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Le Misteriose Madrine Del Borgo Arcobaleno Il corpo della Drag Queen e un ripensamento del concetto di genere

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Academic year: 2021

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CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

ANTROPOLOGIA CULTURALE,

ANTROPOLOGIA CULTURALE,

ETNOLOGIA, ETNOLINGUISTICA

ETNOLOGIA, ETNOLINGUISTICA

(LM-1 / D.M. 270/2004)

TESI DI LAUREA

TESI DI LAUREA

Le Misteriose Madrine

Le Misteriose Madrine

Del Borgo Arcobaleno

Del Borgo Arcobaleno

Il corpo della

Il corpo della

Drag Queen

Drag Queen

ed un ripensamento del concetto di genere

ed un ripensamento del concetto di genere

Relatrice

Ch. Prof. Donatella Cozzi

Correlatori

Ch. Prof. Gianfranco Bonesso

Ch. Prof. Franca Tamisari

Laureanda

Donatella Lanzarotta

Matricola 807756

Anno Accademico

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INDICE

INDICE

a. sezione antropologica:a. sezione antropologica:

1.a Prologo … 1

1.b A-B-C-Drag … 12

2.a C'era una volta una gatta … 20

2.b “Bambole, non c'è una lira!” … 29

3.a Minerva e i fiammiferi … 35

3.b Una Regina di nome Ape … 49

3.c Crisandra la peste … 65

3.d L'arcobaleno dagli occhi di Mizzy … 78

3.e Bratz e impossibile … 91

3.f Lo strano caso di Dolores Van Cartier … 104

3.g La Misteriosa Madrina Del Borgo Arcobaleno … 117

4. Epilogo … 126

5. Bibliografia … 134

b. sezione etnografica:b. sezione etnografica:

1. Il villaggio e il suo doppio … 1

2. “Buona sera, Village!” … 8

2.a Daniele / Dolores Van Cartier … 12

2.b Biagio / La Bratz … 39

2.c Massimo / Minerva Lowenthal … 67

2.d Marco / Mizzy Collant … 113

2.e Cristiano / La Crisandra … 167

2.f Alberto / Ape Regina … 192

2.g Non solo Drag … 219

2.h La Dodicesima Notte … 262

3. Villeggianti di terra e di rete … 263

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1.a PROLOGO

Nella Londra elisabettiana, una scritta su un cartello in legno posto sulla porta del Glo-be Theatre - “Totus mundus agit histrionem” - salutava il pubblico di commedie e tragedie, e insieme lo arruolava, lui comodo spettatore passivo, nel ruolo ben più impegnativo di at-tore. E non solo: perché histrio era il “pantomimo”, ovvero l'artista che recitava con il suo corpo - per l'occasione trasformato in testo scritto e reso auto-narrante; agit era “recitare”, non solo sulla scena ma anche nella vita - di cui il palcoscenico diventava la metafora; mentre totus mundus estendeva il monito a chiunque, al di là dello spazio e del tempo. Il pubblico dei drammi elisabettiani era quindi chiamato non solo ad immedesimarsi nei sonaggi per il tempo della recita, o negli attori per il tempo della loro carriera, ma nel per-sonaggio di cui ognuno era l'attore per il tempo di una vita - in una gigantesca scena meta-teatrale in cui il confine tra realtà e finzione era sottile quanto una pagina di copione.

Compito gravoso per gli attori sulla scena, scritturati per essere monarchi o attaccabri-ghe, innamorati o donne - perché, nella Londra elisabettiana, le donne sulla scena non potevano salire: gravoso ma non impossibile, perché c'era l'arte a insegnar loro come impersonare le donne che essi stessi non erano. Compito gravoso per i pantomimi fuori dal palco, messi al mondo per essere qualunque cosa - ma prima di tutto uomini o donne: gravoso ma non impossibile, perché c'era la natura a insegnar loro come comportarsi da ciò che erano. Non così gravoso, dunque, se bastavano un po' d'istinto e di mestiere per fare o imitare ciò che la natura insegnava: un po' d'istinto, di mestiere - e una fede cieca nel fatto che fosse davvero la natura, a insegnare all'arte; agli artisti; e a tutti gli altri.

Di come il genere passò dal corpo al sesso

La rivoluzione scientifica del XVII secolo svela una scomoda verità - e cioè che non basta una tradizione, per quanto millenaria, a impedire la trasformazione dei punti di vista sulla realtà: ivi compreso il corpo, in quanto veicolo attraverso la realtà, e gli studi sul cor-po, in quanto anatomia del modo di essere nel mondo1. Dal '700 in poi, parlare del corpo - tanto più in quanto corpo sessuato - implicherà quindi entrare nello spazio simbolico in cui il potere (di controllo sugli individui, da parte della struttura sociale che li amministra) dà corpo alla propria intrinseca asimmetria (nella forma di quegli stessi individui): e poiché il numero minimo per indicare un'asimmetria è il due, ecco che la scienza per prima passerà dal modello di corpo (induttivo) in base 1 a quello (deduttivo) in base 2 - collocando nel corpo il codice sociale binario per cui tutto ciò che era caldo / attivo / propositivo, e in

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ma analisi positivo, era maschile; mentre tutto ciò che era freddo / passivo / remissivo, e in ultima analisi negativo, era femminile. Il genere aveva letteralmente preso corpo - anzi: poiché ora uomini e donne non erano più una carne sola, di corpi ne aveva presi due.

Per parte sua, la rivoluzione psicoanalitica di fine '800 svelerà una verità se possibile ancora più scomoda - e cioè che non solo del sesso non si poteva fare a meno, ma che il sesso era anzi il codice attraverso cui gli esseri umani gestivano le relazioni con il mondo interno ed esterno a loro: e questo in barba alla rete di leggi regole e consuetudini che cer-cavano di irretire le pulsioni e pratiche erotiche di uomini, donne e (persino!) bambini. Que-sta volta però il discorso sul corpo non si svilupperà più intorno alla sua dimensione soma-tica, cioè immediatamente percepibile come materiale, ma intorno alla sua dimensione psi-chica - cartesianamente considerata come trans-corporea e quindi più simboleggiabile.

Nel 1929, Joan Riviere, ex-paziente di Freud e sua traduttrice di maggior valore, pubblica Womanliness as Masquerade2 - saggio psicoanalitico che parte esattamente dal punto in cui il primo dei Tre saggi sulla sessualità si erano fermati, ovvero sulla maschilità palese delle donne omosessuali che, negli USA degli anni '40 e '50, si chiameranno butch. Se infatti Freud aveva indagato lo spettro dell'omosessualità maschile, più che femminile, Riviere lavora sulla femminilità inquieta di donne dalla perfetta vita coniugale e professio-nale - che, sicure e maschili davanti a uomini dichiaratamente inferiori (come, ad esempio, studenti o colleghi più giovani), diventavano vulnerabili e femminili con uomini che Riviere classifica come figure paterne - ma la cui superiorità (intellettuale, manuale o semplice-mente di genere) sono portate a sfidare. Meglio sarebbe quindi dire che esse si dimostra-vano vulnerabili e femminili, presumibilmente per proteggersi dalla sanzione per aver inva-so un territorio cui il loro genere avrebbe ora consigliato ora impedito di avvicinarsi.

La femminilità delle pazienti di Riviere è considerata intrinseca (ovvero presente nella loro psiche, altrimenti esse non saprebbero da dove attingere per manifestarla), eppure in-trinsecamente orientata non alla seduzione degli uomini ma allo spegnimento di un perso-nale misto di ansia da prestazione e timore di punizione: un uso non spontaneo, quindi, ma strategico - di fronte al quale Riviere ipotizza che «la femminilità possa essere assunta come una maschera, [il che] può farci fare molti passi avanti nell'analisi dello sviluppo fem-minile». Ed anche, aggiungo io, nel superamento della teoria freudiana del genere come compimento della perfetta eterosessualità - ovvero del doppio nesso genere / sesso (dove l'uno si manifesta attraverso le pulsioni dell'altro) e genere / orientamento sessuale (dove la direttrice gay or straight determina l'attribuzione, anche momentanea, al genere).

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E invece quel passo rimane sospeso tra l'osservazione - «Nel quotidiano è possibile vedere come la maschera della femminilità prenda forme curiose»; l'intuizione - «Il lettore può chiedermi ora come io definisca la femminilità o dove io tracci la linea fra femminilità genuina e “mascherata”. Suggerisco che tale differenza non esiste, né a livello radicale né a livello profondo. Sono la stessa cosa»; e il silenzio sulla domanda finale che ella stessa si pone: «Qual'è la natura essenziale di una femminilità pienamente compiuta?»3

Nel 1949, Margaret Mead sembrò rispondere alla domanda di Riviere con Maschio e femmina - che operava un doppio slittamento dal corpo al sesso (fonte dell'identità ses-suale) e dal sesso al genere (fonte dell'identità sociale). Il corpo fornisce infatti una base biologica - ma è il sesso a indirizzarne le esperienze: in questo modo bambini e bambine sono costretti a selezionare alcuni aspetti della propria eredità biologica (come, ad esem-pio, l'abilità manuale o intellettuale) per uniformarsi agli archetipi sessuali che la loro cultu-ra ha stabilito. Il sesso fornisce invece una base esperienziale - ma è il genere a interpre-tarla in termini sociali: bambini e bambine apprendono quindi dall'insieme di pratiche che arricchiscono di significato i loro corpi non solo di essere, ma anche ad essere, maschi e femmine. Ciò che Riviere aveva chiamato femminilità genuina e “mascherata” confluisce qui in una rappresentazione ben riuscita di ciò che ci si aspetta da una donna - sicché la femminilità pienamente compiuta è quella in cui la paura della sanzione maschile si tra-sforma in auto-punizione: «Ogni passo verso il successo (...) equivale a un passo indietro come donna e in conseguenza un passo indietro imposto a qualche uomo»4.

