistema

porte-rebbe ad un'integrazione democratica se si prevede l'accostamento alla Camera elettiva, una seconda Assemblea la cui rappresentanza è deter-minata da criteri diversi di investitura parlamentare, richiedendo requi-siti tecnici, economici, territoriali. Inoltre, la seconda Camera andrebbe ad essere più funzionale laddove venisse ad essere concepita, e di con-seguenza composta, come camera di riflessione politica.

Il nostro ordinamento, alla fine dei conti invece, risulta essere

parita-rio o perfetto, in quanto non si è riusciti a dare, all'una e all'altra

Came-ra, composizione e funzioni differenti, risultando invece pletorica e fa-cendo emergere quelli che sono i difetti di un tale sistema.

Passando in maniera sintetica in rassegna i punti che determinano la composizione del Senato, è possibile analizzare quali sono le ragioni che fin da subito lo hanno reso inefficace.

Partendo dal primo sopra citato, ossia la diversa età prevista per l’ac-quisto del diritto di elettorato attivo (rispettivamente 18 anni e 25 anni per la Camera e per il Senato) e per l’elettorato passivo (rispettivamen-te 25 e 40 anni). Seppur considerevole dal punto di vista strutturale delle Camere, in realtà non ha prodotto alcun cambiamento politico-parlamentare, rimanendo invece una discriminazione che irrazionale. 22 ibidem

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Tale scelta sarebbe stata giustificata se per la composizione del Senato fossero stati definiti criteri differenti, come abbiamo già ricordato, tec-nici ed economici che avrebbero appunto composto la Camera di

ri-flessione, intendendo con tale termine nel senso di far derivare dalla

ristrettezza della sua composizione la possibilità di rendimento qualita-tivamente superiore sotto l’aspetto dell’approfondimento delle discus-sioni e della maggiore meditazione delle decidiscus-sioni.

A quest'ultima previsione si collega la seconda questione che attiene alla diversa composizione numerica delle due Camere - il numero complessivo dei seggi senatoriali sensibilmente inferiori rispetto a quelli dei deputati - : questo criterio risulta non avere né ragioni né conseguenze immediate sul piano politico, anzi pone dubbi sul piano della funzionalità e della operatività concreta delle istituzioni parla-mentari. Tale previsione sarebbe stata ragionevole e funzionale nel caso in cui il carico della funzione legislativa attribuita ad entrambe fosse stata bipartita in diverse competenze attribuite differentemente tra i due rami. Invece, in questo modo emerge soltanto che il Senato possa riuscire ad adempiere alle stesse funzioni della Camera con un numero di componenti minore.

Continuando sempre sulla composizione del Senato, del tutto insignifi-cante appare poi il carattere non interamente elettivo del Senato23:

in-23 Con la terza disposizione transitoria della Costituzione si decise che, per la prima legislatura repubblicana, vi sedessero come senatori di diritto, accanto a quelli elettivi, i deputati alla Costituente che fossero stati presidenti del Consiglio o di Assemblee legislative, che avessero fatto parte del disciolto Senato, che in epoca prefascista fossero stati eletti almeno due volte, che nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926 fossero stati dichiarati decaduti per aver partecipato alla 'secessione aventiniana', ovvero avessero scontato la pena della reclusione per almeno cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la di-fesa dello Stato.

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fatti, anche qualora si sostenga la tesi che ogni nuovo Capo dello Stato possa designare cinque senatori, detta differenza non potrebbe mai in-cidere né sulla realtà politica della seconda Camera, né sul Parlamento unitariamente considerato.

Per quanto riguardo l'ultimo punto - si è cercato di differenziare le ca-mere sulla base delle durata - fin da subito è emerso come un proble-ma per il funzionamento e l'attività parlamentare, infatti le elezioni sfalsate avrebbero compromesso la composizione politica dei due rami l'uno di segno opposto all'altro, generando un paralisi politico e istitu-zionale.

Nemmeno la generica, scarna e ambigua indicazione presente nell’art. 55 della Costituzione che configura l’elezione del Senato “a base re-gionale” è riuscita ad improntare una pur minima dissomiglianza tra una Camera e l’altra, giacché entrambe finiscono per essere elette dalla medesima base elettorale, ragion per cui viene naturalmente a mancare una effettiva rappresentanza delle Regioni in seno alla Camera alta24.

4 La legge costituzionale n.2 del 1963: il bicameralismo oggi

'Un corpo legislativo diviso in due rami è come una carretta tirata da un cavallo davanti da un altro dietro, che tiri in senso opposto '25.

Il primo banco di prova si ebbe con l'avvio della prima legislatura (1948-1953), quando iniziarono ad emergere tutte le problematiche re-24 C. DEODATO, Il Parlamento al tempo della crisi: alcune considerazioni sulle

prospettive di un nuovo bicameralismo, federalismi. it, 2013, p. 8

25 F. RESCIGNO, Disfunzioni e prospettive di riforma del bicameralismo italiano: la camera delle regioni, Giuffrè editore, Milano, 1995, pag.4

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lative ad un sistema basato sulla parità funzionale: i due rami del Parla-mento funzionavano 'in piena e totale concorrenza' tanto da escludere una evoluzione che portasse a un predominio sostanziale della Camera dei deputati, mentre il procedimento legislativo risultava appesantito26.

Tuttavia, la vicinanza temporale all'assemblea costituente fu il motivo per cui si decise di non intervenire immediatamente attraverso delle ri-forme costituzionali, bensì si cercò di superare tali questioni dall'inter-no, attraverso modifiche dei regolamenti e diversa distribuzione dei compiti tra le due Camere.

