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La responsabilità del professionista in genere Rodolfo Berti

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Academic year: 2022

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La responsabilità del professionista in genere

Rodolfo Berti*

1) Premessa

Quando si ordina ad un falegname la costruzione di un armadio, si stipula un contratto d'opera per il quale si pretende che il mobile ordinato risulti costruito secondo progetto ed a perfetta regola d'arte: si pretende quindi un risultato.

Quando invece si chiede ad un professionista di prestare le proprie capacità professionali per la tutela di un interesse, non si può pretendere che questi raggiunga il risultato e quindi soddisfi le nostre speranze, ma si potrà solo pretendere che egli adotti quella diligenza che la fattispecie richiede usando tutto il suo bagaglio di esperienze e cognizioni, onde tentare di risolvere al meglio il problema: si tratta quindi di un'obbligazione di mezzi.

Dunque pur essendo entrambe le prestazioni inquadrabili nell'ambito del contratto d'opera, la prima, quella del falegname, riguarda solo il compimento di un'opera materiale, per cui se ne pretende un risultato, mentre quella che si richiede al professionista, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali attraverso il mezzo del sapere, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato ma solo al tentativo di raggiungerlo, essendo questo in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili.

Ma la differenza risulta ancor più evidente quando si esaminino i riflessi sulla responsabilità discendenti dalle due diverse prestazioni.

L'art. 2236 del cod. civ. limita la responsabilità del professionista ai casi di dolo o colpa grave "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà".

Da quanto abbiamo sopra detto tale limitazione di responsabilità, che a tutta prima potrebbe risultare abusiva, in realtà è perfettamente consequenziale al tipo di attività che il prestatore d'opera intellettuale-professionista compie rispetto al prestatore d'opera materiale: il primo infatti impiega i mezzi che la sua conoscenza intellettuale gli consente, mentre l'altro deve solo plasmare una materia. E allora la differenza di obbligazione che l'un prestatore assume rispetto all'altro, cioè il risultato e i mezzi, rende comprensibile e condivisibile la limitazione di responsabilità per il professionista ai soli casi di dolo o colpa grave quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà mentre, di fronte ad ipotesi di normale impegno, il professionista risponde secondo i normali principi di responsabilità di cui all'art. 1176 c.c..

Vediamo adesso, più in particolare, di comprendere il significato di quanto sinora detto.

2) la responsabilità dei professionisti in genere

La responsabilità del prestatore d'opera intellettuale è regolata in generale dell'art. 1176 del codice civile che nel secondo comma fa obbligo al professionista di usare la diligenza del buon padre di famiglia e cioè la diligenza media, da valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.

E' quindi il giudizio sulla diligenza che comporta, quale conseguenza, un giudizio sulla responsabilità del professionista, nel senso che si deve fare riferimento, per valutare la diligenza impiegata, al tipo di attività che il professionista è chiamato a compiere per cui, correlando la norma sopra indicata con quella successiva di cui all'art. 2236 c.c., si ha che la

* Avvocato, Ancona

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responsabilità del professionista, già limitata nelle prestazioni di difficile esecuzione ai soli casi di dolo o colpa grave, viene limitata anche nei casi rientranti nella normalità dal criterio valutativo della diligenza adoperata, avuto riguardo alla media diligenza cioè alla media capacità professionale, posto che al professionista, che non sia specializzato, non può chiedersi una capacità professionale eccezionale.

Quindi, per fare un esempio, qualora un medico sia chiamato ad effettuare un intervento chirurgico di routine, tipo asportazione di un'appendicite o di un'ernia o, per farla più semplice, delle tonsille, la sua responsabilità sarà più ampia rispetto al caso in cui sia chiamato ad un delicato intervento di chirurgia cardio-vascolare od addirittura al cervello1. L'art. 2236 c.c. limita infatti la responsabilità del professionista nei soli casi di dolo o colpa grave proprio perché, oltre ad una normale capacità professionale, non può da lui pretendersi un'abilità eccezionale tale da superare quelle difficoltà, diagnostiche o terapeutiche, dovute ad imprevisti, ad ipotesi sconosciute o a complicanze straordinarie.

Al contrario è evidente che se nel corso di un intervento di appendicectomia, qualora al posto della parte infiammata venga asportata una parte sana, indubbia è la responsabilità del chirurgo per l'ecclatanza dell'errore in relazione ad un normale intervento.

Fino ad ora abbiamo parlato, per fare degli esempi, dei medici e dei chirurghi perché è proprio in riferimento a questi che vi è stata una evoluzione del concetto di responsabilità dei professionisti, non essendo altrettanto evidente per ciò che riguarda altre categorie di prestatori d'opera intellettuale: avvocati, notai, commercialisti, ecc.

Dunque i professionisti rispondono anche per colpa lieve quando siano chiamati a risolvere problemi semplici e che rientrano nelle normali capacità di ogni medio professionista2.

