• Non ci sono risultati.

Le lingue di Babele

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Le lingue di Babele"

Copied!
320
0
0

Testo completo

(1)

L e l i n g u e d i B a b e l e

Collana diretta da

(2)

Nella stessa collana

P.E. BALBONI, Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società

complesse

A. BENUCCI, Le lingue romanze. Una guida per l’intercomprensione E. BORELLO, B. BALDI, Teorie della comunicazione e glottodidattica M. CARDONA, Il ruolo della memoria nell’apprendimento delle lingue.

Una prospettiva glottodidattica

C.M. COONAN, La lingua straniera veicolare G. GIUSTI, Strumenti di analisi della lingua inglese

M.C. LUISE, Italiano come lingua seconda. Elementi di didattica G. PORCELLI, Comunicare in lingua straniera. Il lesscio

M. SANTIPOLO, Dalla sociolinguistica alla glottodidattica M. SANTIPOLO, L’italiano. Contesti di insegnamento in Italia

e all’estero

G. SERRAGIOTTO, Le lingue straniere nella scuola. Nuovi percorsi,

(3)

ITALIANO

LINGUA MATERNA

Fondamenti di didattica

(4)

www.utetuniversita.it

Ristampe: 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Anno: 2006 2007 2008 2009 2010

Stampa: Tipografia Gravinese, Torino

Proprietà letteraria riservata

© 2006 De Agostini Scuola SpA – Novara 1ª edizione: settembre 2006

Printed in Italy

Copertina: Studio Talarico - Lissone (MI)

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del materiale protetto da questo copyright potrà essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n.633.

Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO – Via delle Erbe, 2 – 20121 Milano – e-mail. aidro@iol.it; www.aidro.org

(5)

Indice

XI Introduzione

PARTE PRIMA– Coordinate teoriche

CAPITOLO1 – Insegnare l’italiano a italiani: un’idea che cambia 7 1.1 Un’impresa durata un secolo

1.1.1 Dalla Legge Casati alla Prima Guerra, p. 8 – 1.1.2 Da Croce a Gentile, p. 10 – 1.1.3 Da Croce alla Media Unica, p. 12 – 1.1.4 La Nuova Questione della Lingua, p. 14

15 1.2 La rivoluzione copernicana

1.2.1 L’insegnamento dell’italiano come sociolinguistica applicata, p. 16 – 1.2.2 L’italiano nei programmi della Scuola Media del 1979, p. 17 – 1.2.3 La riflessione degli anni Ottanta e Novanta, p. 19 – 1.2.4 La natura epistemologica di questo volume, p. 20

23 1.3 Parole chiave del capitolo

CAPITOLO2 – L’italiano nell’educazione linguistica

25 2.1 Mete educative dell’insegnamento dell’italiano

2.1.1 Insegnamento dell’italiano e autopromozione, p. 27 –2.1.2 In-segnamento dell’italiano e socializzazione, p. 29 – 2.1.3 Insegna-mento dell’italiano e culturizzazione, p. 29

30 2.2 Mete glottodidattiche per sviluppare la competenza comunicativa in italiano

(6)

Indice

VI

2.2.1 Il modello di competenza comunicativa, p. 30 – 2.2.2 Italiano lingua «materna?», p. 31

33 2.3 Parole chiave del capitolo CAPITOLO3 – Lo studente di italiano

36 3.1 Lo studente ha un cervello

3.1.1 Processi automatici e processi controllati, p. 37 – 3.1.2 L’inte-razione tra i due emisferi del cervello, p. 39 – 3.1.3 Corollario didat-tico: il concetto di «unità d’apprendimento», p. 41

43 3.2 Lo studente ha una mente

3.2.1 Acquisizione e apprendimento dell’italiano: due processi men-tali diversi, p. 43 – 3.2.2 Memoria e apprendimento dell’imen-taliano, p. 44 – 3.2.3 Intelligenze multiple, stili d’apprendimento, p. 47 52 3.3 L’energia che attiva cervello e mente: la motivazione per

l’italiano

3.3.1 La motivazione basata sulla valutazione dell’input, p. 54 – 3.3.2 La motivazione basata sul bisogno, sul (senso del) dovere, sul piacere, p. 56 – 3.3.3 Il piacere della «grammatica», p. 59

64 3.4 Le relazioni dello studente con i compagni, l’insegnante, il manuale

3.4.1 La conoscenza come costruzione sociale, p. 65 – 3.4.2 L’inse-gnante e il manuale come facilitatori e tutori, p. 66

69 3.5 Parole chiave del capitolo

PARTE SECONDA– Coordinate metodologiche per lo sviluppo delle abilità

CAPITOLO4 – Lo sviluppo della comprensione

77 4.1 Natura della comprensione

81 4.2 Lo sviluppo dell’abilità di comprensione

4.2.1 Il completamento di testi mutilati, p. 82 – 4.2.2 La ricomposi-zione di testi frantumati, p. 86

93 4.3 Tecniche per guidare e verificare le attività di comprensione 4.3.1 Attività di pre-lettura, p. 94 – 4.3.2. Lettura estensiva guidata, p. 95 – 4.3.3 Lettura intensiva guidata/verificata, p. 96 – 4.3.4 Ela-borazione, sintesi, riflessione, p. 97 – 4.3.5 Scelta dei testi, p. 98 99 4.4 Uso delle tecnologie per lo sviluppo della comprensione orale 100 4.5 Parole chiave del capitolo

(7)

CAPITOLO5 – Lo sviluppo delle abilità produttive

103 5.1 Concettualizzazione 105 5.2 Progettazione

5.2.1 Il contesto comunicativo, p. 106 – 5.2.2 Tipi e generi testuali, p. 109

113 5.3 Realizzazione del testo orale e scritto

5.3.1 Il monologo o «parlare pianificato», p. 114 – 5.3.2 Scrivere su carta e su schermo, p. 116 – 5.3.3 Testo e ipertesto, p. 118

121 5.4 Parole chiave del capitolo

CAPITOLO6 – Lo sviluppo delle abilità integrate

123 6.1 L’interazione orale

6.1.1 «Funzioni» e «atti» per l’analisi dei dialoghi, p. 125 – 6.1.2 Le mosse comunicative per la realizzazione dei dialoghi, p. 128 – 6.1.3 Principali tecniche e attività per lo sviluppo dell’abilità di interazio-ne, p. 132 – 6.1.4 La verifica del saper dialogare, p. 135

136 6.2 Le abilità legate allo studio: prendere appunti e riassumere

6.2.1 Insegnare a prendere appunti, p. 137 – 6.2.2 Insegnare a rias-sumere, p. 139

142 6.3 Le abilità di trasformazione e di manipolazione di testi 144 6.4 Parole chiave del capitolo

PARTE TERZA– Coordinate metodologiche per l’insegnamento delle grammatiche e del lessico

CAPITOLO7 – L’insegnamento del lessico

151 7.1 Cosa significa «insegnare il lessico»

7.1.1 La quantità di lessico, p. 152 – 7.1.2 La nozione di lessico, p. 152 – 7.1.3 Obiettivi nella didattica del lessico, p. 154

155 7.2 Lavorare sulle parole 157 7.3 Lavorare sul significato

7.3.1 L’educazione semiotica, p. 157 – 7.3.2 Il ruolo del docente di italiano in un’educazione semiotica interdisciplinare, p. 161 166 7.4 Tecniche didattiche per lo sviluppo del lessico

7.4.1 L’arricchimento del lessico, p. 166 – 7.4.2 La creazione e la trasformazione del lessico, p. 174

(8)

Indice

VIII

CAPITOLO8 – L’insegnamento della «grammatica»

178 8.1 Perché lavorare sulle «regole»

179 8.2 «Insegnamento della grammatica» e «riflessione sulla lingua»

182 8.3 L’oggetto della riflessione

8.3.1 La natura della comunicazione, dei linguaggi e della lingua, p. 182 – 8.3.2 La fonologia, l’ortoepia, l’ortografia, p. 185 – 8.3.3 La morfologia e la cosiddetta «analisi grammaticale», p. 188 – 8.3.4 La sintassi e le cosiddette «analisi logica» e «analisi del periodo», p. 190 – 8.3.5 La testualità e la «analisi testuale», p. 192 – 8.3.6 La ri-flessione sulle varietà della lingua, p. 193 – 8.3.7 La riri-flessione fun-zionale, pragmatica, p. 195 – 8.3.8 La riflessione comparativa, in-terlinguistica, p. 195

197 8.4 Aspetti metodologici 200 8.5 Parole chiave del capitolo

PARTE QUARTA– Tre aspetti particolari: l’insegnamento

della letteratura, delle microlingue disciplinari, dell’italiano L2

CAPITOLO9 – Insegnare a leggere testi letterari 207 9.1 L’educazione letteraria

9.1.1 L’educazione letteraria come risposta a un bisogno, p. 210 – 9.1.2 L’educazione letteraria come chiave per un piacere, p. 210 211 9.2 La componente linguistica nella didattica della letteratura 215 9.3 Le caratteristiche dello studente di fronte al testo letterario 217 9.4 L’insegnante che insegna a leggere il testo letterario 218 9.5 Modelli operativi per l’accostamento alla letteratura

