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Lo scenario delle imprese italiane 1 Le PMI italiane

Partiamo dalla definizione di impresa data dalla giurisprudenza comunitaria degli ultimi anni si "considera impresa ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un'attività economica. In particolare sono considerate tali le entità che esercitano un'attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitino un'attività economica". Per essere qualificata come PMI un'impresa deve soddisfare tre criteri: quello finanziario, quello del numero dei dipendenti e quello dell'autonomia. La definizione di PMI non è uniforme tra i vari paesi. La modifica della definizione attuale, in vigore fino al 31 dicembre 2004, è resa necessaria dall’inflazione e dalla crescita della produttività registrate dal 1996.

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Analizzando la struttura produttiva italiana, emerge come le piccole e medie imprese rappresentino la spina dorsale dell’economia, dalla quale trae spinta l’intero sviluppo del paese. Le piccole e medie imprese o PMI sono aziende le cui dimensioni rientrano entro certi limiti occupazionali e finanziari prefissati. Per questa ragione, e anche per le oggettive difficoltà di attrarre capitali, Stati e Regioni di solito mettono in atto politiche di sostegno verso la PMI. Le PMI hanno un’elevata importanza nel nostro sistema produttivo: contribuiscono in larghissima misura alla formazione del PIL – Prodotto Interno Lordo, occupano circa l’80% della forza lavoro totale e giocano un ruolo decisivo sullo sviluppo economico del Paese.

In base agli ultimi bilanci disponibili, soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 aziende rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’. Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido20, hanno occupato 3,9 milioni di

addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole. Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro.

Il mercato delle piccole e medie imprese italiane presenta delle caratteristiche particolari: l’apparato produttivo è fondato principalmente su settori merceologici tradizionali, dove le economie di scala non costituiscono ancora un fattore predominante. Tra i settori prevalenti spiccano i servizi e il commercio, ed il settore manifatturiero. Inoltre offrono un contributo rilevante per la bilancia commerciale, come dimostra la forte apertura alle esportazioni delle PMI delle regioni centro- nordorientali del nostro paese.

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Rapporto Cerved PMI 2015. Il Rapporto Cerved PMI 2015 è stato chiuso con le informazioni disponibili al 16 ottobre 2015.

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3.1.1 L’importanza delle PMI

Le PMI rappresentano ben oltre il 99% delle imprese europee. Oltre a questa preponderanza numerica, le PMI giocano un ruolo particolarmente importante anche per quanto riguarda la creazione di nuova occupazione, la competitività complessiva del sistema paese ed i processi di innovazione. La letteratura economica concorda sull’importanza delle PMI nel tessuto economico e sociale delle economie nazionali21.

In particolare, la letteratura economica sostiene che: Le PMI hanno un’importanza

economica più che proporzionale rispetto al loro peso e costituiscono il principale motore della creazione di nuova occupazione: le statistiche di numerosi paesi

confermano che le imprese di piccole dimensioni creano un ammontare di posti di lavoro superiore rispetto alle medie e grandi imprese. Le PMI sono uno dei motori con

cui si creano e si diffondono l’innovazione e la conoscenza: in alcuni settori,

specialmente in quelli a più alta intensità di conoscenza come l’informatica o le biotecnologie, il contributo delle PMI alla creazione di nuovi prodotti e processi, o al miglioramento di quelli esistenti, è più che proporzionale rispetto al loro peso. Al contrario, nei settori maturi, caratterizzati da grandi economie di scala ed alta intensità di capitale, l’innovazione avviene per lo più all’interno delle grandi organizzazioni. Questo implica anche che, con l’avvento della società dell’informazione, il ruolo delle PMI è destinato a divenire ancor più decisivo che in passato. Le PMI sono in grado di

sfruttare le sinergie offerte dal territorio: alcuni economisti sostengono che l’alto tasso

