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Alle Sezioni Unite la questione della sorte del processo esecutivo, nel caso del venir meno del titolo del creditore procedente, pure in presenza di intervenuti titolati - Judicium

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1 CORTE DI CASSAZIONE, 30 gennaio 2013, n. 2240 – Berruti Presidente – De Stefano Relatore – Fucci P.M. (concl. conf.) - Tramontano Ranto e a. – c. Telecom Italia S.p.a.

Esecuzione forzata – Espropriazione forzata – Partecipazione di più creditori – Difetto sopravvenuto del titolo – Prosecuzione dell’esecuzione – Questione di massima di particolare importanza – Rimessione alle Sezioni Unite.

Devono essere rimessi gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 comma 2 c.p.c. tenuto conto dell’interesse alla risoluzione della questione – ritenuta di massima importanza – circa gli effetti della caducazione del titolo esecutivo, in capo al creditore procedente, sul processo esecutivo in pendenza di pignoramenti riuniti e/o di interventi titolati.

Sulla questione indicata, pare al Collegio possibile prospettare la conclusione della insensibilità del processo esecutivo individuale, cui partecipano più creditori concorrenti, alle vicende relative al titolo invocato dal procedente, a maggior ragione in caso di pignoramento successivo od ulteriore poi riunito, purché il titolo esecutivo azionato da almeno un altro di loro abbia mantenuto integra la sua efficacia.

ROBERTA TISCINI

Alle Sezioni Unite la questione della sorte del processo esecutivo, nel caso del venir meno del titolo del creditore procedente, pure in presenza di intervenuti titolati

Sommario: 1. La questione controversa. Gli argomenti contrari a Cass. n. 3531/2009. – 2.

Segue: le ragioni a favore dell’opposta opzione. – 3. La “rilevanza meramente oggettiva” ed il

“valore unitario” degli interventi. – 4. La posizione del debitore. - 5. La ragionevole durata. - 6. La tutela dell’affidamento del terzo e il recente componimento del contrasto interpretativo intorno all’art. 2929 c.c.

1. La questione controversa. Gli argomenti contrari a Cass. n. 3531/2009.

E’ ancora sulla cresta dell’onda (come prevedibile) la questione della sorte dell’espropriazione forzata nella quale sia venuto meno il titolo del creditore procedente, in

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2 presenza di altri intervenuti titolati: ci si chiede se possa sorreggere l’esecuzione il titolo esecutivo di un creditore interveniente, qualora sia venuto meno il titolo del procedente1.

Con una pronuncia che ha avuto la diffusione (seppure non l’autorevolezza) equivalente a quella delle sentenze delle Sezioni Unite, la Sezione III della Corte di cassazione (n. 3531/20092) ha riconosciuto che “la revoca, in corso di esecuzione, del titolo esecutivo azionato dal creditore procedente per promuovere la procedura espropriativa impedisce la legittima prosecuzione della stessa da parte dei creditori muniti di titolo esecutivo intervenuti anteriormente a detta revoca per realizzare in tale sede la pretesa, dagli stessi vantata in via coattiva, salvo che il primo atto di pignoramento non sia integrato da pignoramenti successivi”3.

La soluzione offerta in tempi relativamente recenti dalla giurisprudenza di legittimità non ha soddisfatto, né la dottrina4, per lo più critica, né la giurisprudenza di merito5, spesso assestata su soluzioni contrarie. Essa non soddisfa ora neppure la stessa Corte di cassazione, la quale – con l’ordinanza in epigrafe – rimette la questione alle Sezioni Unite: la Sezione III ritiene oggi opportuno che su di essa - da qualificarsi “di particolare importanza” – sia assicurato il contributo nomofilattico delle Sezioni Unite6.

La motivazione può idealmente dividersi in una pars destruens – volta a superare il precedente di Cass. n. 3531/2009 – ed in una pars costruens, in cui assumono valore argomenti diversi da quelli già invocati a sostegno dell’opposta opzione.

1 La sentenza che si commenta parla di “effetti della caducazione del titolo esecutivo, in capo al creditore procedente, sul processo esecutivo in presenza di pignoramenti riuniti e di interventi titolati”.

2 Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531, in Riv. es. forz., 2009, 330, con note di Pilloni, Intervento dei creditori titolati, difetto sopravvenuto del titolo esecutivo del procedente e arresto della procedura esecutiva, e di Metafora, Gli effetti della revoca del titolo esecutivo sui creditori intervenuti muniti di titolo e sull’aggiudicazione; CorG, 2009, 985, con nota di Capponi, Difetto sopravvenuto del titolo esecutivo e intervento dei creditori titolati; RDPr, 2009, 1717, con nota di Corrado, Intervento e pignoramento successivo: l’intervento non è una scelta “di rischio”; GI, 2010, 385, con nota di Salvioni, Brevi note sui poteri di impulso dei creditori muniti di titolo esecutivo nell’espropriazione forzata singolare.

3 Così la massima di Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531, cit. Che la pronuncia avrebbe avuto una diffusione ad ampio respiro è quanto si è ipotizzato da subito. Sia consentito rinviare in proposito a Tiscini, Dei contrasti tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità circa il venir meno dell’esecuzione a seguito del difetto sopravvenuto del titolo del creditore procedente, pure in presenza di interventi titolati, in Riv. es. forz., 2010, 515 ss.

4 La dottrina si è mostrata per lo più critica avverso Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531, cit. che ha segnato una significativa svolta interpretativa sulla questione. Vd, in senso critico, Capponi, Difetto sopravvenuto del titolo esecutivo e intervento dei creditori titolati, in Corr. giur., 2009, 985; Pilloni, Intervento dei creditori titolati, difetto sopravvenuto del titolo esecutivo del procedente e arresto della procedura esecutiva, in Riv. es. forz., 2009, 330 ss;

Corrado, Intervento e pignoramento successivo: l’intervento non è una scelta “di rischio”, in RDPr, 2009, 1717; in senso favorevole, Metafora, Gli effetti della revoca del titolo esecutivo sui creditori intervenuti muniti di titolo e sull’aggiudicazione, in Riv. es. forz., 2009, 319; Salvioni, Brevi note sui poteri di impulso dei creditori muniti di titolo esecutivo nell’espropriazione forzata singolare, in Giur. it., 2010, 385.

5 Non sono mancate nella giurisprudenza di merito pronunce orientate in direzione contraria a Cass. n. 3531/2009. Vd per tutte, Trib. Cuneo, 30 novembre 2009, in Riv. es. forz., 2010, 509, con nota di Tiscini, Dei contrasti tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità, cit., e con postilla di Capponi, Venir meno ex tunc del titolo esecutivo ed effetti sull’esecuzione in corso; in Corr. giur., 2010, 645, con nota di Capponi, Ancora sull’autonomia tra azioni esecutive concorrenti.