9.5.1 La strutturazione del percorso, p. 218 – 9.5.2 Tecniche didatti-che, p. 223

228 9.6 Parole chiave

CAPITOLO10 – Insegnare le microlingue disciplinari

231 10.1 Ruolo pragmalinguistico delle microlingue disciplinari 232 10.2 Ruolo sociolinguistico delle microlingue disciplinari 233 10.3 Caratteristiche linguistiche delle microlingue disciplinari

10.3.1 La dimensione testuale, p. 233 – 10.3.2 La dimensione sintat-tica, p. 236 – 10.3.3 La dimensione lessicale, p. 238 – 10.3.4 La

(9)

di-mensione fonologica, p. 239 – 10.3.5 La didi-mensione extralinguisti-ca, p. 240

241 10.4 Parole chiave del capitolo CAPITOLO11 – L’italiano lingua seconda

243 11.1 Italiano L1, italiano L2

250 11.2 L’insegnante di italiano L1 come regista dell’accoglienza in L2

251 11.3 Il laboratorio di italiano L2

11.3.1 Aspetti metodologici generali, p. 252 – 11.3.2 Aspetti glotto-didattici, p. 255

260 11.4 La classe con alcuni studenti stranieri

11.4.1 I compagni come tutor, p. 261 – 11.4.2 Problemi intercultura-li nella classe multiintercultura-lingue, p. 263 – 11.4.3 Un modello operativo per le attività in «coabitazione», p. 271

274 11.5 L’(auto)formazione dell’insegnante di italiano L2 275 11.6 Parole chiave del capitolo

277 Bibliografia 291 Indice analitico

(10)
(11)

Introduzione

L’educazione linguistica è un processo unitario che include l’intero ventaglio di lingue che lo studente deve acquisire o perfezionare – lin-gua materna, seconda, straniera, classica e, per gli immigrati, anche lingua etnica. Ma sebbene nella mente dello studente questo processo sia unitario, la riflessione teorica in glottodidattica (la scienza che stu-dia l’educazione linguistica) e la formazione metodologica degli inse-gnanti sono andate avanti per decenni su due binari paralleli, da un lato gli insegnanti di italiano (e di lingue classiche), dall’altro quelli di lin-gue straniere: scopo di questo volume è tentare una riunificazione di questi due filoni sia di ricerca, sia di formazione dei docenti, sia di prassi didattica, in quanto la mente che deve trarre profitto dal lavoro dei vari docenti delle varie lingue è unica, non può essere sottoposta a percorsi di-vaganti e di-vergenti.

La glottodidattica delle lingue seconde e straniere negli ultimi trent’anni si è costituita un solido bagaglio di neuroscienze, psicolin-guistica, psicodidattica, antropologia ecc.; la glottodidattica dell’italia-no come lingua nazionale/materna si è rivolta piuttosto alla linguistica, partendo dalla considerazione che a scuola l’italiano non è più oggetto di acquisizione ma di sistematizzazione razionale: in questo volume cercheremo di riportare all’unitarietà questi due grandi patrimoni di conoscenze ed esperienze.

(12)

didatti-ca dell’italiano, dalla Legge Casati del 1854 a Croce e Gentile, dalla

Media Unica del 1962 alle Dieci tesi del 1975, e cercherà in tal modo di portare in un quadro epistemologico e, quindi, terminologico unitario quel che abbiamo ereditato dalla tradizione, riportando allo stesso tem-po la didattica dell’italiano in un ambito glottodidattico più completo.

Vedremo quindi con logica glottodidattica quali sono le mete

educa-tive che si perseguono insegnando la lingua «materna», cercheremo di

individuare gli obiettivi didattici e di declinarli all’interno della nozio-ne di «competenza comunicativa», che per gli studenti è acquisita, ma che va consolidata, resa più raffinata, fatta oggetto di metacompetenza, facendo dell’insegnamento dell’italiano il perno per l’acquisizione del-le lingue seconde, straniere, classiche, etniche – ma un perno in grado di interagire con gli elementi che deve raccordare.

Il terzo passo sarà quello di focalizzare il soggetto dell’educazione linguistica, troppo a lungo messo in ombra a favore dell’oggetto, della lingua: cercheremo quindi di vedere chi è lo studente di italiano come lingua materna (e a questo punto discuteremo l’aggettivo «materna»), come funzionano il suo cervello e la sua mente in ordine alla lingua, quali forme di motivazione psicologica e sociale contribuiscono ad at-tivare il lavoro sull’italiano.

La riflessione sulla motivazione sarà un tratto fondamentale del no-stro percorso, perché è proprio a livello motivazionale che si arenano gran parte delle proposte che provengono dalla ricerca e che non rie-scono a diventare azione didattica: lo studente italiano ritiene inutili sofisticherie l’analisi grammaticale, quella della logica, lo sviluppo delle abilità ecc.: lui, l’italiano lo sa già!

Il nostro percorso affronterà poi le risposte a due domande: «Che co-sa insegniamo quando insegniamo italiano? E come possiamo farlo?». Si vedranno quindi le metodologie atte a sviluppare e rafforzare le

abi-lità di comprensione, produzione, interazione, trasformazione di testi;

il lessico, inteso in senso molto esteso; le grammatiche – da quelle lin-guistiche a quelle non verbali – chiedendoci se, perché e come analiz-zarle con gli studenti.

In ciascuno di questi percorsi procederemo a vedere la gamma di

modelli operativi disponibili all’insegnante per organizzare il suo

inse-gnamento (in sintonia con gli altri docenti che lavorano all’educazione

Introduzione

(13)

linguistica): curricolo, sillabo, programma, modulo, unità didattica e unità d’apprendimento, valutazione, recupero, contributo delle tecno-logie ecc.

Il volume si conclude con tre aspetti che non rientrano strictu sensu nell’insegnamento dell’italiano come lingua materna, ma che pure rientrano nella competenza di un docente di italiano nel nostro sistema scolastico: l’educazione letteraria, anzitutto; le microlingue

disciplina-ri, in secondo luogo; infine l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda a immigrati, settore che come si vedrà richiede competenze e

metodologie molto diverse da quelle dell’insegnamento dell’italiano come lingua materna, ma che la realtà delle scuole ha messo sulle spal-le dei docenti di italiano e di lingue: un’altra buona opportunità per ini-ziare a lavorare insieme.

Un’ultima annotazione, di tipo epistemologico, usando la prima per-sona perché mi riguarda come studioso dell’educazione linguistica: in trent’anni ho lavorato sulle lingue straniere, seconde, etniche, e ora sulla lingua materna; mi sono interessato di epistemologia e di modelli teori-ci, ma anche di tecniche didattiche e di progettazione curricolare; ho studiato l’insegnamento precocissimo delle lingue e quello a giovani adulti che affrontano la letteratura e le microlingue: questo volume rap-presenta quindi, sul piano scientifico, un tentativo di riportare a una pro-spettiva unitaria tutta questa esperienza e questa vita di ricerca per ren-dere organica la riflessione sull’insegnamento di tutte le lingue

moder-ne, utilizzando strumenti concettuali comuni. Ma non è ancora un

mo-dello completo di «teoria dell’educazione linguistica»: mancano le lin-gue classiche. È il percorso che mi rimane da compiere, se ne avrò il tempo, nei prossimi anni.

(14)
(15)
(16)
(17)

PARTE PRIMA

(18)
(19)

Questa prima parte si articola in due sezioni. Da un lato offre un profilo storico dell’evoluzione del concetto di «insegnamento dell’italiano» nella nostra scuola: non si possono comprendere i problemi e le pro-spettive d’oggi senza vedere come è venuta formandosi la tradizione glottodidattica su cui sono basati i manuali e su cui, da «sempre», si ri-conoscono gli insegnanti e le famiglie.

Dall’altro si presentano le coordinate specificamente glottodidatti-che: il ruolo dell’italiano nel complesso dell’educazione linguistica (nozione continuamente evocata ma assai meno studiata e chiara nella prassi didattica nelle scuole) e i meccanismi neuro-psicolinguistici, psicologici, relazionali messi in gioco nell’insegnamento dell’italiano, lingua che gli studenti hanno già acquisito come madrelingua.

(20)
(21)

CAPITOLO1

Insegnare l’italiano a italiani: un’idea che cambia

Se chiediamo a una famiglia, a un docente, a un editore di manuali per la scuola cosa significhi insegnare italiano abbiamo delle risposte di-verse a seconda dell’età: perché questa nozione è cambiata, anche radi-calmente, con una frequenza molto più alta nel nostro Paese che negli altri Paesi europei. In questo rapido excursus (che sintetizza Balboni, 1988) cercheremo di capire come si è formata l’idea di «insegnamento dell’italiano» in Italia.

