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L'internazionalizzazione delle PMI e la forza del Made in Italy

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in “Strategie e Governo dell’Azienda”

TESI DI LAUREA

“L’internazionalizzazione delle Piccole e Medie imprese e la forza del

Made in Italy”

Anno accademico 2015-2016

Relatore:

Vincenzo Zarone

Candidata:

Chiara Alessandra

Risplendente

Matricola

: 527728

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“Tutto quello che oggi è una realtà, prima era solo parte di un sogno impossibile”

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Indice

Introduzione

1. L’internazionalizzazione delle imprese italiane 1.1 La globalizzazione

1.1.1 La globalizzazione dei mercati

1.1.2 Gli ostacoli e i rischi della globalizzazione 1.1.3 Le PMI e i mercati globalizzati

1.2 Il concetto di internazionalizzazione 1.2.1 Definizione

1.2.2 Le origini del fenomeno

1.2.2.1 La teoria delle imperfezioni del mercato di Hymer 1.2.2.2 Il ciclo di vita internazionale del prodotto di Vernon 1.2.2.3 L’approccio eclettico di Dunning

1.2.3 Le teorie di approccio comportamentale e gli sviluppi più recenti 1.2.3.1 La teoria degli stadi di internazionalizzazione

1.2.3.2 Le imprese Born Global

1.2.3.3 La teoria dei network tra imprese

2. Processi di internazionalizzazione 2.1 Modelli di internazionalizzazione

2.1.1 Congenita 2.2.2 Progettata 2.2.3 Trainata

2.2 Le fasi del processo di internazionalizzazione 2.2.1 Lo sviluppo del processo

2.2.2 Definizione di una Strategia

2.2.3 Modalità di accesso ai mercati esteri 2.2.2.1 Le Esportazioni dirette e indirette

2.2.2.2 Alleanze strategiche 2.2.2.3 La joint venture

2.2.2.4 L'investimento diretto estero (IDE)

2.3 Processi di internazionalizzazione e l’organizzazione aziendale 2.3.1 L’organizzazione delle imprese internazionalizzate

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2.3.2 Orientamento della cultura aziendale e imprenditoriale verso l’internazionalizzazione.

2.3.3 Le risorse e competenze quale vincolo all’internazionalizzazione

2.3.3.1 Capitale umano e competenze per l’espansione internazionale delle PMI 2.3.3.2 Capitale relazionale e competenze per l’espansione internazionale delle PMI

3. Lo scenario delle imprese italiane 3.1 Le PMI italiane

3.1.1 L’importanza elle PMI

3..1.2 Gli strumenti italiani finalizzati a sostenere l’internazionalizzazione delle PMI

3.1.3 Perché le imprese italiane producono all’estero

3.1.4 Punti di forza e di debolezza delle PMI italiane nei processi di internazionalizzazione

3.1.5 I limiti delle imprese italiane legati alla dimensione delle imprese 3.2 Made in Italy

3.2.1 La definizione 3.2.2 La forza del marchio 3.3 Il successo delle imprese italiane

4. L’attrattività e l’accessibilità dei paesi BRIC 4.1 I fattori che accomunano i paesi BRIC

4.2 Vantaggi dell’internazionalizzazione verso i paesi BRIC 4.3 L’altra faccia della medaglia degli investimenti nel BRIC 4.4 I rapporti dell’Italia con queste quattro nuove realtà

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5. Un caso di Internazionalizzazione: Natuzzi 5.1 Il settore dell’arredamento 5.2 Natuzzi S.p.A. 5.3 La storia dell’azienda 5.4 Industrializzazione e razionalizzazione 5.5 Via all’export

5.5.1 Dall’Italia alla Cina

5.6 L’evoluzione degli assetti societari e finanziari 5.7 La crisi

5.8 Brand strategy 5.9 L’azienda oggi

5.10 L’importanza del BRIC: una via per rinascere

Conclusione Ringraziamenti Bibliografia

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Introduzione

Il seguente lavoro si propone di esaminare un fenomeno piuttosto discusso negli ultimi tempi, quello della globalizzazione e dell’espansione delle imprese all’estero.

La globalizzazione dei mercati ha contribuito a rendere il mondo un’entità sempre più “piccola” in cui i confini fra i diversi Paesi, non solo di natura geografica, ma anche e soprattutto di natura socio-economica, sono diventati sempre più sottili e meno marcati. La stagnazione del mercato domestico, infatti, ha messo in ginocchio la maggior parte delle piccole e medie imprese italiane, costringendole a ripensare il proprio modo di fare business e a trovare dei nuovi percorsi che permettano di sopravvivere e, se possibile, di crescere in un contesto dove le condizioni ambientali sono mutate profondamente. Tuttavia, sebbene la crisi abbia generato un deciso sconvolgimento a livello strutturale nel tessuto produttivo italiano, essa rappresenta al tempo stesso un cambiamento che apre a nuovi scenari e a nuove opportunità di rilancio per le piccole e medie imprese. Tra le sfide più importanti vi è sicuramente l’internazionalizzazione, vale a dire la possibilità per le imprese di commercializzare i propri prodotti non più sul mercato domestico, ma bensì sui mercati esteri, cercando in questo modo nuove opportunità da cui trarre il giusto sostentamento. È un percorso indubbiamente difficile, per certi aspetti traumatico e particolarmente impegnativo in termini di risorse, ma la possibilità di disporre di un patrimonio genetico e di un valore produttivo unici come quelli racchiusi nel Made in Italy permette sicuramente di conferire ai prodotti delle nostre imprese elevata competitività e forte differenziazione rispetto ai concorrenti, rendendo tale percorso molto più accessibile.

Questo fattore ha spinto le imprese italiane, da sempre caratterizzate da dimensioni minute, a rivedere la propria posizione competitiva soprattutto alla luce dell’avvento di quelle economie emergenti, i c.d. Paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che basano la propria forza sulla riduzione dei costi di produzione e sulla standardizzazione delle tecnologie.

Il lavoro è strutturato in cinque capitoli.

Il primo capitolo di questo lavoro ha lo scopo di dare una definizione del concetto di internazionalizzazione partendo dal fenomeno che ne è alla base, ovvero la globalizzazione.

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Nella seconda parte del capitolo, si procederà a dare una definizione del concetto di internazionalizzazione, ripercorrendo le principali teorie economiche proposte nel corso degli anni, dai più remoti approcci macroeconomici fino ai più recenti sviluppi processuali e reticolari, ricordano che ogni studioso nel corso del tempo ha espresso una personale idea su questo tema ed ancora oggi non esiste una definizione condivisa da tutti.

Nel secondo capitolo, una volta analizzate le caratteristiche principali di questo fenomeno, vengono presi in considerazione i diversi modelli di internazionalizzazione e le varie modalità che un’impresa può adottare per accedere ai mercati esteri, e vengono evidenziati gli aspetti principali di esportazioni, investimenti diretti esteri, alleanze strategiche e joint venture. Inoltre ci soffermeremo sulle fasi di un processo di internazionalizzazione, ricordando che tale scelta parte dalla definizione di una strategia e che deve essere una scelta ponderata, devono essere presi in considerazione diversi fattori.

Nel terzo capitolo si cercherà di focalizzare l’attenzione sullo scenario delle PMI italiane, perciò, si esporrà il percorso di internazionalizzazione effettivamente intrapreso dalle PMI italiane, si cercherà di capire il perché le imprese italiane decidono di produrre all’estero, delineandone punti di forza e limiti, illustrando come il valore del Made in Italy rappresenti un’opportunità e un fattore di differenziazione estremamente importante per le imprese del nostro territorio, infatti, l’importanza strategica legata al concetto del “Made in Italy” in diversi settori basilari della nostra economia come la moda, il lusso, l’arte culinaria del “Bel Paese” non hanno perso il loro forte appeal agli occhi del mondo. Il Made in Italy non è ancora in declino, le PMI italiane possono ancora contare su importanti fattori competitivi che le rendono uniche al mondo. La vera questione non è se le imprese possiedono o meno questi elementi di eccellenza, ma se essi siano adeguatamente accompagnati da leve strategiche che non possono più essere accantonate.