Tale intendo è chiaro nelle parole di Luigi Sturzo che intervenendo su questi temi, in riviste e quotidiani dell’epoca, affermava che, nonostan-te la parità completa dei due rami del Parlamento, occorre stabilire tra di loro una diversità d’impronta di funzioni e di funzionalità; il cam-biamento doveva però avvenire sul piano della prassi parlamentare e della correttezza costituzionale: “Vale più una coscienza formata nel paese, una tradizione di corpo del Senato, un orientamento istintivo ne-gli uomini responsabili, che cento leggi e cento articoli costituzionali”27.

Fu così che si arrivò a fine legislatura ritenendo che laddove fosse inappropriata una modifica costituzionale, poteva invece risultare fon-damentale una riforma elettorale che potesse garantire un accordo sta-bile tra i grandi partiti – un equilibrio che la Carta costituzionale non era più in grado di mantenere date le circostanze politiche parlamentari

26 P. AIMO, Bicameralismo e regioni: la camera delle autonomie, nascita e tramonto di un’idea. La genesi del Senato alla Costituente, Edizioni di Comunità, Milano, 1977, p. 187

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ed extra-parlamentari che erano venute a crearsi – , ma soprattutto avrebbe garantito la governabilità.

L'intento di De Gasperi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, fu quello di ottenere un rafforzamento dell'esecutivo che gli consentis-se il proconsentis-seguimento della politica centristica attraverso una riforma elettorale28, con margini parlamentari sufficientemente ampi. Tale

rifor-ma era caratterizzata da un premio di rifor-maggioranza particolarmente am-pio: i partiti apparenti, purché avessero raggiunto la meta più uno dei voti, avrebbero avuto il 65% dei seggi alla Camera. Il premio e l'appa-rentamento sono i due elementi che avrebbero portato ad una migliore gestione del risultato elettorale e conservato l'ambito centrismo parla-mentare, che veniva minacciato da destra e da sinistra. La necessità di un diverso meccanismo di voto maturò in De Gasperi agli inizi del 1952, mentre in Vaticano ci si adoperava con ogni mezzo, attraverso la mediazione di don Luigi Sturzo, affinché in Italia potesse costituirsi un grosso blocco moderato fra la destra monarchica e missina e la stessa Democrazia Cristiana. Il motivo che spinse l’avallo da parte di papa Pio XII di tale operazione furono i deludenti risultati ottenuti verso la fine della prima legislatura in diverse elezioni amministrative, che ave-vano mostrato una forte erosione della DC sulla destra e l'accrescersi della sinistra. La maggioranza di centro divenne quindi piuttosto risica-ta. L'esperimento avrebbe dovuto avere il battesimo politico proprio nelle imminenti elezioni amministrative per il Comune di Roma, ma tale disegno non passò per il disappunto dei partiti laici minori alleati 28 P. SCOPPOLA , La Repubblica dei partiti, Bologna, Il mulino, 1990. pag. 245.

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con la DC e soprattutto per la contrarietà di De Gasperi. Infatti il Presi-dente del Consiglio era convinto che l’asse politico della DC dovesse essere mantenuto al centro e che quindi doveva essere respinto ogni tentativo volto a spostarlo, sia verso destra che verso sinistra.

Le opposizioni di sinistra reagirono vivacemente a questa proposta, riesumando lo spettro della Legge Acerbo che nel 1924 aveva favorito l'avvento del regime fascista, e mettendo in atto tra i banchi del parla-mento una vera e propria azione ostruzionistica contro il disegno di legge. Nonostante l'ostruzionismo e le forti opposizioni dei piccoli par-titi il disegno di legge presentato da Scelba fu approvata - seppur con i soli voti della maggioranza dopo lunghe discussioni e con voto di fidu-cia- . Le elezioni che si tennero a Giugno dello stesso mostrarono però il fallimento di questa legge dato che non nessuna coalizione riuscì ad ottenere il premio di maggioranza. L'esigenza di una governabilità che emerge già alla prima Legislatura e le difficoltà di un sistema paritario non furono superate dalla legge 'Truffa'29 - che fu subito abrogata con

la legge n. 615 del 31 luglio 1954 - .

Alla sempre più presente necessità di governabilità si unisce il bisogno di una maggiore organizzazione del lavoro tra le due Camere, così nel corso degli anni anche la prassi parlamentare il nostro sistema parla-mentare cercando di stabilire un coordinamento tra le due Camere, ad esempio, tramite il frequente ricorso alle attività conoscitive e di di

29 Secondo Indro Montanelli, il primo utilizzo della parola 'truffa' andrebbe attribui-to allo stesso Scelba che in primissima battuta, respinse l'idea della presentazione della legge, affermando, quando ancora si valutava se il Governo avesse dovuto proporla: «L'idea è buona, ma se noi proponiamo una simile legge questa legge sarà chiamata "truffa" e noi saremo chiamati "truffatori"

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controllo svolte congiuntamente dalle omologhe Commissioni di Ca-mera e Senato. A questi si aggiunge il ruolo dei regolamenti parlamen-tari che hanno sviluppato in modo limitato le potenzialità di differen-ziazione, mentre sul piano del coordinamento hanno senz'altro intro-dotto utili correttivi per evitare stonature troppo forti fra le due camere, ne sono un esempio le analoghe disposizioni sulla 'navetta' volte a ga-rantire procedimenti meno articolati e più rapidi per l'esame di progetti di legge già approvati in un ramo e modificati nell'altro30.

Successivamente, furono presentati due disegni di legge costituziona-le, il primo presentato da Adriano Olivetti e il secondo da Costantino Mortati. Entrambi avevano l'intenzione di superare quella parità fun-zionale che stava paralizzando l'azione parlamentare, ed entrambi si concentrarono sulla composizione del Senato riprendendo l'idea porta-ta avanti dalla costituente di un bicameralismo in cui i due remi del parlamento si sarebbero differenziati in base alla rappresentanza, pro-ponendo per la Camera Alta una rappresentanza composta dalle cate-gorie degli interessi economici o sociali oppure degli interessi territo-riali.