6 Osserva in proposito l’ordinanza che – data l’incertezza interpretativa – “la soluzione processualmente più corretta si presenta la rimessione della questione, da qualificarsi come questione di massima di particolare importanza e sulla quale pare opportuno l’esercizio della funzione nomofilattica loro demandata, alle Sezioni Unite di questa Corre”.

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3 Quanto al primo profilo, desta perplessità la distinzione, posta a fondamento di Cass. n.

3531/2009, tra pignoramento successivo ed intervento titolato, la quale lascia intendere che solo nel primo – non anche nel secondo – la procedura esecutiva può legittimamente proseguire pur con il venir meno del titolo del creditore procedente7 (sicché, l’opzione prediletta dal precedente di legittimità “potrebbe non giustificare la soluzione postulata, quale eccezione alla regola altrimenti enunciata, per il caso di pignoramento successivo”). Aderendo all’opzione già sposata dalla Corte di cassazione, si arriverebbe alle patologiche conseguenze di: a) vanificare l’utilità dell’istituto stesso dell’intervento; b) provocare la proliferazione incontrollata del numero delle procedure esecutive individuali, tutte in via principale; c) provocare effetti perversi non solo per l’amministrazione della giustizia, ma soprattutto per il debitore esecutato “che si vedrebbe esposto alla lievitazione in progressione aritmetica dei costi delle moltiplicate procedure, i quali alla fine ritornerebbero pur sempre a suo danno, in quanto diminuiscono la somma ricavata destinabile all’effettivo soddisfacimento del capitale e degli accessori originari”.

Cass. n. 3531/2009 non terrebbe poi conto delle più recenti riforme in tema di processo esecutivo, nonché “dell’esigenza (del recupero) di efficienza della giurisdizione, da estendersi di certo anche alla giurisdizione esecutiva”8.

Diverse dunque le critiche mosse a Cass. 3531/2009, oscillanti dall’incongruenza dei richiami giurisprudenziali operati, all’esigenza di distinguere tra invalidità originaria o intrinseca del pignoramento ed invalidità derivate da sopravvenuta caducazione del titolo (la quale sola lascerebbe intatta la validità degli atti processuali al momento in cui furono compiuti), per passare all’esigenza di delineare l’autonomia dei poteri processuali dei creditori intervenuti titolati.

Alcune di queste critiche ripropongono quelle già espresse dalla dottrina avverso la medesima sentenza, non ultima quella fondata sull’esigenza di ripensare ai principi tradizionali – innanzi tutto, nulla executio sine titulo9 - “per giustificare, in caso di caducazione con efficacia retroattiva del titolo, la persistenza di una valida esecuzione in un intervallo in cui esso è venuto a mancare”, oppure quella che limita dal punto di vista soggettivo la portata dell’art. 336 c.p.c. circa l’effetto espansivo dell’accoglimento dell’impugnazione10. D’altra parte, la soluzione patrocinata da Cass. n. 3531/2009 fondata sulla perfetta autonomia dei procedimenti riuniti (in caso di

7 Nel caso di specie trattavasi di pignoramento successivo, sicché la questione esaminata avrebbe potuto ritenersi estranea. La Corte tuttavia costruisce la propria conclusione, rovesciando il ragionamento. In effetti, nella fattispecie è assolutamente pacifica la sussistenza di altro pignoramento, riunito a quello per il quale è dichiarato venuto meno il titolo esecutivo; circostanza questa che l’arresto giurisprudenziale di Cass. n. 3531/2009 riterrebbe sufficiente per escludere il travolgimento della ritualità degli atti del processo esecutivo, sicchè tale precedente potrebbe apparire idoneo a fondare di per sé solo la decisione del caso concreto (rigetto nel merito della pretesa degli esecutati). Tuttavia – osserva ancora l’ordinanza – “è proprio il richiamato precedente a suscitare perplessità, sicché pare impossibile risolvere la questione alla sua stregua: da un lato, perché postulare l’operatività della clausola di eccezione appena riferita lo convaliderebbe a contrario; dall’altro lato, perché esso stesso, a ben guardare, potrebbe non giustificare la soluzione postulata, quale eccezione alla regola altrimenti enunciata, per il caso di pignoramento successivo”.

8 La quale va intesa come complementare a quella cognitiva: cita in proposito Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850.

9 Sul tema sia consentito rinviare a Tiscini, Dei contrasti, cit., 523 ss.

10 Capponi, Difetto, cit., 942; Id, Ancora sull’autonomia, cit., 647; Pilloni, Intervento dei creditori, cit., 342.

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4 pignoramento successivo) esporrebbe al rischio – se rigorosamente applicata – di “travolgere comunque anche i pignoranti ulteriori, che non avessero compiuto a loro volta, quali validi titolari di un diritto di agire esecutivamente, i singoli atti del procedimento: con la qual cosa verrebbe meno proprio lo specifico effetto cautelare ivi riconosciuto all’art. 493 c.p.c. quale ratio giustificatrice della sua formulazione (e presupposto della predicata radicale differenziazione di disciplina tra pignoramenti successivi ed interventi titolati), di fruizione, da parte del pignoramento successivo, degli effetti favorevoli degli atti del processo esecutivo già da altri compiuti”11.

2. Segue: le ragioni a favore dell’opposta opzione.

Veniamo alla pars costruens dell’argomentazione.

Muove l’ordinanza dall’esigenza di distinguere la situazione anteriore alle riforme del 2005-2006 da quella successiva, in quest’ultima rilevandosi l’intenzione di modificare (in senso migliorativo) la partecipazione al processo esecutivo ex latere creditoris.

Indici sintomatici di tale esigenza sono, da un lato, selezionare i soggetti abilitati a prendervi parte, trasferendo nella sede cognitiva ogni questione sulla sussistenza delle relative condizioni dell’azione esecutiva ed al contempo ampliando il catalogo dei titoli esecutivi pure stragiudiziali; da un altro, equiparare tutti i creditori abilitati a partecipare all’esecuzione in quanto muniti di titolo esecutivo (unica eccezione riguardando quelli non titolati “i quali potranno conseguire quanto reclamato, per di più solo all’esito della fase di distribuzione, soltanto se il creditore abbia riconosciuto il loro credito, o altrimenti, se si siano muniti nel frattempo di titolo esecutivo”).