Il quarto capitolo tratta dei mercati BRIC, in questi ultimi tempi si è sentito spesso nominare tale acronimo che sta entrando sempre più insistentemente nella vita di tutti i giorni. L’intenzione è di cercare di esplicare al meglio queste nuove realtà, verrà quindi prima introdotto il BRIC, esponendo le varie fasi che hanno caratterizzato l’intensa vita di questa nuova organizzazione, partendo dalla prima volta in cui sono stati nominati sino al primo incontro ufficiale che c’è stato tra i leader dei quattro Paesi, passando per le varie previsioni che vengono redatte periodicamente dalla Goldman Sachs.

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Vengono poi esposti i vantaggi e le insidie nelle quali può imbattersi un’azienda che decide di investire in questi nuovi mercati. L’ultima parte è invece dedicata ai rapporti che le imprese europee e italiane hanno con i Paesi BRIC presi singolarmente.

Nel capitolo conclusivo dell’elaborato viene esposto un caso aziendale concreto che tratta una delle imprese italiane che, grazie ad un processo di internazionalizzazione di grande successo è riuscita a crescere da piccola bottega è riuscita a trasformarsi in una grande realtà aziendale: la Natuzzi.

Nonostante la crisi che ormai da diversi anni ha colpito il nostro Paese e che ha messo in ginocchio tante imprese – grandi e piccole – ci sono società come questa che hanno continuato ad espandersi e a rafforzare la propria presenza sul mercato. Il punto di partenza per lo sviluppo del lavoro è stato la scelta del settore, infatti il settore dell’arredamento presenta caratteristiche interessanti, in particolare, il mercato del design d’arredamento è attualmente sempre di più in rapida evoluzione e sembra non volersi fermare ed inoltre il è uno di quei settori che da sempre rappresenta fortemente lo splendore del made in Italy. Dopo aver tracciato una breve descrizione del settore dell’arredamento, si procederà con un cenno alla storia dell’impresa, poiché ho ritenuto indispensabile partire dalle radici e dalla cultura aziendale per capire poi, come una piccola bottega del sud Italia sia riuscita a diventare leader del settore, si parla infatti addirittura, di miracolo economico. Come molte imprese anche la Natuzzi ha dovuto affrontare momenti di difficoltà, ma grazie alle grandi capacità del fondatore, è riuscita sempre a ripartire. La mia scelta è ricaduta sulla Natuzzi, proprio perché sono rimasta affascinata dalla storia dell’azienda e soprattutto da come, Pasquale Natuzzi fondatore del Gruppo, con le sue capacità e intuizioni, sia riuscito a trasformare una piccola realtà in un grande gruppo quotato sulla borsa più importante al mondo, come la sua “vocazione” imprenditoriale abbia gettato le basi e sia stata propulsore e di stimolo, per il successo di un intero distretto. I valori dell'etica e dell'integrità, ben interpretati dal Codice Etico Natuzzi, sono da sempre alla base di ogni attività dell’azienda. La valorizzazione del territorio e lo sviluppo sostenibile rappresentano impegni precisi che Natuzzi ha assunto sul fronte della responsabilità sociale. L’attaccamento al territorio, ricorda ancora una volta come non bisogna mai dimenticare da dove veniamo, perché senza radici e basi solide è impossibile avere successo.

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L’internazionalizzazione delle imprese italiane 1.1 La globalizzazione

1.1.1 La globalizzazione dei mercati

Quando si parla di un fenomeno quale l’internazionalizzazione delle imprese senza alcun dubbio bisogna partire dal concetto di “globalizzazione”. La globalizzazione si configura sempre di più come un processo irreversibile, non può dunque essere prefigurata come una scelta per l’impresa, bensì come un imperativo che fa della rapidità di adattamento alle nuove logiche dell’economia una fonte di vantaggi competitivi, oltre che, per alcuni versi, di sopravvivenza operativa. Il termine “globalizzazione” inizia a diffondersi nell’ambito economico agli inizi degli anni ’70 e diventa di uso corrente solo negli anni ’90. Oggi non esiste una definizione vera e propria di globalizzazione. Gli autori nel corso del tempo ne hanno date diverse: ad esempio, intendendo per essa, la tendenza dell'economia ad assumere sempre maggiormente una dimensione che si spinge oltre i confini del proprio territorio nazionale, è stato infatti proprio con la globalizzazione che l’ambiente di riferimento delle aziende ha cominciato ad allargarsi, proponendo così nuove opportunità e nuovi rischi. Questa nuova frontiera si realizza mediante lo svolgimento dell'attività economica tra soggetti appartenenti a paesi diversi, attraverso un processo d’integrazione nelle diverse aree mondiali volto a ridurre o ad eliminare quelli che sono gli ostacoli che si frappongono alla libera circolazione di beni e servizi1.Secondo Jadish Bhgwati, grande sostenitore del fenomeno, “la globalizzazione consiste nell’integrazione di economie nazionali nell’economia internazionale attraverso gli scambi commerciali, gli investimenti diretti esteri, i flussi di capitale a breve termine, i flussi internazionali di lavoratori e di persone in genere, e i flussi di tecnologia, ma ha molte dimensioni di cui non si tiene abbastanza conto”2. Un altro economista, Andrea

Ricci, ritiene che la globalizzazione sia un termine usato forse in maniera troppo generica, che indica “le trasformazioni della società contemporanea (…), un processo di crescente interdipendenza e interconnessione tra spazi e dimensioni differenti, in modo

1 L’EU nel volume “La globalizzazione al servizio di tutti: l’EU e il commercio internazionale, vede la globalizzazione come la circolazione di beni a livello mondiale, di merci, servizi, capitali, tecnologie e persone, attraverso l’apertura reciproca e l’intensificarsi dei contratti tra i vari paesi.

2 Jagdish Bhagwati Professor of Economics Columbia University, In Defense of Globalization, Oxford University Press, 2004

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tale che ciascun evento che accade in uno di essi produce un effetto immediato e diretto sull’intero insieme dello spazio globale. Applicato alla realtà economica e sociale (…), indica il deperimento delle barriere tra i differenti spazi nazionali e tra le diverse dimensioni della vita collettiva”3. Altra definizione interessante è quella data

dall’OCSE4: processo attraverso cui i mercati e i prodotti dei diversi paesi diventano

sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica dello scambio di beni e servizi, e attraverso i movimenti di capitali e tecnologie

Il sistema economico mondiale, a seguito di decisioni politiche del secondo dopoguerra e alla diffusione di nuove tecnologie, è andato via via modificando il proprio assetto sotto la spinta di un dinamismo senza precedenti, che ha portato l’indice del commercio mondiale a crescere molto più velocemente di quello della produzione, e che ha creato tra le nazioni un’indipendenza tanto stretta da far parlare di economia mondiale. Un’integrazione che viene definita” globalizzazione dei mercati” proprio perché ha riguardato tutti i principali aspetti dell’economia, ovvero finanza, commercio, produzione, lavoro e consumi, finendo col creare un nuovo ambiente in cui le imprese hanno dovuto imparare a muoversi, elaborando strategie sempre più efficaci per contrastare una concorrenza dalle dimensioni globali. Infatti, l’apertura verso mercati esteri però obbliga l’impresa a confrontarsi con nuovi competitors già insediati nel proprio territorio nazionale, portando quindi ad un’accentuazione del processo concorrenziale. Oltre che con i nuovi concorrenti l’impresa deve anche confrontarsi con nuovi clienti e regole di competizione diverse da quelle conosciute. La globalizzazione non è un fenomeno che ha a che fare solo con economia, finanza, commercio e sviluppo, ma coinvolge anche fattori culturali e politici. Infatti, altra definizione, molto citata è quella di Giddens, detta anche dell’«azione a distanza»: la globalizzazione «è l’intensificazione su scala mondiale delle relazioni sociali che legano località distanti in modo tale che eventi locali sono forgiati da eventi che si verificano molto lontano e viceversa». Tale definizione riassume in modo efficace un aspetto importantissimo della globalizzazione: la distanza tra i Paesi viene percepita in modo diverso, i confini tra i Paesi vengono “ridisegnati”.