1.1

Un’impresa durata un secolo

De Mauro (1963) ci dice che al momento dell’Unità, negli anni Sessan-ta del XIX secolo, il 2,5% della popolazione parlava iSessan-taliano, fuori del-la Toscana e di Roma. Una valutazione più ampia porta del-la cifra al 10% (Castellani, 1982) – ma il dato è comunque evidente: Cavour aveva detto «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» e la lingua comune diviene una delle priorità. Il progetto è ambizioso se si considera che nel censi-mento del 1861 si dichiarano analfabeti tre quarti della popolazione italiana, con punte fino al 90% in Sardegna. Poiché fuori della Toscana e di Roma la lingua italiana è usata solo per la scrittura, analfabetismo e ignoranza della lingua italiana coincidono.

(22)

di politica scolastica elaborato solo due anni prima, nel 1859: la Legge Casati, che resterà l’asse portante della scuola italiana fino alla grande guerra, sopravvivendo ai cambiamenti di governi da Destra a Sinistra ai Liberali. La Legge Casati in qualche modo riprende due idee roman-tiche, «lingua del popolo» e «lingua nazionale»: la prima è costituita in realtà da un ventaglio di lingue autonome rispetto all’italiano, dette «dialetti», e viene condannata in quanto va contro la seconda, la lingua nazionale: è infatti la presenza di una lingua nazionale che dimostra l’esistenza di una nazione, secondo una linea di pensiero che parte da Dante e attraverso Bembo, Vico, Muratori giunge al Risorgimento.

1.1.1 Dalla Legge Casati alla Prima Guerra

La politica del Regno ai suoi inizi è chiara – estirpare la dialettofonia – ma il dibattito si accende: che cosa sostituire ai dialetti? Quale italia-no? È la Questione della Lingua.

Graziadio Isaia Ascoli pone con chiarezza il problema nel suo cele-bre Proemio del 1872: «Si tratta di dare all’Italia una lingua, perché ancora non l’ha». La Francia, osserva Ascoli, ha trovato in Parigi la propria «favella», perché Parigi è il centro politico, culturale, economi-co; la Germania, ancorché frantumata in decine di stati, ha trovato nel-la Bibbia di Lutero nel-la sua Parigi. L’Italia, secondo Manzoni, che presie-de la commissione nominata dal Ministro Broglio per diffonpresie-dere l’ita-liano, propone Firenze con il ruolo di Parigi e alla letteratura in italia-no-toscano attribuisce il ruolo della Bibbia in Germania.

Il risultato è immediato: nel 1870 viene pubblicato il Nòvo

vocabo-lario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze e proprio da nòvo,

usato al posto di nuovo, prende le mosse Ascoli per il suo attacco al manzonismo, in anni in cui anche la letteratura italiana, incamminata sulla strada del Verismo, abbandonava la lingua «sciacquata in Arno» dei Promessi sposi. La Legge Casati era manzoniana, e tale fu anche la politica della Destra Storica, che si concretizzò anche in una serie di vocabolarietti dialetto-italiano (discussi in Marello, 1980) mirati a fa-vorire l’abbandono dei dialetti e a evitare l’interferenza dei dialetti sul-l’italiano che si voleva diffondere – interferenza che Ascoli giustamen-te considerava inevitabile. (Sulla Questione della Lingua si vedano

Italiano lingua materna 8

(23)

Berrettoni, Vineis, 1974, oltre alla Storia linguistica di De Mauro, cita-ta sopra).

Nata accentratrice, nella migliore tradizione francese del Piemonte, la Legge Casati non riesce ad adeguarsi alle diversissime realtà in cui deve essere applicata, sia come struttura sia in ordine ai programmi, che sono rigidi, pensati per una classe dirigente omogenea. In partico-lare:

a. quanto all’italiano, mentre nelle scuole elementari (la cui gestione è affidata ai comuni) l’unico scopo è l’alfabetizzazione e la sostituzio-ne del dialetto con la lingua nazionale, sostituzio-nei licei la Legge Casati pre-vede una didattica formalistica, calcata su quella del latino e del greco, concentrando l’attenzione sull’analisi grammaticale, logica e del periodo e ponendo come obiettivo un purismo classicheggiante; b. nata in Piemonte, la legge considera come lingua straniera solo il

francese, per cui tutte le altre minoranze finiscono per essere

consi-derate negative in tutto il Regno;

c. pone le lingue classiche nel ruolo di «palestre mentali», caratteriz-zanti dell’educazione della classe dirigente.

È nel settore dell’educazione linguistica alle elementari che si regi-stra un ampio dibattito, soprattutto perché molti intellettuali sono affa-scinati dalla scuola «antiverbalista» di J.-J. Rousseau: la lingua, pro-dotto di una società che corrompe l’originale bontà dell’uomo, è cor-rotta essa stessa e spesso nasconde il pensiero anziché esprimerlo. L’e-ducazione linguistica deve dunque divenire eL’e-ducazione al parlare sin-cero, semplice, immediato, basato sull’esperienza concreta: è il ritorno dell’idea romantica di «lingua del popolo». Questa linea, come vedre-mo nei paragrafi che seguono, sarà il principio informatore dei pro-grammi di educazione linguistica di Giuseppe Lombardo Radice e riapparirà nei programmi della Sottocommissione Alleata (1944-45) per giungere fino a don Milani.

Nel 1875 arriva al governo la Sinistra, che punta ad agganciare l’Ita-lia all’espansione economica in atto in Europa e quindi accentua gli sforzi per l’alfabetizzazione della sua enorme massa lavoro, incontran-do la resistenza dei latifondisti che, come scrive Giolitti, hanno «il

(24)

co-raggio di proporre […] l’abolizione della scuola elementare perché i contadini e i minatori non [possano], leggendo, assorbire idee nuove» (Natale et al., 1975, p. 50). Il risultato dello sforzo del governo è visibi-le solo al Nord (nel censimento del 1901 si scende dal 67 al 40% di analfabeti), mentre nel Mezzogiorno l’analfabetismo resta sopra il 70% – e spesso sono proprio i pochi che sanno leggere e scrivere che co-struiscono il nerbo delle drammatiche ondate di emigranti che lasciano il Sud.

Nel 1900 inizia il quindicennio giolittiano e la scuola riceve una rinnovata attenzione: la Legge Orlando (1905) istituisce i Corsi Popo-lari e porta l’istruzione obbligatoria fino ai 12 anni; nel 1911 lo Stato avoca a sé l’istruzione elementare nel Mezzogiorno; nascono due as-sociazioni di insegnanti elementari, una liberale e una cattolica, distin-te politicamendistin-te ma unidistin-te nel grande progetto di alfabetizzazione e ita-lianizzazione.

Il primo mezzo secolo del Regno si chiude quindi con un bilancio molto chiaro: la lotta all’analfabetismo e la diffusione dell’italiano «lingua nazionale» sono la linea comune della Destra, poi della Sini-stra e infine dei Liberali. Quanto alla classe dirigente, essa continua a essere formata in un liceo classico in cui l’italiano, a differenza che per il «popolino», non è strumento solo di comunicazione ma di status so-ciale.

1.1.2 Da Croce a Gentile

La prima fase del Regno era culminata con Giuseppe Lombardo Radi-ce che nel 1912 elaborava, per la riforma delle scuole medie e normali, la nozione di «educazione linguistica» – ma la guerra aveva bloccato ogni progetto riformatorio sostituendolo con un gigantesco corso di italiano popolare nelle trincee dove combattono fianco a fianco soldati di tutte le regioni – un italiano lontano dalla retorica degli ufficiali, ma sufficiente, quasi sempre, all’intercomprensione.

Finita la guerra, si ripropone il problema della riforma della scuola e, così come al momento della nascita del Regno ci si era rivolti a una personalità come Francesco de Sanctis chiedendogli di essere ministro, così in questi anni di rinascita ci si rivolge ai maggiori filosofi,

dappri-Italiano lingua materna 10

(25)

ma Benedetto Croce (che regge la scuola per due anni accentuando l’attenzione per i classici, entrando in netto contrasto con i socialisti che chiedono di concentrare i fondi sulla lotta totale contro l’analfabe-tismo) e poi a Giovanni Gentile, la cui riforma costituirà la struttura ba-se della scuola italiana per tutto il ba-secolo. Nel 1922 l’ex maestro ele-mentare Mussolini affida la scuola a un ministro liberale, quale è Gen-tile in quegli anni (si dimetterà dopo solo due anni, nel 1924, protestan-do contro il delitto Matteotti) e soprattutto a un Direttore Generale del-l’Istruzione socialisteggiante, Giuseppe Lombardo Radice. Dire «scuo-la gentiliana» porta subito a pensare a una «scuo«scuo-la fascista», ma non è così: bisognerà attendere Carta della scuola di Bottai per avere una scuola coerente con il fascismo.