A questo punto è però necessario, per poter meglio affrontare l'argomento, trattare delle particolari ipotesi di responsabilità perché, come ho già anticipato, queste sono diverse da categoria a categoria e molto spesso anche nell'ambito della stessa categoria e ciò non per previsione di legge ma per evoluzione dottrinario-giurisprudenziale.

3) La responsabilità dei sanitari

La figura più emblematica di prestatore di opera intellettuale che più è oggetto dell'indagine giurisprudenziale in tema di responsabilità è quella del medico perché indubbiamente le conseguenze del suo operato hanno un riflesso immediato sia che il risultato sperato sia raggiunto, sia, e soprattutto, nel caso contrario. Per di più la professione medica, ed in particolar modo la specializzazione in chirurgia, espone il professionista ad una particolare situazione di rischio perchè sia la diagnosi, sia la cura, e quindi l'intervento chirurgico, molto spesso sconfinano nell'ipotetico se non addirittura nello sperimentale e comunque nell'incerto.

D'altra parte l'arte medica è l'unica per la quale ad ogni errore corrisponde una lesione personale e quindi non prescinde, la responsabilità, dall'ambito penalistico, a differenza delle altre professioni che invece, per gran parte, riguardano solo ipotesi di inadempienze contrattuali o illeciti di esclusiva rilevanza civilistica.

La scienza medica, pur avendo fatto passi da gigante nelle conquiste tecnico scientifiche, è tuttavia ben lungi dall'essere ancora oggi ritenuta una scienza esatta. L'applicazione a questa

1 Cass. Civ. Sez. III 26.3.1990 n.2428 in Giur. It. 1991, I, 1, 600 con nota di Carusi; Trib. Milano 19.5.1992 in Resp. Civ. Prev. 1994, 157 con nota di Pontonio; Cass. Civ. Sez. III 1.2.1991 in Giur. It. 1991, I, 1, 1397.

2 Cass. Civ. Sez. II 18.5.1988 n.3463 in Resp. Civ. Prev. 1988, 317 con nota Aluffi Back - Pecozz; Cass. Civ.

Sez. III 8.5.1993 n.5325 in Corr. Giur. 1994, 1270, con nota di Percari; Cass. Civ. Sez. III 28.4.1994 n.4044 in Resp. Civ. Prev. 1994, 635 con nota di Ruta.

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professione delle norme sopra indicate è quindi stata rigorosa e fino a poco tempo fa si sono perdonati errori eclatanti proprio in considerazione della delicatezza in ogni intervento effettuato.

La giurisprudenza però è cambiata sia perché la posizione di inferiorità e debolezza del paziente danneggiato, rispetto a quella privilegiata del medico, doveva trovare un riscatto, sia perché ci si è resi conto che molto spesso il viatico, che era stato concesso in considerazione della delicatezza e dei rischi naturalmente connessi a tale attività, in molti casi era poi servito a sanare abusi a volte addirittura ingiustificabili. Non c'è molto da dire quando il medico intervenga in condizioni estreme, e quindi in stato di necessità, tentando di salvare una vita che sia irrimediabilmente perduta, per cui il tentativo (vedremo poi come la giurisprudenza ritiene obbligatorio il tentativo quasi in ogni caso) che abbia avuto esito infruttuoso, non costituisce ipotesi di responsabilità perché l'unico risultato sperato sarebbe stata la irraggiungibile salvezza. Ma laddove invece l'intervento del professionista medico o chirurgo sia finalizzato al miglioramento della qualità della vita e quindi al ripristino della salute, qualora le conseguenze siano peggiorative costituendo un danno per il paziente, allora viene in rilievo la responsabilità dell'operatore che è indubbiamente regolata dal combinato disposto degli artt. 1176 e 2236 c.c. ma, quasi con una trasposizione di concetti penalistici, si fa in ogni caso riferimento alla negligenza ed alla imperizia quale ipotesi di colpa3.

D'altra parte è evidente che l'errore del medico inevitabilmente comporta una lesione alla persona se non addirittura il decesso del paziente e quindi l'esame della sua responsabilità civile non è dissimile da quello della colpa penale, per cui credo che in questa particolare professione la responsabilità debba essere giudicata soprattutto ai sensi delle norme penalistiche riguardanti i delitti contro la persona.

E' proprio a questo proposito che la giurisprudenza si è evoluta nel ritenere, ai fini del nesso causale tra la condotta del medico e l'evento, non più applicabile il principio della drastica conditio sine qua non, bensì quello della probabilità statistica, nel senso che si deve far riferimento alla comune nozione per accertare se l'intervento del sanitario avrebbe avuto probabilità sufficienti a giustificarlo. Per esempio la Cassazione nel 19524 aveva escluso la colpa professionale di un sanitario per omissione di metodi scientifici di indagine in quanto:

"Non è sufficiente la semplice possibilità di evento favorevole in conseguenza dell'adozione di determinati metodi scientifici perché il nesso di causalità richiede sempre una derivazione necessaria, diretta e certa, tra azione ed omissione e l'evento". Si trattava di un paziente che aveva subito un danno alla vista perché il suo oculista non gli aveva praticato una terapia che sarebbe stata invece consigliabile in simile caso.