3 Andrea Ricci, Dopo il liberismo. Proposte per una politica economica di sinistra, Fazi Editore, Roma 2004

4 Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è un'organizzazione

internazionale di studi economici che concentra la sua azione verso obiettivi di integrazione e cooperazione economica e finanziaria tra i maggiori Paesi del cosiddetto Occidente. L'OCSE conta 35 paesi membri e ha sede a Parigi.

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Numerose teorie economiche hanno indagato sui processi d’internazionalizzazione, concentrandosi specialmente sulle ragioni che portano le imprese ad effettuare investimenti all’estero e su quali siano le motivazioni che del commercio tra i paesi. Una simile realtà di integrazione e interdipendenza, sarebbe stata difficilmente impiegabile prima del 1945, quando il concetto di economia globale non esisteva, le politiche economiche erano erano gestite a livello nazionale e la mappa geografica degli scambi coincideva con i confini politici dei vari Stati. Oggi lo sviluppo economico di una regione si presenta come l’esito di un gioco cui prendono parte diversi attori, politici ed economici, ognuno con un peso e con competenze diversi ma che sempre più spesso orientano nella stessa direzione le loro azioni di lungo periodo. Tra questi svolgono un ruolo essenziale gli Stati, con i loro sistemi giuridici e con le loro relazioni internazionali, fortemente verticalizzate, tanto in termini demografico-territoriali che economico-politici. Accanto all’azione statuale, le prime imprese che hanno dovuto affrontare il mercato globale fin dai suoi albori intentando un processo di internazionalizzazione sono state le Imprese Multinazionali (MNCs) che hanno sempre dovuto cercare di adattare il loro profilo e le loro strategie alla cultura del singolo paese a volte con degli approcci molto drastici ed a volte con risultati disastrosi. L’attitudine di molti paesi in via di sviluppo nei confronti delle Imprese Multinazionali (MNCs – Multinational Companies) e degli investimenti stranieri diretti (FDI – Foreign Direct Investment) è cambiata fortemente dal 1970. La connessione tra le economie mondiali dei paesi ha creato una maggiore interdipendenza caratterizzata da un aumento sostanziale dei FDI. Sono molte le motivazioni per le quali i capitali si muovono tra i diversi paesi sotto forma di investimenti. Tra queste si possono menzionare l’abbattimento delle barriere di mercato, le forti oscillazioni delle monete, il mercato delle commodities, etc. Inoltre negli ultimi anni si è sviluppata una competizione da parte dei paesi in via di sviluppo per attrarre gli investimenti stranieri diretti (FDI). Al giorno d’oggi sono diversi gli strumenti che permettono ai governi di gestire le relazioni con le MNCs che fanno investimenti nel paese. Questi strumenti sono più raffinati ed includono il livello di tassazione e il raggiungimento di alcuni obiettivi come quelli del livello di impiego da parte delle MNCs. Al giorno d’oggi si assiste ad un approccio al mercato internazionale anche delle piccole e medie imprese (PMI), che hanno l’opportunità o la necessità di dover approcciare mercati stranieri internazionalizzandosi e affrontando non senza difficoltà il percorso già intrapreso delle Imprese Multinazionali (MNCs).

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Ovviamente i tempi sono cambiati, lo stato avanzato di globalizzazione del mercato e l’avvento di strumenti di comunicazione come internet permettono anche alle Piccole e Medie Imprese (PMI) di costruire una strategia di mercato riscuotendo successo anche nelle nicchie di mercato più lontane e sconosciute. Internet si è reso protagonista di questo trend all’internazionalizzazione riducendo le barriere all’entrata del mercato, i costi di produzione e incrementando la produttività. Alla luce di tutti questi cambiamenti anche le PMI sono state costrette a dotarsi di strategie di management internazionale approcciando in maniera multiculturale i mercati stranieri.

1.1.2 Gli ostacoli e i rischi della globalizzazione

La globalizzazione e la sua attuazione, presentano non pochi ostacoli, infatti non sempre è possibile attuare il trasferimento di programmi e strategie globali su specifici mercati, poiché entrano in gioco circostanze e fattori quali il livello di sviluppo, il sistema economico e l’orientamento politico di ciascun paese, che possono tradursi in difficoltà e rischi per l’impresa. Una prima difficoltà è riconducibile alle barriere allo scambio, il cui abbattimento non è ancora stato realizzato in numerosi governi, infatti molti paesi in via di sviluppo preferiscono concentrare le proprie risorse sull’espansione del mercato interno, nella convinzione che la politica migliore sia quella della chiusura e del protezionismo. Le variazioni dei cambi inoltre, possono modificare profondamente il quadro della competitività oltre a rendere difficile il reperimento dei mezzi finanziari di cui, soprattutto le imprese che producono attrezzature ed impianti, necessitano per far fronte alle frequenti dilazioni di pagamento richieste dalla clientela. Inoltre, le differenze nella legislazione fiscale e la carenza di informazioni riguardanti le vere condizioni economiche e politiche dei mercati esteri, soprattutto dei mercati in via di sviluppo, incrementano le difficoltà per l’internazionalizzazione. Inoltre, l’impresa deve fare i conti con una serie di rischi derivanti dalla globalizzazione, tra i quali: il rischio

economico, è il rischio legato all’andamento della domanda sui mercati internazionali,

alcuni dei quali –specialmente quelli caratterizzati da maggiori tassi di crescita e quindi più appetibili – sono caratterizzati da un alto grado di incertezza e di volatilità, che possono portare a improvvisi e importanti eventi di contrazione della domanda, quindi l’impresa deve conoscere e saper affrontare da un lato, la relativa stabilità dei paesi avanzati, dall’altro, la maggiore incertezza dei paesi in via di sviluppo; il rischio

politico, poiché l’orientamento dei governi determina il successo o l’insuccesso del

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paese straniero, se nei paesi occidentali la possibilità di intervento dei governi nell’economia è ormai estremamente limitato, non altrettanto si può dire per la maggioranza dei paesi emergenti (Est europeo, America Latina, Cina, ecc..) nei quali manovre protezionistiche improvvise, innalzamento dei dazi, svalutazioni della moneta, sono tutt’altro che infrequenti. Quindi nei paesi occidentali raramente avvengono grandi rivolgimenti come nazionalizzazioni, chiusa di mercati o blocco dei pagamenti, mentre nei mercati emergenti sono molto frequenti le crisi improvvise e le politiche protezionistiche; il rischio operativo o rischio d’impresa, oltre i normali rischi che un’impresa corre, come la scelta del prodotto e del prezzo, a livello internazionale se ne aggiungono altri che hanno un peso rilevante, distinguiamo tra gli altri, la contraffazione del marchio, pirateria nei software e legislazioni che cambiano di continuo, a ciò si aggiunge il fatto che l’impresa conosce poco i clienti, le tradizioni e i modi di competere dei mercati stranieri; rischio monetario, dal momento che il prezzo e la moneta in cui dovrà avvenire di pagamento sono stabiliti al momento del contratto, in presenza di delazioni di pagamento significative, l’azienda si troverà esposta al rischio di riduzione di valore della transazione dovuto alla svalutazione della moneta estera rispetto alla moneta nazionale. Accanto a questi aspetti che sono di natura puramente economica, dobbiamo considerane altri di origine etica e legati a questioni del vivere civile quali: Disuguaglianza e povertà: È opinione comune che i benefici della crescita non si sono distribuiti in maniera eguale tra il Nord e il Sud del mondo, andando ad accentuare il divario da sempre esistente, considerando anche il peso del debito estero che grava sui Paesi del Terzo mondo e che può cancellare gli effetti indotti dal progresso. Alla luce di questi fatti c’è chi sostiene che il processo di globalizzazione economica sia fonte di crescenti disuguaglianze e di povertà; in realtà le ricerche condotte ad oggi non sono in grado di dimostrare l’esistenza di una relazione univoca fra i processi di globalizzazione e andamento delle disuguaglianze. Conseguenze

sull’occupazione: secondo alcuni, la globalizzazione sarebbe responsabile

dell’incremento della disoccupazione nei paesi industrializzati, a causa delle perdite di posti di lavoro legate ai prodotti a buon mercato provenienti dai paesi a basso costo e delle strategie di delocalizzazione poste in essere dalle imprese alla ricerca di bassi salari. Le preoccupazioni maggiori riguardano gli investimenti diretti esteri, per il timore che le imprese occidentali istituiscano unità produttive all’estero verso le quali delocalizzare posti di lavoro; a questo riguardo gli studi a oggi condotti mostrano che l’aumento della mobilità dei capitali, compresa la delocalizzazione della produzione nei

