BIRRE
ALLA FRUTTA
Raccolta degli stili birrari
Vol.10
Le prime testimonianze della produzione di birra nella storia risalgono addirittura a 13.000 anni fa. Le creazioni dell’epoca erano bevande ovviamente lontane dal nostro concetto moderno di birra, eppure non vi si discostavano da un punto di vista prettamente concettuale: si trattava infatti di fermentati di cereali che venivano aromatizzati con erbe, fiori e persino frutta.
L’impiego di frutta nel processo brassicolo, sebbene tornato di moda in tempi relativamente recenti, è dunque un aspetto che esiste da sempre nella produzione della birra e che assolve a diversi compiti. La conseguenza immediata è che
quando parliamo di Fruit Beer ci riferiamo a una categoria molto vaga, nella quale rientrano produzioni assai diverse tra loro per origini e caratteristiche organolettiche.
Allo stesso modo troviamo sia grandi classici di precise culture brassicole, sia le incarnazioni di fenomeni birrari emersi in tempi recenti.
La storia
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Le Fruit Beer a fermentazione spontanea
Uno degli usi più celebri della frutta nella produzione brassicola arriva dal Pajottenland, la piccola regione a sud ovest di Bruxelles conosciuta per le sue ancestrali birre a fermentazioni spontanea.
Il Lambic è lo stile di riferimento di questo straordinario retaggio produttivo: una birra acida, dall’aroma pungente e capace di lasciare disorientati i palati meno smaliziati.
Oltre a rappresentare una tipologia a sé stante, il Lambic è anche la base per altri stili a fermentazione spontanea, alcuni dei quali prevedono l’aggiunta di frutta.
Le Fruit Lambic più popolari sono le Kriek, realizzate con particolari ciliegie acidule (tradizionalmente varietà Schaerbeek) che vengono aggiunte fresche e intere.
Una variazione sul tema è rappresentato
dalle Framboise, per le quali invece vengono utilizzati lamponi freschi. Le possibilità sono virtualmente infinite:
esistono Lambic addizionati con prugne, uva, fragole, more, albicocche, ecc.
Le altre Fruit Beer
A parte quelli circoscritti al mondo delle fermentazioni spontanee, esistono molti altri stili birrari che prevedono l’aggiunta di frutta. In molti casi si tratta di tipologie nate (o comunque codificate) in tempi relativamente recenti e dunque appartenenti alla moderna concezione di birra artigianale.
Un esempio è rappresentato dalle Grapefruit IPA, che incarnano una delle tante variazioni sul tema delle luppolature di stampo americano: sono realizzate con l’aggiunta di pompelmo per conferire freschezza e una leggera acidità. Tipiche del Brasile sono invece le Catharina Sour, birre acide aromatizzate con frutta esotica (solitamente due frutti diversi).
Si possono far rientrare in questa grande famiglia anche le Italian Grape Ale, anello
di congiunzione tra la birra e il vino e specialità brassicola associata (unico al mondo) al nostro Paese. Sono prodotte con uva, quasi sempre nella sua forma di mosto, e prevedono caratteristiche molto variabili in termini di colore, gradazione alcolica e caratteristiche organolettiche.
Infine non è del tutto sbagliato citare le Pumpkin Ale, realizzate con l’aggiunta di zucca (tecnicamente è un frutto):
sono tornate in auge negli ultimi anni in concomitanza della ricorrenza di Halloween, ma in realtà appartengono alle più antiche tradizioni della cultura brassicola americana.
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L’uso della frutta
Al di là degli stili realmente codificati, esistono centinaia di Fruit Beer che non rientrano in categorie prefissate: sono
“semplicemente” birre aromatizzate con frutta, in cui il birraio parte da una base che ritiene prestarsi bene al successivo impiego dell’ingrediente speciale.
In tal senso occorre tener presenti alcuni aspetti peculiari. Innanzitutto gli aromi della frutta sono molto delicati, quindi facilmente sovrastabili dal contributo delle altre materia prime. In linea generale è dunque opportuno orientarsi su birre non particolarmente strutturate, con una presenza contenuta del luppolo da aroma.