Centrale è la qualificazione dell’intervento titolato come “autonoma azione di espropriazione”12, “pacificamente ritenuta dal contenuto identico a quella concessa al creditore pignorante ed attributiva delle medesime facoltà e poteri riconosciuti a quest’ultimo”.

11 Va pur detto che, seppure giungendo a conclusioni opposte a quelle condivise da Cass. n. 3531/2009, l’ordinanza in commento ne cerca di salvare la logica. In conclusione osserva infatti come il principio patrocinato (della insensibilità del processo esecutivo individuale, cui partecipano più creditori concorrenti, alle vicende relative al titolo invocato dal procedente) risponde alle esigenze messe in luce dalla stessa Cass. n. 3531/2009 di celerità dei giudizi e di concorsualità delle azioni esecutive individuali, nonché a quella di garantire l’unitarietà del processo esecutivo in presenza di più creditori titolati.

12 Qualificazione che trova sostegno in autorevole dottrina. Vd. per tutti, Andrioli, Il concorso dei creditori nell’esecuzione singolare, Roma, 1937, 12; Id, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, vol. III, 102; Id, voce, Intervento dei creditori, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 486; Garbagnati, Espropriazione, azione esecutiva e titolo esecutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956 1360; Id, Il concorso dei creditori nell’espropriazione singolare, Milano, 1938; Montesano, La cognizione sul concorso dei creditori nell’esecuzione ordinaria, in Riv. trim. dir. proc.

civ., 1968, 561; Saletti, Processo esecutivo e prescrizione. Contributo alla teoria della domanda esecutiva, Milano, 1992, 45. Per un quadro riassuntivo sulla natura degli interventi a seconda che siano titolati o meno, vd. Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011, vol. III, 118 ss.; Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2012, 71 e 271; Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2012, 341 ss., spec. 361.

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5 Da tali premesse conseguono alcuni corollari. Tenuto conto del fatto che nel processo esecutivo sono individuabili una pluralità di azioni di pari contenuto ed implicanti identiche facoltà, occorre assegnare una “rilevanza meramente oggettiva” alle attività processuali di volta in volta poste in essere per l’impulso e lo sviluppo del processo “con totale indifferenza di quale, tra tutti i soggetti parimenti abilitati – in quanto muniti di titolo esecutivo – a stravolgerla, l’abbia in concreto posta in essere, purché al momento in cui essa è stata espletata, uno di costoro fosse munito di titolo esecutivo”. Ciò consente di ritenere che l’attività compiuta dai singoli creditori possa essere imputata a tutti collettivamente, tanto che da un lato, la legittimazione di uno consente si sopperire alle deficienze degli altri, da un altro, tutti i creditori titolati fruirebbero degli effetti favorevoli dell’attività compiuta da uno qualunque degli altri (“effetti che si oggettivizzerebbero e consoliderebbero in favore di tutti i partecipanti alla procedura”).

Siffatta ricostruzione13 consente di ritenere che – in applicazione del principio tempus regit actum – la legittimazione del procedente non sarebbe inficiata dalla caducazione del titolo ed il processo esecutivo sarebbe in grado di restare valido essendo l’esecuzione sorretta o giustificata dal titolo di uno qualunque dei creditori che in quel medesimo tempo, avrebbero potuto indifferentemente e legittimamente compierlo14.

3. La “rilevanza meramente oggettiva” ed il “valore unitario” degli interventi.

La scelta per la soluzione patrocinata merita senz’altro apprezzamento (si auspica perciò che sulla medesima lunghezza d’onda si collochino le Sezioni Unite). Una scelta che, al di là delle tante argomentazioni puntuali - pure conducibili a suo favore - ha dalla sua evidenti ragioni di opportunità. Se è comprensibile (e giustificabile) la caducazione dell’intero processo esecutivo nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia posto al servizio di un solo creditore, il cui titolo sia medio tempore venuto a mancare, non altrettanto può dirsi quando l’esecuzione in corso vede protagonisti più creditori ciascuno dei quali sarebbe di per sé in grado di portare avanti l’esecuzione con autonomo titolo (compiendone i relativi atti o impedendone l’estinzione): qui è forte – nel nome, tanto dei principi generali dell’ordinamento, quanto delle singole posizioni sostanziali dedotte in giudizio – l’interesse alla conservazione dell’esecuzione in corso, ben peggiori essendo le conseguenze a cui si andrebbe incontro ove quest’ultima fosse caducata (per

13 Essa peraltro sarebbe in grado di conservare un senso alla diversità di funzione dell’istituto del pignoramento successivo o ulteriore dell’art. 493 c.p.c. “il quale sopperirebbe appunto alla necessitò di dar corso ad un processo esecutivo scevro da quei vizi formali o intrinseci del precedente pignoramento, diversi dai profili meramente soggettivi (ex latere creditoris) appena esaminati, i quali, afferendo all’atto in sé, da un lato, sarebbero immediatamente riconoscibili […] e dall’altro propagherebbero irrimediabilmente la loro intrinseca invalidità a tutti gli atti dipendenti, in applicazione del principio generale dell’art. 159 c.p.c.”

14 Chiude infine la motivazione con un richiamo al principio della ragionevole durata del quale ci si occuperà in seguito (§ 5).

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6 tutti, basti pensare alla sorte degli atti esecutivi già compiuti, nonché all’esigenza di attivare una nuova e diversa procedura su iniziativa dei creditori rimasti insoddisfatti).

La dottrina già da tempo affronta la questione ponendo in rilievo l’esigenza di distinguere la causa che ha provocato il venir meno del titolo esecutivo del creditore procedente, e rilevando come la risposta non può essere unica ed univoca15. Occorre differenziare le ipotesi in cui il vizio