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paesi a bassi salari e l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo verso le economie avanzate, hanno avuto effetti complessivamente modesti sui mercati del lavoro dei paesi industrializzati. Normativa in tema di lavoro: In un contesto di accresciuta concorrenza internazionale, sono molti gli esempi di sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro di carcerati, dell’ostruzione delle libertà sindacali piuttosto che di alcuni diritti di negoziati collettivi tipici di alcuni paesi in via di sviluppo e funzionali alla realizzazione di prodotti da vendere sui mercati internazionali a prezzi decisamente concorrenziali. Sinceramente, sarebbe fuori luogo affermare che le imprese internazionalizzate abbiano a cuore diritti e libertà civili, tuttavia si potrebbe ipotizzare che l’inesistenza o la violazione delle libertà civili siano indice di “altro”, come per esempio di rischi economico-politici. I paesi in cui i diritti civili vengono sistematicamente violati, sono anche quei paesi che presentano maggiori rischi per gli investitori. Se è vero che gli investitori globali tendono a “premiare” quei paesi in cui è in atto un processo di democratizzazione, allora la globalizzazione economica può avere come effetto inatteso l’espansione e il rafforzamento di istituzioni democratiche. Tutela ambientale: In questo caso la preoccupazione riguarda le attività economiche svolte nei paesi in via di sviluppo, ai quali viene addebitato l’utilizzo di procedimenti e di sistemi produttivi tali da indurre preoccupanti fenomeni di inquinamento.

1.1.3 Le PMI e i mercati globalizzati

Lo sviluppo della globalizzazione ha posto il problema della competitività o addirittura della sopravvivenza delle PMI, soprattutto considerando che le economie di scala e la ricerca tecnologica si sono rivelati fattori competitivi di primaria importanza e che questi elementi sono scarsamente presenti nelle piccole e medie imprese. Il sistema industriale italiano è stato da sempre caratterizzato da una diffusa presenza d’imprese di piccole e medie dimensioni.

Esse, seppur con alcuni limiti, come l’assenza di un’adeguata struttura manageriale, sono parte del nostro patrimonio “genetico”, culturale ed economico. Questo è un fatto inconfutabile come del resto lo è la globalizzazione dei mercati, e quindi delle dinamiche competitive, all’interno delle quali esse si trovano a dover operare. Non si tratta più di capire se e come sfruttare possibili opportunità che il mercato sovranazionale concede, bensì bisogna che le imprese di dimensioni minori capiscano che esse sono parte integrante di questa recente trasformazione che ha portato i mercati a diventare globalizzati. Questo non vuole né comportare la perdita di quelle

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caratteristiche congenite al fattore strutturale della piccola impresa, così care soprattutto ai clienti nazionali, né tantomeno comportare la mancanza di un futuro per loro. La maggiore flessibilità, e quindi adattabilità, la cura continua del cliente, la creatività, la ricerca dell’eccellenza, del gusto, dell’eleganza, dell’estro, elementi che tradizionalmente contraddistinguono le imprese italiane e i principali settori del tessuto industriale italiano, la moda, il design, le specialità alimentari, il lusso, non andrebbero perse ma completati ed integrati da conoscenze e approcci all’analisi dei mercati con un più ampio respiro internazionale. La globalizzazione non ha semplicemente contribuito a rendere omogenee le preferenze di consumatori di aree diverse, e quindi a rendere l’offerta maggiormente standardizzata, ma soprattutto ha ampliato i confini commerciali e produttivi del mercato in precedenza confinati alla dimensione nazionale e ha reso obsoleto il Paese di origine come punto di riferimento per l’evoluzione economica e competitiva delle PMI.

Essa è il frutto di quei cambiamenti, anche epocali, che hanno reso le imprese “cittadine del mondo”5. La crescita economica di Paesi marginali da un punto di vista economico

industriale, la diffusione e l’evoluzione delle tecnologie, specialmente quelle relative ai trasporti e alle comunicazioni, la lenta ma costante integrazione economico-politica degli assetti istituzionali e geopolitici mondiali, la liberalizzazione della circolazione delle risorse e dei flussi finanziari, la convergenza dei modelli culturali e comportamentali delle persone, hanno dato lentamente ma inesorabilmente forma al fenomeno della globalizzazione, e ciò “ha permesso per la prima volta nella storia dell’umanità di trovarsi di fronte ad un’economia globale , in cui tutto può essere prodotto e venduto in ogni momento e in ogni parte del pianeta”6. Non a caso si assiste,

infatti, sempre con maggiore frequenza alla comparsa di imprese che nascono globalizzate e che, per questa loro naturale propensione, acquisiscono vantaggi competitivi più rilevanti rispetto a quelle legate eccessivamente alle loro radici territoriali locali. L’individuazione delle piccole e medio imprese non è sempre di agevole comprensione, in quanto le differenti esigenze definitorie, ricollegabili ad aspetti di politica industriale, di sostegno e/o di facilitazione industriale, di politica del lavoro, di disparità settoriali in cui operano le imprese, potrebbero indurre a confusione ed esistono, infatti, settori in cui un numero di dipendenti pari a 300 potrebbe attribuire

5 CEDROLA E., Il marketing internazionale per le piccole e medie imprese, McGraw-Hill, Milano, 2005 6 PICCALUGA A., Mercato e competizione globale, Guerini e Associati, Milano, 1997

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all’impresa la natura di medio piccola dimensione, ed altri in cui, viceversa, lo stesso numero di dipendenti individuerebbe un’impresa di grande dimensione.

Per sviluppare natura internazionale, la piccola impresa deve riuscire ad attivare, partendo da una forte e decisa autocritica, quella cultura aziendale capace di affrontare e gestire i continui cambiamenti a cui essa viene continuamente sottoposta dalla globalizzazione dei mercati. Così facendo essa riuscirebbe non solo a sopravvivere operativamente, ma anche a comprendere quegli strumenti e a fare proprie quelle buone pratiche che le permetterebbero di operare con successo nella sua nuova “casa”: i mercati internazionali. Senza alcun dubbio questo sforzo dovrà essere accompagnato da un Sistema Paese che dovrebbe essere più incisivo nell’aiutare le piccole imprese in questa loro evoluzione, come del resto accade in altri paesi occidentali, in primis quelli anglosassoni.

1.2 Il concetto di internazionalizzazione 1.2.1 definizione

Il concetto di internazionalizzazione può essere definito come l'insieme dei processi volti a garantire all'impresa la possibilità di presenza o di partecipazione attiva a livello internazionale. L’internazionalizzazione costituisce un processo articolato in più passaggi giustificati da un insieme di motivazioni che intervengono in diversi momenti temporali e con valenza differente (Caroli, 2011, p. 49). Si tratta, cioè, di un percorso (pathway) fatto di diverse fasi e di diversi livelli durante il quale un’impresa segue o mostra un certo comportamento (Kuivalainen et al., 2012, p. 450) dettato da cause interne ed esterne all’impresa. A tal proposito, Rispoli (2002, p.343) afferma che “per internazionalizzazione delle imprese può intendersi un processo che, a partire da un rapporto relativamente semplice ma sistematico delle imprese con i mercati esteri (come quello generato da flussi esportativi non occasionali), porta verso forme di investimento all’estero e comunque verso lo sviluppo di relazioni competitive, transattive e collaborative con altre aziende di produzione di servizi, pubbliche e private, in diversi Paesi”. In altre parole, l’internazionalizzazione rappresenta un percorso evolutivo seguito dall’impresa che, con tempistiche differenti, diventa sempre più attore di un’economia globale. Tuttavia, nel tempo, il processo di internazionalizzazione è stato declinato in modo differente in base alla concezione e all’andamento delle relazioni economiche internazionali.