La necessità di rivedere la formazione del Senato nel sistema bicame-rale che sancisce l’esistenza di due rappresentanze sovrane di pari va-lore politico, apparve evidente, quando per la cessazione del mandato concesso una tantum dalla Costituzione nelle sue disposizioni transito-rie ai Senatori di diritto, il numero di 224 senatori, un terzo appena dei deputati, si rivelò inadeguato. Tale questione portò all'istituzione di una

30 Cfr. N. .LUPO- C. TUCCIARELLI, Forma di governo e riforma del sistema bi-camerale, in La democrazia italiana: forme, limiti e garanzie. Italianieuropei, Roma 2010, pag. 103.

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Commissione speciale, costituita dai rappresentanti di tutti i gruppi del Senato e che rapidamente preparò un disegno legge, giunto all’esame dell’Assemblea. Posta all’ordine del giorno dal primo Senato repubbli-cano fu affidata più tardi alla superiore competenza giuridica e autorità parlamentare di Enrico de Nicola, sembrò dovesse risolversi rapida-mente subito dopo le elezioni del 1953. Purtroppo venne a mancare quasi improvvisamente l’on. De Gasperi e gli uomini che gli successe-ro alla direzione del Governo - o perché non avessesuccesse-ro come lui il sicu-ro contsicu-rollo del partito di maggioranza o perché le nuove formazioni sorte dai comizi avessero mutato parere - non furono in grado di dare esecuzione all’impegno, malgrado ne mantenessero il formale ricono-scimento. Nonostante ciò, fino alla seconda metà del 1954 continuò il lavoro preparatorio di Enrico de Nicola, che fissò in un documento riassuntivo i principi di massima e i criteri direttivi della integrazione del Senato.

Il testo del documento prevedeva accanto ai senatori eletti in sede re-gionale dagli elettori, una quota pari a un terzo del loro numero com-plessivo di senatori scelti tramite un albo formato per anzianità parla-mentare, con preferenza di quelli che avevano rivestito cariche nelle assemblee o avevano partecipato al governo, in modo tuttavia da man-tenere inalterato il rapporto di forze creato in ciascuna elezione dal re-sponso della volontà popolare. L’integrazione veniva così ad essere sia quantitativa, con l’aumento del numero, che qualitativa in quanto si assicurava la permanenza, nella Camera alta, degli uomini di maggiore esperienza e competenza e il rispetto sia pure mediato del principio elettivo come base del mandato. Tali principi direttivi furono, in

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segui-to, affidati ad un Comitato di redazione, scelto dal Presidente d’accor-do con i gruppi e formato da cinque membri, con una delega fiduciaria, affinché formulasse gli articoli del progetto di revisione costituzionale. Sorsero opposizioni e dissensi che dettero origine ad altri schemi di progetti, e si avanzarono proposte di varia ampiezza, configuranti 'ri-formette'31 o addirittura riforme di fondo, che alternavano o

snaturava-no il primitivo concetto ed ebbero vita contrastata ed effimera nello stesso gruppo di maggioranza. La conseguenza fu che il Comitato ri-stretto di redazione del progetto, venendo a cadere la delega, fondata su una ormai inesistente identità di propositi fu sospeso nelle sue fun-zioni, finendo con l’essere abrogato per desuetudine o silenziosamente revocato per la fine del suo mandato.

Seguirono quattro anni in una situazione veramente di abnorme paralisi parlamentare per cui un’assemblea rappresentativa autonoma e sovrana che dovrebbe spontaneamente e liberamente correggersi rinunciò a questa sua preminente se non esclusiva gelosa funzione vitale.

Tale inerzia parlamentare durò fino a quando il potere esecutivo sosti-tuendosi al potere legislativo presentò, nel 1957, alla vigilia dell’antici-pato scioglimento del Senato, un progetto governativo che proponeva le norme della sua integrazione, nello stesso tempo in cui chiedeva al Senato di legittimare l’anticipata sua fine rinunciando ad un anno della sua maggiore normale durata costituzionale, col parificare il suo ciclo di vita a quello minore della Camera, fissato in cinque anni. Si verificò in quell’occasione una così completa e vivace diversità di opinioni e di condotta fra Senato e Camera, anche fra i due gruppi parlamentari

del-31 MOLE’, Riforma del Senato, Rassegna parlamentare, in Incontri sui problemi della legislazione, 1958

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lo stesso partito di maggioranza, che si parlò addirittura di conflitto di poteri. Ma forse si può affermare che il Senato, per il particolare stato d’animo di quel momento, volle reagire alla contemporaneità e conte-stualità delle due proposte, perché nella integrazione, improvvisamente ripresa dopo tanti anni di inerzia, e nella diminuzione della durata, vide come un sarcastico invito non a rinnovarsi o morire, ma a integrarsi per morire.

La prima Commissione senatoria ignorò tutti gli articoli del progetto governativo tranne quello relativo alla durata minore della funzione se-natoria che respinse, e limitò l’integrazione all’aumento di numero dei senatori elettivi, in esecuzione della volontà di tutti i gruppi parlamen-tari. La Camera non accettò il testo del Senato e lo modificò profonda-mente con emendamenti aggiuntivi: ridusse la durata del Senato a cin-que anni, elevò il numero dei senatori di nomina presidenziale a quin-dici, estendendo la carica di senatore a vita ai Presidenti dell’Assem-blea, rimandò il progetto, diviso in tre articoli, al Senato, che non aven-do la maggioranza necessaria, lo respinse.