15 Sul tema, vd approfonditamente Capponi, Venir meno ex tunc, cit., 525, con riferimento specifico all’esigenza di distinguere le ipotesi di venir meno del titolo del procedente con o senza efficacia retroattiva (il pensiero dell’A. in questi termini è riassunto e riprodotto in altri scritti; vd. Capponi, Vicende del titolo esecutivo nell’esecuzione forzata, in CorrG, 2012, 1512; id, Difetto sopravvenuto, cit., 938; Id, Manuale dell’esecuzione civile, cit., 119 ss.). Questo in estrema sintesi il pensiero dell’A. Per affrontare correttamente le ipotesi in cui il titolo giudiziale viene meno con efficacia ex tunc o ex nunc ( nel primo caso, configurandosi il vuoto dovuto al fatto che il venir meno del titolo ne ha provocato la perdita “come se non fosse mai esistito”, sì da inficiare tutti gli atti dell’esecuzione che ne sono dipendenti), l’A, muove dall’esigenza di distinguere la “riforma” del titolo dalla “revoca”, che nel processo esecutivo conoscono regimi differenziati. Di “revoca” si parla quando il titolo è riconosciuto invalido a causa di un difetto originario delle condizioni richieste per la sua esistenza (si pensi all’ipotesi di revoca del decreto ingiuntivo, ogni qualvolta non può essere integralmente confermato); si può invocare qui una disposizione speciale – l’art. 653 comma 2 c.p.c. – secondo cui, in ipotesi di accoglimento parziale dell’opposizione, con conseguente revoca ex tunc del decreto ingiuntivo, gli atti esecutivi conservano la loro validità sia pure “nei limiti della somma o della quantità ridotta”, stante che “il titolo esecutivo è costituito esclusivamente dalla sentenza”. In questi casi, quando il titolo esecutivo (decreto ingiuntivo) viene revocato, in effetti “è come se non fosse mai esistito” (soluzione estendibile alla revoca integrale del decreto stesso). Una norma corrispondente non esiste nel caso di “riforma” della sentenza in appello, in cui il fenomeno corre su un doppio binario (da un lato, l’effetto sostitutivo della sentenza d’appello, dall’altro l’effetto espansivo esterno dell’art. 336 c.p.c.) e nella quale manca una disposizione corrispondente all’art. 653 c.p.c. Applicando il principio dell’effetto sostitutivo, nonché quello espansivo esterno, occorrerebbe affermare che in caso di riforma, anche parziale, il titolo è costituito dalla sola sentenza d’appello che si sostituisce a quella di primo grado e che la seconda sentenza non potrà giustificare “a ritroso” l’attività esecutiva compiuta sulla base del primo titolo, al quale il secondo si sovrappone, ma con effetti necessariamente ex nunc. Unico modo – sempre a dire di Capponi – per salvare l’esecuzione nella minor misura riconosciuta dalla sentenza d’appello è applicare anche alla riforma parziale una regola corrispondente a quella speciale dell’art. 653 comma 2 c.p.c. (“l’esecuzione è e rimane in vita perché si ha una successione di titoli e l’efficacia sostitutiva della sentenza d’appello si estende a quegli effetti che in concreto sono stati realizzati (in un tempo anteriore alla sua pubblicazione) dalla sentenza riformata”). Da siffatte argomentazioni, Capponi giunge alla conclusione di ritenere che, in caso di riforma in appello della sentenza di primo grado – nonostante la dottrina (Luiso, Diritto processuale civile, cit., 108) e la giurisprudenza invochino una ipotesi di venir meno ex tunc – occorre avere riguardo non solo al regime del titolo giudiziale, ma anche a quello proprio del processo esecutivo che con quel titolo è stato intrapreso, nel quale operano regole quali quelle dell’art. 2929 c.c., nonché valgono istituti quali quelli dell’art. 500 c.p.c. e dell’art. 629 c.p.c. che proiettano sul processo esecutivo il principio della par condicio. Conclude quindi Capponi, nel senso che “sembra dunque che la fictio iuis del titolo che, caducato successivamente all’inizio dell’esecuzione, “è come se non fosse mai esistito” non esprime una regola, ma un’eccezione: da valere nel caso in cui non vi siano interventi titolati, e vi sia “revoca” secca come appunto nel caso del decreto ingiuntivo non tempestivamente notificato, vale a dire una causa di invalidità che interessa la formazione stessa del titolo”.

Ci sembra che, descritta in questi termini, la vicenda sia contraddistinta da troppe eccezioni e casi particolari, tali da impedire di trarre una regola generale. Indubbiamente la disciplina dell’art. 653 comma 2 c.p.c. è fenomeno eccezionale, come eccezionale è la vicenda del decreto ingiuntivo (e della sua revoca). Eccezionale si può dire però anche il caso della riforma della sentenza di primo grado in appello, in quanto improntata ad un effetto sostitutivo tipico di quel giudizio di impugnazione, e non estendibile agli altri. Le fattispecie contemplabili di titoli esecutivi giudiziali “venuti meno” sono tante e varie. Si pensi all’ipotesi della revoca (o modifica) di una ordinanza anticipatoria di condanna resa in corso di causa, ovvero dell’accoglimento dell’opposizione di terzo avverso una sentenza di merito, ovvero ancora alla cassazione con rinvio della sentenza d’appello. A quali fattispecie assimilare queste ipotesi?

condividono queste la disciplina della “revoca” del decreto ingiuntivo, ovvero della “riforma” della sentenza in appello?

Non è facile unificare in una regola generale tutte le ipotesi di “venir meno” del titolo giudiziale, per la semplice ragione che ciascuno strumento impugnatorio, ovvero di revoca/modifica ha le sue caratteristiche e produce effetti

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7 del titolo esecutivo del creditore procedente è originario e tale da inficiare l’atto di pignoramento (il che giustifica la caducazione dell’intera esecuzione), da quelle in cui – seppure sopravvenuto – il vizio del titolo esecutivo ne importa il venir meno con efficacia ex tunc (“come se non fosse mai esistito”), da quelle – ancora – in cui il venir meno ha effetto ex nunc (senza efficacia retroattiva)16.

Di tutte queste distinzioni l’ordinanza in esame si disinteressa, ed a ragione. Non che siano irrilevanti né destituite di fondamento. A rigore di logica, sarebbero infatti da distinguere i casi in cui il venir meno del titolo del creditore procedente abbia lasciato – con effetto retroattivo – scoperta la procedura esecutiva, da quelli in cui ciò non sia avvenuto. Nei primi, a confliggere con la soluzione oggi patrocinata dall’ordinanza di rimessione starebbe il fatto che il venir meno del titolo del creditore procedente minerebbe il consolidato principio nulla executio sine titulo, provocando una situazione in cui la perdita del titolo del procedente non può essere compensata dalla presenza di altri intervenuti titolati.

Il fatto è che la distinzione caso per caso rischia di impedire la costruzione di un quadro uniforme e soprattutto l’affermarsi di una regola che, quando minata da fin troppe eccezioni, non è più in grado di assurgere a principio generale. In altri termini, individuando le singole fattispecie ed assicurando a ciascuna di esse un trattamento differenziato, si finisce per smarrire la strada che dovrebbe condurre verso la costruzione di un precetto dotato di portata generale ed astratta; con la conseguenza di non poter assumere a principio valido né l’una né l’altra soluzione (non quella di Cass. n. 3531/2009, né quella opposta).

differenziati a seconda della natura del mezzo e delle peculiarità del provvedimento impugnato. Per trarre un principio generale comune a tutte le ipotesi di “venir meno” di un titolo giudiziale, non vale quindi esaminare le peculiarità del singolo rimedio, bensì l’effetto che ciascuno di essi produce, stante appunto nel “venir meno” del titolo “come se non fosse mai esistito”, ovvero con una efficacia solo pro futuro.