La giurisprudenza oggi si è invece definitivamente orientata su un concetto probabilistico e così si hanno le prime decisioni della Cassazione che afferma: "In tema di causalità omissiva, particolarmente in materia di responsabilità per colpa professionale medico-chirurgica, è corretto il ricorso al criterio della probabilità perché è impossibile affermare con certezza assoluta che un determinato evento non si sarebbe realizzato ove fosse stata posta in essere la condotta doverosa di un intervento terapeutico o chirurgico diretta ad impedirlo, trattandosi di un giudizio ipotetico da compiersi con il procedimento logico consistente nell'eliminazione mentale della omissione e nella sostituzione di questa con l'azione impedita astrattamente

3 Cass. Civ. Sez. III 22.2.1988 n.1847 in Arch. Civ. 1988, 685; Trib. Verona 15.10.1990 in Resp. Civ. Prev.

1990, 1039 con nota di Navarretta; Trib. Milano 19.10.1989 in Resp. Civ. Prev. 1990, 628 con nota di Travaglia.

4 Cass. Sez. II 17.10.1952 in Riv. Pen. 1953, II, 189.

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idonea, secondo un criterio di regolarità causale"5 fino ad arrivare a quella più famosa, e che costituisce un cardine ormai, definita sentenza Silvestri6.

Questa sentenza non è innovativa rispetto alle altre, ma ha avuto il merito o, il demerito secondo alcuni7, di quantificare il dato probabilistico addirittura nella misura del 30% che, se applicabile solo a quella fattispecie in esame ai giudici, tuttavia determina il principio secondo il quale, anche nel caso in cui le probabilità siano minime, è doveroso da parte del medico intervenire comunque per tentare di salvare il paziente.

La Cassazione Civile aveva già anticipato l'interpretazione delle Sezioni Penali e così si era avuta la sentenza della III Sezione del 13.5.1982 n.30128 che affermò: "L'indagine sulla sussistenza del nesso di causalità tra un'affezione o lesione personale ed una terapia medica od di un intervento chirurgico, al fine di un'eventuale risarcitoria dell'autore di tale terapia od intervento, implica il necessario ausilio di patologia medica e medicina legale, con la conseguenza che non potendo questa fornire un grado di certezza assoluta sulla derivazione di un certo evento da un determinato antecedente, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica".

Quindi la responsabilità del professionista medico-chirurgo non è più limitata alle ipotesi previste dalle norme civilistiche in esame, ma è influenzata anche da quelle penalistiche con un allargamento di queste oltre i limiti previsti dall'art. 40 del c.p..

Vi è dunque una dilatazione della responsabilità del medico proprio perché quello che egli fa deve essere nell'esclusivo interesse della salute dell'individuo per cui gli è richiesta una particolare diligenza che sconfina addirittura nel rischio che coscientemente l'operatore assume laddove intervenga anche se le probabilità di riuscita sono estremamente limitate (30%).

Non si fa più riferimento, come peraltro sarebbe impossibile in tema di reato penale, alla difficoltà dell'intervento per determinare il grado di responsabilità che solo nell'ipotesi più grave determina l'obbligo al risarcimento, ma al dovere che il medico ha di tentare addirittura l'impossibile per salvare il paziente.

Rimane pur tuttavia, quella del medico, una obbligazione di mezzi, perché certamente nessuno potrà impegnarsi a salvare la vita di un paziente affetto da carcinoma o da embolo cerebrale o da ictus, ma in ogni caso l'opera terapeutica che egli compie deve essere finalizzata ad eliminare i pericoli per la salute del paziente, per cui l'omissione della cura terapeutica, quand'anche avesse poche probabilità di riuscita, costituisce senz'altro in colpa il sanitario.

Il Pretore di Jesi, con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Ancona, ha di recente9 condannato un medico che di fronte ad una situazione che palesemente dimostrava grave pericolo di vita per la paziente, pur disponendone il trasferimento in rianimazione a mezzo ambulanza, ha omesso di accompagnarla, per cui al momento del verificarsi dell'arresto cardio-respiratorio nessuna manovra respiratoria era stata prontamente effettuata tanto che si era verificato un coma irreversibile per anossia, che ha poi determinato il decesso.

5 Cass. Sez. IV 10.7.1987 in Riv. It. Med. Leg. 1989, 688; Cass. Sez. IV 7.3.1989 in Cass. Pen., 1990, I, 1278;

Cass. Sez. IV 30.5.1990 in Giust. Pen. 1991, II, 157; Cass. Sez. IV 23.11.1990 in Cass. Pen., 1992, 2202.

6 Cass. Sez. IV 12.7.1991 in Resp. Civ. Prev., 1992, 361 con nota di Giannini.

7 Giacona - Sull'accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione della terapia e la morte del paziente - in Foro It., 1992, II, 363.

8 in Giust. Civ. Rep. 1988, 3449.