A questi si aggiungono altri disegni di legge presentati che è opportuno analizzare più nel dettaglio. Il 14 novembre del 1958, venne presentato un disegno di legge costituzionale da parte del Presidente del Consiglio Fanfani, dal Ministro di grazia e giustizia Gonnella di concerto col Mi-nistro dell’interno Tambroni, recante modifiche alla Costituzione in materia di durata e di composizione del Senato della Repubblica. Il presente disegno di legge costituzionale si basa essenzialmente sul te-sto approvato precedentemente dalla Camera dei deputati e al quale vengono apportate modifiche che non toccano la sostanza, ma che

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mi-rano semplicemente a tenere presenti voti espressi nel corso della di-scussione svolta nell’altro ramo del Parlamento.

Le finalità dichiarate di questo progetto sono due: a) parificare la dura-ta del Senato e della Camera; b) attuare l’integrazione del Senato. Come abbiamo già visto analizzando le problematiche emerse subito dopo l' entrata in vigore della Costituzione, con la diversa durata delle due Assemblee legislative, è possibile che si abbia un diverso se non opposto orientamento politico dei due rami del Parlamento dovuto ad una diversa composizione politica delle due Assemblee. Infatti, mentre la Camera viene rieletta, con configurazione politica che può essere di-versa dalla precedente, il Senato si trova nel suo ultimo anno di vita e conserva la sua configurazione politica. Le difficoltà si complichereb-bero ulteriormente se la successiva elezione del Senato portasse ad una configurazione politica ancora diversa da quella che la Camera ha avu-to nelle elezioni dell’anno precedente. Inoltre, era evidente che l’opi-nione pubblica non era favorevole al ripetersi delle elezioni generali a distanza di un anno, elezioni che possono anche coincidere con quelle comunali o provinciali o regionali, o essere molto prossime ad esse. Per tali motivi il presente disegno di legge stabilisce l’uguale durata delle due Camere determinandola in 5 anni.

La seconda finalità enunciata nella relazione programmatica atteneva alla auspicata integrazione del Senato. Tale esigenza incominciò ad emergere nel 1953, quando i 107 senatori di diritto, nominati per la pri-ma composizione del Senato in base alla III Disposizione transitoria della Costituzione, non ritornarono più al Senato.

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Si faceva presente, l’opportunità di attenuare la sproporzione numerica che con il venir meno dei 107 senatori di diritto si era accentuata nella composizione delle due Camere; si desiderava cioè un migliore equili-brio fra di esse, in modo che il sistema bicamerale avesse maggiori ga-ranzie di organico funzionamento. L'integrazione del Senato non avrebbe comportato una riforma strutturale e funzionale, poiché si la-sciava invariata la sua posizione costituzionale nei confronti della Ca-mera, e non la si mutava nelle sue attribuzioni e prerogative. Anche il principio fondamentale della elettività a base regionale era tenuto fer-mo, poiché nulla era cambiato per quanto riguarda i collegi periferici. Non si intendeva alzare il numero dei senatori di diritto o di nomina a vita, introducendo categorie nuove di senatori, ma semplicemente au-mentando i senatori di queste due categorie già previste dalla Costitu-zione.

Al fine di realizzare l' integrazione, la prima proposta del presente di-segno di legge riguarda i senatori di diritto a vita: si stabiliva, infatti, che potevano essere senatori di diritto a vita, salvo rinuncia, non solo gli ex Presidenti della Repubblica, come prevedeva già la Costituzione, ma anche gli ex Presidenti delle Assemblee legislative elette dopo il 1945. Inoltre, accogliendo un emendamento presentato nel corso di un precedente dibattito parlamentare, si era aggiunta, nel presente disegno legge, la norma che, per essere senatore di diritto a vita, un ex Presi-dente di una delle due Camere deve essere rimasto in carica per alme-no tre anni consecutivi.

I senatori a vita di nomina presidenziale erano stati portati da cinque a dieci. Ai cinque già previsti dalla Costituzione e per gli indicati titoli

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( art. 58 secondo comma ), si aggiungevano altri cinque per i quali si prevedevano titoli diversi, fondati sul riconoscimento di attività svolte nel campo dell’Amministrazione statale o dell’Amministrazione regio-nale, provinciale e comuregio-nale, come pure nel campo giudiziario e mili-tare e in quello del sindacalismo e del giornalismo. Si mirava ad allar-gare l’apporto al Senato di esperienze maturate nell’esercizio di cari-che pubblicari-che, senza introdurre nella Costituzione alcun principio nuo-vo, ma solo allargando la sfera di applicazione del già ammesso princi-pio della nomina presidenziale. Così senza turbare la configurazione politica determinata dal suffragio, trattandosi di una assoluta minoran-za numerica.

Per quanto riguarda, invece, la seconda proposta che aveva come og-getto i senatori elettivi, si provvedeva attraverso l'istituzione di un Collegio unico nazionale al quale era assegnato il predetto numero di seggi integrativi. Inoltre anche con l’aumento proposto il numero dei senatori risultava di poco superiore alla metà dei membri della Camera dei deputati.

Il raggiungimento di un equilibrio fra le due Assemblee era del massi-mo interesse, infatti tenendo presenti i sette casi nei quali le due Came-re debbono deliberaCame-re riunite, potCame-rebbe accadeCame-re che il Senato, consi-derato nella sua totalità, avrebbe avuto nella votazione in comune con la Camera, una disponibilità di voti perfino inferiore a quella del nu-mero dei membri della Camera appartenenti ad un solo partito. Quindi bastava, un solo partito della Camera a neutralizzare la volontà di tutta la rappresentanza senatoriale. La proposta di aumento numerico aveva la sua ragion d’essere anche in motivi concernenti il funzionamento

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stesso del Senato. Infatti era stato osservato che la limitata composizio-ne numerica delle commissioni, specialmente in sede legislativa, pote-va dar luogo a delle difficoltà di lavoro che sono di gran lunga superio-ri a quelle della Camera nella quale, per trattare le stesse matesuperio-rie, vi era in ogni commissione, un numero quasi doppio di componenti.