di innovazione delle PMI, ove esso viene rilevato, deriva da un vantaggio competitivo nello sfruttare le esternalità (i c.d. effetti di spillover) prodotte delle università e dei centri di ricerca nel territorio. Le PMI sarebbero quindi maggiormente capaci di sfruttare i risultati delle istituzioni esterne che svolgono ricerca di base. Questo elemento è particolarmente importante quando si affronta la tematica dei distretti e delle reti territoriali. In queste realtà, la struttura maggiormente flessibile rende le PMI adatte a cogliere le nuove opportunità di mercato attraverso innovazioni incrementali. In sintesi, lo sforzo di ricerca ed innovazione delle PMI più innovative possiede nella più parte dei casi le seguenti caratteristiche: Tende ad innovazioni di prodotto piuttosto che di processo; Tende a produrre innovazioni incrementali, senza però escludere la possibilità di produrre innovazioni radicali;

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Si concentra sulla produzione di prodotti per mercati di nicchia; È più intenso nelle PMI che producono prodotti finiti; Comporta spesso legami forti con le istituzioni di ricerca. Peraltro, anche se la letteratura economica esaminata concorda nell’affermare che un corposo tessuto di PMI costituisce un fattore essenziale per il dinamismo delle economie nazionali e in termini di occupazione e di innovazione, la presenza di numerose PMI costituisce soltanto una condizione necessaria, ma non sufficiente per la competitività del sistema paese. In particolare, le caratteristiche economiche dei settori in cui le PMI operano, ma anche e soprattutto il contesto di policy in cui esse si trovano a operare possono risultare decisivi per sfruttare a pieno il potenziale dirompente delle PMI. In particolare, il contributo delle PMI dipende dalle caratteristiche dei settori in cui tali imprese operano, nonché dalla distribuzione dimensionale delle imprese a livello nazionale e regionale. Più nel dettaglio:

• La dimensione ottima di un’impresa cambia a seconda del settore, e in particolare a seconda delle economie di scala, del grado di concorrenza, del grado di maturità dei prodotti, delle tecnologie utilizzate per ottenerli. Pertanto, è possibile che in alcune industrie le PMI svolgano un ruolo propulsivo maggiore, mentre in altre un incremento del numero di PMI non produca effetti positivi di rilievo.

• Inoltre, il contributo delle PMI cambia a seconda della distribuzione dimensionale delle imprese in una data economia nazionale. Ad esempio, le economie dei paesi dell’Europa orientale subito dopo la caduta del comunismo erano caratterizzate da una bassissima presenza di PMI. In tali condizioni, una crescita della popolazione di PMI costituisce elemento imprescindibile per aumentare la competitività nazionale. Infine, non tutte le PMI sono uguali ai fini della crescita economica.

Va sottolineato in particolare il ruolo delle cosiddette “PMI ad elevata crescita”: la maggior parte della crescita occupazionale e di produttività si verifica infatti grazie ad un ridotto numero di PMI, caratterizzate da tassi di crescita e di investimento molto elevati. Le PMI ad elevata crescita presentano alcuni tratti ricorrenti:

a. Sono presenti in tutti settori produttivi, con una rilevanza particolare nei settori manifatturieri e in quelli ad alta intensità di conoscenza;

b. Presentano in molti casi un elevato tasso di investimento in ricerca e sviluppo; c. Possiedono un elevato livello di competenze interne, in particolare manageriali, ed

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d. L’elevata crescita è una conseguenza degli obbiettivi fissati dall’imprenditore, che si pone dunque come soggetto di importanza strategica cruciale, in specie per quanto riguarda la propensione al rischio e all’innovazione.

A livello di policy, occorre dunque chiedersi se siano più efficaci programmi di sostegno generale alle PMI o se vadano implementati programmi che consentano di sostenere le PMI in alcuni settori strategici, e in particolare le PMI ad elevata crescita. Se si scegliesse il secondo modello, il problema principale sarebbe quello di individuare tali PMI all’interno della popolazione complessiva, o di disegnare schemi di sostegno che inducano le PMI ad elevata crescita a segnalare la loro condizione e quindi ad accedervi.