9 Pret. Jesi 11.7.1995 n.136 in Orientamenti Giur. Marchigiana, n.1, Anno V, 38.

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I Giudici hanno ritenuto che anche di fronte a minime probabilità di riuscita, trattandosi di un'intossicazione da anestetico che aveva colpito paralizzandoli i centri cardio respiratori, fosse dovere del medico assistere fino in fondo la paziente tentando in ogni caso di salvarla con pratiche rianimatorie.

Ma laddove la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato un'ulteriore ipotesi di responsabilità del medico, quale ampliamento della tutela del malato, è nella figura del consenso.

3.a) Il consenso informato

Al fine di individuare se il trattamento medico chirurgico sia lecito o meno, si deve fare inevitabile riferimento al c.d. consenso, cioè alla volontà che il paziente deve esprimere in merito all'intervento stesso che quindi deve essergli spiegato dal medico in modo completo, chiaro e senza possibilità di equivoci.

Intorno a questo aspetto fondamentale del comportamento del medico si è discusso soprattutto da parte della dottrina, mentre la giurisprudenza ne ha trattato sporadicamente ma indubbiamente con decisioni di rilevante significato giuridico e sociale10. L'elaborazione dottrinaria ha giustificato il trattamento sanitario lesivo sulla scorta di vari principi scriminanti, tutti però attinenti all'ambito penale, di volta in volta richiamando gli artt. 50 o 51 del codice penale come cause di giustificazione codificate, o il precedente art. 43, come assoluta carenza dell’elemento soggettivo o come assenza del fatto tipico del reato11, perché è pacifico che l'attività medico-chirurgica sia, o comunque dovrebbe essere, improntata alla salvaguardia della salute dell'individuo, per cui non si poteva ritenere alcunché di illecito in una simile attività.

Peraltro l’accresciuto rispetto per la integrità dell'individuo non giustificava più la scriminante di comportamenti lesivi per cui si è giunti alla considerazione che l'atto medico, pur essendo necessario e finalizzato per la tutela della salute, deve essere autorizzato dal paziente il quale deve essere informato del tipo di intervento e delle probabili conseguenze che ne potrebbero derivare.

D'altra parte l'ordinamento generale consente che l'individuo possa liberamente decidere addirittura del proprio corpo laddove gli atti di disposizione non comportino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o comunque non siano contrari alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume.

Con tale dizione l'art. 5 del Codice Civile ha infatti, in tutti gli altri casi, lasciato alla libera determinazione del singolo la scelta o la decisione in merito ad interventi chirurgici anche demolitivi.

Per cui in nuce nel nostro ordinamento era già presente il concetto della libera determinazione che per essere tale deve risultare formata su un'ampia informazione di modo che si determini un consenso completamente informato.

Il nuovo Codice di Deontologia Medica del 1995 ha disciplinato, con gli artt. 29, 31 e 32 (v. appendice n.1) le modalità di informazione del paziente al fine di ottenerne il consenso, prevedendo dettagliatamente il tipo di informazione da dare, la qualità della stessa anche

10 Trib. Padova 9.8.1985 in Foro It. 1986, I, 2, 1995 con nota di Zencovich confermata da Cass. Civ. Sez. III 8.8.1994 n.6464 in Resp. Civ. Prev. 1994, 1025 con nota di Gorgoni; App. Venezia 23.7.1990 in Riv. It.

Med. Leg. 1991, 1320 con nota di Zanchetti.

11 Sensini - In tema di consenso al trattamento medico chirurgico - Zacchia, 1971, 1983; Rizz. - Il consenso dell'avente diritto - Padova, 1979, 310; Vassalli - Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato dinecessità nel trattamento medico chirurgico - in Arch. Pen. 1973, 99.

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relativamente alle varie alternative terapeutiche o alle eventuali complicanze, sempre tenendo buon conto dell'aspetto morale e delle esigenze di non traumatizzare, con verità troppo crude, il paziente.

Dunque nonostante l’antico concetto che il paziente dovesse essere tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni per un errato pietismo, oggi è evidente che qualsiasi trattamento medico- chirurgico che interessi l'integrità psicofisica dell'individuo debba essere preceduto da un'ampia informazione che determini un consenso informato.

Ne consegue che laddove tale consenso non vi sia stato, perché non vi sia stata una preventiva informazione o perché questa è stata parziale, o equivoca e falsa, la lesione che l'intervento terapeutico ha inevitabilmente procurato non può ritenersi scriminata ai sensi dell'art. 50 c.p., per cui rimane illecita e dunque assurge a valenza di lesione volontaria punibile ai sensi dell'art. 582 stesso codice.

E' evidente che gli interventi medici effettuati in stato di necessità o di emergenza, ma comunque finalizzati a salvare la vita del malato, rientrando nelle ipotesi dell'art. 54 c.p. non sono subordinabili ad un consenso preventivo, in quanto il tentativo di salvare l'altrui vita esime da ogni responsabilità di ordine penale per le necessitate lesioni fisiche subite dal paziente, ma non certamente dalla responsabilità per aver commesso un errore nell'effettuare l'intervento stesso.