Complessivamente, Mead individua quindi nel genere (e non nel corpo in toto o nel sesso in specie) il fattore determinante della costruzione individuale e sociale di sé - senza però metterne in discussione premesse («È vero che le donne creano esseri umani, ma soltanto gli uomini possono creare gli uomini»), conseguenze («È di un'utilità molto dubbia sfruttare le doti femminili se l'introdurre le donne in campi considerati maschili spaventa gli uomini [e] priva le donne delle loro qualità sessuali») o implicazioni:

«A ciascun sesso la società ha chiesto di vivere in modo da poter generare altri esseri (…) Questo significa che gli uomini devono desiderare di scegliere, con - quistare e conservarsi le donne come amanti, proteggerle e provvedere a loro come mariti, proteggere e provvedere ai figli come padri. Significa che le donne devono accettare volentieri gli uomini come amanti, vivere con loro come mogli e concepire, partorire, nutrire e proteggere i loro figli. Qualsiasi società che non richieda questo ai suoi membri e non l'ottenga è destinata a scomparire»5

3 Riviere (1929:3-4)

In http://www.mariabuszek.com/kcai/DadaSurrealism/DadaSurrReadings/RiviereMask.pdf

4 Mead (1979:277)

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Sarà: ma a Simone de Beauvoir è bastata una frase per smontare l'intero impianto socio-antropologico di Mead e meritarsi la messa all'indice di Le deuxième sexe - pubbli-cato in Francia nel 1949 e riassumibile con l'aforisma «Donna non si nasce, lo si diven-ta»6. Il significato, scandaloso e blasfemo insieme, di quella frase sta infatti non nel merito (anche Mead sosteneva lo scarto tra cultura e natura, a tutto vantaggio della prima sulla seconda) ma nel metodo (la cui naturale accettabilità è contestata proprio sul piano cultu-rale): di conseguenza affermare che le donne sono da sempre tenute ai margini di società che le rendevano seconde a causa del loro sesso, implica la contestazione sia del primato maschile che del modello che rende gli uomini primi grazie al loro sesso.

Categoria, quella del sesso, di cui de Beauvoir non modifica il nome ma la funzione sociale - marcando una separazione tra femmina (il corpo in cui ella stessa è nata) e don-na (il ruolo sociale che, in forza di quel corpo, le è assegdon-nato). E, di conseguenza, tra ma-schio e uomo - con un surplus di implicazione: perché in forza della rivendicazione dello iato tra forma biologica e destino biologico (iato che rende ogni corpo, comunque sessua-to, un universo unico e impossibile da ingabbiare deterministicamente), de Beauvoir impli-ca la negazione del doppio nesso (sinonimico e universalistico) maschio / uomo-umanità. Scelta questa sì sovversiva, che toglie l'uomo-maschio dal centro dell'antico uni-verso tolemaico per posizionarlo in uno dei due fuochi di un mondo kepleriano, compen-sandolo con la paritaria complementarietà con una donna-divenuta-anche-lei-umanità:

«Liberare la donna significa rifiutare di chiuderla nei rapporti che ha con l’uomo, ma non negare tali rapporti; se essa si pone per sé continuerà ugualmente ad esistere anche per lui: riconoscendosi reciprocamente come soggetto ognuno tuttavia rimarrà per l’altro un altro; la reciprocità dei loro rapporti non sopprimerà i miracoli che genera la divisione degli essere umani in due categorie distinte: il desiderio, il possesso, l’amore, il sogno, l’avventura; e le parole che ci commuo-vono - dare, conquistare, unirsi - conserveranno il loro senso; quando invece sarà abolita la schiavitù di una metà dell’umanità e tutto il sistema di ipocrisia implicatovi, allora la “sezione” dell’umanità rivelerà il suo autentico significato e la coppia umana troverà la sua vera forma»7

De Beauvoir propone dunque la sua riflessione nell'ambito di un discorso complessi-vo sulla riorganizzazione della società europea post-bellica. Una riflessione che critica il concetto di ruolo sessuale a partire dalla contestazione dello stesso criterio di assegnazio-ne di quei ruoli (ovvero la sovrapposizioassegnazio-ne dei concetti di sesso e geassegnazio-nere), e che proprio per questo diventerà uno dei capisaldi dei movimenti di contestazione degli anni '60 e '70: il femminismo, certo, con il rifiuto delle figlie di ripercorrere il percorso di subordinazione

6 Simone de Beauvoir (1961: 151). In: http://www.archetipolibri.it/materiali/guerra/Il-secondo-sesso.pdf

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delle loro madri; ma anche l'antimilitarismo, con il rifiuto dei figli di continuare a morire nel-le guerre dichiarate dai loro padri; e l'attivismo omosessuanel-le, con il rifiuto di rimanere chiu-si in quello sgabuzzino la fuoriuscita dal quale chiu-si riassume nel rito del coming out.

Nel 1957 Jacques Lacan tornerà sul tema del mascheramento - passando dal gene-re come oggetto psichico incorporato al genegene-re come manifestazione somatica soggetti-va8. Sull'onda dello strutturalismo di De Saussure, Lacan propone un approccio etic alla triade corpo / sesso / genere - il cui punto di gravità permanente è rappresentato dal fallo.

Da un lato, ciò che chiamiamo maschile è fatto coincidere col fatto di possedere un fallo. Quando gli uomini si ricoprono di segnali somatici o artificiali (in un continuum che va, per esempio, dagli addominali scolpiti a tartaruga alle giacche tagliate a doppio petto), essi non fanno altro che esibire il proprio fallo: un'esibizione che Lacan definisce «parata maschile», nella quale avere (il fallo) conferma il fatto stesso di essere. In termini linguisti-co-strutturali, il possesso del fallo riunisce tutto ciò che il fallo può significare: è cioè la condensazione di un intero universo simbolico e dei suoi significanti - da cui il bisogno ma-schile di mostrare ciò che, per il fatto stesso di averlo, dà loro la prova di esistere.

Dall'altro, ciò che chiamiamo femminile è fatto coincidere col fatto di fare il fallo. Quando, similmente agli uomini, le donne si rivestono di segnali somatici o artificiali (primi fra tutti, abiti e accessori - ma anche qualunque parte del corpo possa essere truccata, ri-toccata, abbronzata, e in ultima analisi manipolata), in realtà esse non fanno che esibire un fallo che non possiedono: un'esibizione per negazione che Lacan definisce mascherata femminile, nella quale fare (ovvero comportarsi come, o come se si avesse) il fallo confer-ma il proprio non-essere. In termini linguistico-strutturali, la confer-mancanza del fallo riassume tutto ciò che il fallo potrebbe significare se solo lo si possedesse: racchiude cioè tutti i si-gnificati che gli sono stati attribuiti, e che proprio per questo al loro significante sono indi-rizzati - da cui il bisogno femminile di rivolgersi a chi-è per riempire il proprio non-essere.

Dall'altro ancora, ed è questo il versante più interessante per il mio lavoro, c'è la di-mensione del sembrare il fallo: che, proprio come il genere, è sembiante privo di sostanza; puro non-essere che si finge essere; e quindi spazio vuoto in cui si pone chi, per definizio-ne, si manifesta attraverso una mascherata femminile della parata maschile. In una parola, quello che Lacan chiamava semplicemente travestito ma che oggi si è moltiplicato in una serie di corpi che, per diventare segni, non possono essere liquidati come maschili fallici o femminili non-fallici - come invece aveva fatto Lacan. In quanto esteriormente mascherato, cioè femminilizzato ad arte, e intrinsecamente in parata, poiché maschile di natura, il

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derno corpo travestito ha infatti l'impellente bisogno di esplicitare il nesso tra significante (il travestito - sia egli un artista, uno sperimentatore del sesso o un transfuga da se stesso) e significato (il travestimento - per arte, pulsione o chirurgia) per non perdersi: come chiun-que abbia un corpo, senza il quale nessuna insegna può veicolare alcun senso.