Il principio democratico della elettività, come pure il criterio di vota-zione su base regionale, sancito dalla Costituvota-zione, veniva rigorosa-mente rispettato da questa proposta di integrazione: l’attribuzione dei seggi al Collegio unico nazionale, prevista da questo disegno di legge, aveva luogo non con una elezione di secondo grado, ma in base ai voti ottenuti da ciascun raggruppamento politico in sede regionale.

Non solo la elettività ma anche la proporzionalità era rispettata, ed era per questa ragione che furono respinte le proposte di integrare il Senato attraverso nomine, anziché attraverso elezioni, oppure di integrarlo per un periodo superiore alla normale durata di una legislatura con il possi-bile effetto di alternarne la configurazione politica quale può risultare da future elezioni.

Nelle liste del collegio unico nazionale potevano essere ammessi solo coloro che abbiano già meritato il suffragio elettorale, ed avevano quindi esercitato il mandato parlamentare. In tal modo era assicurato al Senato l’apporto di una larga esperienza politica, convalidata dai risul-tati di precedenti suffragi. Nel collegio unico nazionale l' elezione av-viene sulla base dell’anzianità parlamentare, determinata non secondo il criterio del numero delle legislature, non essendo più le legislature riconosciute dalla Costituzione, ma secondo il criterio della durata temporale dell’esercizio del mandato parlamentare per ogni candidato.

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Su questo punto si prevede che la Consulta nazionale e l’Assemblea costituente non sarebbero considerate come «legislature», diversamen-te da quanto ammetdiversamen-tevano precedenti progetti relativi a tale madiversamen-teria; si era preferito considerarle come Assemblee nelle quali la funzione eser-citata riveste carattere di funzione parlamentare, anche se non elettiva, come nel caso della Consulta. Si ebbe riguardo più che alla natura delle Assemblee, alla natura del mandato in esse esercitato, e l’anzianità di coloro che sono stati membri di queste assemblee dovrebbe essere computata per la durata delle Assemblee stesse. Inoltre, per accertare tutte le anzianità parlamentari fu proposto di istituire un apposito Albo, che veniva tenuto e aggiornato dal Presidente del Senato d’intesa con quello della Camera.

Al fine di evitare un'ampia discrezionalità dei gruppi politici nella pre-sentazione delle candidature - motivo di critica di questo progetto-. Si sottolineava che nella formazione delle liste per il Collegio unico na-zionale i presentatori erano vincolati a limitazioni particolari che non esistevano nella presentazione delle candidature nei collegi regionali. Infatti, le candidature del Collegio unico nazionale dovevano essere as-segnate esclusivamente agli ex parlamentari e non a qualsiasi candida-to liberamente scelcandida-to da un particandida-to, e l’ordine di precedenza di questi candidati nelle liste di questo Collegio non era determinato dalla vo-lontà dei partiti, ma era rigorosamente stabilito dall’anzianità parla-mentare risultante dall’Albo. Quindi in una lista caratterizzata da un contrassegno non poteva essere ammesso quel parlamentare che non apparteneva più al gruppo individuato da tale contrassegno, e ciò era logico, poiché altrimenti nelle liste centrali non sarebbe stata rispettata

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la rappresentanza proporzionale dei voti ottenuti da ciascun raggruppa-mento. Inoltre, occorre ribadire che, nelle liste centrali non potevano mai essere aggiunti candidati non parlamentari, e da nessun partito po-teva mai essere mutato l’ordine stabilito dall’Albo delle anzianità. Il principio al quale si ispira questo disegno di legge era che l’integra-zione doveva essere proporzionale alle forze politiche specificamente espresse per ogni raggruppamento, dal suffragio elettorale.

Infine, si stabiliva che, tutte le disposizioni contenute nella nuova leg-ge, entravano in vigore con la prima convocazione dei comizi elettorali successivi alla pubblicazione della legge medesima32.

Come abbiamo già detto diverse furono le proposte avanzate in questi anni, di contro a questo progetto appena analizzato, il 28 novembre 1958 venne presentato un disegno di legge costituzionale d’iniziativa del senatore Sturzo. Innanzitutto, l'incipit di tale disegno conteneva una serie di critiche verso il disegno di legge del Governo, appena illu-strato. Una delle prime era rivolta al collegio unico per l’elezione di un quarto dei senatori, definiti da Sturzo, privilegiati. Appunto, il collegio unico nella legislazione elettorale era stato introdotto quando ancora non vigeva la Costituzione del 1948, quindi l’averlo mantenuto anche dopo con la legge elettorale, non giustificava l’insita contraddittorietà con il disposto fondamentale della Costituzione, contenuto negli artico-li 56 e 58 che la Camera dei deputati e il Senato sono eletti a suffragio universale e diretto. Il collegio unico non comportava la votazione di-retta dell’elettore, né la sua libera scelta, trattandosi di una risultante

32 Relazione programmatica, in Rassegna parlamentare, Incontri sui problemi della legislazione, 1958.

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indiretta e rigida. Inoltre, per il Senato, la lista nazionale contraddiceva al disposto organico della base regionale fissata all’articolo 57 della Costituzione. E’ vero che nella relazione, premessa al citato disegno legge, veniva dichiarato restare fermo il principio della circoscrizione regionale per l’elezione di un senatore per ogni 200 mila abitanti, ri-guardando la proposta una nuova categoria di senatori di diritto, quasi fosse una specie di sostituzione dei 107 senatori di diritto creati in base alla III disposizione transitoria della Costituzione solamente per la pri-ma composizione del Senato.