Né vale a sostegno della (asserita, nel pensiero di Capponi) efficacia ex nunc della riforma della sentenza di primo grado in appello invocare i principi propri del processo esecutivo (artt. 500 o 629 c.p.c., art. 2929 c.c.). Gli effetti del

“venir meno” del titolo giudiziale sul processo esecutivo sono una conseguenza delle sue vicende sul piano della tutela dichiarativa, conseguenza che si produce in un momento logicamente successivo a quello in cui si disciplinano gli effetti dell’impugnazione. In altri termini, per individuare gli effetti sull’esecuzione derivati dall’impugnazione e/o modifica /revoca di un titolo giudiziale, occorre avere riguardo alle peculiarità del rimedio avverso il provvedimento considerato; le conseguenze che ciò riversa sull’esecuzione in corso sono senz’altro dovute a regole proprie del processo esecutivo che però presuppongono già risolto il problema della efficacia e degli esiti dell’impugnazione.

Piuttosto, la complessa ricostruzione offerta da Capponi conferma l’esigenza di non differenziare caso da caso;

un’esigenza di cui meglio si dirà nel testo e che la ordinanza in esame ha ben posto in rilievo costruendo la fictio iuris di valutare un una prospettiva unitaria ed oggettiva il complesso degli interventi, sì da sminuire le peculiarità proprie di ciascuna posizione creditoria soggettiva interna all’esecuzione. Vd. amplius infra nel testo. La scelta semplificante della III Sezione della decisione in epigrafe, non è peraltro la stessa che la medesima III Sezione ha recentemente privilegiato in contesti limitrofi, quale quello degli effetti sull’esecuzione in corso della riforma in appello della sentenza di primo grado, nonché della cassazione della sentenza d’appello (Cass. 8 febbraio 2013, n. 3074; Cass. 12 febbraio 2013 n.

3280; in direzione contraria vd. però Cass. 7 febbraio 2013, n. 2955).

16 Per queste distinzioni, vd. gli approfonditi studi di Capponi, supra nt. precedente, nonché Petrillo, Sui poteri processuali dei creditori intervenuti, muniti di titolo esecutivo, in caso di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo del procedente. Sui poteri di sospensione del G.E. e sui possibili rimedi, in Riv. es. forz., 2007, 548; Id, Intervento dei creditori, inesistenza del diritto del creditore procedente e sorte del processo esecutivo, ivi, 2013, in corso di pubblicazione. Vd. anche, si vis Tiscini, Dei contrasti, cit., 520 ss.

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8 D’altra parte, l’opzione sostenuta dall’ordinanza di rimessione costruisce una fictio iuris che in parte risolve il problema (seppure aggirandolo e in qualche modo facendo venir meno l’esigenza di differenziare caso da caso). Attribuendo un “valore unitario” alla pluralità di azioni esecutive di pari contenuto ed implicanti identiche facoltà (esercitate in un unico processo nelle forme dell’intervento titolato), si può riconoscere al complesso delle attività processuali compiute in sede esecutiva una “rilevanza meramente oggettiva”, a prescindere dal soggetto che le abbia compiute (sempreché si tratti di soggetti parimenti abilitati in quanto tutti muniti di titolo esecutivo). Sicché, in iptesi di più interventi titolati nella medesima procedura esecutiva, la posizione di ciascuno di essi si fonde e confonde con quella degli altri; con la conseguenza che a venire in rilievo sono la natura e le modalità del singolo atto – dal punto di vista oggettivo – a nulla rilevando il profilo soggettivo (il creditore che in concreto lo ha posto in essere).

Rebus sic stantibus, perde significato la questione nel suo complesso: se a valere non è il soggetto che ha compiuto l’atto esecutivo (alla condizione che si tratti di atto posto da creditore titolato, procedente o intervenuto), bensì l’atto in sé, sfuma l’esigenza di distinguere tra creditore procedente e creditori intervenuti: l’importante è che si tratti di atto validamente posto da un creditore a ciò abilitato, in quanto munito di titolo esecutivo.

Così posta la questione, non può che condividersi la soluzione patrocinata; la quale peraltro – come si è altrove evidenziato17 - è la più opportuna, perché consente di salvare una procedura esecutiva altrimenti destinata a chiudersi per poi dare luogo ad una nuova e diversa esecuzione18. Soluzione che è perciò da preferire ex latere dei creditori intervenuti, per i quali potrebbe altrimenti rivelarsi gravoso ed eccessivo riaprire una nuova procedura, nonché – ancor prima – cautelarsi dovendo verificare se il titolo del creditore procedente è effettivamente capace di sorreggere l’esecuzione per tutta la sua durata19.

Resta il fatto che l’argomento principe su cui poggia la motivazione ruota intorno ad una fictio iuris: quella di ritenere che il complesso degli interventi titolati abbia una “rilevanza meramente oggettiva” all’interno della quale si smarriscono i singoli profili soggettivi. Dare valore all’atto in sé e non al soggetto che l’ha compiuto è regola che non ben si concilia con la natura processuale dell’attività, per la cui corretta individuazione difficilmente si possono obliare le

17 Vd. già Tiscini, Dei contrasti, cit., 515.

18 Su questo profilo di opportunità si sofferma anche l’ordinanza in epigrafe (vd. supra § 2).

19 Osserva opportunamente Petrillo, Intervento dei creditori, inesistenza del diritto del creditore procedente e sorte del processo esecutivo, cit., § 3, come – aderendo all’opzione già condivisa da Cass. n. 3531/2009 – la tesi che vuole il concreto esercizio dell’intervento come dipendente dall’esistenza del diritto del creditore pignorante finisce per onerare il creditore intervenuto di una indagine complicatissima – nonché impossibile in ragione della pretesa riservatezza dei procedimenti giudiziari – tanto da indurre il creditore titolato a richiedere un pignoramento successivo allo scopo di porsi al riparo di ogni possibile rischio; non va dimenticato infatti che gli strumenti per rimuovere un titolo esecutivo non sono le sole opposizioni interne all’esecuzione stessa, ma lo sono anche le impugnazioni (ordinarie o straordinarie) del titolo stesso in sede cognitiva, nonché talvolta pure strumenti non impugnatori non soggetti a termini decadenziali (così ad esempio il procedimento per la declaratoria di inefficacia del decreto ingiuntivo non notificato dell’art. 188 disp. att. c.p.c.). A favore dell’intervento – in luogo del pignoramento successivo – militano poi altre ragioni di carattere socio economico, su cui si sofferma approfonditamente Petrillo, op. loco cit.