Inoltre, gli zuccheri della frutta finiscono per essere metabolizzati quasi totalmente dai lieviti della birra; per questa ragione la frutta non
apporta dolcezza al prodotto finale, a differenza dell’acidità che può risultare particolarmente marcata proprio perché non più bilanciata dalla componente zuccherina.
Infine – e questo probabilmente è il dato più importante – sulla buccia della frutta non trattata si annidano numerosi microrganismi che possono finire per contaminare la birra. Questo effetto è voluto nel caso di fermentazioni spontanee (come nel caso delle Kriek) o di fermentazioni miste, dove cioè la ricetta prevede effettivamente la compartecipazione di lieviti e batteri diversi dai semplici Saccharomyces. È invece un elemento da tenere in giusta considerazione nel caso di stili diversi, che non contemplano acidità o note “funky” a livello organolettico.
Infine è opportuno ricordare che la presenza di pectine può avere ripercussioni a livello visivo (maggiore torbidità) e tattile (corpo vellutato).
In base al tipo di frutta impiegato, è fondamentale tenere a mente alcune accortezze. Le ciliegie garantiscono un grande apporto aromatico, ma richiedono maturazioni molto lunghe. Solitamente sono impiegate senza i noccioli, che possono restituire note sgradevoli.
Molto caratterizzanti sono anche i
lamponi, per i quali occorre tener presente la spiccata acidità. Pesche e albicocche rappresentano ottime opzioni per produrre Fruit Beer, ma in genere richiedono
quantitativi importanti per raggiungere una buona definizione aromatica. Poco da dire sull’uva, che è il frutto da fermentazione
per eccellenza, e che può essere utilizzata sia come si presenta in natura, sia
trasformata in mosto (come nel caso di quasi tutte le Italian Grape Ale).
La frutta esotica risulta molto interessante nel connubio con basi acidificate (tipo Catharina Sour) che uniscono la loro intensità aromatica con la freschezza della base, contribuendo a creare ottime birre dissetanti.
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I difetti
Anche per quanto riguarda le Fruit Beer la parola d’ordine per una buona riuscita della ricetta è “equilibrio”. La sfida per il birraio è riuscire a caratterizzare la birra con la frutta (o i frutti) senza tuttavia sacrificare l’anima birraria del prodotto finale. In altre parole, bisogna evitare di restituire una sensazione di
“succo di frutta”, bensì utilizzare la frutta per valorizzare al massimo la tipologia brassicola di partenza (e viceversa).
L’obiettivo non è semplice, perché alcuni frutti offrono un contributo aromatico molto intenso, altri più delicato. Senza considerare inoltre le tantissime variabili che entrano in gioco quando si realizza una Fruit Beer (acidità, tannini, eventuali microrganismi, ecc.).
Inutile poi sottolineare che è totalmente
deprecabile il ricorso a sciroppi o aromi e dolcificanti artificiali per
simulare l’aggiunta di frutta fresca. Oltre a rappresentare scorciatoie poco affini al concetto di birra artigianale, queste pratiche finiscono per rendere il profilo aromatico fastidiosamente “finto” e simile a quello di tanti prodotti industriali del settore alimentare. Nonostante tutto, tale consuetudine si diffuse tra alcuni produttori di Lambic, che decisero di rinnegare le proprie tradizioni pur di non perdere eccessive quote di mercato. Oggi per fortuna c’è una maggiore sensibilità sul tema e una riscoperta del modo autentico di produrre Lambic con frutta.
Inutile sottolineare che non può esistere una regola unica sugli abbinamenti tra cibo e Fruit Beer. Oltre alla grande variabilità in termini di apporto aromatico derivante dalla scelta della frutta, esistono parametri relativi allo stile brassicolo di partenza.
Un accostamento che queste birre possono suggerire in prima istanza è con dolci alla frutta, perché si ricerca un’affinità tra gli elementi più evidenti. In realtà ci si può orientare tranquillamente su abbinamenti più affascinanti, guardando ad esempio a carni che in alcune preparazioni vengono accompagnate effettivamente con frutta (anatra, maiale, ecc.) e dove un’elegante acidità, non di rado presente nelle Fruit Beer, può sgrassare il boccone o comunque valorizzare l’incontro con un intrigante elemento aggiuntivo.