Post Scriptum: nel 1983, Eugénie Lemoine Luccioni riprenderà il discorso di Lacan sul genere come mascheratura - senza per questo destrutturare l'asimmetrica sessuale che ne rendeva il lavoro letteralmente fallocentrico. In linea di principio, Lemoine Luccioni riconosce infatti la differenza sostanziale tra fallo e pene - se non altro perché, se l'uno fosse realmente sinonimo dell'altro, «gli uomini non avrebbero bisogno di piume, cravatte o medaglie» - ed arriva a teorizzare che «l'esibizione [parade] proprio come la maschera-ta, tradisce dunque un'incrinatura: nessuno ha il fallo»9. Intuizione che tradirebbe un'impo-stazione proto-decostruzionista se solo, nel passaggio dallo studio alla passerella, Lemoi-ne Luccioni non cedesse alle sireLemoi-ne del geLemoi-nere - fiLemoi-nendo così per riesumare le parate ma-schili e le mascherate femminili di Lacan, entrambe misurate sul metro del fallo:

«Se la donna non ha il fallo, se la sua posizione nell'essere è segnata da que-sta assenza, se per struttura non può avere il fallo, il rapporto con l'abito la orienta nel poter essere il fallo per l'Altro (…) L'abito assume qui il valore - per riprendere due termini lacaniani - non di una “parata” ma di una “mascherata”: indossare un abito confronta una donna con la propria mancanza alla quale però l'abito stesso offre un velo. La grazia e lo stile femminile trovano qui una loro radice e una loro definizione di fondo: essi sono un modo di trattare in maniera sublime il niente e l'assenza che abita il corpo della donna»10

Posizione perfettamente legittima e, limitatamente all'osservazione del fashion sy-stem, anche condivisibile - non foss'altro perché, negli anni '80, il catwalk è effettivamente diventato il nuovo laboratorio della femminilità secondo gli uomini: legittima ma, a mio pa-rere, desolante - se non altro perché svela il riflusso degli anni '80 rispetto agli anni '70.  Di come il genere entrò rumorosamente in società

Nel 1975, mentre Gayle Rubin lavora a Traffic in Women (in cui teorizza il sex/gen-der system come «l’insieme degli adattamenti attraverso i quali una società trasferisce la sessualità biologica nei prodotti dell’attività umana, e i bisogni sessuali così trasformati trovano soddisfazione»11 - aprendo così la strada al femminismo radicale e al cosiddetto pensiero della differenza), Michel Foucault completa la sua Histoire de la sexualité12.

9 Lemoine Luccioni (1983), in entrambi i casi, citata in Garber (1992:318) 10 Lemoine Luccioni (1983:5)

In http://books.google.it/books/about/Psicoanalisi_della_moda.html?hl=it&id=Mi61Hqj6V3kC

11 Rubin (1975:15) http://books.google.it/books/about/The_Gendered_Society.html?hl=it&id=ExjWDtstbQYC

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Teorico della bio-politica, ovvero del controllo politico degli individui attraverso la sorveglianza medica giudiziaria o educativa di tutto ciò che attiene al loro corpo a partire dalla sessualità, Foucault apre la sua Histoire parlando in realtà molto più di uomini che di donne - per ragioni biograficamente comprensibili ma, a mio parere, non per questo condivisibili. E tuttavia quando ne parla, di donne, lo fa nei termini dell'isterizzazione del suo corpo - processo che Foucault suddivide nei tre momenti in cui il corpo femminile vie-ne prima analizzato in quanto (iper)sessuato e quindi eversivo per l'ordivie-ne sociale; poi medicalizzato in quanto portatore di una patologia ad esso connaturata (l'isteria, per l'appunto), cioè posto sotto il controllo permanente da parte del potere bio-politico; e quindi posto strategicamente al confine tra vita pubblica e vita sociale, caricato cioè del-l'onere di mantenere un rapporto osmotico (e, va da sé, ordinato) tra l'una e l'altra.

Foucault non introduce quindi esplicitamente il termine genere, ma ne lascia trapela-re la funzione tutte le volte in cui parla di trapela-relazioni (di potetrapela-re) tra corpi individuali e tra corpi individuali e sistema (gestore del potere) - ma credo basterebbe un'analisi più approfondi-ta dell'Histoire per verificare la sottile eppure viapprofondi-tale differenza tra genere (duale, e quindi bi-sessuato) e ruoli di genere (astratti, e quindi estendibili alle dinamiche omosessuali).

Post Scriptum: nei circa vent'anni che separano le inquietudini degli anni '60 e le di-sillusioni degli anni '80, Pierre Bourdieu rielaborerà il suo concetto principe (quello di ha-bitus) - che, pur non essendo stato pensato per il contesto specifico dei gender studies, può comunque portare un contributo ulteriore al quale non sarebbe saggio rinunciare. Pur senza entrare nello specifico delle varie definizioni via via attribuitigli, l'habitus:

«è una “struttura strutturante” che organizza i vissuti, le pratiche e le rap-presentazioni del mondo degli attori sociali, individuali e collettivi, ma an-che la “struttura strutturata” in quanto quei modelli interpretativi, valutativi ed espressivi rimandano a specifiche coordinate spazio-temporali»13

Nel nostro caso, il genere può essere considerato una struttura strutturata - e questo rende uomini e donne oggetto del suo potere poietico, che agisce e si esplicita durante il loro processo di socializzazione. Nel paradigma di Bourdieu il genere è però anche una struttura strutturante - e questo, oltre a marcare la differenza tra il dinamismo dell'habitus e il meccanicismo dell'habitude, rende la struttura strutturata permeabile alle soluzioni più imprevedibili e innovative (queer, si inizierà a dire di lì a poco) ed i suoi attori direttamente responsabili della sua conservazione trasformazione o persino estinzione.

13 Corchia (2006:19) In: http://serraweb.unipi.it/ dsslab/trimestrale/Archivio – Articoli/CorchiaL. - La_prospettiva_relazionale_di_Pierre_Bourdieu.pdf ; mie sottolineature

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Del perché il genere andò in frantumi - e di cosa (alcuni) fecero con i cocci

Dopo l'esplosione degli anni '70, il tema del genere attraversa gli anni '80 nelle forme dei women's studies, lesbian and gay studies e post-colonial studies - per poi riemergere, completamente destrutturato, nei neonati queer studies. L'occasione è il convegno Queer Theory: Lesbian & Gay Sexualities, tenutosi presso l'Università della California Santa Cruz nel Febbraio 1990 - la cui prolusione, di Teresa De Laureti, diventa il manifesto queer:

«Saremo pronti a esaminare, esplicitare, confrontare e confrontarci sulle rispet-tive storie e strutture concettuali che hanno caratterizzato l'auto-rappresentazio-ne delle donl'auto-rappresentazio-ne lesbiche e degli uomini gay, sia bianche/bianchi sia di colore, l'auto-rappresentazio-nel Nordamerica fino a ora; da lì saremo in grado di andare avanti a reinventare i termini delle nostre sessualità, a delineare un altro universo di discorso, un altro modo di pensare il sessuale»14

Appare subito evidente che il pensiero queer non si propone di spostare il confine del concetto di genere per farvi entrare sessualità fino a quel punto considerata eccentrica (se non addirittura abietta), ma di polverizzare l'intero edificio del genere - e con esso la cultu-ra patriarcale contestata dalle femministe, il binarismo eterosessuale avversato da lesbi-che e gay, il sistema in via di globalizzazione rifiutato dai paesi decolonizzati, e, in ultima analisi, qualunque struttura di potere che utilizzi l'asimmetria originaria uomo / donna.

Una destrutturazione che parte, e non potrebbe essere altrimenti, dal lessico - il cui potere di significazione negativa viene disattivato indossando come un'insegna di merito ciò che era pensato come un marchio d'infamia: come cioè, nel 1850, Nathaniel Hawthor-ne aveva trasformato la lettera scarlatta imposta per ignominia all'adultera Hester PrynHawthor-ne nel segno della sua capacità di tener fede alla propria dignità di madre non (più) sposata - nel tentativo dichiarato di destrutturare l'ipocrisia dominante nel New England di cui la sto-ria e il suo autore sono nativi; così, nel 1990, i congressisti di Santa Cruz trasformano l'of-fensivo queer (sulla linea «strambo» → «malaticcio» → «effeminato» → «abietto») nell'or-goglioso queer - nel quale andranno a convergere pratiche di rivendicazione basate sulle pratiche (uguale e contrarie) di esclusione: che vanno dalla chiassosità dei Gay Pride alla provocatorietà dei kiss-in alla teatralità di Drag Show, accomunate da una cornice carne-valesca il cui obiettivo è ridicolizzare la rigidità del binarismo eterosessuale15.

Nell'impossibilità di ricostruire gli svariati aspetti e sviluppi del pensiero queer, mi limi-terò al contributo che ho trovato più stimolante - e non solo nell'economia della mia ricer-ca: il concetto di gender as performative (frutto del destrutturalismo di Judith Butler).