3.1.2 Gli strumenti italiani finalizzati a sostenere l’internazionalizzazione delle PMI Le PMI italiane hanno a disposizione diversi strumenti pubblici di sostegno all’internazionalizzazione. In particolare, possono contare su:

a. servizi di consulenza ed assistenza tecnica;

b. agevolazioni finanziarie tramite abbattimento degli interessi sui finanziamenti, fornitura di garanzie, di capitale di rischio e di debito;

c. assicurazione del rischio commerciale legato all’internazionalizzazione. Questi servizi ed agevolazioni sono erogati da diversi enti pubblici.

A livello nazionale, le principali organizzazioni sono l’Istituto per il Commercio Estero (ICE)22, SACE23 e SIMEST24.

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L’ICE è un ente pubblico non economico finalizzato a promuovere, agevolare e sviluppare agli scambi dell’Italia con altri paesi. I suoi uffici sono presenti in 86 paesi. L’ICE offre soprattutto servizi di assistenza e consulenza alle imprese e di formazione per i manager che operano sui mercati internazionali.

23 SACE è una società per azioni controllata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Questa società nasce come società di assicurazione per il credito all’esportazione, ma le sue attività si sono allagate ad altri strumenti di agevolazione per l’internazionalizzazione e anche alla gestione di strumenti finanziari a sostegno di progetti di investimento che si svolgono esclusivamente sul territorio nazionale. La maggior parte delle attività di SACE è concentrata nei paesi del Medio Oriente e Nord Africa, dell’UE e degli altri paesi europei

24 SIMEST è una finanziaria di sviluppo e promozione delle attività delle imprese italiane all’estero. Come SACE, ora SIMEST svolge anche attività legate al finanziamento di investimenti sul territorio nazionale. SIMEST è controllata dal Ministero dello Sviluppo Economico e partecipata da banche private ed associazioni imprenditoriali.

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Dato l’assetto organizzativo attuale, occorre a nostro parere evitare due rischi: la duplicazione di interventi da parte di enti diversi e l’inclusione nelle finalità di questi enti della promozione di attività economiche svolte esclusivamente sul territorio nazionale.

3.1.3 Perché le imprese italiane producono all’estero: la delocalizzazione

L’economia mondiale è divenuta negli anni recenti sempre più aperta e integrata. I flussi di capitali sono più liberi di muoversi rispetto al passato. Intere fasi dei processi produttivi vengono spostate all’estero e sempre più spesso si sente parlare di outsourcing dei servizi. La delocalizzazione è il risultato di una aumentata competizione a livello internazionale seguita alla liberalizzazione dei flussi commerciali della UE con i paesi dell’Europa Orientale. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri paesi, in genere in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta a seguito di questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. In una prospettiva più ampia, la delocalizzazione rappresenta un fenomeno complesso, allo stesso tempo unitario, ma di carattere composito.

Si tratta infatti di un processo legato all’internazionalizzazione delle imprese e che prevede diverse forme di realizzazione: dagli investimenti diretti esteri (IDE) alle joint ventures, dall’outsorcing alla subfornitura o subcontrattazione. I rapporti che si instaurano tra le parti coinvolte in questi processi possono quindi essere regolati in modi diversi. Alcuni temono che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto; secondo altri, invece, si tratta di un processo virtuoso di rafforzamento delle imprese italiane, un importante strumento competitivo. Diverse sono le motivazioni e i vantaggi che si hanno nell’avviare un progetto di delocalizzazione. Il motivo principale che spinge le imprese a delocalizzare è la differenza del costo del lavoro tra l’Italia e i Paesi Europei Orientali e Meridionali, il Far East e il Nord Africa.

Le differenze salariali sono molto significative e, d’altra parte, quelle nella produttività non sono tali da compensarle. L’outsourcing verso una serie di aree a basso costo è destinato a continuare.