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9 caratteristiche soggettive della parte a cui va riconosciuta la paternità dell’atto (si dirà tuttavia, che il fine giustifica i mezzi).

4. La posizione del debitore.

Resta un dubbio intorno alla compatibilità di siffatta soluzione con la posizione (e con gli interessi) del debitore.

Se è vero che la soluzione già condivisa da Cass. n.3531/2009 onera in misura eccessiva i creditori intervenuti (i quali, prima di scegliere tra un intervento o un pignoramento successivo sarebbero gravati dell’onere di verificare la stabilità del titolo del creditore procedente20), è pur vero che non è detto che siffatta soluzione sia la migliore per il debitore.

Ipotizziamo che l’azione esecutiva sia stata intrapresa dal creditore procedente sulla base di una sentenza di condanna, a sua volta impugnata – senza concessione di inibitoria, né con sospensione dell’esecuzione – e che nel corso dell’esecuzione stessa siano intervenuti creditori titolati. Aderendo alla soluzione secondo cui il venir meno del titolo del procedente21 provoca la caducazione dell’intera esecuzione, per il debitore, certo di uscire vittorioso dal giudizio d’appello avverso la sentenza impugnata, non vi è l’esigenza concreta di opporsi all’intervento intrapreso da altri (la caducazione del titolo del procedente è quanto basta per far venir meno l’intera esecuzione). La consapevolezza invece dell’opposta opzione – nel senso che la caducazione del titolo del procedente non è sufficiente a paralizzare l’iniziativa esecutiva – rischia di onerare il debitore del compito di intraprendere una pluralità di opposizioni esecutive (nelle forme, tanto dell’opposizione all’esecuzione, quanto dell’opposizione agli atti, ovvero talora per le vie delle controversie distributive dell’art. 512 c.p.c. 22), ciascuna contro ogni creditore intervenuto, allo scopo di cautelarsi per l’eventualità in cui – pure cadendo il titolo del procedente – l’esecuzione resti in piedi in virtù di altri creditori intervenuti.

20 Il che spesso è impossibile, impossibile essendo poter preventivare la stabilità ad esempio di una sentenza esecutiva, rispetto alle sue eventuali impugnazioni. Vd. supra nt. precedente.

21 Se non altro quando ciò avviene con efficacia ex tunc.

22 Le modalità per contestare l’intervento di un creditore possono essere varie, a seconda del vizio che si deduce. È stabile la giurisprudenza nel ritenere che l’opposizione all’esecuzione sia strumento utilizzabile avverso l’intervento di altri creditori nel corso dell’esecuzione; si ritiene infatti che la legittimazione passiva nell’opposizione all’esecuzione spetta oltre che al creditore procedente, anche ad ognuno dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo (Cass. 26 ottobre 2011, n. 22310; Cass. 23 aprile 2001, n. 5961). Osserva in proposito Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., 420 che, “sebbene i creditori intervenuti titolati accedano, in sostanza, all’azione spiegata dal creditore pignorante, senza autonomamente colpire il bene con una concorrente misura esecutiva, essi risultano parificati al procedente quanto agli strumenti di reazione disponibili dall’esecutato, verosimilmente perché hanno autonomi poteri di iniziativa nel processo”. Può poi invocarsi l’art. 617 c.p.c., quando il vizio attiene alla regolarità formale dell’intervento, ovvero le conseguenze di un invalido atto di intervento (pure per tardività) che possono riversarsi in sede distributiva, quando si voglia contestare la sussistenza o l’ammontare del credito dell’intervenuto. Sul diverso ambito dell’opposizione all’esecuzione rispetto alla controversia distributiva dell’art. 512 c.p.c., vd. per tutte Cass. 26 ottobre 2011, n. 22310, cit.; Cass. 23 aprile 2001, n. 5961, cit.

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10 E’ questo un rischio che, nel bilanciamento dei valori, è senz’altro destinato a soccombere rispetto a quello di privilegiare l’opposta soluzione (con le conseguenze di cui si è detto23). D’altra parte, l’onere per il debitore esecutato di opporsi non solo all’azione esecutiva del procedente ma anche a quella di tutti gli altri intervenuti titolati rileva a prescindere dalla soluzione del caso in esame: ogni qualvolta un debitore sa che vi è fondamento per una opposizione esecutiva, è sua cura provvedervi, argomentando l’invalidità di quel “titolo a procedere ad esecuzione forzata”, a prescindere da più generali conseguenze sul processo esecutivo complessivamente considerato. E’

dunque opportuno che il debitore valuti ogni atto di intervento in sé, nella prospettiva non solo di paralizzare l’esecuzione in corso, ma anche di eliminare il pericolo di potenziali esecuzioni future per il caso in cui – chiusasi quella pendente – siano intraprese nuove ed autonome azioni esecutive24.

Sta di fatto che la soluzione condivisa dall’ordinanza in commento, se ha il pregio di evitare la chiusura di una procedura esecutiva (a seguito del venir meno del creditore procedente) per poi imporre l’apertura di una nuova (in tutto danno dell’economia dei giudizi), ha il difetto di complicare – e rallentare25 - la procedura pendente, gravata del moltiplicarsi di incidenti cognitivi, per ciascuno dei creditori intervenuti titolati.

Trattasi, come si è detto, di “male minore”: è senz’altro preferibile onerare il debitore del compito di opporsi a ciascuno degli interventi titolati (così ampliando la congerie degli incidenti cognitivi all’interno dell’esecuzione pendente) piuttosto che aumentare il rischio di una chiusura anticipata dell’esecuzione – a seguito del venir meno del titolo del procedente – per poi lasciare spazio a nuove ed ulteriori iniziative esecutive (in tutto danno dell’economia dei giudizi).

5. La ragionevole durata.

L’ordinanza conclude con una scelta argomentativa di dubbia opportunità, nulla aggiungendo ad una ricostruzione logica già di per sé autosufficiente. L’esigenza di garantire l’unitarietà del processo esecutivo in presenza di più creditori concorrenti titolati risponde – secondo la decisione - al principio di economia processuale, a sua volta “saldamente fondato” su quello della ragionevole durata del processo.