14 De Laureti (1999:105-106)

In: http://books.google.it/books/about/Soggetti_eccentrici.html?hl=it&id=rGo5FIFr2pAC&q=queer+theory

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Nel 1990, Judith Butler pubblica Gender Trouble - destinato a diventare lo spartiac-que tra costruzionismo e decostruzionismo nell'ambito degli studi di genere. Punto centra-le del testo, il concetto di genere come (dispositivo) performativo: che Butcentra-ler riprenderà nel decennio successivo adattandolo ora alle considerazioni sul genere come (forma di) ma-linconia, ora alla costruzione dell'identità queer - e che, nell'economia di questo lavoro, ri-sulta di fondamentale importanza per i riferimenti espliciti alla scena drag16. Nella formula-zione originaria, Butler definisce la performatività del genere da tre diversi livelli di analisi.

Da un lato, «la performance di genere consist[e] nella produzione retroattiva dell'illu-sione di un nucleo pre-esistente di genere». Si ipotizza qui il genere come realtà psicologi-ca virtuale: la rappresentabilità esteriore di un genere (ad esempio, quello femminile) non implica infatti l'esistenza di una femminilità intrinseca da cui la rappresentazione possa trarre ispirazione. La performance di femminilità mi appare quindi assimilabile ad un river-bero acustico o visivo - laddove la produzione di un eco o di un riflesso non implica affatto che una gola montana possegga una voce, o che una superficie lucida possegga una luce. Il che contribuisce a scardinare dalle fondamenta il concetto del genere come pro-prietà innata o addirittura costitutiva di Ego, come confermato dall'acquisizione del pensie-ro di Butler da parte delle correnti decostruzioniste della moderna psicoanalisi17.

Dall'altro, il genere è considerato come «prodotto nella forma di una ripetizione ritua-lizzata di convenzioni». Lo sguardo sul genere si sposta qui dall'interiorità individuale all'e-steriorità collettiva: il risultato è che il genere (stavolta e per par condicio, maschile) è per-cepibile in quanto sequenza immutata di comportamenti condivisi il cui risultato è, per l'ap-punto, la maschilità. Il genere è cioè frutto di un processo di addestramento ad un preciso codice comportamentale - sicché la performance di maschilità finisce per non essere altro che una coreografia, direi non diversa da quella sempre uguale della Old Guard, il Terzo Fanteria dell'Esercito USA preposto alle esequie solenni di militari ed alti ufficiali dello sta-to18 - la cui ritualità celebra più la coesione della comunità che la memoria dei singoli.

Dall'altro ancora, il genere come rituale è «parzialmente vincolato, sul piano sociale, dal potere di una forzata eterosessualità». Premesso che una performance è un'esibizione che trova la sua ragion d'essere nella presenza (se non addirittura nella partecipazione da parte) di un pubblico, Butler la incardina al contenuto della narrazione che essa produce non solo per chi l'esegue ma anche e soprattutto per chi vi assiste. A questo livello il

gene-16 Le citazioni sono tratte da Butler, «Melancholy Gender / Refused Identification» (1995a); mie traduzioni. 17 Per il rapporto tra psicoanalisi e decostruzionismo: Dimen e Goldner (2006)

18 Per storia e funzioni della Old Guard: http://www.army.mil/info/organization/unitsandcommands/command

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re smette di essere considerato come prerogativa dei singoli individui, ma funziona come dispositivo di controllo sociale che li indirizza ad una relazione di segno normativamente eterosessuale: ne consegue che lui e lei possono legittimamente dirsi espressione di ma-schilità e femminilità solo nella misura in cui si costituiscono come coppia sessuale - evi-dentemente finalizzata alla continuazione materiale e simbolica della specie. Butler non lo scrive, ma credo sia di tutta evidenza che qualunque performance di genere non rispetti (soprattutto) quest'ultimo criterio si possa considerare letteralmente de-genere.

Nella versione del 1990, Butler articola la performance drag come metafora (letteral-mente regina) del genere come performativo. Il punto qui non è infatti che la Drag Queen deve imitare il femminile perché, in quanto artista uomo, la femminilità non le/gli appartie-ne - mentre una donna, in quanto donna, il femminile non deve imitarlo per il semplice fat-to di incarnarlo; ma che la Drag Queen può imitare il femminile che, in quanfat-to imitabile, si dimostra non sostanza ma accidente - tanto per gli uomini en travesti quanto per le donne. In questo caso il Drag Show diventa quindi l'esplicitazione di un gender show la cui atten-dibilità si limita all'illusione creata dall'esposizione di un'etichetta di genere.

Nel 1995, Butler torna sul tema con “Melancholy Gender / Refused Identification” - aggiornando il nesso genere / dispositivo performativo / performance drag alla luce dell'ul-timo dei Tre saggi sulla sessualità di Freud. Il quale descrive l'entrata nella pubertà come un processo di ri-orientamento delle pulsioni sessuali (ormai) infantili dai genitori ai propri pari: un cambio d'indirizzo che, influenzato dalla proibizione dell'incesto e finalizzato allo stabilirsi di una personalità eterosessuale, non può che implicare l'abbandono della madre (per i ragazzi) e del padre (per le ragazze). Un assunto, quella della rimozione delle pul-sioni erotiche rivolte ai propri genitori, che Butler rilegge in chiave queer: i/le preadole-scenti devono infatti rinunciare al genitore di sesso uguale prima ancora di rinunciare al genitore di sesso diverso - in un percorso di doppia perdita tanto più doloroso perché la seconda (sdoganata dalla diffusione della psicoanalisi) si sovrappone alla prima (rimossa nel discorso pubblico prima ancora che nella gamma che si pensa di poter sperimentare).

Il passaggio adolescenziale per doppia negazione (non ho mai voluto il genitore del mio sesso prima di quello dell'altro sesso) avviene, per Butler, attraverso una never-never-structure e porta con sé almeno due implicazioni: da un lato, la scelta eterosessuale è (o almeno, aggiungerei io, può essere) la naturalizzazione di una rinuncia omosessuale - sic-ché si può ben dire che il genere sia «prodotto nella forma di una ripetizione ritualizzata di convenzioni, parzialmente vincolata, sul piano sociale, dal potere di una forzata

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eteroses-sualità»; dall'altro il lutto legato alla prima rinuncia parentale è causa del lutto legato alla seconda, ed è quindi il primo lutto a generare la melancholy gender del titolo.

In questa seconda formulazione, il Drag Show non si limita a portare in scena ciò che non si è (l'artista-uomo che rimpiange la donna che ha potuto essere) ma si spinge a rap-presentare ciò che non si è riusciti ad essere (l'artista-non-donna che rimpiange i desideri da uomo, ha dovuto reprimere). Se cioè nel primo caso piangere il femminile è riflesso di ciò che l'artista ha rinchiuso dentro di sé (e qui mi appare emblematica l'insistenza, da par-te di Butler e non solo, sul fatto che molpar-te Drag Queen siano uomini epar-terosessuali19), nel secondo diventa riflesso di ciò che l'artista ha dovuto espellere da sé (a seguito del pro-cesso di virilizzazione del gay contemporaneo). In entrambi i casi, e al netto dell'inseri-mento della variabile dell'orientadell'inseri-mento sessuale, il paradigma di riferidell'inseri-mento rimane però quello etero-binario - che la dislocazione dell'identificazione di sé e dell'oggetto sessuale non riesce a scardinare ed anzi in un certo senso finisce per confermare.

Forse per questo, nello stesso 1995, Butler ridefinisce ulteriormente il raggio di per-formatività del drag - che passa dalla prospettiva di genere a quella queer20. Posto infatti che non basta esporre la convenzionalità del genere come base del modello eterosessua-le per superare sia l'una che l'altro, effetto del drag (proprio attraverso l'esagerazione deleterosessua-le sue rappresentazioni di genere) è, nella migliore delle ipotesi, una riflessione sull'irrag-giungibilità dei modelli di genere - la cui irrealtà è la prova della loro insostenibilità.

Da un lato, la dottrina binaria dei generi non può quindi che scartare ciò che appare perturbativo dell'ordine costituito, cose persone o comportamenti che siano - poiché:

«essere uomini o donne è un processo che si realizza nelle diverse realtà so-ciali in cui i soggetti si trovano ad agire, e tuttavia tale identità viene ad essere consolidata mediante aspetti materiali - il portamento, le dimensioni corporee, il modo di parlare, ecc. - e aspetti simbolici - discorsi, classificazioni e categorie - di cui le persone non possono facilmente spogliarsi senza rinunciare ad una parte fondamentale di sé»21

Dall'altro, la dottrina queer non può che raccogliere tutti i frammenti scartati (e che in-fatti Butler definirà «materie prime inevitabilmente impure»22) e indossarli come le toppe colorate su un abito da Arlecchino. Quando questa operazione, estetica e identitaria insie-me, raggiunge la sua massima espressione, ecco comparire lei: la Drag Queen.

19 A questo proposito, si veda per esempio: Kholos Wysocki (1993) 20 Butler (1995b)

21 Sassatelli (2006), in introduzione a Connell (2006:10), con riferimento a Bourdieu (1998) 22 Butler (1995b:183)

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1.b A

-

B

-

C

-

D

RAG

Per definizione una Drag Queen è un artista di sesso maschile ed orientamento soli-tamente omosessuale, che si esibisce in spettacoli pubblici ed in abiti femminili.