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L’internazionalizzazione è un fenomeno dalle origini molto antiche ed è oggi un aspetto imprescindibile nella strategia e nella gestione delle nostre imprese. Infatti, Welch e Loustarinen (1988) definiscono l’internazionalizzazione come “the process of increasing involvement in international operations” nel senso di un’evoluzione incrementale ed ordinata che vede l’impresa gradualmente coinvolta in Paesi diversi da quelli di origine. Più tardi, Calof e Beamish (1995, p.116) la presentano come "the process of adapting firms' operations (strategy, structure, resource, etc.) to international environments" eliminando il concetto di “direzione” per mettere, invece, in evidenza quello di “adattamento” dell’impresa all’ambiente internazionale. Si tratta di una definizione più realistica ed ampia alla luce del fatto che l’internazionalizzazione non sempre identifica un percorso unidirezionale come suggeriscono Welch e Loustarinen: al contrario le imprese possono de-internazionalizzare riducendo il proprio commitment a livello internazionale (Chetty et Campbell-Hunt, 2003). In anni più recenti, Mathews (2006) considera il fenomeno come “process of the firm’s becoming integrated in international economic activities” ponendo così l’accento sull’“integrazione” in una prospettiva sempre più network oriented.

In tal caso, l’impresa si identifica nel nodo di una rete di relazioni che si fanno sempre più numerose e complesse all’aumentare dei rapporti intrattenuti con attori dislocati al di fuori dei confini nazionali.

Rispetto al passato, le aziende devono ricercare proprio nei mercati esteri nuove opportunità di crescita, mentre sempre più spesso, le caratteristiche dei mercati sovranazionali influenzano profondamente anche la configurazione delle attività domestiche. L’internazionalizzazione rappresenta una scelta strategica quasi obbligata per le imprese che vogliono recitare un ruolo da protagonista e quindi crescere, migliorare ed affermarsi nei nuovi scenari competitivi, caratterizzati dalla globalizzazione e dal conseguente progressivo aumento della concorrenza, che pone l’azienda in condizione di affrontare giorno dopo giorno sfide sempre più stimolanti e complesse (Calvelli 1998). La strategia di espansione all’estero delle imprese è la diretta conseguenza della scelta di indirizzi di crescita non imposti da situazioni contingenti, ma dall’esigenza di mettere in atto strategie più aggressive. La presenza sui mercati esteri è attualmente avvertita da imprenditori e manager come un’opportunità da cogliere per poter formulare quelle strategie che permettano di conservare ed in breve tempo aumentare, la quota di mercato nei business markets esteri.

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Si può inoltre affermare che l’internazionalizzazione è soltanto uno degli effetti prodotti dall’impulso al cambiamento delle imprese; la possibilità di catturare nuova domanda (domanda potenziale) e di mantenere quella attuale, determina inevitabilmente la necessità di investire risorse finanziarie da destinare alle attività produttive da realizzare all’estero. Portare la propria azienda su uno o più mercati esteri è un processo di complessità paragonabile all’inizio di una nuova attività d’impresa; proprio per la sua complessità e per l’impatto che ha sull’intera struttura aziendale, senza un’attenta e adeguata attività di pianificazione, il progetto di internazionalizzazione è destinato a fallire. La pianificazione strategica è lo strumento utilizzato per porre concretamente in essere l’atteggiamento proattivo e per razionalizzare e rendere sistematico l’approccio dell’impresa nei confronti dei mercati internazionali. Bisogna prestare attenzione però, “quando si parla di internazionalizzazione si intende in primo luogo l’ingresso (con modalità diverse) nei mercati esteri al fine di cogliere le opportunità che il paese presenta sotto il profilo delle vendite. L’ingresso in un paese estero finalizzato (esclusivamente) a sfruttarne i vantaggi di costo non rientra a pieno titolo nel significato di internazionalizzazione, ma di delocalizzazione” (Gubitta, 2013). Tale concetto è venuto alla ribalta soprattutto negli ultimi anni, alla luce dei percorsi intrapresi dalle piccole e medie imprese del nostro territorio con la finalità di superare la crisi che ha colpito l’economia del nostro paese.

Pur avendo come denominatore comune quello di voler fornire uno studio e un'analisi dei processi di internazionalizzazione, indagandone le cause e le modalità di sviluppo, i contributi che sono stati offerti nel corso degli anni sono stati davvero numerosi e disparati, rendendo complesso affrontare tale argomento secondo un’unica prospettiva. Infatti, attualmente non esiste un’unica teoria dell’internazionalizzazione, bensì un insieme di teorie e di modelli che, di volta in volta, hanno cercato di analizzare e spiegare alcuni fenomeni tratti dall’esperienza reale che non si riuscivano a prevedere o ad interpretare negli schemi teorici precedenti. In questo modo, quindi, disponiamo solo di un insieme di teorie separate (in cui spesso una nuova teoria è in realtà solo l’estensione della teoria precedente) che si sono dimostrate incomplete, adatte ad analizzare aspetti parziali dei fenomeni ma non a comprenderli nella loro globalità.

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1.2.2 Le origini del fenomeno: le basi teoriche

Il concetto di internazionalizzazione sorge per la prima volta a seguito degli studi di Stephen Hymer (1960), al quale viene dato il merito di aver definito tale concetto contestualizzandolo all'interno della sfera imprenditoriale. Infatti, come indicato da Dematté (2008), fino alla fine degli anni Cinquanta, le teorie economiche prevalenti facevano riferimento ancora ai modelli neoclassici, analizzando il fenomeno in modo da ricondurre l’internazionalizzazione non all’attività d’impresa, ma ai flussi internazionali di beni e di capitali. Alla luce di tale prospettiva, perciò, il fenomeno può essere analizzato sulla base di due diversi profili teorici: le teorie del commercio internazionale, correlate al movimento dei beni, e le teorie della bilancia dei pagamenti, legate al movimento dei capitali.

Nell'ambito delle teorie relative all'analisi del commercio internazionale, le più importanti sono la teoria del vantaggio assoluto di Adam Smith (1776), secondo la quale è più vantaggioso per una nazione incentivare, e quindi esportare, le produzioni in cui è più efficiente (costo di produzione minore), importando solo quei beni che non è in grado di produrre in modo efficiente. Le teorie della bilancia dei pagamenti, invece, associano gli investimenti diretti esteri a dei flussi di capitale tra i diversi paesi, spiegando tali movimenti alla luce delle differenze di rendimento di capitale. Sebbene tali teorie costituissero un ottimo strumento per comprendere l'andamento dei flussi commerciali a livello macroeconomico, nel corso del tempo, per via delle sottostanti assunzioni di perfezione del mercato, sono risultate sempre più inadatte a spiegare tutti quei quesiti direttamente attinenti alla sfera imprenditoriale.

Nel corso di quegli anni, infatti, intervennero due grossi cambiamenti: da un lato certe imprese, decidendo di espandersi oltre confine, si configurarono per la prima volta come multinazionali e dall'altro iniziarono a circolare grossi flussi di capitale tra le diverse nazioni. Queste novità portarono alcuni studiosi a riconoscere l’esistenza di imperfezioni di mercato, mettendo in discussione le teorie neoclassiche precedentemente formulate e ripensando le assunzioni alla base degli studi sui processi di internazionalizzazione.