Secondo il senatore Sturzo, veniva a crearsi un 'assurdo costituzionale, giacché il disegno di legge governativo tendeva a creare una categoria di senatori a numero limitato, quali benemeriti esperti della vita pubbli-ca nazionale, indipendentemente e dal merito personale e dalla scelta elettorale. L'Albo dei parlamentari veniva a costituire una polizza di assicurazione al posto di senatore, a favore dei parlamentari più anzia-ni, una specie di giustificazione di quelli fra i tanti che o erano stanchi delle lotte elettorali ovvero dubitavano della probabilità di rielezione e preferivano la scelta attraverso l’inserzione nel collegio elettorale na-zionale a lista rigida e automatica. In realtà, l’albo dei parlamentari fis-sava i posti dei candidabili per ordine di anzianità; a parità di anzianità prevalevano coloro che avevano coperto uffici ministeriali o parlamen-tari con un’esatta precisazione di graduazione: i più anziani di elezione e di carica sarebbero stati i sicuri fortunati.

Tutto ciò fu ritenuto non solo contrario al criterio della base regionale del Senato, ma alla stessa elettività del Senato, e non corrispondeva alla finalità avuta di dare un premio ad personam per i servizi resi

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pri-ma e durante il regime fascista, anzi in questo caso veniva a pri-mancare un organo di scelta per meriti assoluti e comparativi, sia da parte dei formulatori dell’albo, sia da parte degli elettori e neppure da coloro che ne presenteranno l’obbligatoria candidatura, cioè i partiti.

Per il prelato fondatore del partito popolare, quindi, questi nuovi ses-santa e più senatori avrebbero rappresentato se stessi e non la nazione; scelti da un Albo muto, non un essere vivente, l’elettorato o il Presi-dente della Repubblica o lo stesso Senato per cooptazione, nessuno: la sorte cieca. L’inconveniente della mancata scelta si sarebbe potuta ri-percuotere nella stessa composizione delle due Camere. Da un lato le nuove reclute di candidati avrebbero premuto sulle direzioni locali e centrali dei partiti per avere posto nelle liste per la Camera dei deputa-ti; gli anziani fra i deputati uscenti sarebbero stati, anche loro malgra-do, risospinti al Senato. La scelta fra Camera e Senato avrebbe favorito spesso i meno dotati e meno rappresentativi, mentre la Camera avrebbe abbondato di giovani senza sufficiente preparazione ed esperienza del-la vita pubblica; così i due corpi non avrebbero migliorato, e il passag-gio, o travaso che sia, non avrebbe favorito la formazione della tradi-zione di corpo sia della Camera che del Senato. A completare la critica del Sen. Sturzo, l’equivoco su cui si fonda il disegno di legge è lo stes-so di quello che inficiò il disegno presentato durante il Ministero Se-gni: cioè una pretesa integrazione del Senato33.

Tale finalità dal punto dei fatti era inesatta e per giunta contraddiceva alla lettera della Costituzione: il Senato non sorse monco motivo per cui la disposizione transitoria non ebbe il compito di integrarlo.

Pertan-33 STURZO, in Riforma del Senato, Rassegna parlamentare, in Incontri sui proble-mi della legislazione, 1958

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to l’immissione di 60 albisti a titolo fisso non era e non può essere in-tegrazione. Quello a cui si auspicava, ed era legittimo di fronte ad una Camera di quasi 600 deputati, è che il Senato ne avesse almeno 300. A questo scopo bastava ridurre il quorum della popolazione per ogni se-natore a 160 mila invece di 200; così ci sarebbe stato un aumento ade-guato in rapporto al quorum dei deputati che era di 80 mila abitanti. Inoltre, il senatore Sturzo, faceva notare che l’articolo quarto del dise-gno di legge divideva in due serie i dieci posti attribuiti al Presidente della Repubblica; però nella prima, sotto l’aggettivo sociale, potevano essere inclusi i sindacalisti che figuravano anche nella seconda serie; così nella categoria dei letterati avrebbero potuto trovare posto i veri giornalisti qualificati come tali, secondo una costante e nobile tradizio-ne italiana.

Così terminata la sua critica, l’on. Sturzo passava ad illustrare il suo di-segno di legge, il quale veniva dallo stesso considerato, il più rispon-dente allo scopo. Partendo dal riconoscimento dell’utilità di aumentare il numero di senatori, Sturzo, escludeva l’idea delle due categorie di senatori, come risultava dal disegno di legge governativo, proponendo invece, un unico tipo di elezione, abbassando il quorum di popolazione per ciascun senatore da 200 mila a 160 mila, cioè il doppio del quorum fissato per l’elezione dei deputati. Il rafforzamento qualitativo del Se-nato come non si sarebbe raggiunto con l’albo fisso di deputati e sena-tori proposto dal Governo, neppure si potrebbe raggiungere con l’au-mento dei posti di senatori ad elezione libera, come proposto dallo stesso senatore Sturzo; e mentre la soluzione governativa tenderebbe a fossilizzare il corpo legislativo, con le elezioni di personale di risulta

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che ad ogni legislatura verrebbe immesso a mezzo di un albo fisso; con le tendenze innovatrici dei partiti e di maggioranze parlamentari, le nuove elezioni quinquennali avrebbero potuto portare elementi freschi e validi senza trovare la barriera di un numero di inamovibili con qua-lifica di cariche avute, che evitando la lotta elettorale si sarebbero tro-vati più o meno installati a vita senza nomina vitalizia. L’unica via le-gittima e chiara per un gruppo qualificato sarebbe stata quella di affi-dare al Presidente della Repubblica la scelta dei senatori di alti meriti per quelle personalità che difficilmente avrebbero corso l’alea di una elezione né si sarebbero piegati facilmente alla disciplina di partito. Per queste regioni, tale progetto proponeva di portare il numero dei se-natori di scelta presidenziale a venti e di allargarne le convenientemen-te le caconvenientemen-tegorie. L’ aumento del numero dei senatori non può essere fine a se stesso, né potrebbe dirsi strettamente necessario al funzionamento del Senato, il quale aveva dato prova nella seconda legislatura di una regolare attività ed elevato contributo alla legislazione.