Linguisticamente parlando, l'inglese Drag rimanda al verbo to drag («trascinare», det-to di oggetti pesanti o persone riluttanti) e al sostantivo drag («peso mordet-to», detdet-to di tempi e contesti noiosi): è invece un neologismo nel significato di «abbigliamento tipico del ses-so opposto, indossato per motivi artistici». Quanto a Queen, il significato primo di «regina» si modula al negativo sulla linea «reginetta della festa / primadonna» → «bisbetica / vec-chia brontolona» (attraverso il Rinascimentale ed omofono quean) → «checca», per poi tornare a «Regina»: in questo caso, il percorso di riassegnazione simbolica (dal valore ne-gativo assegnato da chi offende, a quello positivo di chi rifiuta di sentirsi offeso) ricorda quello già descritto di queer (che va da «strambo» a «malaticcio» → «effeminato»).

Sul piano psico-emotivo, la dimensione Drag ha legami minimi con la realtà trans-se-xual (laddove «transessuale» è l'uomo che modifica il proprio corpo per acquisire i caratte-ri sessuali pcaratte-rimacaratte-ri e secondacaratte-ri femminili, in un percorso che non esclude una fase Drag) e nulli con la realtà transvestite (poiché il «travestito» è l'uomo che usa gli abiti femminili come tecnica di adescamento, e che proprio per questo viene stigmatizzato dalle Drag Queen). Tangibile è invece il nesso con il transgenderismo - anche se, nel contesto Drag, l'attraversamento di genere non è identitario ma piuttosto effimero e finalizzato al contesto artistico: non per niente si dice che una Drag Queen in abiti di scena è en travesti (espres-sione francese da cui l'inglese travesty, pantomima - in senso sia teatrale che traslato), mentre un uomo transgender in abito femminile è en femme (altro francesismo, indicante il genere femminile e l'universo simbolico e materiale ad esso associato).

Chiarito questo, ho ugualmente scorso la letteratura (antropologica e non) che ha in-dagato la relazione tra sesso genere ed orientamento sessuale - per individuare i paradig-mi doparadig-minanti entro i quali la figura della Drag Queen chiede e cerca di trovar posto:

• il modello funzionalista (Mead, 1949), in base al quale la ragion d'essere dell'individuo (comprese le sue manifestazioni in termini di genere ed orientamento sessuale) coinci-de con il suo piegarsi alle esigenze coinci-della sua comunità (stabilite in base al sesso coinci-dei suoi membri), è ormai accademicamente assai datato; e tuttavia certe interazioni all'in-terno del Village, primo fra tutto il ruolo maall'in-terno (ovvero di madrina) affidato alla Drag Queen, hanno lasciato trasparire il permanere (magari latente) del ruolo ancillare della donna - il che mi ha consigliato di non tralasciare del tutto questo punto di vista;

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• il modello strutturalista , che in vero considero tanto analitico nel metodo quanto acriti-co nel merito, ha però la capacità di dipingere gli sfondi su cui proiettare individui e tra-sformazioni; nel caso specifico, il concetto di «habitus» (Bourdieu, 1966; 1972; 198023) fornisce quindi un ottimo paradigma entro cui inquadrare le relazioni tra il pubblico (in quanto contesto strutturato) e le Drag Queen (in quanto soggetti de-strutturanti);

• il modello queer (De Laureti, 1990), legato alla scuola decostruttivista, mi ha invece fornito una cornice abbastanza flessibile da facilitare l'approccio ad un fenomeno an-cora insolito per l'Italia - aiutandomi a interpretare le specificità lgbt del Village e a de-codificare contesto e registro espressivo delle Drag Queen con cui ho lavorato.

Una volta scelto il punto di vista da adottare, sono passata agli studi (antropologici e non) che hanno stabilito un nesso tra genere e travestimento come rappresentazione del genere - e che io ho interpretato alla luce dei dati che emergevano dal lavoro sul campo: • il concetto di «femminilità come progetto» (de Beauvoir, 1949) è stato riposizionato dal

significato di genere come divenire (proprio delle persone del sesso corrispondente) a quello di genere come plasmare (accessibile anche alle persone di sesso differente): al netto del contesto storico per cui il concetto era stato elaborato, ho trovato interes-sante l'idea del genere come altro dal destino sociobiologico; intuizione che, nella pro-spettiva queer da me scelta, si estende dal genere all'orientamento sessuale - con tut-te le implicazioni che ne conseguono in un campo di ricerca a connotazione lgbt; • il concetto di «femminilità come mascherata» (Riviere, 1929) è stato utilizzato

nell'ac-cezione originale di rappresentazione (in cui il genere è il fine identitario da persegui-re) e nel senso lato di metafora (in cui il genere è il mezzo per completare la perfor-mance artistica): messe tra parentesi le implicazioni psicoanalitiche, che non facevano parte del mio orizzonte di ricerca, ho quindi enucleato il genere come discorso intorno al quale si organizzano il fenomeno del drag e la griglia entro cui analizzarlo - mentre la femminilità è stata trasformata nello stile narrativo del discorso medesimo;

• il concetto del «vestito come maschera» (Lemoine Luccioni, 1983) è stato invece usa-to come specchio rovesciausa-to: nell'impossibilità di applicare alla Drag Queen l'immagine del sotto il vestito niente, le ho sovrapposto quella uguale e contraria del sotto il vesti-to tutvesti-to - il che mi ha permesso di studiare il rapporvesti-to, ora armonico ora conflittuale, tra l'artista (soggetto en travesti, portatore del “tutto”) e il suo pubblico (destinatario della performance drag, cui si chiede di decodificare quel “tutto” come se fosse un “niente”).

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E tuttavia questa impostazione si è subito rivelata insoddisfacente - perché guardava a tutto ciò che fa genere dentro la persona, ovvero nella sua psiche; intorno la persona, vale a dire in ciò che l'avvolge; ma non nella persona, cioè nel corpo di cui la psiche è par-te e senza il quale nessuna insegna si può affiggere. Mentre invece, sera dopo sera, l'os-servazione e la relazione con gli interlocutori mi spostavano dall'idea preconcetta di Drag Queen alla Drag Queen in carne e ossa - facendo trasparire il fatto che la Drag Queen, in quanto tale, «esiste» ma «non è». Etimologicamente, «esiste»: nel senso che «appare» davanti ad un pubblico che ne sancisce l'esistenza per il tempo della performance o poco più. Ontologicamente parlando, «non è»: perché «una Drag Queen è un personaggio in-ventato che si risveglia quando inizia il rito del trucco e della vestizione e si assopisce quando si spengono i riflettori»24 - e quindi, fuori dal palco, semplicemente non esiste.

Forse è per questo che, istintivamente, ci si concentra sulla persona che presta il suo corpo alla Drag Queen: ricostruendo motivazioni e implicazioni (individuali e collettive) di quello scambio; spingendosi fin dentro l'animo dell'artista in quanto en travesti; per poi spaziare su coloro che cercano l'uomo attraverso l'en travesti. Da questa angolazione, la Drag Queen appare come parte integrante dell'uomo che la fa vivere - mentre l'uomo che la abita sembra ridursi alla sua capacità di convivere con il proprio alter ego. La Drag Queen diventa così una metonimia vivente: il personaggio per l'artista, la performance per il performer, il fenomeno per ciò che lo genera - fino all'estremo del travestimento che, massima estensione della semplice maschera, deborda dal contesto della performance e si sostituisce alla persona quanto a identità genere sesso ed orientamento sessuale.

Materia assai delicata, quella dell'identificazione di Ego in Alter. Non solo impersona-zione di un ruolo ma vera e propria sostituimpersona-zione, con buona pace dei tentativi di tenere se-parati i due livelli: dai semplici «io la considero sempre un’altra persona!» e «io ho sempre detto che "la Dolores è Daniele": non è che "Daniele è la Dolores"!»25, al più complesso

«Perché io, senti, quando tipo faccio le coreografie con i ragazzi, quando le montiamo, io faccio totalmente altre cose di quelle che faccio poi sul palco - nel senso che non mi ci vedo io, a mettermi davanti allo specchio con tutti quanti gli altri a aggiungere le movenze di Minerva...»26

fino al bisogno di separare gli spazi materiali e simboli per demarcare quelli esistenziali:

24 Intervista concessa a DragMagazine dalla Drag Queen Kelly Minogue (pubblicata su www.likepage.it il 07.10.2011)

25 Rispettivamente: interviste La Bratz (11.08) e a Dolores Van Cartier (10.08) 26 Intervista a Minerva Lowenthal (15.08)

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«c’è uno spazio che è solo per Marco, poi c’è uno spazio che invece... può es-sere sia per Marco che per Mizzy, e uno spazio che è solo per Mizzy - che è quello del palcoscenico. Anche se poi non è vero del tutto: perché comunque se non ci fosse Marco... non ce n’è lì, eh!»27

Non ce n'è, è vero, ma fino a un certo punto: perché se la Drag Queen è oggetto del-la performance (in quanto parte e veicolo deldel-la creazione artistica, e quindi inscindibile dal suo creatore), essa ne è anche il soggetto indiscusso (almeno agli occhi del pubblico della stessa performance). Un po' come avviene alla parola «persona» - che anticamente era sia la maschera che il personaggio, ma non l'attore che indossava l'una dar vita all'altro, mentre nella modernità è l'individuo che interpreta se stesso sulla scena sociale. E poiché la Drag Queen è il travestimento totale che l'artista indossa nella forma teatrale en travesti, è sulla sua identità di «persona» / maschera che ho deciso di concentrarmi: lasciando per una volta la «persona» / persona in quell'ombra dove so che spesso vorrebbe ritirarsi, e guardando invece alle trasformazioni del suo corpo - dalle quali la Drag Queen comincia.