Tra le decisioni giurisprudenziali che più hanno caratterizzato il problema di cui trattiamo è quella della nota vicenda Massimo, che riguarda un medico condannato, con sentenza confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, per il reato di omicidio preterintenzionale12. Questi, durante un intervento chirurgico, aveva praticato una asportazione di un organo diverso rispetto a quello per il quale aveva ottenuto l'iniziale consenso dalla paziente. Costei, dopo qualche tempo, era deceduta per cui il costrutto accusatorio era basato sul fatto che il medico, in ogni caso colpevole di lesioni volontarie, essendo succeduta la morte quale evento non voluto, doveva rispondere del reato di omicidio preterintenzionale.

Questa decisione è stata oggetto di varie critiche, nel bene e nel male, ma a ben vedere è, sotto l'aspetto giuridico, ineccepibile13.

Anche per la giustizia civile il consenso informato deve conseguire ad una informazione ampia comportando altrimenti la piena responsabilità del medico14 sia per colpa che per inadempienza contrattuale.

Quindi per l’attuale giurisprudenza il consenso deve essere prestato dal paziente a seguito di una informazione ampia e completa che deve riguardare la patologia in atto, le scelte programmate dal medico sia ai fini diagnostici che terapeutici, i rischi connessi all'attuazione dei mezzi di cura e le possibili alternative, i risultati prevedibili di ognuno di queste cure, gli eventuali effetti collaterali, le menomazioni e le mutilazioni inevitabili, le percentuali di rischio connesse.

Altro problema che si è presentato è quello del destinatario e titolare del consenso, perché spesso la persona che dovrebbe prestarlo o non è in grado di farlo perché è minorenne od incapace, o è nell'impossibilità perché si trova in condizioni di non poter comunicare o recepire informazioni, come per esempio può avvenire per chi versa in stato di coma. In questi casi il consenso dovrà essere prestato dai prossimi congiunti o, nell'ultimo caso, dal Curatore e quindi rappresentante legale del malato.

12 Cass. Pen. 13.5.1992 in Resp. Civ. Prev. 1993, 677.

13 Rodriguez, It. Med. Leg., 1993, 460 nota a sentenza; Boscetto in Dif. Pen., 1994, 76 - Consensodel paziente e posizione soggettiva del chirurgo.

14 Cass. Civ. Sez. III 15.1.1997 n.364 in Guida al Dir., Fasc. 8.2.1997, 63, con nota di Umani Rochi.

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Però, al di là del rigore richiesto a salvaguardia anche della professionalità del medico, quello che conta è la situazione di fatto nella quale l'operatore si viene a trovare perché è evidente che se nel corso di un intervento chirurgico, preventivamente acconsentito dal paziente, si rileva una patologia completamente diversa da quella che si era preventivata o più grave, per cui la terapia chirurgica dovrà essere diversa e diverse le conseguenze, non si potrà pretendere, data la situazione ed il pericolo al quale altrimenti si esporrebbe il malato, di doverlo svegliare dalla narcosi per chiedergli il consenso per poi operarlo nuovamente sottoponendolo così ad un maggior rischio e a maggiori lesioni del tutto inutili rispetto alla terapia necessaria.

Spetterà al chirurgo procedere in ogni caso al tentativo di eliminare il problema, soprattutto nell'ottica di quella giurisprudenza di cui abbiamo prima trattato che ritiene responsabile il medico che non sia intervenuto pur di fronte a poche probabilità di successo.

3.b) Il dissenso

Altrettanto rilevante, benché di segno contrario, è la figura del dissenso e cioè il rifiuto del paziente a sottoporsi alla terapia medico-chirurgica prospettatagli.

La validità di tale atteggiamento è sancita dalla tutela che l'ordinamento giuridico dà alla integrità dell'individuo perché nessuno può essere sottoposto, contro la propria volontà, alla lesione fisica, quand'anche a scopo terapeutico, a meno che non vi sia costretto dalla legge o dalla necessità, come per esempio nei casi di epidemie contagiose (i vari vaccini) o nel caso in cui vi sia rischio per la sua vita. Poniamo l’esempio del detenuto che faccia lo sciopero della fame: secondo l'art. 50 del Codice di Deontologia Professionale, di fronte al rifiuto della nutrizione, il medico ha l'obbligo di informare il detenuto delle conseguenze cui va incontro, ma non deve assumere iniziative costrittive né ricorrere a nutrizioni artificiali coattive, ma limitarsi solo ad assisterlo. Non ritengo però che con ciò si pretenda che il medico debba assistere il paziente mentre muore restando inerte, perché di fronte ad una grave situazione dovuta ad un lunga astinenza da cibo che può determinare l'inedia, e quindi il coma, scatta in ogni caso l'obbligo del soccorso, altrimenti punibile come omissione.

Si pensi anche al caso del Testimone di Geova che rifiuti, perché glielo impone la sua religione, una vitale trasfusione di sangue: il medico in simili casi si trova stretto tra due norme generali: l'art. 40, nesso di causalità, e l'art. 50 del codice penale, consenso dell'avente diritto, dalla cui inosservanza discendono le ipotesi di reato rispettivamente previste dall'art.