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Le aree prescelte si spostano nel tempo perché il commercio mette in moto forze che tendono ad eguagliare il costo del lavoro nelle diverse regioni. Tra gli altri, sono degni di nota la riduzione dei costi di produzione, la disponibilità di manodopera specializzata a basso costo e di materie prime in loco, e la possibilità di creare nuovi sbocchi di mercato. Tuttavia ci sono anche dei rischi legati al trasferimento dell’attività produttiva all’estero. Primo tra tutti la riduzione del livello di occupazione, almeno per quanto riguarda mercati del lavoro come quello europeo, caratterizzato da rigidità salariale. Bisogna poi tener conto di altri fattori quali il rischio di perdita del controllo di qualità e di immagine, i rischi legati al trasferimento di know-how e, non ultimo, il rischio Paese. Spostiamo ora l’attenzione al panorama delle PMI, affacciarsi su un mercato estero rappresenta per questa categoria di impresa una sfida molto importante. I processi di delocalizzazione, infatti, rappresentano un fenomeno attuale rilevante, con importanti risvolti economici, sociali e culturali. La sfida competitiva coincide con la complessità con cui le nostre imprese si misurano in contesti diversi, con processi di globalizzazione che mettono a confronto realtà di imprese con differenziali di costi, con assetti organizzativi molto differenti tra loro. Vi è inoltre la necessità di pensare ai mercati esteri non solo in termini di opportunità di business, ma anche di insediamenti per la creazione di nuovi sbocchi.

La decisione di svolgere all’estero una parte o l’intera produzione richiede il rispetto di una serie di passaggi per ridurre al minimo i rischi di insuccesso. Naturalmente ogni area di sviluppo comporta delle specificità e problematiche tipiche, ma alcuni step sono applicabili, in generale, a tutte.

Oltre alle variabili proprie di ciascun paese, per le PMI si aggiungono alcune obiettive difficoltà all’internazionalizzazione, tra le quali vi sono difficoltà strategiche, di tipo organizzativo e di management, economico-finanziarie e di tipo normativo ambientale. Tutto ciò rende più complesso il processo di delocalizzazione, ed impone la conoscenza delle variabili da tenere in considerazione per chi decida di intraprendere tali processi. Per quanto riguarda l’individuazione dei paesi nei quali delocalizzare, le PMI utilizzano come criterio di scelta principale, laddove è possibile, la valutazione della prossimità al proprio settore merceologico. È importante la presenza di manodopera specializzata o, comunque, la facilità nel riuscire ad aggiornare, con le nuove tecniche del settore, manodopera che sa già trattare, anche se con tecnologie antiquate, i prodotti in questione.

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Importanti variabili di cui devono necessariamente tener conto le aziende sono quelle che riguardano l’aspetto fiscale e doganale, quello legale e quello finanziario bancario. L’aspetto fiscale è strategico, tenendo presente che in molti paesi esistono “free zones”, cioè località caratterizzate da agevolazioni o assenza di imposte. Indispensabile è, ad esempio, sapere se il paese in cui si è scelto di delocalizzare ha aderito e recepito il trattato internazionale per evitare fenomeni di doppia imposizione con l’Italia, vale a dire un trattato attraverso il quale i due paesi contraenti hanno definito i reciproci rapporti da un punto di vista tributario, in modo che le imposte che si pagano in un paese non si paghino anche nell’altro. Anche i costi doganali sono determinanti per essere competitivi a livello internazionale. Dal punto di vista giuridico, è importante conoscere le norme del paese di destinazione per evitare di imbattersi in divieti o per adattare l’attività alla normativa vigente. Per quanto riguarda l’aspetto finanziario e bancario, è bene sapere che esistono delle linee di finanziamento del nostro Stato e di derivazione internazionale per agevolare la delocalizzazione e la penetrazione commerciale estera. Inoltre, spesso i singoli stati hanno norme o programmi appositi che agevolano la crescita delle PMI locali. Necessario è anche monitorare il sistema bancario locale, oltre alle eventuali filiali di banche italiane in loco, o banche locali con cui le banche italiane hanno rapporti di fiducia, compartecipazione o collaborazione. Tra gli aspetti organizzativi sono di rilievo quello logistico e quello produttivo. La creazione di un nuovo impianto produttivo implica, tra l’altro, la definizione dei costi per il trasporto delle materie prime sia in entrata che in uscita.