Cercando ispirazione nella letteratura (antropologica e non solo), ho così individuato tre spunti che al corpo en travesti conducono pur non essendone partiti - al punto che due di essi non sono nemmeno stati inseriti nel prologo generale sul genere:

• la «significazione del fallo» (Lacan, 1958) ha il merito di aver demistificato il falso nes-so pene / fallo - laddove la materialità dell'uno è nes-solo la forma accidentale della nes- so-stanza dell'altro28. Messe tra parentesi le implicazioni fallo(logo)centriche che mi han-no reso la lettura di Lacan quanto mai sgradevole, ho però cercato un correlativo og-gettivo femminile - ovvero uno spazio femminile pieno, simbolicamente al fallo maschi-le - individuandolo nel seno (di gommapiuma) che ha tanto parte nel corpo en travesti della Drag Queen: dove quindi Lacan sostiene che il travestito aspira a “sembrare il fallo”, io credo di poter sostenere che la Drag Queen aspiri ad esistere “a prescindere dal fallo” - sostituito da quel seno che Lacan, in modo assai sospetto, non nomina mai. • la “donna-Barbie” (Rocchi, 1987) è la mia estensione di un lavoro sulle insegne consu-mistiche che ricoprono il corpo di Barbie: dove infatti Rocchi nota l'eclissi del corpo come massima metafora della mercificazione della donna-bambola soffocata da vestiti e accessori, io noto l'eclissi del sesso (Barbie e il suo compagno Ken sono tanto adulti quanto asessuati) come metafora dell'impotenza che colpisce un corpo sovraffollato di simboli; il che rimanda alle valutazioni di Foucault al controllo della comunità sul corpo del singolo - controllo esercitato offuscandone il più possibile la sessualità.

27 Intervista a Mizzy Collant (10.08)

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l' “uomo-cyborg” (Ciccone, 2003) rielabora infine l'idea lacaniana del fallo associandolo non solo ad una serie di insegne extracorporee, ma soprattutto alle protesi tecnologi-che tecnologi-che sostituiscono le amputazioni (materiali e simbolitecnologi-che) tecnologi-che lo sguardo maschile scopre nel proprio corpo. Visto per contrappasso, ho quindi riconosciuto nell'uomo-cy-borg di Ciccone il corpo di Lacan - dotato di pene ma privato del fallo: esattamente come il corpo di Ken, che deve svestirsi da maschio per avvicinarsi a Barbie; e come il corpo della Drag Queen, che deve svestirsi da uomo per potersi vestire da donna.

A questo punto la domanda è diventata: quale corpo, e di quale Drag Queen? Aven-do infatti avuto la fortuna di lavorare con ben sei professionisti dell'en travesti, ho potuto studiare la figura della Drag Queen da altrettanti punti di vista: il che ha allargato la base documentaria su cui poggiano le mie riflessioni, fornendo continui rimandi e conferme, ma ha anche impedito qualunque generalizzazione, spingendomi fatalmente a cogliere il di-verso rapporto che ciascuna di loro aveva con il corpo con cui si proponeva. Ha così ini-ziato ad emergere una mappa dei caratteri che mi sembravano i mattoni di un discorso sul genere - e per l'ultima volta volta sono tornata alla letteratura (antropologica e non solo): • l'aforisma lacaniano “l'inconscio è strutturato come il linguaggio” 29 affida al linguaggio

il compito di trasformare un organismo in corpo - così rendendo il soma in tutto dipen-dente dalla psiche (luogo dell'inconscio, che ha struttura para-linguistica). Se però la psiche è comunque inscindibile, ed è anzi espressione del soma, allora anche il corpo (luogo materiale dell'inconscio) ha una struttura para-linguistica: ne consegue che il discorso sul genere elaborato dalla Drag Queen è letteralmente inscritto sul suo corpo. • la metafora butleriana del «genere come performance» (Butler, 1995a) vede nella sce-na Drag il luogo in cui l'iperbole delle insegne di genere mette in crisi l'architrave etero-sessuale retto dalle colonne del sesso e del genere. Nell'ambito della mia ricerca, e te-nendo sempre lo sguardo fisso sul corpo della Drag Queen, cercherò di fare un passo avanti: dal «genere come performance» al «genere come performance linguistica» - dove la prestazione artistica en travesti veicola un discorso innovativo (in direzione queer) in fatto di sesso, genere ed orientamento sessuale.

29 Lacan, citato in Lemoine Luccioni (2002:16). Online in:

http://books.google.it/books/about/Psicoanalisi_della_moda.html?hl=it&id=Mi61Hqj6V3kC&q= %27inconscio+%C3%A8+strutturato+come+il+linguaggio

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Riassumendo, ed è questa la tesi centrale del presente lavoro: se il genere è uno dei linguaggi ordinativi con cui i gruppi umani veicolano il discorso sull'organizzazione sociale (in questo caso, distribuendone i ruoli in base ad una sintassi di segni presenti o impressi sul corpo); e se sempre meno persone sono disponibili a comunicare in quel codice, e quindi ad incorporare quei segni; si può ipotizzare che questa resistenza si esprima attra-verso una neo-lingua di cui le Drag Queen sono sia i grammatici che i parlanti nativi? Il che ha aperto a due domande che ho cercato di tener presenti nel corso del mio lavoro.

Da un lato: quali sono i segni minimi di questa neo-lingua? Come cercarli, riconoscerli e classificarli? Possono essere quei tratti somatici in sé neutri (rispetto al genere) ma che possono però perdere di neutralità nel momento in cui entrano nel linguaggio somatico del genere? A questo livello la mia risposta è: assolutamente sì - e infatti, per comodità di indi-viduazione e analisi, ho pensato di chiamarli «somemi» (nel senso dei componenti minimi di un «body alphabet» presente in massima potenza nel corpo della Drag Queen)30.

Dall'altro: su quale corpo si inscrivono i segni minimi di questa neo-lingua? Su quello materialmente maschile dell'artista en travesti; su quello idealmente femminile della Drag Queen; su quello ibrido perché manipolabile che sta all'incrocio tra i due; o su tutti e tre contemporaneamente - massima metafora incorporata del linguaggio queer? Anche in questo caso la mia risposta, squisitamente queer, è: su tutti e tre. Il che ha voluto dire stu-diare con la massima attenzione tutto ciò che succedeva nel backstage del Village - nel quale, come nella più tipica delle caverne sacre, ho visto i tre corpi metamorfosarsi l'uno nell'altro secondo sequenze precise che altrimenti non saprei definire se non sintattiche.

Per costruire questo progetto, ho scelto come luogo di ricerca il Padova Pride Village - annuale kermesse estiva padovana in cui alle Drag Queen sono affidate l'accoglienza dei frequentatori e l'animazione delle serate. Il titolo scelto per la presentazione dei risultati - Le Misteriose Madrine Del Borgo Arcobaleno - evoca il senso antropologico del lavoro e l'i-dentità dei soggetti della sottostante ricerca etnografica. Da un lato, misterioso è l'aspetto della realtà che ho deciso di indagare; madrina è il ruolo in cui la Drag Queen è inquadrata all'interno del Padova Pride Village; borgo è la dimensione comunitaria cui si ispira il Villa-ge medesimo; mentre l'arcobaleno è il simbolo della comunità omosessuale che ha voluto e organizzato l'evento. Dall'altro, le iniziali del titolo rimandano a quelle delle Drag Queen al centro della ricerca - e senza la cui disponibilità personale e collaborazione professiona-le questo lavoro non sarebbe stato possibiprofessiona-le. E quindi: L è La Crisandra; M, Minerva Lo-wenthal; M, Mizzy Collant; D, Dolores Van Cartier; B, La Bratz; e infine A, Ape Regina.