593 c.p., omissione di soccorso, e di lesioni volontarie.

Però può anche prevedersi l'ipotesi di cui all'art. 579 c.p., omicidio del consenziente, o dal successivo art. 580, istigazione o aiuto al suicidio. Sarebbe infatti aberrante e contrario a norma etica che il medico assistesse il paziente, così come prevede l'art. 50 del Codice di Deontologia Professionale, senza fare nulla di risolutivo, mentre questo in pratica si suicida, o, ossequioso al rifiuto, non pratichi quella trasfusione e quindi di fatto cagioni il decesso del fanatico religioso. Peraltro la stessa Costituzione, che enuncia i principi della libertà personale con l'art. 13 e nello stesso tempo della salvaguardia del diritto alla salute con l'art. 32, crea di fatto un contrasto tra il diritto dell'individuo a disporre della propria integrità fisica, così come anche è riconosciuto dall'art. 5 del c.c., con l'obbligo di tutelare la vita e la stessa integrità fisica. E' quindi evidente che il paziente possa rifiutare la prestazione medica con cosciente decisione basata su un'ampia informazione, e il medico si debba astenere dalla terapia, ma tale dovere trova limite laddove vi sia una norma che stabilisca l'accertamento ed il trattamento sanitario obbligatorio o qualora dalla contingente situazione ne derivi la necessità assoluta di salvare una vita.

Spetta quindi al medico sapersi adeguare alle varie situazioni alle quali va incontro, compito difficile ma che certamente lo deve trovare preparato per la particolare professione

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che egli ha scelto.

4) La responsabilità dell'avvocato

Non per spirito di corporazione, ma per l'evidenza che ne emerge, si deve ritenere che non vi sia prestazione professionale più scevra da rischi di responsabilità che quella dell'avvocato.

Tale professionista assume indubbiamente una grande responsabilità verso il proprio cliente perché questi si rivolge a lui per fargli difendere i propri diritti che molto spesso riguardano anche la sua futura vita, come nel caso di imputati di reati gravi ed in ogni caso in cui siano coinvolti aspetti patrimoniali di rilevante interesse.

Tuttavia difficilmente l'avvocato viene ritenuto responsabile per violazione del proprio mandato in quanto dalla sua omissione, o dal suo errore, non sempre ne discende un danno.

Essendo quella dell'avvocato una mera obbligazione di mezzi, perché egli deve combattere comunque non solo con la controparte ma anche e soprattutto con il giudice, il mancato risultato non potrà mai essergli addebitato a meno che non sia evidente un suo errore dovuto a ignoranza della legge o ad omissione in un adempimento procedurale, che abbia determinato il risultato infausto altrimenti evitabile. Però molto spesso l'errore nell'adempimento nella prestazione professionale non ricade, come conseguenza patrimoniale, sull'avvocato perché, quand'anche se ne dimostri la sussistenza, si dovrà provare il nesso causale con il pregiudizio e che altrimenti il risultato sarebbe stato raggiunto. Se non viene presentato nei termini un appello che comporta il passaggio in giudicato di una sentenza, non è detto che l'avvocato debba rispondere dei pregiudizi patrimoniali che il cliente ha subito, in quanto si dovrà stabilire se quell'appello avrebbe comunque comportato la riforma della sentenza di primo grado anche se attraverso un criterio di probabilità relativamente concreta. In ogni caso trattandosi di danni che assumono veste esclusivamente patrimoniale, è pur sempre necessaria la prova rigorosa della sussistenza del danno e non la semplice ipotesi.

La giurisprudenza infatti ritiene che: "L'affermazione della responsabilità dell'avvocato implica l'indagine - positivamente svolta - sul sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e quindi la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente"15. Con ciò non voglio dire che l'avvocato non è responsabile degli errori commessi perché, al di là degli aspetti patrimoniali oggi coperti da opportune polizze assicurative, egli comunque perde molto di più e cioè in prestigio professionale.

Un altro aspetto della responsabilità dell'avvocato è quella della mancata informazione che, come per il medico, costituisce una ipotesi di inadempimento. E' infatti dovere dell'avvocato rappresentare al proprio assistito le attività che egli ha svolto e quelle ancora da svolgere nel caso in cui gli venga revocato il mandato, di modo che il cliente sia messo in condizione di conoscere esattamente la situazione in cui il giudizio si trova16.

Quindi il professionista legale risponde non solo per la non diligente esecuzione della prestazione principale, ma per la violazione del dovere di informazione, qualora ciò abbia determinato un danno per il proprio cliente.

E' interessante, per poter meglio comprendere l'interpretazione che la giurisprudenza dà della responsabilità dell'avvocato verso il cliente, leggere la sentenza della Suprema Corte di Cassazione Sezione III del 4.12.1990 n.1161217 che stabilisce i limiti della sua responsabilità

15 Cass. Civ. 28.4.1994 - cit. vedi nota 2.

16 Cass. Civ. Sez. III 8.5.1993 - cit. vedi nota 2.

17 in Mass. Giur. It., 1990.