Concludendo, il senatore Sturzo affermava che, il suo disegno di legge mirava solo a correggere quello governativo nei suoi lati deficienti e nella sua impostazione non esattamente costituzionale, per avviare so-pra una strada più sicura il comune desiderio di un aumento di senatori.

In fine, dopo svariate Commissioni ed esami, le proposte di legge giun-sero nuovamente alla Commissione, per un ulteriore esame nel 1961. La Commissione giungeva alla formulazione di un testo che si distac-cava del tutto dalle precedenti proposte: l'unico punto che trovò con-senso restando fermo nel nuovo testo, fu quello della equiparazione

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della durata della legislatura tanto per il Senato quanto per la Camera a 5 anni. Si decise di abbandonare il Collegio nazionale per la nomina di 100 senatori estratti dall’elenco dei vecchi parlamentari; si escluse la nomina dei presidenti della Costituente e delle Assemblee ed in ultimo saltò anche la proposta di un aumento dei senatori di nomina presiden-ziale. Riguardo al numero dei senatori si portò all'innalzamento solo abbassando il rapporto fra senatore e popolazione da 200 a 180 mila, portando da 6 a7 il numero dei senatori minimo per ogni regione. Si fissava il numero massimo dei senatori a 300 e quello dei deputati a 600. A tal proposito, il 24 marzo 1961, l’on. Piccoli ed altri avevano presentata alla Camera una proposta di legge costituzionale, con la quale proponevano di fissare il numero dei deputati a 600 modificando l’art. 56 della Costituzione. Il criterio sul quale poggiava la scelta di aumento del numero dei senatori era, seppur il più semplice, anche quello ritenuto più politicamente corretto, ossia criterio elettivo da par-te del popolo. L’aumento doveva essere portato ad un limipar-te tale da rendere l’assemblea di Palazzo Madama in condizioni da poter svolge-re il pesante lavoro, un limite leggermente superiosvolge-re a quello a cui avrebbe portato la popolazione risultante dal nuovo censimento. Sem-pre per ragioni di proporzione si ritenne di fissare a 600 il numero dei deputati onde lasciare il rapporto di 1 a 2 tra senatori e deputati. Il Se-nato che aveva discusso in seno alle Commissioni speciali ed in As-semblea lungamente, dopo la presentazione della seconda relazione at-tese quasi un anno prima di portarne la discussione in aula, cosa che fu fatto nella seduta del 16 gennaio 1962. In detta seduta, con una discus-sione brevissima, venne approvato nel testo proposto dalla

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Commissio-ne con una sola modificazioCommissio-ne formale. La proposta così approvata venne trasmessa alla Camera. Tra gli emendamenti presentati è indi-spensabile ricordare quello dell’on. Luzzatto. Ma a questo, nella se-conda seduta , si aggiunsero altri emendamenti sia da parte del relatore che da parte del Governo, riaprendo la discussione su alcuni punti che il Senato aveva creduto accantonare quali quelli dei senatori di nomina presidenziale e dei presidenti della Costituente e delle Assemblee. Si nominò un Comitato ristretto il quale in tre giorni avrebbe provveduto a presentare alla Commissione il testo che in seguito venne approvato. La I Commissione aveva accettato il numero fisso anche per la Came-ra, ma non aveva dimenticato che sulla base dei dati dell’ultimo censi-mento il numero dei deputati in ragione del rapporto fissato nella Co-stituzione, 1 ogni 80.000 abitanti, risultava elevato a 630. In correla-zione e per i principi di proporcorrela-zione che vennero fissati dal Senato, questo vedrà aumentato il suo numero fisso a 315, al quale numero do-vranno aggiungersi i senatori di diritto e quelli di nomina presidenzia-le, così come pure resterà fissato il numero minimo di senatori per ogni regione, portato a 7. La Commissione aveva creduto così, per attuare tali disposizioni , di abolire il rapporto ad una quota fissa di abitanti, ma di fissare il numero rispettivamente dei deputati e senatori giungen-do alle attribuzioni, dividengiungen-do il numero degli abitanti quale sarà al momento delle elezioni per detti numeri fissi, attribuendo a ciascuna regione o circoscrizione rispettivamente quanti senatori o deputati sono contenuti in detto numero ed attribuendo i residui seggi ai maggiori re-sti. Seppur la Commissione aveva anche accettato la norma oramai pa-cifica della equiparazione di durata tra il Senato e la Camera a 5 anni,

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nella seduta pomeridiana del 7 agosto 1962, alla Camera, l’on. Lucife-ro, mostrava il suo dissenso, rispetto alle modifiche che si volevano ap-portare alla nostra Costituzione, affermando che, la parificazione della durata di Camera e Senato, avrebbe dato sostegno ad una certa visione organica delle funzioni di questi organismi dello Stato, e che con un al-tro articolo di questo disegno di legge, veniva distrutto un alal-tro concet-to sul quale la Costituente si era espressa con la massima chiarezza, cioè il rapporto permanente tra il numero dei rappresentati ed il nume-ro dei rappresentanti. Dunque, pnume-rocedendo in tal modo questi principi sarebbero stati superati comportando che nel caso in cui la popolazione fosse aumentata o diminuita il numero dei deputati e senatori sarebbe rimasto definitivamente fisso. Veniva superato il concetto fondamenta-le, che nella intenzione di colore che l’avevano redatta, avrebbe creato un' aderenza permanente alla realtà del popolo italiano. Con il vecchio sistema, dopo ogni censimento, era sufficiente una legge ordinaria per adeguare il numero di questi rappresentanti del popolo.

Sempre nella stessa seduta, l’on. Tozzi Condivi, faceva notare che, non si parlava più di riforma del Senato, ma si era accettato totalmente il ti-tolo della proposta di legge Sturzo, cioè: « Modificazioni agli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione ».