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Il lavoro è presentato in due sezioni distinte ma interconnesse: una etnografica (frutto dei materiali audio, video e testo raccolti sul campo sotto forma di) e l'altra antropologica (centrata sull'analisi della costruzione materiale e simbolica del corpo della Drag Queen).

a. La sezione antropologica è articolata su tre segmenti tematici:

1. Le radici italiane del fenomeno Drag Queen - premesso che la Drag Queen è figura della contemporaneità di derivazione Anglo-Sassone, ho individuato due radici ita-liane (una regionale, l’altra nazionale) che mi guidassero in quella che è a tutti gli effetti un’attività di ricerca storica e traduzione del fenomeno en travesti:

• C'era una volta una gatta - l'antico Carnevale della Serenissima Repubblica di Venezia come luogo in cui le maschere esprimevano un discorso critico sui rapporti di sesso genere e orientamento sessuale attraverso il potere eversivo del cross-dressing incarnato da due figure: la Gnaga, l'omosessuale in abito femminile che adescava uomini in abito maschile, e il Mattacino, l'uomo di incerta collocazione e di ancora più incerta gestualità (correlata di fionda e uova profumate alla rosa).

“Bambole, non c'è una lira!” - l'avanspettacolo come forma d'arte teatrale in cui si incrociano due personaggi che ritengo fondanti della figura nostrana della Drag Queen: la primadonna, prototipo della donna-che-non-esiste perché esagerazione della donna-che-c'è, e il gagà, forma performante dell'uomo-non-virile che unisce la vanteria da seduttore «maschio» e l'eterna astenia «femminile». A completamento di questa sezione, il breve ritratto di Diamonds - al secolo Vinicio Diamanti, proba-bilmente il primo artista sistematicamente en travesti dell'avanspettacolo italiano. 2. Le Resident Drag Queen del Padova Pride Village - fedele alla scelta di focalizzare

la mia ricerca sulla Drag Queen come maschera totale, e non sull’uomo come oc-casionale portatore di quella maschera, ho costruito sei capitoli nei quali:

ricostruisco la genesi di ciascuna Drag Queen - usando la biografia dell’interlocu-tore, ma senza sovrapporre persona e personaggio, e ottenendo così una sorta di favola, prodotto letterario quanto mai adatto ad una figura così immaginifica;

• enucleo i caratteri distintivi del personaggio - incrociando rappresentazione (per-cezione e relazione da parte dei frequentatori del Village) ed auto-rappresentazione (gli spunti forniti dagli interlocutori), fino a giungere ad un ritratto compiuto;

• recupero i riferimenti culturali (quasi sempre stranieri e prevalentemente cinema-tografici) che più si adattano a ciascuna Drag Queen - con questo acquisendo il lin-guaggio simbolico che sta alla base della costruzione di ciascun personaggio;

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• richiamo le più confacenti tra le considerazioni dei teorici scelti come guide bi-bliografiche - estendendone gli spunti all’individuazione di quanto ipotizzato (ovvero i tratti distintivi della figura della Drag Queen come somemi di quella neo-lingua che è il genere, da ripensare proprio perché ormai destrutturato).

3. La neo-lingua della Drag Queen - riuniti i materiali di campo e quelli di studio in una sintesi teorica, ho verificato la fondatezza dell’assunto iniziale - nella speranza di rispondere a quel «Su cos’è la tua tesi?» che ha preceduto ogni intervista e con cui ogni interlocutore ha chiesto un senso compiuto al senso della mia ricerca.

b. La sezione etnografica è articolata su quattro segmenti tematici:

1. Il villaggio e il suo doppio - descrizione del campo di ricerca in cui si è svolto l'even-to studial'even-to. Alla luce della struttura degli universi sociali contemporanei, quesl'even-to ca-pitolo ha preso in considerazione il Padova Pride Village sia come spazio reale (di cui la Fiera di Padova è il luogo fisico) che come spazio virtuale (laddove Internet è il luogo cibernetico su cui lo spazio reale si proietta ed espande).

2. “Buona sera, Village!” - ritratto delle sei Resident Drag Queen su cui è imperniata la ricerca e dei quattro intrattenitori che li accompagnano, costruito attraverso docu-menti scritti (annotazioni personali e trascrizioni) e audiovisivi (registrazioni, filmati e fotografie). Nonostante i nomi di alcuni artisti en travesti siano riportati nel profilo fa-cebook del Padova Pride Village (e non mi sia stata fatta alcuna richiesta in merito), ho ugualmente scelto di non trascriverli - poiché non è sulle persone che s'incentra questo lavoro, ma sui personaggi che esse indossano. Per comodità, i nomi fittizi delle persone sono stati scelti usando la stessa iniziale del nome dei personaggi. 3. Villeggianti di terra e di rete - presentazione dei frequentatori del Village in quanto

controparte nella relazione con le Drag Queen; analogamente alla relazione sul vil-laggio, anche per i villeggianti ho analizzato documenti reali (le opinioni raccolte sul campo attraverso un questionario e svariate conversazioni informali) e virtuali (i commenti formulati sul profilo facebook della kermesse). In coda a questa sezione è inserito anche il breve ritratto di un ospite del Village, aspirante Drag Queen e cerniera tra gli artisti en travesti ed il loro pubblico.

4. Una notte al Village - relazione sui Drag Show del Venerdì sera, con particolare rife-rimento all'analisi comparata dei vari tipi di Drag Queen e delle loro performance; i documenti presentati sono stati raccolti per via diretta (osservazione sul campo di tre spettacoli) e indiretta (studio di segmenti registrati di altri tre show).

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2.a C’ERA UNA VOLTA UNA GATTA

Venezia. Martedì 8 Marzo 2011. Martedì Grasso e Festa della Donna insieme. Priscil-la Splendor vince il «Premio Gnaga per Priscil-la Drag Queen più erotica», posto in palio dall'An-tica Compagnia de Calza «I Antichi». Durante la premiazione, le vincitrici delle edizioni 2011 (figura.1) e 2010 (figura.2) sfoggiano vistosi abiti femminili, parrucche e tacchi vertigi-nosi - e soprattutto una mascherina a muso di gatto. Ed è proprio da una maschera da gatto, che inizia il capitolo veneto della storia delle Drag Queen in Italia: una maschera da gatto, due uomini mascherati da donna e il tempo profano di maschere e mascheramenti.

Cossa voleu che andemo a far sul Liston? Ghe xe un mondo de baronaggia, che no se pol camminar. Truffaldini, purichinelli, gnaghe, tutti i baroni ghe corre drio, e co se gh’ha intorno qualcossa de bon, se va a rischio de imbrattarse1.

Risalgono al 1094 i più antichi documenti veneziani relativi ai civici festeggiamenti in cui i piaceri della carne (alimentare e non) restituivano una storia che risaliva a ben prima della fondazione della Serenissima. Nell’antica economia agricola, l’abbuffata tardo-inver-nale, straordinariamente concentrata per tempi e quantità, annunciava infatti l’approssi-marsi della primavera - coniugando il bisogno pratico di esaurire le scorte vecchie, non più conservabili, con l’esigenza propiziatoria di garantirsene delle nuove. Nel frattempo, la lati-nità codificava le prassi agro-invernali nella forma rituale dei Saturnali e Baccanali - dai quali Venezia avrebbe ereditato i tratti più tipici e trasgressivi del proprio carnevale prossi-mo venturo, erede (non solo semantico) dell'antico carnem levare in cui era lecito insanire. Perno di questa giostra pagana dell’abbondanza e della continenza, il Giovedì - sacro al Giove pantagruelico, dio «grasso» di una gioia di vivere non a caso detta «giovialità».

Al tempo pagano si era poi sovrapposto l'anno liturgico cristiano, i cui divieti di consu-mare carne durante la Quaresima si sostanziavano negli statuti comunali sui corrispon-denti divieti di macellazione: se però la Chiesa Romana aveva imposto 40 interminabili giorni di digiuno e penitenza, Venezia avrebbe trasformato l’originale settimana di feste la-tine in una doppia stagione di circa 140 giorni. Il carnevale in laguna viveva così un prolo-go autunnale, dalla prima Domenica di Ottobre (giorno di apertura dei teatri) al 16 Dicem-bre (inizio della novena di Natale); una sobria ripresa post-natalizia, dal 26 DicemDicem-bre all’E-pifania; ed un crescendo vertiginoso, dal 7 Gennaio al Giovedì Grasso (almeno sino al 1296, quando il Senato della Repubblica fissò come termine ultimo il Martedì Grasso).

1 Goldoni C., Le donne gelose, Atto 1, Scena 4. In C.Goldoni, Tutte le opere; a cura di G.Ortolani; vol.4, se-conda edizione; A.Mondadori editore; Milano, 1955. Il grassetto è mio.

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Una follia collettiva che secoli di leggi e statuti cercheranno di arginare, e cui il Consi-glio dei Dieci e le Compagnie della Calza dedicheranno giochi balli e spettacoli. Tra questi, la Caza al Toro - in cui il Vescovo di Aquileia e i suoi cavalieri, protagonisti di una fallita sollevazione contro Venezia, venivano sacrificati sotto forma di 12 maiali e un toro (offerti prima dal Friuli per obbligo di tributo, poi dal Doge per amore di tradizione); lo Svolo del Turco - con prigionieri turchi ed acrobati in abiti orientali a camminare su una corda tesa attraverso Piazzetta San Marco (guadagnandosi gli uni la libertà, gli altri prestigio e dana-ro); le Forze d’Ercole - piramidi umane in cui l’agilità sostituiva la forza dei Pugni, antica di-sfida rionale tra Nicolotti e Castellani; o ancora la Moresca - danza armata, tipica dei car-nevali di laguna e d’oltremare (e che rievocava l’eterna guerra tra Cristiani e Turchi).