Siffatto principio “impone una lettura costituzionalmente orientata della disciplina processuale ed in particolare di tutte le norme che in concreto ne regolano le scansioni temporali e gli snodi procedimentali”. Tanto che esso vale, non solo quale vincolo nell’attività legislativa, ma pure come fondamentale criterio guida e parametro di interpretazione delle norme e di orientamento per il giudice nell’esercizio di poteri di direzione proiettati sull’accelerazione del

23 Vd. supra §§ precedenti.

24 Osserva d’altra parte l’ordinanza in commento come la proliferazione delle procedure esecutive costituisce un profilo deteriore pure per il debitore esecutato costretto a difendersi su ciascuna di esse.

25 Sulla “ragionevole durata” vd. infra § successivo.

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11 processo. Muovendo quindi dall’esigenza di constatare l’affievolimento dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, nonché essendo essa vista come un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, nella prospettiva di “sburocratizzare la giustizia e di valorizzare il conseguimento tempestivo del risultato a cui il cittadino mira”, osserva l’ordinanza:

“la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo impone all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione di detto obiettivo costituzionale”.

Di nuovo la ragionevole durata del processo!

Costituisce ormai una formula prestampata e giustapposta a qualsiasi decisione della Corte di cassazione su questioni processuali quella che giustifica le singole soluzioni sulla base di un principio bon à tout faire. Il che però, lungi da rafforzarla, squalifica la “ragionevole durata”, rendendola formula vuota e stereotipa.

E’ indubbio che la Corte può vestire dei panni che meglio preferisce decisioni comunque destinate ad avere autorevolezza per forza propria più che per le ragioni ad essa sottese. Tuttavia, la strategia intrapresa da tempo nel senso di giustificare qualsiasi scelta sulla base di una non meglio identificata “ragionevole durata del processo” non è sempre vincente, per lo meno per due concorrenti ragioni: da una parte, perché tale principio è spesso invocato in contesti che nulla hanno a che vedere con l’esigenza di assicurare al processo una dilazione temporale

“ragionevolmente giusta”, da un’altra, perché siffatta scelta rischia talora di produrre un effetto boomerang, a causa dell’inflazionarsi di un principio il cui abuso lo rende scarsamente efficace.

Detto questo sul piano generale (è innegabile lo scetticismo verso una regola che negli anni ha condotto ad abnormi se non devastanti interpretazioni della disposizione processuale26), l’invocazione del principio della ragionevole durata nel caso concreto non va condivisa per più specifiche ragioni. Il discorso impone di tornare brevemente su quanto osservato nel § precedente intorno alla posizione del debitore.

Si è detto che la soluzione di rendere insensibile il processo esecutivo alla vicenda del venir meno del titolo del creditore procedente (in presenza di altri intervenuti titolati) risponde a condivisibili ragioni di opportunità, seppure onera il debitore del compito di opporsi a ciascun intervento, pure nella consapevolezza della debolezza del titolo del creditore procedente: non potendo il venir meno di quest’ultimo bastare per bloccare l’intera procedura esecutiva, dovrà infatti il debitore esecutato intraprendere tante opposizioni quanti sono i titoli esecutivi contemplati nella procedura. Ancorché conseguenza comprensibile e condivisibile (in ogni caso

“male minore” rispetto alla diversa soluzione27), essa non può che incidere (negativamente) sulla

26 Sia di esempio la nota linea giurisprudenziale venuta consolidandosi intorno all’art. 37 c.p.c. sul cd. giudicato implicito (Cass. 9 ottobre 2008, n. 24883, in Foro it. 2009, 3, I, 806, con nota di Poli).

27 Per queste considerazioni vd. supra § precedente.

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“ragionevole durata” dell’esecuzione in corso. Nella prospettiva di assicurare al singolo processo esecutivo una durata “ragionevole”, dovrebbe prediligersi la strada che riduce al minimo il proliferare degli incidenti cognitivi; incidenti che – anche quando inidonei a provocarne la sospensione dell’esecuzione – ne alterano la struttura meramente esecutiva, producendo effetti (in senso peggiorativo) sulla sua durata. Non dura certo meno il processo gravato dalla pluralità delle opposizioni e/o contestazioni (ciascuna per ogni intervento titolato) rispetto a quello in cui gli incidenti cognitivi sono ridotti al minimo e nella sola misura in cui siano funzionali a paralizzare l’esecuzione pendente.

A rigore, dunque, incide negativamente sulla ragionevole durata dell’esecuzione in corso la soluzione che, attribuendo a ciascun creditore titolato il potere di proseguire l’esecuzione (qualora venga meno il procedente), al contempo impone al debitore di cautelarsi rispetto a ciascun titolo, opponendosi ad esso; il che provoca una moltiplicazione delle opposizione, ciascuna per ogni intervento.

E’ invece estraneo ad ogni problema di “ragionevole durata” il fatto che – stando all’opzione di Cass. n. 3531/2009 – la procedura vada chiusa con il venir meno del titolo del creditore procedente (sicché i creditori rimasti insoddisfatti dovranno riaprirne una nuova). Non ha qui senso invocare la ragionevole durata della singola procedura esecutiva per la semplice ragione che si tratta di procedura conclusasi con un epilogo patologico (chiusura anticipata). Se mai, potrà parlarsi di economia processuale, ma non sempre quest’ultima va di pari passo con la prima28.

Fortunatamente, nel caso che ci occupa l’invocazione della “ragionevole durata” è tutto sommato innocua: trattasi pur sempre di principio utilizzato a favore di soluzione condivisibile per ben altre ragioni, né tale da stravolgere il senso dei precetti processuali (come altrove si è visto fare29).

6. La tutela dell’affidamento del terzo e il recente componimento del contrasto interpretativo intorno all’art. 2929 c.c.

Vi è un ultimo argomento a favore della tesi che consente la sopravvivenza dell’esecuzione pure in ipotesi di venir meno del titolo del creditore procedente. A commento di Cass. n.

3531/2009 si era osservato come la soluzione ivi patrocinata non si poneva in linea con l’esigenza di tutelare la posizione del terzo acquirente del bene pignorato, il cui diritto sul bene stesso – stando alla sentenza citata – era travolto dall’accertamento, successivo alla vendita, del difetto sopravvenuto del titolo del procedente. Siffatta linea orientativa si fondava sull’interpretazione

28 Per non dire che il processo è uno strumento fortemente tecnico e che l’invocazione dei massimi sistemi (ragionevole durata, economia processuale, giusto processo), rischia talvolta di obliare il vero senso dei precetti processuali.

29 Il pensiero torna prepotentemente alla vicenda dell’art. 37 c.p.c.

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13 prevalente che ruota(va) intorno all’art. 2929 c.c.30 Riteneva infatti la giurisprudenza31 – non senza orientamenti volti in direzione contraria32 – come fosse necessario distinguere i vizi formali del procedimento dalle contestazioni relative all’an dell’esecuzione, nonché a quelli relativi all’esistenza del titolo esecutivo; solo nel primo caso la posizione dell’aggiudicatario era destinata a prevalere, in applicazione dell’art. 2929 c.c.