Tale spesa influenza il costo del prodotto, la velocità di consegna, la commercializzazione (anche nella zona di produzione dello stesso). Infine, per quanto concerne l’aspetto produttivo e dei costi che ne derivano, rileva il costo della manodopera, che solitamente nei paesi in cui si decide di delocalizzare è molto basso. Spesso le PMI considerano, erroneamente, questo fattore come l’unico decisivo e determinante per la scelta di trasferire all’estero la propria produzione. In realtà, in alcuni paesi, come quelli dell’Est Europa, il costo della manodopera ha subito oggi un forte incremento. Un aspetto da non tralasciare è quello relativo alla cultura d’impresa e alle problematiche gestionali connesse all’attivazione di basi di produzione in altri paesi. Tra gli imprenditori italiani, in molti casi, esiste ancora un sentimento di cautela verso i processi di internazionalizzazione, poiché questi continuano ad avvenire per lo più all’insegna del “fai-da-te”. Si registra inoltre l’assenza di una cornice economico finanziaria e istituzionale generale che aiuti, in particolare, le PMI.

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L’Italia, rispetto ad altri paesi, ha un panorama produttivo assai più frammentato e di difficile coordinamento. Si devono pertanto attuare delle politiche che mettano in comunicazione i soggetti, le iniziative e le competenze già esistenti su questi versanti. Inoltre, i dati a livello nazionale evidenziano una scarsa propensione alla formazione degli imprenditori, indice di un livello di managerialità e competitività ancora non sufficiente per uno sviluppo adeguato del sistema industriale.

Per l’inserimento delle imprese italiane nei mercati di paesi spesso molto distanti, non solo geograficamente, dal nostro è necessaria una buona preparazione di base e una conoscenza approfondita del nuovo contesto di riferimento, sia dal punto di vista economico che sociale e giuridico. L’adattamento culturale deve essere programmato e attuato con gradualità. Naturalmente, anche per quanto concerne la gestione dell’attività di impresa si rendono indispensabili degli accorgimenti. I manager che decidono di spostare la loro attività all’estero non possono permettersi di agire con leggerezza, devono essere pronti e recettivi, ma soprattutto in grado di trasformare opportunamente l’organizzazione dell’attività. La delocalizzazione deve essere il punto di arrivo di un processo consapevole e adeguatamente pianificato. Consapevole rispetto ai rischi e alle opportunità dei mercati esteri, alle caratteristiche dei settori in oggetto, alle problematiche culturali e organizzative che comporta l’internazionalizzazione.

Pianificato rispetto alle strategie più idonee e alle soluzioni organizzative e gestionali più adeguate ad un contesto così diverso e distante da quello italiano. Molte aziende italiane sono riuscite a trovare risposta ai quesiti sul risparmio generato dalla delocalizzazione, su cosa comprare o far produrre, su quali siano i mercati più convenienti, su quanta e quale parte dell’attività spostare all’estero.

Più difficile è invece capire dove comprare, come localizzare i migliori fornitori e gestire un proficuo rapporto con essi, come analizzare rischi e costi totali delle operazioni. La competizione internazionale è fortemente avvertita dagli imprenditori. La maggior parte di essi considera il “fare squadra” (fare consorzi, fusioni, acquisizioni) come rimedio affinché le PMI possano continuare a competere sul mercato globale. Tale orientamento rischia però, in assenza di un sistema-Paese che aiuti le imprese nel processo di internazionalizzazione, di non portare ai risultati sperati. Le PMI italiane hanno comunque confermato nel 2003 l’andamento positivo iniziato da alcuni anni sul fronte della partecipazione a imprese straniere e della presenza nei mercati esteri in termini di nuove unità produttive e commissioni di prodotti e servizi.

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Sono soprattutto le PMI del Made in Italy a investire all’estero o a creare nuove joint ventures e partnership commerciali, dimostrando con ciò grande dinamismo. Le grandi imprese hanno invece iniziato a ridurre la propria presenza all’estero a partire dal 2001 per questo motivo, nel 2003, è calato il fatturato complessivo delle aziende italiane all’estero. Sul fronte delle partecipazioni a imprese straniere, sono particolarmente