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differenziando l'ipotesi di incuria od ignoranza di disposizioni di legge per negligenza o imperizia tali da compromettere il buon esito del giudizio, da quella di errata interpretazione di leggi, di questioni opinabili di difficile soluzione, per le quali il professionista non risponde per il principio di cui agli artt. 2236 e 1176 II comma cod. civ..

Si trattava del caso in cui l'avvocato, dopo la revoca del mandato, aveva trattenuto immotivatamente la documentazione processuale senza comunicare al cliente il termine di prescrizione del diritto.

In una professione, come la nostra, dove termini, preclusioni, decadenze, adempimenti e forma sono sostanza essenziale dell'attività svolta nell'interesse del cliente, la precisione e la puntualità sono di rigore, per cui è evidente che l'inosservanza e la superficialità determinino la responsabilità dell'avvocato, proprio per una sorta di impegno alla massima diligenza, che in molti casi si trasforma in obbligazione di risultato che comunque il professionista legale assume verso il proprio cliente, come poi meglio dirò.

5) La responsabilità del notaio

La figura professionale del notaio viene in rilievo per quegli aspetti relativi all'adempimento degli obblighi che egli di fatto assume nei confronti delle parti che dinnanzi a lui sono comparse per la stipulazione dell'atto pubblico.

Al di là del dovere di mera diligenza, che comunque rientra nell'ambito dell'obbligazione di mezzi alla quale egli è tenuto, il notaio ha anche un dovere di accertamento che esula dal limite di responsabilità tipico delle altre professioni intellettuali, per rientrare in quello dell'obbligazione di risultato nel senso che egli non può obbligarsi a far acquistare un'immobile libero di pesi e vincoli, ma ha il dovere, rientrante nell'obbligo di diligenza, di accertarne la reale situazione come risulta dai pubblici registri, a meno che non sia stato espressamente dispensato.

La giurisprudenza infatti ha ritenuto che, quand'anche nessuna specifica norma della legge notarile preveda tra i compiti del notaio quello della preventiva ispezione dei registri immobiliari per meglio identificare il bene e verificarne la libertà, su di lui vi sia comunque un'obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente e quindi ricompreso nell'obbligo di prestazione professionale18.

Anche a carico del notaio vi è un dovere di informazione perché egli è tenuto a comunicare alle parti contraenti gli effetti dell'atto che stanno per concludere non solo per ciò che riguarda il trasferimento ma anche per i riflessi fiscali e tributari che ne possono derivare, oggi sopratutto che la normativa è estremamente rigorosa per ciò che riguarda l'INVIM, l'imposta di registro e l'IVA, in relazione alle valutazioni ed ai relativi accertamenti in rettifica. Se infatti il notaio non informasse i contraenti che per esempio il valore dichiarato non sarà accettato dall'Ufficio, perché al di sotto degli estimi catastali e quindi potrebbe scattare un accertamento con il rischio di penali e soprattasse, egli sarebbe responsabile di tale omissione, rientrando l'obbligo di informazione nell'espletamento del suo mandato.

6) La responsabilità del commercialista

La responsabilità del commercialista è quella che forse oggi è più attuale per quei recenti casi che hanno interessato la cronaca.

La prestazione del commercialista è tutto sommato limitata alla tenuta della contabilità ed

18 Cass. Civ. Sez. III 29.8.1987 n.7127 in Giur. It., 1988, I, 1, 1389; Cass. Civ. Sez. III 20.2.1987 n.1840 in Riv.

Notar., 1987, 814.

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alla preparazione e redazione delle dichiarazioni obbligatorie annuali e mensili, quando non svolga attività di consulenza e gestione affari, come sempre più spesso oggi avviene.

In questi casi si tratta quindi di una obbligazione specifica che prevede una particolare diligenza e anche un impegno ad un risultato.

Dall'errore del commercialista indubbiamente possono discendere gravi conseguenze di ordine patrimoniale e sovente anche di ordine penale per il cliente-contribuente che può essere esposto anche al rischio di verifiche e controlli fiscali.

In considerazione di fatti eclatanti che hanno appunto interessato la cronaca degli ultimi tempi, per esempio il caso della coppia Vianello - Mondaini, è stata promulgata la L.

11.10.1995 n.423 - Norme in materia di soprattasse e di pene pecuniarie per omesso, ritardato od insufficiente versamento delle imposte - che prevede all'art. 1 addirittura la sospensione della riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie in caso di omesso, ritardato od insufficiente versamento quando tale violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, di dottori commercialisti, ragionieri e consulenti di lavoro, iscritti negli appositi albi in dipendenza del loro mandato professionale.

Perché possa l'imposizione fiscale dipendente dalla mora o dalla omissione riverberarsi sul commercialista, occorre però una sentenza civile che ne determini la responsabilità.

Comunque si tratta di un passo avanti, anche se limitato all'ambito penale, perché in precedenza le omissioni che determinavano le responsabilità penali, comunque spiegavano i propri effetti nei confronti dei contribuenti che quindi si trovavano esposti a conseguenze penali anche se l'errore non era da loro commesso.