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1.2.2.1 La teoria delle imperfezioni del mercato di Hymer

Nell'ambito di tale scenario, nel 1960 l’economista Stephen Hymer7, con il suo lavoro

giunse alla conclusione che il fenomeno dell'internazionalizzazione non dovesse essere semplicemente ricondotto ai flussi internazionali di beni e capitali, ma che “gli investimenti diretti esteri” fossero “un insieme complesso e organizzato di transazioni che comprendono il trasferimento di un insieme risorse comprendente know-how tecnologico, routine relative all’organizzazione aziendale e capacità imprenditoriali” da un Paese all’altro e, come tali, riconducibili più propriamente ad attività d’impresa” (Dematté, 2008). Hymer sosteneva che il motivo che spinge una impresa ad investire all’estero fosse l’aspettativa di ottenere una rendita economica sulla totalità delle risorse impiegate, anche attraverso il modo in cui queste venivano organizzate. Sulla base di tali considerazioni Hymer prevede che inizialmente l’impresa cresca a livello nazionale, aumentando gradualmente i propri profitti. Tuttavia, una volta raggiunto il livello di saturazione del mercato domestico, l’unica strada a disposizione dell’impresa risulta essere quella di utilizzare i profitti ottenuti per avviare un processo di espansione. L’ultima e forse la più importante delle sue intuizioni riguardava un’altra caratteristica fondamentale degli investimenti diretti, ossia il fatto che questi non comportavano alcun cambio nella proprietà dei diritti e delle risorse trasferite, al contrario degli investimenti di portafoglio, che avvenivano attraverso transazioni di mercato. È importante sottolineare che Hymer era interessato agli investimenti diretti perché li considerava uno strumento di fondamentale importanza, attraverso il quale le società potevano controllare l’uso dei diritti di proprietà trasferiti alle loro sussidiarie estere. Secondo lui però, per utilizzare questo strumento e possedere attività internazionali in grado di produrre valore aggiunto, le aziende investitrici dovevano possedere qualche tipo di vantaggio (finanziario, manageriale o di marketing) che permettesse loro di superare la situazione di handicap nei confronti delle concorrenti locali nello stato scelto per l’insediamento produttivo.

A tal proposito, Hymer distingue i principali svantaggi e vantaggi dettati dalla scelta di internazionalizzare l'attività imprenditoriale. Per ciò che concerne gli svantaggi, Hymer estese la teoria di Bain (1956), egli sostiene che l'impresa che si espande all'estero è soggetta a tutti gli svantaggi connessi al solo fatto di essere un ente non nazionale (liability of foreigness), vale a dire le limitazioni legate alla lingua, all'economia, la

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cultura, il sistema sociale e politico. Tutte queste barriere possono essere assimilate a costi fissi, nel senso che una volta sostenute non si ripresentano più.

Dall'altro lato, invece, riferendosi ai vantaggi, Hymer distingue i vantaggi di costo (controllo delle tecniche di produzione; imperfezioni dei mercati dei fattori di produzione; condizioni di favore sui mercati finanziari che permettono l'ottenimento di tassi di interesse inferiori) e i vantaggi di differenziazione (preferenza dei consumatori nei confronti di specifici marchi e della reputazione di particolari imprese; controllo di design di prodotto superiori, attraverso brevetti; proprietà o controllo contrattuale di punti strategici). Generalmente un'impresa gode di un minor vantaggio all'estero rispetto al mercato domestico, dal momento che va incontro a dei limiti che i concorrenti locali non devono fronteggiare. Dall'altro canto, però, questi ultimi non dispongono delle stesse risorse e competenze dell’impresa straniera, col risultato che, qualora i vantaggi più che compensino le limitazioni dettate dalla liability of foreigness, si crea un incentivo all'internazionalizzazione. L'impresa in possesso di tali vantaggi e decisa ad espandersi può quindi alternativamente decidere se esportare i prodotti e servizi che derivano dal possesso di questi vantaggi, concederli in licenza o sfruttarli attraverso gli investimenti diretti esteri (queste ultime due modalità vengono adottate soprattutto in presenza di elevati costi di trasporto o di barriere tariffarie particolarmente forti). Una delle critiche principali a tale modello è data dal fatto che la decisione di divenire internazionali non era ricondotta all’attività d’impresa nello specifico, bensì a semplici flussi di beni e capitali totalmente indipendenti da questa. È importante considerare che il contributo di Hymer ha rappresentato un punto di svolta fondamentale nello studio degli investimenti diretti con l'estero perché ha gettato le fondamenta delle imprese multinazionali operando un incisivo cambiamento di prospettiva rispetto alle teorie dominanti.

1.2.2.2 Il ciclo di vita internazionale del prodotto di Vernon

La seconda teoria oligopolistica è quella elaborata dall’economista statunitense Raynond Vernon nel 1966 e prende il nome di teoria del ciclo di vita del prodotto8 internazionale del prodotto.

Basandosi sul modello del divario tecnologico (Posner, 19619) e sul modello sull'importanza della domanda interna (Linder, 196110).

8 Vernon R.,International investment and international trade in the product cycle,Quarterly journal of Economics,1966

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L’idea di fondo di tale teoria è che esista una stretta relazione tra ciclo di vita del prodotto, caratteristiche dei paesi e l’espansione internazionale delle imprese. Vernon afferma che le imprese dei paesi maggiormente sviluppati, pur avendo uguali probabilità di accedere alla conoscenza scientifica, non hanno altrettanto uguali possibilità che tali principi vengano applicati allo sviluppo di nuovi prodotti. Infatti, secondo Vernon, le imprese localizzate in territori caratterizzati da un mercato di sbocco relativamente avanzato, godono di una sorta di vantaggio innovativo che permette di anticipare e soddisfare la domanda di altri paesi. Sulla base di tali considerazioni, Vernon espone un modello articolato in quattro fasi, che scandiscono il sentiero di introduzione e sviluppo di un prodotto tecnologicamente nuovo sul mercato. Tali fasi sono:

1) La fase di ricerca ed introduzione; durante questa fase il prodotto risulta essere ancora non standardizzato, viene commercializzato sul mercato locale e l'impresa dovrà porsi come obiettivo il raggiungimento della capacità di essere sufficientemente flessibile e di saper comunicare sul mercato la qualità e il carattere innovativo del proprio prodotto, di sperimentare vari modelli e materie prime e di apprendere, che non di ottimizzare.

2) La fase di sviluppo; nel corso di questa fase il prodotto comincia a diffondersi all'interno del mercato domestico e, contestualmente, si afferma uno standard produttivo. La domanda cresce rapidamente. Diminuisce il bisogno di flessibilità. Si ricercano e si affermano economie di scala. La diffusione su larga scala del prodotto consente una diminuzione del costo produttivo e, conseguentemente, si profila la possibilità di avviare un processo di espansione sui mercati esteri.

L'internazionalizzazione si realizza inizialmente mediante esportazioni in teoria fino a che, supponendo che le capacità produttive non siano pienamente utilizzate per l’offerta domestica e la somma dei costi di trasporto più i costi marginali di produzione siano inferiori al costo medio di produzione nei mercati ove si esporta.

9 il quale sostiene che i vantaggi comparati dipendono da un vantaggio monopolistico di cui gode il paese innovatore, il quale è in grado di esportare nuovi prodotti, fino a quando gli altri paesi non abbiano imparato a produrli

10 La teoria di Linder afferma che il commercio potenziale (inteso come insieme di esportazioni potenziali ed importazioni potenziali) di un paese dipende dalla sua domanda interna. Linder afferma che quanto più simili sono le strutture della domanda dei due paesi tanto più intenso è il commercio potenziale che si sviluppa tra di essi. Il commercio effettivo sarà minore o uguale rispetto al commercio potenziale a seconda che esistano o meno delle forze frenanti, quale il fattore distanza, tariffe o di altro tipo.

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Quando diventano superiori, diventa conveniente investire all'estero. Se le capacità produttive domestiche sono pienamente occupate, il confronto è tra costi medi più costi di trasporto per la produzione interna e costi medi per la produzione estera, in quanto anche nel paese d’origine per esportare sarebbe necessario costruire un nuovo impianto. La convenienza o meno a moltiplicare i siti produttivi dipende in buona misura dall'importanza dell'economia di scala (in rapporto all'ampiezza del mercato). Anche la forza della protezione brevettuale per il first comer entra in gioco. Se è debole e c'è minaccia di entrata da parte di investitori esteri, ciò può spingere a varcare i confini con investimenti diretti. Va infine ricordato che quanto più la tecnologia è soggetta a vantaggi cumulativi ed a curve di apprendimento, tanto più il vantaggio dell’impresa innovativa si accresce e si perpetua relativamente ai potenziali concorrenti ed imitatori, la cui entrata conviene cercare di ritardare.