La politica linguistica del fascismo, che Renzi sintetizza come «gia-cobinismo linguistico» (1981, p. 158) si dispiega in tre direzioni:

a. dotare l’Italia di una lingua italiana «degna» del rinnovato slancio nazionalistico e imperiale;

b. procedere all’italianizzazione generalizzata del paese, perseguita sia con l’attacco pragmatico alla dialettofonia (si pensi alla burocrazia che usa prevalentemente persone di regioni diverse da quella di lavo-ro), sia con l’uso delle comunicazioni di massa che fanno di Mussolini, e del suo italiano aulico e retorico, il modello linguistico della nazione;

c. italianizzazione delle nuove generazioni attraverso un programma specifico di abbandono del dialetto nelle scuole, dove Gentile isti-tuisce e rende obbligatorie e gratuite la quarta e la quinta elementa-re, rendendo efficace quell’obbligo scolastico che prima della guer-ra si eguer-ra proclamato ma non applicato.

L’italianizzazione non riesce: da un lato, Lombardo Radice informa la scuola della sua visione pedagogica centrata sull’allievo, e siccome l’allievo è dialettofono l’urgenza dell’italianizzazione viene di fatto molto allentata (nel 1925 Lombardo Radice affida a Migliorini, Terra-cini e Tagliavini la creazione di una serie di manualetti graduati per il passaggio dal dialetto all’italiano); dall’altro, soprattutto al Sud, brac-cianti e contadini non colgono la necessità di italianizzarsi (supportati

(26)

in questo dai proprietari terrieri, delle miniere ecc.); infine, la tendenza dei maestri a farsi portatori di un italiano puristico scoraggia il passag-gio dal dialetto all’italiano.

Se il modello di italiano è quello aulico di Mussolini, la teoria glotto-didattica secondo la quale lo si vuole insegnare è ancora più reazionaria:

a. il modello di italiano è uno e solo uno, quello umanistico toscano; b. il concetto di varietà è negativo, per cui molta attenzione viene posta

alla deregionalizzazione della pronuncia (lo stesso Mussolini segue corsi di ortoepia per eliminare la cadenza romagnola): ciò che si distacca dallo standard è errore da punire ed estirpare;

c. la «comprensione» orale viene esercitata, insieme all’ortografia, attraverso il dettato;

d. si presuppone che attraverso il lavoro sulla forma linguistica (anali-si grammaticale e logica) (anali-si modifichi l’uso della lingua.

Si perdono, quindi, sia le intuizioni di Gentile (nella sua Didattica esalta l’individuo e la sua autodisciplina: calligrafia, per esempio, non vuol dire scrivere tutti allo stesso modo, ma ciascuno in maniera perso-nale purché ordinata e pulita) sia, soprattutto, quelle di Lombardo Ra-dice, nei cui programmi definiva «l’educazione linguistica come edu-cazione alla sincerità; […] il precetto è sempre negativo: non ripetere passivamente (cioè non stordire colle parole te e gli altri); non “abbelli-re” (esprimi quel che senti con nuda semplicità)». Si tratta di precetti che il maestro non deve proporre come norme ma che deve incarnare nel suo agire quotidiano, ricordando che «ogni docente, in quanto edu-catore […], è insegnante di lingua». La modernità di queste idee è tota-le ed è sconcertante vedere quanto essa sia stata negata dalla scuola fa-scista e, in buona parte, anche da quella repubblicana.

1.1.3 Da Croce alla Media Unica

Abbiamo detto di intellettuali come De Sanctis, Croce e Gentile chia-mati a fare i ministri dell’istruzione nei momenti in cui la nazione deve ripartire; anche dopo la seconda guerra, all’inizio della ricostruzione, si segue questa strada, e si ripropone a Croce il ministero.

Italiano lingua materna 12

(27)

Il Croce ministro nel 1945 è maturato, nella sua riflessione sul lin-guaggio, rispetto al Croce ministro nel 1920: mentre allora aveva spin-to nella direzione classicheggiante, nel 1941 (in Filosofia della

pratica) aveva affermato la natura pragmatica della lingua e aveva

ma-turato un atteggiamento fortemente anti-aulico e anti-puristico, che tut-tavia era presente in nuce anche nell’Estetica: «Il linguaggio è perpe-tua creazione […]. Cercare la lingua modello è, dunque, cercare l’im-mobilità del moto […]. Il più convinto sostenitore di qualsiasi soluzio-ne sul problema dell’unicità della lingua (della lingua latisoluzio-neggiante, o trecentistica, o fiorentina, o che altro sia), allorché parla poi per comu-nicare i suoi pensieri e farsi intendere, prova ripugnanza ad applicare la sua teoria […]: da parlatore egli diverrebbe vanitoso ascoltatore di se medesimo; da uomo serio, pedante; da sincero, istrione».

Non stupisce dunque che nei programmi del 1945 si legga, nelle

Istruzioni, un passo che sintetizza sia l’attacco definitivo al dialetto

(con l’alleanza, di lì a pochi anni, di Mike Bongiorno) sia l’innovazio-ne che si respirava in un mondo in cui Fishman era ancora un gioval’innovazio-ne studioso e Vigotsky era ignoto:

l’uso appropriato della lingua è il risultato di una lenta conquista che il bambino viene facendo naturalmente, a mano a mano che si estendono i suoi rapporti con la maestra e i compagni. Anche per questo non sono con-sigliabili schemi programmatici. La maestra ricordi che il patrimonio lguistico si forma naturalmente in relazione alle necessità di vita. Spetta, in-vece, al suo vigile e persistente intervento la sostituzione delle forme dia-lettali e più ancora la correzione delle imperfezioni foniche relative. Il bisogno prepotente di fare e di parlare, che è uno dei caratteri tipici della vita del bambino, deve essere insistentemente favorito, mediante opportune attività, che gli consentono di esprimere se stesso. Occorre però che tali at-tività non siano vincolate a sterili esigenze di disciplina formale collettiva.

Questo testo straordinario è del 1945, è un testo ufficiale dello Stato, non è l’esercitazione futuribile di un glottodidatta in vena di fanta-scienza: il che dimostra che, da Lombardo Radice, attraverso Croce e

questi programmi, c’è una linea di continuità che giunge a quelli della Scuola Media Unica del 1961 e poi a quelli della riforma della scuola media del 1979, nei quali vediamo spesso una rivoluzione copernicana.

(28)

della scuola persiste l’insegnamento basato su norme e modelli – non di meno l’idea di italiano come lingua viva, della funzionalità del lin-guaggio, del suo essere appreso sulla base «delle necessità di vita» è presente come un filo rosso nella glottodidattica dell’italiano del vente-simo secolo, non solo dei suoi ultimi decenni.

A fine dicembre del 1961 viene varata la Scuola Media Unica. Ai nostri fini, gli aspetti essenziali sono due: da un lato si prolunga l’ob-bligo a 14 anni, dall’altro si elimina il latino, che caratterizzava la suo-la media intesa come ginnasio propedeutico al liceo. Specificamente per l’italiano, sparivano dalla seconda classe l’Iliade nella traduzione di Monti e dalla terza l’Odissea nella traduzione di Pindemonte.

Sono gli anni in cui infuria la polemica tra «lingua e antilingua», in-nescata dal cinema neorealista, e i nuovi programmi invitano ancora una volta a non cedere alle pronunce regionali, «con l’aiuto di dischi, magnetofoni ecc.». Quanto alle abilità scritte, si raccomanda di dedica-re molto tempo alla lettura e di articoladedica-re la scrittura su una pluralità di generi, «descrizione, relazione, cronaca, diario ecc., fino a elevarsi len-tamente al piano di veri componimenti […] con l’espressione di pen-sieri e sentimenti personali».

1.1.4 La Nuova Questione della Lingua

Nell’inverno 1965-66, per mesi, su settimanali e quotidiani infuria la Nuova Questione della Lingua. A innescare la «questione» è Pasolini nel numero di dicembre del 1964 di «Rinascita»: l’idea portante è che la lingua italiana, così come per decenni la si è insegnata e la si è usata per la letteratura, stia cedendo il passo a un nuovo italiano. L’italiano in estinzione è «la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione (includente con-tadini e operai), ma è rimasta classe sociale: e la sua lingua è la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni. [… L’i-taliano che sta nascendo è] la rivincita dei periferici, […] la vittoria dell’Italia reale su quella retorica».

Paradossalmente Pasolini fu ritenuto sostenitore del comunicativi-smo pragmatico, dell’industrialicomunicativi-smo linguistico: «Si smetta di vantare

Italiano lingua materna 14

(29)

diritti alla pubblica vitalizia venerazione della propria ignoranza in no-me di un romanzo o d’una poesia ben riusciti», scrive Fortini (Parlan-geli, 1971, p. 435); il suo principale antagonista fu Calvino, e non tanto per il disprezzo, che condivide, verso l’«antilingua» retorica e aulica, quanto sulle fonti del nuovo italiano: «Gli sviluppi dell’italiano d’oggi non nascono dai suoi rapporti con i dialetti ma con le lingue straniere. I discorsi sul rapporto lingua-dialetti […] sono ormai di scarsa impor-tanza» (Parlangeli, 1971, p. 174).