Invocando siffatta linea interpretativa – seppure con le critiche della dottrina33 - Cass.

3531/2009 aveva rilevato come fosse “onere dell’aspirante aggiudicatario […] accertarsi se, prima dell’instaurazione del subprocedimento finalizzato all’alienazione coattiva e prima della sua definizione con il prodursi dell’effetto traslativo, il titolo esecutivo sulla cui base il creditore procedente ha agito abbia o meno il carattere della irrevocabilità, ovvero sia ancora oggetto di contestazione”34.

Della questione non si occupa la pronuncia in commento, per la semplice ragione che l’adesione all’opposta opzione (nei termini di cui si è detto35) elimina a priori il problema.

Tuttavia, a prescindere dall’opzione condivisa oggi dalla Sezione III, va pur detto che quell’argomento all’epoca pretestuosamente invocato da Cass. n. 3531/2009, oggi non avrebbe più motivo di esistere.

A componimento del contrasto interpretativo venuto formandosi intorno all’art. 2929 c.c., le Sezioni Unite36 hanno recentemente aderito alla soluzione (già minoritaria) che offre una lettura

30 Sul tema, vd. per tutti, Sassani, Sulla portata precettiva dell’art. 2929 c.c., in Giust. civ., 1985, I, 3138; Barletta, La stabilità della vendita forzata, Napoli, 2002, 232; Farina, L’aggiudicazione nel sistema delle vendite forzate, Napoli, 2012.

31 Era senz’altro prevalente la giurisprudenza volta a offrire una lettura restrittiva dell’art. 2929 c.c. nel senso di limitarne la portata alla sola ipotesi di vizi formali dai quali siano affetti uno o più dei singoli atti esecutivi anteriori all’acquisto o all’assegnazione del bene pignorato . In altri termini, riteneva la giurisprudenza che l’art. 2929 c.c.

trovasse applicazione ogni qualvolta fosse posto in discussione il quomodo dell’esecuzione (art. 617 c.p.c.)e non anche quando fosse emersa l’inesistenza del diritto del creditore procedente ad agire in executivis (come nel caso dell’opposizione ex art. 615 c.p.c.): cfr. per tutte, Cass. 11 novembre 2004, n. 21439; Cass. 11 gennaio 2001, n. 328;

Cass. 1 agosto 1991, n. 8471.

32 Seppure minoritaria, una opposta linea giurisprudenziale talora riconosceva che, pur confermando la convinzione secondo cui l’art. 2929 c.c. si riferirebbe unicamente all'ipotesi di vizi formali degli atti esecutivi precedenti l'aggiudicazione o l'assegnazione del bene pignorato, dovevano farsi salvi i diritti dell'aggiudicatario o del terzo assegnatario di buona fede anche in caso di vizi afferenti al titolo esecutivo: ciò, sia in virtù di un generale principio di tutela dell'affidamento incolpevole, sia per non scoraggiare preventivamente i potenziali concorrenti all'acquisto dei beni posti in vendita nell'ambito delle procedure di esecuzione forzata (cfr. per tutte Cass. 4 giugno 1969, n. 1968; Cass.

1 agosto 1991, n. 8471; Cass. 7 ottobre 1997, n. 9744).

33 Fortemente critici su siffatta argomentazione interpretativa, Capponi, Difetto sopravvenuto, cit., 943; Petrillo, Intervento dei creditori, cit., § 3.3.

34 Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531, cit.

35 Supra §§ precedenti.

36 Cass. SU 28 novembre 2012, n. 21110, in Riv. es. forz., in corso di pubblicazione, con nota di Spada e in Corr.G, 2013, in corso di pubblicazione, con nota di Capponi, Espropriazione forzata senza titolo esecutivo (e relativi conflitti).

La questione interpretativa viene rimessa dalla Sezione III alle Sezioni Unite “per dirimere i contrasti di giurisprudenza manifestatisi in ordine agli effetti che, sui diritti dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, producono l’originaria inesistenza o la successiva caducazione del titolo esecutivo”. A seguire, ancorché il ricorso sia da dichiarare inammissibile per difetto di interesse in capo al ricorrente, la particolare importanza della questione sollevata, nonché l’esigenza nomofilattica di dirimere i contrasti di giurisprudenza segnalati nell’ordinanza di rimessione, “suggeriscono

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14 più ampia della norma codicistica, nel senso che all'aggiudicatario o al terzo assegnatario non colluso col creditore procedente sono inopponibili non solo le pregresse nullità formali del procedimento ma anche quelle attinenti all'esistenza stessa del diritto del creditore ad agire in executivis. Seppure con una motivazione che desta perplessità (ed apre a qualche dubbio interpretativo intorno alla logica della soluzione privilegiata)37, rilevano le Sezioni Unite che “il sopravvenuto accertamento dell'inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l'esercizio dell'azione esecutiva non fa venir meno l'acquisto dell'immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente, fermo peraltro restando il diritto dell'esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell'eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo” 38.

Pur prescindendo dalle peculiarità della decisione - il cui contesto è indubbiamente diverso da quello sin qui esaminato - non può non rilevarsi una certa corrispondenza funzionale: il venir meno del titolo esecutivo del creditore procedente non può paralizzare né tantomeno invalidare una procedura portata avanti (finanche oltre la vendita o aggiudicazione del bene pignorato) nelle ipotesi in cui la sua progressione esecutiva sia validamente avvenuta grazie al dinamismo di altri creditori titolati. L’esecuzione necessita il più possibile di garanzie di stabilità (del che danno conferma le più recenti riforme legislative), imposte nell’interesse di plurimi soggetti (dei creditori intervenuti, del terzo aggiudicatario, non meno che dello stesso debitore39), oltre che dell’ordinamento nel suo complesso (indipendentemente da non meglio identificate esigenze di

“ragionevole durata”).

al collegio, pur nella dichiarata inammissibilità del ricorso, di soffermarsi ugualmente sull’anzidetta questione, cogliendo l’occasione per pronunciare d'ufficio a tal riguardo un principio di diritto, come consentito dall'art. 363 c.p.c., comma 3”.

37 Per taluni rilievi critici intorno alla motivazione addotta da Cass. SU n. 211110/2012, cit. si rinvia all’approfondita analisi di Capponi, Espropriazione forzata, cit.

38 Cass. SU 28 novembre 2012, n. 21110, cit.

39 Vd. supra § 4.

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