3) Nella terza fase (maturità) le vendite sul mercato interno si stabilizzano, mentre le dimensioni dei mercati esteri continuano a crescere fino a permettere produzioni in loco efficienti, sfruttando le economie di scala. I costi diventano di primaria importanza e cresce l'intensità capitalistica dei processi. Inoltre i processi imitativi si rafforzano anche nei paesi esteri, rendendo possibile l’ingresso nel settore di produttori locali. In complesso, crescono quindi in modo significativo gli incentivi e le ragioni per investire all'estero. L’impresa innovatrice, per mantenere la propria quota di mercato e difendersi dai potenziali entranti, investirà nelle fasi a valle della filiera (commercializzazione, assistenza e manutenzione) e sostituirà le esportazioni con la produzione nei mercati esteri, trasferendovi le proprie tecnologie di processo. Poiché tuttavia le nuove entrate di produttori locali avvengono comunque, si creano flussi di esportazioni anche dai paesi second comer verso altri paesi terzi.

4) La fase di declino; nel corso di questa fase il prodotto non risulta più commerciabile in maniera profittevole poiché la domanda ha esaurito la crescita ed è ovunque stabile o in calo, vi è un elevato grado di competizione all'interno del mercato e i processi imitativi sono ormai completi. L'immediata conseguenza di tale situazione è che, per poter contenere ulteriormente i costi dei fattori produttivi, l’impresa dovrà necessariamente delocalizzare le proprie unità produttive verso i paesi in via di sviluppo ove i fattori produttivi hanno costo inferiore.

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Pertanto, se nelle prime tre fasi il target è rappresentato da paesi caratterizzati da modelli di consumo analoghi a quelli del paese di origine dell’impresa multinazionale, ora l’IDE si rivolge prevalentemente verso paesi poco sviluppati e/o in via di sviluppo. In questa fase il paese first comer diventa importatore netto; in alternativa, può accadere che l’impresa abbandoni del tutto il mercato del prodotto in questione. Quello del ciclo di vita del prodotto è stato per lungo tempo il modello interpretativo degli investimenti diretti esteri più noto e generalmente accettato, analizzando congiuntamente l'evoluzione temporale dei flussi di commercio e investimento internazionale. Ma tale modello presenta anche dei limiti. Per ciò che riguarda le critiche mosse nei confronti di tale modello, il limite più importante riguarda il fatto che Vernon nell'elaborare la propria teoria si sia concentrato completamente sul prodotto e sulle sue caratteristiche, senza dare sufficiente spazio all'impresa, escludendo dall'analisi il fenomeno delle imprese multi product; di tenere in considerazione solo l'innovazione tecnologica di tipo demand-pull e non l'impatto dell'innovazione tecnology-push; il privilegiare le innovazioni di prodotto trascurando quelle di processo. Tali limiti teorici hanno portato ad una capacità interpretativa limitata al contesto storico di riferimento e ad una specifica tipologia di internazionalizzazione.

1.2.2.3 L’approccio eclettico di Dunning

L’approccio eclettico11 proposto da Dunning nel 1981 suggerisce che le strategie

utilizzate dalle imprese per espandersi all’estero dipenderanno molto dai vantaggi in loro possesso. Queste infatti differiscono per sistema organizzativo, capacità innovativa e attitudine al rischio, quindi presentano strategie di espansione oltre confine fortemente diversificate. È indubbiamente una teoria che descrive in maniera molto ampia i processi di internazionalizzazione, ma può essere considerata ancora oggi un valido strumento per spiegare perché le imprese decidano di espandersi nei mercati esteri. A tal proposito Dunning identifica tre tipologie di vantaggio che spingono le imprese a investire al di fuori del mercato domestico:

 Ownership advantage, ossia il vantaggio di proprietà; tale vantaggio è generalmente legato alla possibilità per l'impresa di disporre di risorse e competenze rispetto alle imprese di altre nazionalità nel servire particolari mercati.

11 L’espressione eclettico si deve al fatto che Dunning ritiene che il suo approccio riprenda parti di diverse teorie sull’internazionalizzazione e possa essere applicato alle diverse forme in cui il fenomeno si esplica.

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Tali vantaggi derivano dal possesso o dall’accesso privilegiato ad assets tangibili e intangibili che aumentano la capacità dell’impresa di creare valore aggiunto.

 Location advantage, ossia il vantaggio localizzativo; consiste essenzialmente nella presenza di condizioni favorevoli nei territori all'interno dei quali l'impresa intende espandersi. Tali condizioni, infatti, consentono all'impresa di valorizzare ulteriormente le competenze e le risorse a sua disposizione. Tra i vantaggi localizzativi più comuni possiamo trovare il minore costo degli input, la disponibilità di infrastrutture, i minori i costi di trasporto, le minori barriere al commercio internazionale;

 Internalization advantage, ossia il vantaggio di internalizzazione; esso costituisce l'insieme delle motivazioni che spingono un'impresa a controllare e coordinare direttamente i propri vantaggi di proprietà, senza trasferirne la proprietà o il godimento a terzi.

Lo stesso Dunning successivamente identifica quattro tipologie di imprese a seconda dell'obiettivo che esse si pongono rispetto al mercato estero12:

 Imprese natural resources seekers (imprese rivolte ai mercati degli input), aventi l'obiettivo di acquisire a livello internazionale risorse ad un costo inferiore rispetto a quello ottenibile nella nazione di origine o risorse non disponibili sul mercato domestico.

 Imprese market seekers (imprese rivolte ai mercati di sbocco), aventi la finalità di accedere a mercati in via di sviluppo in modo da competere per il soddisfacimento della nuova potenziale domanda;

 Imprese efficiency seekers (imprese rivolte all'efficienza), il cui obiettivo e razionalizzare la struttura degli investimenti sui mercati delle risorse o sui mercati di sbocco al fine di ottenere economie di scala, di scopo o la diversificazione del rischio.  Imprese strategic asset seekers (imprese rivolte allo sviluppo di asset strategici), aventi l'obiettivo di consolidare il proprio posizionamento nel mercato mediante operazioni di acquisizione.

Uno dei limiti più importanti dell'eclettismo di Dunning risulta essere quello di spiegare i processi di espansione solamente sulla base delle risorse e dei vantaggi competitivi in possesso dell'impresa.

12 DEMATTE’ C., PERRETTI F. e MARAFIOTI E., Strategie di internazionalizzazione, Egea, Milano, 2013

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Un approccio di questo tipo risulta essere in parte riduttivo, dal momento che, al giorno d'oggi, non si possono escludere fattori quali la crescita internazionale e lo sviluppo di relazioni di condivisione.

1.3 Le teorie di approccio comportamentale e gli sviluppi più recenti

L'approccio comportamentale o processuale si focalizza sul ruolo dell'impresa, qui intesa come un ente a razionalità limitata, conferendo all'internazionalizzazione la connotazione di un processo evolutivo ed incrementale, caratterizzato da gradi crescenti di coinvolgimento. Differentemente da quanto visto nel precedente approccio economico, nell'ambito del quale l'internazionalizzazione costituisce una decisione discreta e isolata rispetto all'intero sviluppo espansivo, l'approccio comportamentale, invece, vede la singola decisione come una fase di un processo dinamico e sequenziale, fondato sulla conoscenza e l'apprendimento.

1.3.1 La teoria degli stadi di internazionalizzazione

La teoria del processo di internazionalizzazione, proposta da Johansson e Vahlne nel 1977 presso l’Università di Uppsala, descrive l’internazionalizzazione come un "processo di evoluzione mediante il quale l'impresa incrementa nel corso del tempo i suoi investimenti nei mercati esteri, in funzione dell'aumento delle conoscenze, dell'esperienza e del giro d'affari, nonchè di nuove opportunità che essa incontra operando all'estero" (Silvestrelli, 2012). Infatti, se cresce la conoscenza del mercato, la percezione del rischio diminuisce, facendo quindi aumentare il grado di coinvolgimento dell’impresa. Perciò, il grado di coinvolgimento aumenta sia attraverso la scelta delle modalità di espansione internazionale, sia tramite l'ampliamento della dimensione geografica del mercato estero.