Dall’idea di lingua di Pasolini derivano direttamente don Milani e indirettamente l’impianto linguistico del Sessantotto.

Ma per un’evoluzione nella didattica dell’italiano sarà necessario at-tendere anni, mentre è nel settore delle lingue straniere che arrivano le novità più rilevanti, ad opera di studiosi formatisi all’estero come Tito-ne, Freddi, Arcaini, Cambiaghi, Perini. Sono del 1966 le Tesi di

glotto-didattica di Renzo Titone.

1.2

La rivoluzione copernicana

Sopra abbiamo identificato una continuità secolare nell’idea di inse-gnamento dell’italiano come lingua viva, non retorica e non abbellita artificialmente, mirata alla «sincerità», per usare le parole di Lombardo Radice. La ragione per cui titoliamo questo paragrafo «rivoluzione co-pernicana» è che mentre per un secolo le innovazioni erano restate let-tera morta nei programmi, con il Sessantotto le innovazioni (prima nel-le lingue straniere, come abbiamo detto, poi in italiano) entrano nella glottodidassi quotidiana.

Questa rivoluzione copernicana, che in lingua straniera assume a vessillo la nozione di «competenza comunicativa», nell’italiano si rac-coglie intorno alla nozione di «educazione linguistica democratica», lanciata dal gruppo demauriano negli anni Settanta (De Mauro, 1977; le «Tesi» del GISCEL in Renzi, Cortelazzo, 1975; Berretta, 1977; Si-mone; 1979; Sobrero, 1983).

Il concetto di «educazione linguistica» è del 1912, opera di Lombar-do Radice, e alcuni stranieristi come Titone e Freddi la usano fin dagli

(30)

anni Sessanta in prospettiva pedagogica, applicandola alla glottodidat-tica. Ma con De Mauro e il GISCEL troviamo un aggettivo, «democra-tica», che implica la valorizzazione dell’intero patrimonio espressivo, verbale e non verbale, nonché l’accentuazione sulla varietà. Le Dieci

tesi sono un esempio dell’accezione essenzialmente sociolinguistica

che si dà a democratica (mentre nelle lingue straniere l’accezione è pragmalinguistica), ed è proprio un padre della sociolinguistica italia-na, Gaetano Berruto (1977, pp. 7-8) che divide gli italianisti tra «gram-maticalisti» (Renzi, Parisi e collaboratori, Berretta ecc.) e «antigram-maticalisti» (De Mauro, Simone ecc.), sulla base dell’opzione rispetti-vamente forte e debole che essi fanno sulla funzione metalinguistica nell’educazione linguistica. Nel 1977 Renzi e Cortelazzo raccolgono decine di contributi in un libro il cui titolo è paradigmatico, L’italiano:

un problema scolastico e sociale, che mostra come il discorso iniziato

nel convegno del 1970 della SLI (Medici, Simone, 1971) sia maturato fino a raggiungere una coerenza interna.

1.2.1 L’insegnamento dell’italiano come sociolinguistica

applicata

Il titolo può apparire una sintesi un po’ forzata, ma il senso si coglie se lo si pone in relazione alla tradizione degli anni precedenti che vedeva la glottodidattica (dell’italiano come delle lingue straniere e classiche) come linguistica applicata, come una descrizione grammaticale appli-cata all’insegnamento. Ancora in Marchese (1971) e Cipolla, Mosca (1974) si scriveva di «linguistica applicata all’insegnamento dell’italia-no», e ancora nel 1976 Berruto deve intervenire a spiegare che la lin-guistica non è «un passepartout per la didattica» (Ricciardi, 1976, p. 68), ripercorrendo per l’italiano il percorso fatto per le lingue straniere negli anni Sessanta. Lo stesso Berruto è chiarissimo: «L’attuale socio-linguistica è indubbiamente una disciplina “impegnata”, che ambisce a dir la sua anche a livello politico. [… I suoi principi] sono ampiamente condivisi da coloro che attualmente si occupano di ricerca nel settore dell’educazione linguistica; e chi scrive è fermamente convinto che il fine dell’educazione linguistica sia quello di addestrare alla varietà de-gli usi della lingua» (1977, p. 120)

Italiano lingua materna 16

(31)

De Mauro e Simone presentano una versione attenuata di questo le-game. Il primo è il regista di questa evoluzione della didattica dell’ita-liano, con decine e decine di titoli tra il 1968 e il 1980. Sintetizzare la sua posizione è arduo, ma possiamo enucleare alcuni punti salienti:

a. la preoccupazione di non dimenticare le tradizioni pedagogica, glot-tologica e dialetglot-tologica italiane;

b. la necessità di tenere ben presente la pluralità linguistica e

cultura-le dell’Italia delcultura-le Italie, pluralità che non può essere soddisfatta di

un’educazione linguistica monolitica, centrata sull’italiano standard (sul tema intervengono in quegli anni anche Benincà, 1974; Berruto, 1978; Bruni, 1981-82). Ogni individuo ha diritto a vedere ricono-sciuto il suo patrimonio (pluri)linguistico, che deve essere rispettato, non violato;

c. conseguentemente, si rifiuta una visione unilaterale della lingua ponendo alla base dell’educazione linguistica una conoscenza della

dinamica e della variabilità linguistica;

d. la ricerca sul campo e la sperimentazione (ricordiamo che i primi licei sperimentali sono del 1974) sono strumenti essenziali per ela-borare e verificare nuovi progetti di educazione linguistica.

Le conseguenze didattiche sono di natura e di segno diversi.

In alcuni casi si sottopongono i materiali didattici a una critica serra-ta (Cortelazzo, 1978; Ossola, 1979; Corrà et al., 1981) e si tenserra-ta di an-dare, per usare lo slogan di quegli anni, «oltre il libro di testo» (Gallo, 1977); in altri casi il concetto di pluralità di codici, registri, (sotto)abi-lità viene inteso come la «democratica» accettazione di ogni varietà, di

ogni registro, giungendo a confondere un’educazione linguistica che

vuole far scoprire induttivamente la grammatica con un’educazione linguistica senza grammatica, dove la grammatica «ragionevole» di Renzi non trova più spazio…

1.2.2 L’italiano nei programmi della Scuola Media del 1979

Nel giugno del 1977 una larga maggioranza, che anticipa di due anni il Compromesso Storico, istituisce una commissione per redigere

(32)

pro-grammi che superino quelli del 1963 e dà nuove linee per la valutazio-ne (anche linguistica) degli studenti.

Nel 1979 arrivano i nuovi programmi, che anche formalmente rece-piscono il dibattito del decennio: sono scritti in un italiano molto lonta-no dal classico burocratese ministeriale e solonta-no pieni di indicazioni ope-rative, che nei programmi tradizionali venivano considerate una sorta di svilimento delle riflessioni filosofico-pedagogiche. La stesura non è semplice (Simone ne racconta le difficoltà in Visalberghi, 1979) e il ri-sultato è talvolta ambiguo, tant’è vero che proprio in ordine all’italiano se ne registra una doppia lettura: la pedagogia cattolica (con l’eccezio-ne di Gozzer) l’eccezio-ne esalta la continuità con la tradiziol’eccezio-ne e la pedagogia le-gata alle sperimentazioni ne esalta le innovazioni…

E invero le innovazioni sono tante e consistenti.

Anzitutto, i programmi recepiscono il concetto di «educazione lin-guistica, la quale riguarda, sia pure in maniera diversa, tutte le discipli-ne […] e tende a far acquisire all’alunno, come suo diritto fondamenta-le, l’uso del linguaggio in tutta la varietà delle sue funzioni e forme». Ricordando la funzione della lingua nell’organizzare «la compren-sione della realtà», la definizione di educazione linguistica si allarga a includere i modelli culturali interrelati con la lingua, sia italiana sia straniera, ponendo come obiettivo «la conquista delle capacità espres-sive e comunicative», integrando «tutti i linguaggi propri dell’uomo – verbali e non verbali – […] nel processo educativo», che ha obietti-vi (ampiamente declinati nel testo) cognitiobietti-vi, culturali e strumentali. Le indicazioni metodologiche sono assolutamente nuove rispetto al-la tradizione programmatica delal-la scuoal-la italiana: soprattutto, si accen-tuano le attività d’uso anziché quelle sull’uso della lingua. Uno dei ca-pisaldi è il passaggio dall’insegnamento della grammatica alla

rifles-sione sulla lingua, condotta induttivamente dall’allievo; anche per i

te-sti letterari si raccomanda che la loro lettura non sia «mortificata da commenti minuti».

Negli anni Settanta e Ottanta l’Italia vive la grande stagione delle sperimentazioni; inizia il più organico progetto di rinnovamento della metodologia glottodidattica in Italia, il Progetto Speciale Lingue Stra-niere; si realizzano i corsi «150 ore» in cui l’educazione linguistica ha il ruolo di asse portante: quello delle scuole sperimentali è il contesto

Italiano lingua materna 18

(33)

in cui si realizza la vera rivoluzione copernicana, cioè la trasposizione reale dal dettato programmatico alla didassi quotidiana, alla vita di classe.