Infine il testo che proveniva dal Senato, dopo tante vicissitudini, era stato approvato all’unanimità, e poneva tre punti fissi: stabiliva un’u-guale durata per la Camera e per il Senato, bloccava il numero dei de-putati a 630, aumentava il numero dei senatori a 315, per consentire alla Camera alta di funzionare agevolmente. Approvato all’unanimità anche dalla Commissione affari costituzionali della Camera, questo

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di-segno di legge soddisfa anzitutto l’esigenza dell’integrazione del Sena-to, elevando il numero dei senatori elettivi da 247 a 315, cioè ad un nu-mero fisso pari alla metà di quello dei deputati. Pertanto, la Camera, accogliendo la proposta del numero fisso, rinunciava per l’avvenire ad usufruire degli ulteriori incrementi di popolazione, stabilizzando il nu-mero dei suoi componenti a quello risultante dal censimento del 1961. Si evitava così il pericolo che il progressivo dilatarsi del numero dei deputati avrebbe potuto ripercuotersi sulla funzionalità dell’Assem-blea. D’altro canto, i senatori così, rinunciavano alla maggior durata della propria elezione, riconoscendo che gli argomenti favorevoli alla parità di durata dei due rami del Parlamento ed alla contemporaneità delle elezioni politiche erano stati così significativi che avevano dato luogo alla creazione di una prassi che si era ripetuta nelle elezioni del 1948, del 1953 e del 1958. Eppur vero che in un sistema bicamerale puro, un diverso, se non opposto orientamento politico del corpo elet-torale nella formazione delle due Camere in tempi successivi ne avreb-be reso difficile l’armonico funzionamento, riflettendosi in senso sfa-vorevole anche sulla formazione dei governi. Di qui, la necessità di ri-correre a nuove elezioni, che di fatto avrebbero ristabilito la contempo-raneità del momento elettivo, qualora la Camera successivamente elet-ta avrebbe rivelato un diverso orienelet-tamento del corpo elettorale. Il Se-nato stesso, nonostante precedentemente, avesse rifiutato la parifica-zione della durata, successivamente l'approvò all’unanimità.

In conclusione, vennero messo ai voti con scrutinio segreto, il disegno di legge costituzionale, con i tre punti detti prima, ed approvato con 436 voti favorevoli, contro 40. Furono così modificati gli articoli 56,

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57 e 60 della Costituzione, quindi parificata la durata di Camera e Se-nato ed aumentato il numero di deputati e seSe-natori. Questa modifica, che poi sarà l’oggetto della legge costituzionale n.2 del 9 febbraio 1963, portava alla fine del bicameralismo “costituente”.

Da allora l'assetto del nostro Parlamento non è più mutato: esso è stato influenzato naturalmente dalla legislazione ordinaria, fra la quale si de-vono segnalare prima di tutto l'abbassamento della maggiore età, porta-ta a 18 anni nel 1974 – allargando la forbice rappresenporta-tativa fra Came-ra e Senato con conseguenze non immediate ma tendenzialmente cre-scenti nel tempo – , e poi la riforma elettorale del 1993 che ha introdot-to alcune differenziazioni nelle due formule eletintrodot-torali. Nel combinarsi con l'elettorato attivo diverso, queste hanno prodotto esiti meno omo-genei rispetto ad in tempo: evidentemente nel 1994 e nel 1996, meno nel 2001 per il grande successo del centro-destra. Quest'ultimo proble-ma sussiste tuttora – a costituzione vigente – e si è, anzi aggravato, dopo l'entrata in vigore della legge elettorale n.270/2005.34

Ebbene tener presente da ora per questa trattazione che le riforme di superamento del bicameralismo paritario non prendono in considera-zione l'assetto così come elaborato dall'assemblea costituzionale, che pur aveva cercato forme di attenuazione, ma così come risultato dalla Legge Cost. n2 del 1963.

34 C. FUSARO, La lunga ricerca di un bicameralismo che abbi senso, in Quaderni costituzionali, pag. 9.

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CAPITOLO II 1. Le proposte di iniziativa governativa

1.1 Il Decalogo Spadolini

Gli accadimenti politici che si sono avvicendati nel corso degli anni '70 hanno portato, a distanza di neanche quarant’anni dall'entrata in vigore della Carta Costituzionale e subito dopo la prima fase di attuazione di questa – si pensi all'entrata in funzione della Corte Costituzionale, al-l'approvazione della norma attuativa dell'istituto referendario e all'ado-zione dei regolamenti parlamentari – ad aprire il dibattito intorno alla questione della revisione costituzionale.

Già durante la settima legislatura (1976-1979), la debolezza dell'esecu-tivo si manifestava nella formazione di coalizioni minoritarie, basate su espliciti appoggi (c.d. Governi di unità nazionale) e nell'uso costan-te di decreti-legge siscostan-tematicamencostan-te emendabili in sede di conversione, da qui inizia un periodo di immobilismo legislativo35. Agli inizi degli

anni '80 entra in crisi il modello basato sulla centralità del Parlamento: l'accesso alla rappresentanza di nuove e minoritarie formazioni politi-che compromise la stagione politico-governativa della solidarietà na-zionale36. In Questa fase di impasse politico, prima ancora che

istitu-zionale, iniziava a riecheggiare il binomio 'governabilità-stabilità' e ad essere propagandati obiettivi di 'riforma delle istituzioni'. A decorrere dal 1981, inoltre, i regolamenti parlamentari subirono una lunga serie di riforme, seppur con l'intento iniziale di ridimensionare il potere 35 Cfr., G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale, Cedam, 2008

36 vedi. c.d 'solidarietà nazionale' P. SCOPPOLA , La Repubblica dei partiti, Bologna,

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