Inizialmente, dopo essersi concentrata sul mercato domestico e dopo aver acquisito le conoscenze e le risorse basilari, l'impresa avvia le esportazioni, favorendo i mercati esteri geograficamente più vicini e sfruttando modalità di esportazione indiretta. Infatti, a causa dell’elevata percezione del rischio e dell’incertezza, le attività e le modalità di espansione tenderanno ad essere ancora molto contenute. Col passare del tempo, però, aumentano sia la dimensione dei mercati internazionali che il livello di conoscenza ottenuto attraverso l’esperienza maturata, provocando un ulteriore incremento del grado di coinvolgimento dell’impresa.

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Perciò, rendendosi necessario un maggior controllo sulle attività estere, l’impresa sarà portata ad effettuare "IDE ed altre forme di internazionalizzazione che implicano un più elevato grado di rischio e una maggiore complessità gestionale (rispetto alle esportazioni)" (Silvestrelli, 2012). Sebbene lo schema proposto da Johansson e Vahlne denoti un miglioramento rispetto all'approccio economico in termini di rappresentazione del processo di internazionalizzazione, tale teoria non è comunque esente da limiti. Nello specifico, dal momento che il processo di internazionalizzazione viene descritto come una sequenza unidirezionale e fissa di fasi, una delle critiche più importanti che viene mossa nei confronti di tale modello riguarda la sua connotazione troppo deterministica; oltretutto, il fatto di non considerare le caratteristiche e le particolarità di ogni singola impresa rende tale approccio ulteriormente limitato dal punto di vista descrittivo.

1.3.2 Le imprese Born Global

Come descritto da Silvestrelli (2008), “L’osservazione della realtà mostra che molte piccole imprese “nascono già internazionali” e perciò non seguono le fasi indicate dalla teoria.”, nello specifico le fasi indicate dalla Scuola di Uppsala. Queste imprese prendono il nome di Born Global o International New Ventures (INV) e vengono definite come “imprese che, fin dalla costituzione, cercano di ottenere significativi vantaggi competitivi utilizzando risorse e vendendo prodotti in una molteplicità di paesi (Oviatt e McDougall, 2005; Zahra, 2005)”. Perciò, si tratta di imprese che, fin dal momento della loro costituzione, o a poco tempo da questa, traggono una quota significativa delle proprie entrate sui mercati esteri, predisponendosi fortemente all’attività di esportazione. Dal momento che il comportamento di queste imprese diverge fortemente rispetto a quanto previsto dalla teoria degli stadi, ne risulterà che la conoscenza e certi tipi di risorse non verranno certamente acquisite attraverso l’esperienza. Infatti, come indicato da Runfola (2013), le imprese Born Global compensano questi svantaggi facendo leva sulle risorse di altre imprese ed organizzazioni nel loro network e sulla capacità di interazione sociale posta in essere dagli imprenditori. Perciò, tutte queste evidenze hanno portato allo sviluppo di un moderno approccio di analisi del processo di internazionalizzazione: la network analysis.

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1.3.3 La teoria dei network tra imprese

La teoria dei network costituisce uno degli impianti teorici più recenti e, diversamente dai precedenti studi basati su una "visione gerarchica" del processo (pianificazione effettuata dal management), individua la forza motrice dell'internazionalizzazione nel sistema di relazioni, interpersonali e interaziendali, nel quale si trova l'impresa. Tale sistema viene più propriamente definito come un insieme di relazioni che "possono coinvolgere i clienti, i fornitori, i concorrenti, i soggetti pubblici ecc., ed esse non sono soltanto di tipo economico, ma anche di natura socio-culturale" (Silvestrelli, 2012). L'idea alla base della teoria dei network è dunque quella di sfruttare tali relazioni per acquisire dai diversi soggetti che fanno parte della rete tutte quelle risorse e conoscenze che, altrimenti, avrebbero dovuto apprendere e sviluppare in maniera autonoma. Perciò, diversamente dall'approccio sequenziale e incrementale avanzato dalla Scuola di Uppsala, i network prevedono dei processi di espansione molto più decisi e meno ordinati. Il principale contributo a questa teoria fu dato da Johanson e Mattson (1988), secondo i quali il processo di espansione internazionale si sviluppa proprio a partire dall'inserimento delle imprese all'interno dei network stranieri.

Queste, infatti, sfruttando le nuove relazioni, hanno la possibilità di migliorare le proprie capacità di accesso e di sfruttamento dei mercati esteri. Sulla base del grado di internazionalizzazione dell'impresa e della rete, Johanson e Mattson hanno poi identificato quattro diversi livelli di internazionalizzazione delle imprese, qui ripresi da Runfola (2013): “(a) early starters: si tratta di imprese con basso livello di internazionalizzazione sia dell'impresa che del network di relazioni di cui essa fa parte; (b) later starters: imprese con basso livello di internazionalizzazione, ma che fanno parte di un network di relazioni internazionali; (c) lonely international: si tratta di imprese con alto livello di internazionalizzazione ma che fanno parte di network di relazioni locali; (d) international among others: imprese con alto grado di internazionalizzazione ma che fanno parte di network internazionali”. Perciò, in opposizione al modello a stadi della Scuola di Uppsala, che concentra la propria analisi sul solo comportamento della singola impresa, la teoria dei network si focalizza sull'ambiente e sul sistema relazionale a cui l'impresa stessa appartiene. Infatti, l'internazionalizzazione viene vista come un fenomeno che non si sviluppa esclusivamente a partire dalle capacità e dalle conoscenze interne all'impresa, ma anche dalle relazioni di condivisione e confronto che si instaurano con gli altri attori presenti all'interno della rete.

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“I numerosi sviluppi teorici dell’International Business hanno avuto, in modo esplicito o implicito, come primario oggetto di riferimento imprese di grandi dimensioni.” e, conseguentemente, “non risultano sufficientemente approfonditi né sul piano delle teorie né sul piano dell’analisi empirica le determinanti dell’internazionalizzazione delle PMI”. Perciò, da un lato l’esistenza di un vuoto teorico e dall’altro la crescente importanza delle PMI sia a livello nazionale che a livello internazionale hanno spinto la letteratura degli ultimissimi decenni a concentrarsi e ad approfondire maggiormente il caso delle PMI. Sotto questo aspetto, due sono i livelli di indagine che sono venuti a svilupparsi (Compagno, 2011): il primo approccio affronta l’internazionalizzazione dei sistemi locali e dei distretti, focalizzando l’analisi sull’espansione estera del sistema e del contesto ambientale; il secondo approccio, invece, si concentra sull’analisi della singola impresa, evidenziando i fattori interni ed esterni che danno inizio al processo. Di quest’ultimo filone fa parte Caroli (2002), il quale ha cercato primariamente di verificare l’adattabilità dei precedenti modelli al caso delle PMI. Quelli che hanno dimostrato una maggior duttilità in questa direzione sono risultati l’approccio eclettico di Dunning, il modello di sviluppo per stadi e la prospettiva reticolare.

Perciò, le impostazioni teoriche che stanno maggiormente prendendo piede in un’ottica di costruzione di un comparto teorico specificamente incentrato sull’internazionalizzazione delle PMI sono proprio quelle più recenti di stampo comportamentale e reticolare. L’unica eccezione è data dal contributo di Dunning, anche se, come precedentemente affermato, l’ampiezza e l’eclettismo del suo approccio permette ancora oggi un’elevata applicabilità a diverse tipologie di contesti.

2. Processi di internazionalizzazione 2.1 Modelli di internazionalizzazione

Al fine di comprendere i percorsi di espansione oltre confine seguiti dalle imprese, vengono ora riportati i modelli di internazionalizzazione fino ad oggi indagati in letteratura. In conseguenza della rapida globalizzazione dei mercati, la letteratura sul fenomeno si è arricchita notevolmente lasciando, tuttavia, scoperti ampi spazi d’indagine riguardanti, soprattutto, le strategie di internazionalizzazione proprie delle PMI. Infatti, la concettualizzazione teorica rispetto a questa tematica risulta ancora carente nonostante il ruolo attivo giocato da tali fattispecie di imprese sulla scena internazionale.

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