1.2.3 La riflessione degli anni Ottanta e Novanta

Gli ultimi due decenni del secolo, dopo la grande innovazione degli an-ni successivi al Sessantotto, si presentano come un periodo di riflessio-ne (che talvolta assume la forma del «riflusso»):

a. dopo il rifiuto del latino del 1961, torna una riflessione più pacata sulla dimensione diacronica;

b. dopo aver conclamato per anni il primato della «comunicazione» si comincia a riflettere seriamente su questo concetto (esemplare è Berretta, 1980), insieme a quello di educazione linguistica «funzio-nale» anche in italiano (Scaglioso, 1986);

c. il discorso viene allargato dalla lingua alla letteratura italiana, secondo linee che vedremo approfonditamente nel capitolo 9; d. si pone un problema che possiamo definire parafrasando Cavour:

«fatta la nuova scuola, bisogna fare i nuovi insegnanti»: nel 1980 ini-zia il Progetto Speciale Lingue Straniere, che formerà oltre il 50% dei docenti con corsi annuali di 100 ore; nei programmi d’abilitazio-ne del 1982 la dimensiod’abilitazio-ne glottodidattica divied’abilitazio-ne significativa; e. inizia un dibattito sulla valutazione della competenza linguistica che

porterà, nel 1999, a generalizzare il modello di esame di maturità tipico delle scuole sperimentali: accanto al tema tradizionale si pro-pongono l’analisi di testi letterari, la stesura di articoli di giornale, la relazione scientifica ecc.;

f. si incomincia a realizzare in classe una collaborazione tra docenti di

lingue moderne, cioè italiano, lingue straniere e, dalla metà degli

anni Novanta, italiano L2 agli immigrati. Malgrado i tentativi, spes-so un po’ avventurosi, la didattica delle lingue classiche non riesce ad agganciare questa tendenza e rimane esclusa, rifugiandosi quasi ovunque nella tradizione;

g. nel 1980 vengono poste a concorso le prime cattedre italiane di glot-todidattica (ne divengono titolari Arcaini e Freddi, seguiti nel 1986

(34)

da Berretta, D’Addio e Porcelli), creando un settore scientifico auto-nomo da quello dei linguisti nell’ordinamento universitario.

Il punto «g» non riguarda solo l’università, naturalmente, visto quanto gli accademici operano nella formazione dei docenti e nella pubblicistica pensata anche per loro: questo stesso manuale né è il ri-sultato. Ci pare quindi importante, prima di passare ai capitoli succes-sivi, riflettere sulla natura della glottodidattica, sull’impianto epistemo-logico che, insieme alla tradizione che abbiamo descritto in questo ca-pitolo, sta alla base della nostra proposta.

1.2.4 La natura epistemologica di questo volume

Nel paragrafo 1.2.1 abbiamo parlato della «sociolinguistica applicata» all’insegnamento dell’italiano: erano gli anni in cui (per riprendere una riflessione personale di Massimo Vedovelli, non pubblicata) la socio-linguistica si sentiva e si comportava come «scienza civile», il cui im-patto non era solo scientifico ma anche sociale; nei due decenni suc-cessivi la sociolinguistica perde questa connotazione di impegno civi-le, che viene invece assunto dalla moderna glottodidattica, la scienza che costringe i ricercatori a confrontarsi con quel che avviene nelle classi plurilingui e plurilivello, a dare una risposta alla necessità e vo-lontà di integrazione degli immigrati, all’impatto dei mezzi di comuni-cazione di massa sulla lingua dei ragazzi – ma è con la lingua che si or-ganizza e si esprime il pensiero.

Per questa ragione, prima di entrare nelle parti propriamente glotto-didattiche di questo volume, crediamo utile chiarire lo spazio in cui si colloca questa «nuova» glottodidattica.

Abbiamo detto che sopra che, rispetto alla tradizione, i programmi del 1979 muovevano dalla linguistica applicata alla sociolinguistica

applicata. Questo volume non è un volume di scienze applicate e

nep-pure un volume di linguistica educativa, per riprendere la recente pro-posta terminologica di De Mauro e Ferreri (2005). Non lo è perché la focalizzazione sulla linguistica, o più correttamente, sulle scienze del linguaggio (di cui pure fa parte la glottodidattica) è riduttiva rispetto

Italiano lingua materna 20

(35)

alla realtà delle conoscenze necessarie per insegnare una lingua in qua-lunque prospettiva, ma soprattutto nella prospettiva «civile» individua-ta da Vedovelli.

Esistono essenzialmente due prospettive nella riflessione e nell’inse-gnamento dell’italiano:

a. una che mira a trasporre le indicazioni che provengono dagli studi

di linguistica (nell’accezione più vasta) e di storia della lingua ita-liana in modo che gli insegnanti, gli autori di materiali didattici, i

progettisti di corsi di didattica dell’italiano e coloro che organizzano la formazione dei docenti possano applicarle in didattica;

b. una, ben più complessa, che non ignora la linguistica (teorica, appli-cata, educativa che sia) ma che ritiene indispensabile un approccio interdisciplinare che accanto all’oggetto dell’insegnamento (studiato dalla linguistica, nell’accezione più vasta) consideri anche il sogget-to (quindi le sue caratteristiche neurologiche e psicologiche: è il tema del secondo capitolo di questo manuale) e l’agire dell’inse-gnante (le scienze della formazione, dalla progettazione curricolare alla metodologia didattica).

La prospettiva glottodidattica che sta alla base di questo manuale è – come si evince anche solo da un semplice sguardo all’indice – la se-conda. Tale impianto parte dall’analisi della differenza tra scienze teo-riche e pratiche e tra i principi di applicazione e implicazione.

L’epistemologia distingue tra scienze che mirano a conoscere e sono dette teoriche (per esempio: la linguistica vuole conoscere la natura della lingua; la biologia indaga la natura della vita ecc.) e scienze

prati-che prati-che mirano a risolvere un problema (proseguendo nell’esempio: la

glottodidattica vuole rispondere alla necessità di acquisire le lingue; la medicina vuole risolvere i problemi patologici).

Le scienze teoriche possono applicare la loro attenzione ad aspetti particolari: per esempio la linguistica può essere applicata alla tradu-zione, all’analisi computazionale ecc. e divenire linguistica

applica-ta, pur rimanendo nell’ambito teorico, volto alla conoscenza di

alcu-ni ambiti specifici. Ma nel momento in cui si deve risolvere e non più descrivere un problema, allora la dimensione della scienza

(36)

ca – pura, incontaminata, ben definita nei propri ambiti e limiti – non basta più, perché la realtà in cui si situano i problemi da risolvere non è semplice bensì complessa: le scienze pratiche sono tendenzial-mente interdisciplinari, si fondano su più scienze teoriche e su altre scienze pratiche e ne traggono le implicazioni utili per la soluzione dei problemi.

Non si tratta di un bisticcio tra applicazione e implicazione, ma di una scelta essenziale per stabilire chi sia il soggetto che decide cosa studiare e cosa proporre:

a. nella logica della glottodidattica come linguistica applicata il sog-getto è il linguista che applica la sua conoscenza dei fenomeni lin-guistici a un settore specifico, quello dell’insegnamento linguistico. È il linguista che decide cosa è scientificamente corretto o non, quali sono i fini e i metodi dell’applicazione della linguistica;

b. nella prospettiva della glottodidattica come scienza pratica

interdi-sciplinare il soggetto è un glottodidatta (lo studioso o l’insegnante),

il quale definisce il problema («devo insegnare l’italiano») e per poterlo risolvere si rivolge a più scienze (teoriche, applicate, prati-che) per coglierne le implicazioni utili alla soluzione. Il suo scopo

non è quello di «conoscere» ma quello di «risolvere», anche se per

risolvere deve conoscere, così come il medico deve conoscere l’ana-tomia o la chimica per risolvere il problema della persona malata o per evitare che si ammali.

La glottodidattica, proprio per la complessità del problema che deve risolvere (far crescere la padronanza di una lingua), trae le proprie co-noscenze da più scienze e le integra in un costrutto scientifico che non è semplicemente la somma di nozioni provenienti dai vari ambiti di ri-cerca ma costituisce una conoscenza nuova e autonoma.