A fianco dei riti di sostituzione delle lotte più o meno intestine della Serenissima, i riti di inversione riflettevano (rovesciato) l’ordine costitutivo della società veneziana - trasforman-do gli schiavi in padroni e gli uomini in trasforman-donne e rimescolantrasforman-do la città sul piano politico, giu-ridico, economico e addirittura di genere e etnia. Se dunque (a Venezia come nella Roma antica) il carnem levare era lo spazio-tempo dell'insanire, a Venezia come nella Roma an-tica la festa trasformava le persone in personas - nel senso latino e teatrale di «maschere» e «personaggi». Nei teatri, la locuzione dramatis personae strappava gli attori ai recessi in cui la società si relegava, trasfigurandoli in principi o donne - mentre, in calli e campielli, il saluto «Buon giorno, siora maschera» sovvertiva età generi e classi. Se quindi il Carneva-le di Venezia era drama, rappresentazione della realtà in cui ognuno recitava il sé stesso più gradito, era logico che all’apertura della stagione teatrale coincidesse il permesso in-vernale di indossare la maschera - oggetto magico che sovrapponeva essere ed apparire, garantendo una via di fuga dallo stato civile e simbolico in cui vivevano i veneziani.

Non stupisce quindi che sia la Chiesa di Roma che il Governo della Serenissima ri-conobbero nella maschera tanto un'insostituibile valvola di sfogo rispetto a società forte-mente asimmetriche, quanto il maggiore pericolo per il mantenimento dell’ordine simbolico precostituito. Fra il XIII e il XVIII secolo, la maschera veneziana venne quindi autorizzata durante tutto il lunghissimo periodo del carnevale, ma limitatamente alle sole ore del gior-no e ai travestimenti a carattere gior-non religioso; vietata alle prostitute sulla pubblica via come ai loro clienti nel privato dei bordelli; proibita agli uomini nelle case da gioco, per sal-vaguardare il diritto di riscossione, ma imposta alle donne nei teatri, per proteggere l'onore delle loro famiglie. Quanto alle pene per i trasgressori, divennero di rigore 2 anni di carce-re più 18 mesi di voga nelle Galecarce-re della Repubblica (per gli uomini) e la pubblica fustiga-zione più 4 anni di bando dai territori della Serenissima (per le prostitute). Più multa.

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A metà Quattrocento, i fulmini della Serenissima si abbatterono inoltre in modo chirur-gico sugli uomini travestiti da donna, impedendo loro di entrare nei monasteri per compier-vi gesto così inverecondi (ma inveterati) che nel 1603 un nuovo decreto compier-vietava alle ma-schere l’accesso tout court ai parlatori dei conventi - dove pare non ci si limitasse a parla-re. È di tutta evidenza che il problema non era che un uomo si travestisse da donna, ma che lo facesse in danno delle figlie dei patrizi della Repubblica o delle ancelle del Signore - e questo apre tutt'altro squarcio sull'uso (in questo caso maschile) non solo della masche-ra ma anche e sopmasche-rattutto del maschemasche-ramento da donna. A parte il brivido libertino di avvi-cinare signore e fanciulle altrimenti irraggiungibili, erano infatti due i motivi per cui un vene-ziano dell'epoca poteva decidere di travestirsi da donna: da un lato, il piacere goliardico di mettere in ridicolo le donne imitandone abiti e comportamenti; dall'altro, la libertà di ade-scare un altro uomo senza incorrere nei rigori della legge in fatto di omosessualità.

A questo proposito va ricordato che Venezia puniva l'omosessualità (ovvero la sodo-mia, che ne costituiva l'interfaccia morale) con la tortura prima, e con la combinazione de-capitazione-e-rogo poi: salvo per aristocratici e religiosi, la cui condanna veniva spesso commutata nell'esilio rispettivamente dalla Serenissima e dalla Chiesa. Figlie di una serie di scandali che avevano travolto decine di omosessuali (tra i quali nobili, prelati o pubblici funzionari), queste leggi sancivano l'inviolabilità delle barriere sia sociali che sessuali - o meglio, delle une per mezzo delle altre. Da questo punto di vista il carnevale forniva la cor-nice perfetta entro cui gli uomini veneziani potevano incontrarsi sessualmente senza con-seguenze - e se questo era il fine, il travestimento era uno solo: la Gnaga (Fig.3).

Rigorosamente vestito da popolana, con al braccio un cestino (contenente un gatto o più raramente delle uova) e accompagnato da bambini o da uomini vestiti da tati e tate (ai quali fingeva di far la balia), la Gnaga un po’ imitava e un po’ derideva i modi femminili - e che si trovasse sulla pubblica via, fra i tavoli di un’osteria o ad una festa da ballo, non perdeva occasione per adescare ed amoreggiare con altri uomini. Segni distintivi erano la maschera da gatta, le movenze sinuose, i lazzi licenziosi, e soprattutto i miagolii striduli e ammiccanti - da cui l’espressione «ti ga na vose da gnaga»2.

Sul piano linguistico, la voce Gnaga richiama l’onomatopeico «gnau» - il verso del gatto, esplicitamente evocato dai vocalizzi di chi ne portava la maschera. Le voci dialettali veneziane gnaga (sostantivo) e gnagàr (verbo) evocano inoltre gli altrettanto onomatopeici «lagna» e «lagnarsi» - sicché la Gnaga sembrava restituire, delle donne, la presunta

incli-2 Si racconta che nel 1740, durante una regata lungo il Fondaco dei Turchi, una Gnaga abbia a tal punto infastidito i Turchi medesimi che questi abbiano scoperchiato un tetto zittendola poi con una pioggia di

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nazione alla lamentela incessante e perciò stesso irritante. Nonché falsa e manipolatrice, il che porta immediatamente al concetto di «gattamorta» - persona apparentemente mite e indifesa che approfitta però della prima distrazione di chi le è a fianco per causargli un danno spesso irrimediabile. Detto che la «gattamorta» è di norma una donna, e che la sua vittima è di solito un uomo, ecco che la Gnaga, pur presentandosi come un'innocua balia di bambini, si dimostrava un'adescatrice di uomini - con tutti i rischi del caso.

Per completezza di metafora, va ricordato che, a Venezia, la Gatta era un gioco po-polare incredibilmente crudele e che fu proibito solo nel XVIII secolo: il felino (rigorosa-mente femmina) veniva legato su una tavola e quindi fatto oggetto delle testate dei gioca-tori (altrettanto rigorosamente maschi), il cui scopo era ucciderla col minor numero di colpi. Uniche armi concesse all'animale, le zampe, lasciate libere di graffiare le teste rasate degli aggressori, e l'astuzia, che poteva suggerirle di fingersi morta per salvarsi la vita. Visto l'a-sfissiante controllo sociale e poliziesco imposto agli omosessuali o presunti tali, e con la complicità delle licenze carnevalesche, non è quindi azzardato pensare che la Gnaga non fosse solo una maschera femminile da gatto, ma il travestimento di uomini che, non poten-do avvicinare liberamente altri uomini, si fingevano poten-donne - e, da brave gattemorte, cerca-vano di ottenere quanto desideracerca-vano senza rischiare di pagarne il salatissimo prezzo.

Tutto, nel mascheramento da Gnaga, evocava quindi il gatto - a esclusione di un cu-rioso dettaglio: le uova, che a volte sostituivano il gattino nell'immancabile cestino da brac-cio. Sul piano linguistico, l'abbinamento uova / cesto evoca immediatamente il proverbiale «rompere le uova nel paniere» - inteso come «far fallire un progetto lungamente e amore-volmente preparato». E tuttavia, nel linguaggio comune, «paniere» è tuttora sinonimo di «sedere, deretano» - mentre «uova», in italiano e non solo, è sinonimo di «testicoli» - sic-ché «rompere le uova nel paniere» finisce per assumere il significato accessorio di «agire un vigoroso rapporto anale». Se però la Gnaga era la maschera più esplicitamente colle-gata alla sessualità (di segno soprattutto omosessuale, e quindi preferibilmente anale), a collegare il Serenissimo carnevale e le uova non era la Gnaga ma il Mattacino (Fig.4).

Sorta di buffone vestito di un abito multicolore e di un cappello piumato, il Mattacino gi-rava per le calli usando una fionda per tirare ovi profumai contro le porte (e i corpi) delle donne più belle della città - da cui il sinonimo di Fromboliere. Un gioco più innocuo di molti altri, ma che ispirò il decreto del 1268 con cui si impediva il Zogo dei ovi agli uomini in ma-schera: con buona pace della sacralità dei commerci veneziani, ivi compreso quello delle uova riempite di acqua di rose - ma in ossequio alle proteste delle vittime dei Mattacini 3.

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