Gli ambiti scientifici di riferimento della glottodidattica – e quindi di questo manuale – sono quattro, alcuni teorici e altri pratici:

a. le scienze del linguaggio della comunicazione: dalla natura della comunicazione, della competenza comunicativa, delle abilità lingui-stiche, delle funzioni e degli atti comunicativi, ai vari aspetti delle

Italiano lingua materna 22

(37)

grammatiche fonologica, morfosintattica, lessicale, testuale, extra-linguistica;

b. le scienze della cultura e della società, dall’antropologia alla socio-logia, visto che l’italiano viene insegnato per interpretare la società e per agirvi: questo capitolo è un esempio del modo in cui per impo-stare l’insegnamento dell’italiano sia necessario conoscere la storia politica, sociale e culturale d’Italia;

c. le scienze del cervello e della mente che ci offrono i principi basila-ri di neurolinguistica e psicolinguistica (le modalità di funziona-mento del cervello e della mente nell’acquisizione linguistica), di psicopedagogia e psicodidattica (su cui fondare i modelli operativi quali l’unità d’apprendimento, l’unità didattica, il modulo), di psi-cologia relazionale, con particolare attenzione al problema del filtro affettivo;

d. le scienze della formazione: pedagogia generale, metodologia didat-tica, tecnologia didatdidat-tica, docimologia.

Le quattro grandi aree di conoscenza che abbiamo sintetizzato sopra divengono «glottodidattica» nel momento in cui vengono integrate, non solo giustapposte l’una all’altra.

Questo volume cerca di proporre un’integrazione tra le quattro aree per individuare le finalità, gli obiettivi e le metodologie dell’insegna-mento dell’italiano a studenti italiani che, per mera convenzione, chia-meremo qui «studenti di madrelingua italiana», pur sapendo che la dia-lettofonia è spesso viva e vegeta e che in molti immigrati di seconda generazione il termine «materna» è inadeguato (per un approfondimen-to sulle differenze tra lingua materna, seconda, etnica si veda Balboni, 2002a, cap. 1).

1.3

Parole chiave del capitolo

Alla fine di questo capitolo vengono date per acquisite e condivise le seguenti parole chiave, che non verranno più spiegate e chiarite nei ca-pitoli successivi:

(38)

glottodidattica: scienza teorico-pratica che studia e progetta

l’educa-zione linguistica, porta all’intersel’educa-zione tra le scienze che riguarda-no l’oggetto dell’insegnamento (scienze della comunicazione, del linguaggio, della cultura, della società) e scienze che riguardano le persone coinvolte, cioè lo studente (aspetti neurologici e psicologi-ci) e l’insegnante (scienze dell’educazione e delle metodologie di-dattiche).

questione della lingua: non riguarda la scelta tra dialetto e italiano,

bensì tra varietà di italiano; a fine Ottocento si opposero le visioni rappresentate da Manzoni e Ascoli e il simbolo del conflitto fu l’uso di nòvo o nuovo nella titolazione di un dizionario; negli anni Sessan-ta le visioni in contrasto erano quelle rappresenSessan-tate da Calvino e Pa-solini, e il simbolo fu la scelta tra italiano della «classe borghese» e quella della «classe operaia».

sociolinguistica applicata: quella parte della sociolinguistica che

ne-gli anni Settanta-Ottanta si fece carico di elaborare modelli teorici e trasformarli in progetti didattici in ordine alla situazione linguistica del nostro Paese, realizzando una «rivoluzione copernicana» rispetto alla tradizione e innovando radicalmente l’insegnamento dell’italia-no nella scuola. Questa funzione di «scienza civile» è passata nel-l’ultimo decennio alla glottodidattica, a seguito dell’impatto dei non italofoni nella scuola.

Italiano lingua materna 24

(39)

CAPITOLO2

L’italiano nell’educazione linguistica

Questo capitolo è costruito intorno a due «dichiarazioni» (nell’accezio-ne delle scienze cognitive: affermazioni semplici, assiomatiche):

a. prima dichiarazione: l’educazione si pone delle «mete», cioè delle finalità di vasto respiro, non degli «obiettivi», che sono propri del-l’istruzione, sono circoscritti e in quanto tali misurabili;

b. seconda dichiarazione: l’educazione linguistica è parte dell’educa-zione generale della persona, dove riveste un ruolo particolare: ha fine in se stessa ma, allo stesso tempo, è strumento per tutte le altre aree educative; per riprendere un titolo di Arcaini: L’educazione

lin-guistica come strumento e come fine (1978).

Vediamo di trarre ora le conseguenze da queste due dichiarazioni, che abbiamo postulato senza discutere.

2.1

Mete educative dell’insegnamento dell’italiano

L’educazione generale, abbiamo detto nella prima dichiarazione, ha delle finalità, delle mete. La filosofia, la pedagogia, tutte le riflessioni sull’educare ne discutono da millenni – e forse a questo punto abbiamo idee troppo complesse, e talvolta confuse, sul tema, quindi preferiamo

(40)

cercare un approccio diverso, più semplice. Procedendo con una logica pragmatica, possiamo partire dal più semplice dei modelli relazionali umani in questo modello:

Italiano lingua materna 26

io e te IO io e il mondo

Un uomo ha relazioni che possono essere schematizzate nel modello a fondo pagina (un modello di carattere religioso porrebbe anche un quarto elemento, relativo alla relazione con la trascendenza: una frec-cia che da «io» va verso l’alto).

Traducendo questo modello elementare in mete educative, possiamo riprendere, liberandoci dal peso delle eccessive per quanto sottili di-scussioni, il modello tripolare che da almeno quarant’anni (si veda per esempio Freddi, 1970) circola in ambito glottodidattico:

a. io: in questo senso, educare (ex ducere) significa, letteralmente, «tirar fuori» il meglio dall’io, dalle opportunità che si hanno, che si incontrano, che ci si crea: questa meta è normalmente detta

autopro-mozione – muoversi, autopro-mozione, in avanti, pro, con le proprie forze, auto. Che ruolo svolge la lingua nell’autopromozione? Come

migliorare le opportunità di autopromozione mentre insegniamo la lingua italiana?

b. io e te: l’uomo è un essere sociale, che costruisce la propria cono-scenza e il proprio mondo affettivo nella relazione con alcuni «tu», dai genitori agli insegnanti, dagli amici ai colleghi. Che ruolo svol-ge la lingua nella socializzazione? Come migliorare le opportunità di socializzazione mentre insegniamo la lingua italiana?

c. io e il mondo: tutti gli altri che non sono dei «tu», tutto il mondo di oggi ma anche del passato, tutto il mondo reale ma anche quello fit-tizio del fantastico, della letteratura ecc. Che ruolo svolge la lingua italiana nella culturizzazione? Come migliorare le opportunità di cul-turizzazione mentre insegniamo la lingua?

(41)

Vediamo partitamene queste tre mete rivolte all’io, ai vari «tu», agli «altri» che sono e che furono – relazioni da cui deriva anche la propria identità e la propria identificazione, che rende originali rispetto agli «altri» ma fa sentire parte di un gruppo di «altri».

2.1.1 Insegnamento dell’italiano e autopromozione

Il titolo di un testo di Dario Fo, Il padrone è padrone perché sa mille

parole, l’operaio è operaio perché ne sa trecento dà icasticità a tutta la

riflessione di Bernstein sulla «deprivazione verbale», alle proposte di don Milani ecc. In Italia, come abbiamo visto nel primo capitolo, c’è una forte tradizione di riflessione sul ruolo del linguaggio nel consenti-re la promozione sociale, lavorativa, politica ecc.: è un concetto tal-mente chiaro e noto che non lo approfondiamo in questa sede.

Preferiamo invece dedicare qualche riga a un altro livello in cui una persona può «andare avanti da sola», autopromuoversi, attraverso la lingua: l’andare avanti a «imparare» l’italiano (o, più in generale, an-che le altre lingue) nella prospettiva an-che i documenti europei chiamano LLLL, Lifelong Language Learning, un apprendimento linguistico che dura tutta la vita e che include sia la lingua «materna» (usiamo per ora questo termine per indicare l’italiano) sia le lingue seconde, straniere, etniche.

Sopra abbiamo scritto «imparare» tra virgolette – perché quando ar-riva nella scuola lo studente ha già imparato l’italiano. Sa l’italiano, anche se non sa sull’italiano (è l’opposizione di Chomsky tra know e

cognize); ha già acquisito l’italiano, deve apprenderlo: si tratta della

dicotomia di Krashen, secondo cui l’acquisizione è stabile, inconsape-vole, governata dall’intero cervello, generativa di lingua, mentre

l’ap-prendimento è razionale, volontario, governato dall’emisfero sinistro

(quello analitico, come vedremo nel terzo capitolo) e non genera lingua ma funge da monitor, da centro di controllo formale (sintattico, morfo-logico, sociolinguistico, pragmatico ecc.) della lingua generata dalla competenza acquisita.

Il bambino che arriva in prima elementare ha già acquisito l’italiano orale; chi arriva alle medie ha già acquisito anche l’italiano scritto (usiamo «elementari» e «medie» perché così si chiamano in italiano:

cap. 1

(42)

lasciamo «primaria» e «secondaria di primo grado» alla varietà buro-cratica). Quindi nella scuola si lavora sull’apprendimento, nell’acce-zione di Krashen citata sopra, cioè sull’analisi razionale dell’italiano per:

a. sviluppare la conoscenza sulla lingua intesa come sistema, come codice: è un’attività di analisi, classificazione, descrizione metalin-guistica che contribuisce allo sviluppo cognitivo, soprattutto alla capacità di astrazione; lavoreremo quindi a un’idea di insegnamen-to della grammatica (qualunque cosa intendiamo per «grammati-ca», almeno a questo punto del discorso) come sviluppo di funzio-ni cogfunzio-nitive, non come apprendimento mnemofunzio-nico di regole, norme;

b. sviluppare la funzione monitor, per garantire un controllo di qualità linguistica e comunicativa prima che le frasi vengano enunciate: questo lavoro è un chiaro contributo all’autopromozione intesa come auto-coscienza, come auto-osservazione, come capacità di staccarsi da sé e di osservarsi dall’esterno – e farlo mentre si parla, in tempo reale, è un’abilità difficile da costruire;

c. sviluppare la meta-competenza comunicativa, per far capire al ragazzo che indipendentemente dalla lingua, e quindi dalla compe-tenza comunicativa in italiano, inglese, dialetto napoletano ecc., il salto cognitivo, l’autopromozione, si ottiene quando si diventa con-sapevoli dei meccanismi e dei tratti fondanti della comunicazione, quando si lavora alla meta-competenza comunicativa.

Riprendendo un vecchio detto, insegnare italiano nella logica del-l’autopromozione dello studente significa non dargli pesci ma inse-gnargli a pescare, per tutta la vita, nel mare magno e cangiante della comunicazione, delle lingue (perché l’educazione linguistica riguarda tutte le lingue che si conoscono e studiano), in particolare dell’italiano. Ma insegnare a pescare, sviluppare l’autonomia del pescatore lingui-stico, richiede tecniche didattiche e materiali ben diversi da quelli che abbiamo ereditato dalla tradizione, che sono spesso talmente demoti-vanti da spingere lo studente a chiudere la mente… «tanto, l’italiano lo so già!».

Italiano lingua materna 28

(43)

2.1.2 Insegnamento dell’italiano e socializzazione

Il paragrafo è brevissimo perché qualunque cosa si scriva su questo tema è necessariamente ovvia, in quanto la lingua italiana è la princi-pale e indispensabile forma di socializzazione per un italiano – «lin-gua italiana» intesa come competenza «comunicativa» nella lin«lin-gua

italiana, cosa ben diversa dalla mera competenza «linguistica» in italiano.

Se è ovvio il fatto che per socializzare in Italia è necessario possede-re le grammatiche linguistica, sociolinguistica, pragmalinguistica, e sa-perle tradurre in abilità linguistiche in cui si intrecciano codici verbali e non verbali, assai meno ovvio è come lavorare in classe al raggiungi-mento di questa meta educativa – soprattutto a scuola, con ragazzi e adolescenti tra i dieci e i diciotto anni (è questo lo studente che abbia-mo in mente) che a quell’età hanno come valore la rottura delle gram-matiche, soprattutto di quelle sociali e culturali.

2.1.3 Insegnamento dell’italiano e culturizzazione

Tecnicamente dovremmo parlare di «inculturazione», termine antropo-logico che indica l’assunzione dei valori e dei codici di comportamento (quindi anche dei codici di comunicazione, in primis la lingua) di una cultura: solo quando si è «inculturati» si può socializzare e, quindi, au-topromuoversi in una società.

In realtà, questa meta educativa è perseguita dall’educazione storica, letteraria, culturale e la padronanza dell’italiano ha una funzione mera-mente strumentale, anche se l’italiano può dar spunto a interessanti analisi (per esempio, quante riflessioni si possono fare sul «maschili-smo» dell’italiano e sul dibattito circa il femminile di titoli, di cariche istituzionali ecc.?).

Nell’educazione linguistica la culturizzazione costituisce invece una meta fondamentale nell’insegnamento dell’italiano come L2 per gli immigrati e soprattutto nell’insegnamento delle lingue e civiltà stranie-re, per riprendere la titolazione delle cattedre degli insegnanti di lingue con i quali l’insegnante di italiano deve dialogare, se opera in una logi-ca di edulogi-cazione linguistilogi-ca.

2.2

(44)

2.2 Mete glottodidattiche per sviluppare la competenza comunicativa in italiano

Le mete educative sono enunciazioni che rimangono nell’ambito della filosofia dell’educazione se non si traducono in mete glottodidattiche, specifiche dell’insegnamento di una lingua (materna, seconda, stranie-ra, etnica, classica che sia).

Le mete glottodidattiche, qualunque sia l’aggettivo che accompa-gniamo a «lingua» (materna, nazionale, seconda ecc.), sono costituite dalle componenti della competenza comunicativa. Riprendiamo breve-mente questo concetto, per poi passare a precisare meglio l’aggettivo da affiancare a «italiano come lingua…».

2.2.1 Il modello di competenza comunicativa

«Competenza» è un concetto di origine chomskyana, tradotto in ambi-to sociolinguistico da Hymes negli anni Settanta e poi fatambi-to proprio dalla didattica delle lingue seconde e straniere; raramente è applicato alla lingua materna e a quelle classiche. Questa limitazione non ha fon-damento se si pensa che la competenza comunicativa altro non è se non la capacità di comunicare efficacemente (dimensione pragmatica),

ap-propriatamente (dimensione socio-culturale) e correttamente

(dimen-sione linguistica) in italiano – e di sapere perché certi messaggi sono efficaci, appropriati e corretti e altri lo sono meno o non lo sono affat-to: la meta-competenza, quindi, che si affianca alla competenza d’uso per consentire l’autopromozione di cui al paragrafo precedente.

La competenza comunicativa è composta da quattro macrocompo-nenti come rappresentato nello schema della pagina a fronte.

Se trasformiamo la figura circolare dello schema in una figura sferi-ca, con le quattro scritte distribuite sulla superficie, ci rendiamo visiva-mente conto che non c’è gerarchia di valore tra le quattro componenti (anche se nella vita di ciascuno c’è priorità nello sviluppo delle varie componenti: il bambino impara la lingua perché vuole agire, farsi nu-trire, coccolare, pulire: mira all’efficacia pragmatica e si disinteressa completamente della appropriatezza socio-linguistica). Per

comunica-Italiano lingua materna 30

(45)

re, cioè per poter scambiare messaggi efficaci, appropriati e corretti è necessario che tutte le componenti siano possedute e attivate.

Come si vede osservando l’indice di questo studio, la seconda e la terza parte sono organizzate secondo queste voci, ma la sequenza è do-vuta solo al fatto che un libro è un testo lineare, sequenziale: per essere coerenti avremmo dovuto procedere in parallelo dividendo ogni pagina in quattro colonne.

Quando entra nel sistema scolastico il bambino è già competente in tutti e quattro i settori, e quando arriva alla scuola media la sua compe-tenza è consolidata: può essere perfezionata, sviluppata, integrata – ma, soprattutto, si possono dare allo studente strumenti per riflettere sulla sua competenza nella comunicazione, nella lingua italiana, nelle altre lingue che conosce, che sta studiando o con le quali è in contatto.

2.2.2 Italiano lingua «materna»?

La domanda non è essenziale ai nostri fini reali: tutti i lettori sanno be-ne che per «italiano» in questo contesto intendiamo la lingua parlata, sebbene con varietà regionali differenti, dalla grande maggioranza dei

saper fare lingua,

cioè saper generare, saper comprendere, saper modificare testi

saper fare con la lingua,

cioè usare la lingua in situazioni sociali per perseguire i propri scopi (chi comunica senza scopo «parla a vanvera»)

saper la lingua,

le grammatiche fonologica e grafemica, la morfologia e la sintassi, i meccanismi della testualità, il lessico

saper i codici non verbali

che si accompagnano alla lingua: gesti, distanze interpersonali ecc.

Riferimenti

Documenti correlati

In linea con le decisioni prese nel Collegio dei Docenti del 3 aprile 2020, il Dipartimento di Lingue adotta le linee guida e gli strumenti indicati nel documento

A partire dal terzo anno lo studio delle funzioni comunicative di uso quotidiano viene sostituito dallo studio specifico di indirizzo, nel caso del liceo lo studio della

Si sono riscontrate delle rigidità da parte di colleghe che non hanno accettato di modificare minimamente il proprio orario per il buon funzionamento di tutto il plesso, colleghe

• Analisi fonologica: difficoltà nella decodifica del codice scritto (saper compitare e saper riconoscere in modo accurato e/o fluente la parola), ma anche difficoltà ad

Se per il codice di civiltà trobadorico saper amare significava necessariamente saper scrivere poesia d’amore, il corpus di testi letterari che Se per il codice di civiltà

Classe: 1A NORMALE SCUOLA SEC.. I GRADO

Comprendere in maniera selettiva e globale brevi testi orali e scritti su argomenti inerenti alla sfera del personale e del sociale o relativi alla realtà dei paesi di cui

Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti - Classe di Lettere Filosofia e delle Belle Arti LXXXIX 2013 - XCV 2019