Pensiamo alle sanzioni penali per la violazione della L. 516/82 che molto spesso ricadevano, per mancate annotazioni sui registri contabili da parte del commercialista, sul contribuente stesso che poi poteva rivalersi, per i danni patrimoniali, nei confronti del suddetto professionista.

7) Responsabilità del magistrato

(EMANUELE SAVINA)

Una figura speciale di responsabilità civile è quella del magistrato.

Essa è di tipo extracontrattuale ed è attualmente disciplinata dalla L.13 Aprile 1988, n.117, che facendo seguito al referendum abrogativo delle disposizioni degli artt. 55 - 56 e 74 c.p.c., detta norme in tema di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”.

Tale normativa prevede la responsabilità diretta del magistrato, nel caso in cui egli abbia commesso un fatto costituente reato, sicché il danneggiato può agire secondo le norme ordinarie in via solidale contro il giudice e contro lo Stato, che a sua volta risponde in virtù dell’art.28 Cost. (art. 13); prevede altresì la responsabilità indiretta del solo Stato, quando il magistrato abbia commesso un fatto qualificato soltanto come illecito civile. In tali casi per il giudice risponde esclusivamente lo Stato, nei cui confronti deve agire il danneggiato per ottenere il risarcimento dei danni, con diritto di rivalsa dello Stato stesso verso il magistrato responsabile, e l’azione può essere esperita quando un danno ingiusto sia derivato da un comportamento, da un atto o da un provvedimento giudiziario, posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni (art .2).

In tale contesto sembra utile evidenziare la distinzione tra risarcimento e riparazione posta dal sistema normativo vigente, il quale prevede “un’equa riparazione” per l’ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.), così come “la riparazione” dell’errore giudiziario (artt. 643 e 647 c.p.p.).

Essa discende non solo dall’espressa previsione di legge, ma soprattutto dalla circostanza

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che la riparazione prescinde dall’accertamento di eventuali profili dolosi o colposi nella condotta del magistrato, mentre il risarcimento presuppone una responsabilità di quest’ultimo a titolo di dolo o colpa grave (Cass. Civ. Sez. I, 15 Novembre 1995, n.11825).

Ritornando all’art.2 della L.117/88, il legislatore ha ideato una figura di responsabilità civile, caratterizzata da un elemento soggettivo qualificato dell’agente (dolo o colpa grave), che ne evidenzia la natura sanzionatoria al pari di una funzione essenzialmente preventiva- punitiva.

La normativa è informata ad un principio di tipicità dei fatti illeciti le cui particolari situazioni si riferiscono, come detto, al comportamento, atto o provvedimento posti in essere dal giudice con dolo o colpa grave (art. 2, co. I°), oppure al diniego di giustizia addebitabile ad un comportamento omissivo del giudice, secondo quanto precisato dal successivo art. 3.

Mentre la disposizione non specifica ovviamente quali siano le fattispecie dolose, determina invece tassativamente le ipotesi per le quali sia possibile imputare al magistrato una colpa grave, collegata in modo specifico alla violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile (lett. a), travisamento di fatti o errore di fatto, sempre dovuto ad inescusabile negligenza (lett. b e c) ed alla emanazione dei provvedimento concernenti la libertà personale (lett. d).

L’articolo, peraltro, dispone che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”, ponendo così un preciso limite di operatività alle ipotesi di responsabilità fondate sul criterio di imputazione della colpa. Ciò significa che ogni errore del giudice in questa area di attività, quale che sia il grado della sua colpa, non costituisce illecito civile, consentendo reazioni solo attraverso l’impiego dei rimedi impugnatori, e non di azioni risarcitorie, sia pure proposte nei riguardi dello Stato. Tale esenzione di responsabilità è stata interpretata in dottrina quale clausola di salvaguardia che limita la portata delle ipotesi di responsabilità a garanzia del delicato compito affidato al giudice di individuazione, ricostruzione e valutazione delle norme.

Benché in questa sede non possa approfondirsi il tema, così come per gli altri specifici aspetti della L. n.117/88, è indubbio che le questioni interpretative poste, in tema di responsabilità civile del giudice (rectius dello Stato), dalla “clausola di salvaguardia”

introdotta dall’art. 2, co. II° della suddetta legge, abbiano rappresentato l’argomento più significativo per la Corte Costituzionale per ribadire a più riprese la costituzionalità della legge.

La Corte ha chiaramente precisato come non si possa parlare di lesione della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice proprio perché questa “è diretta a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto”: proprio quella attività, cioè, che “non può dar luogo a responsabilità del giudice in base a quanto previsto dall’art. 2 n.2 della L.n.117/88” (Corte Cost., sent. 19 Gennaio 1989 n.18, in Foto It., 1989, I, 305).

Per concludere occorre accennare all’anomalia ed atipicità che caratterizzano l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato e la fanno discostare dallo schema strutturale e di funzione del nostro sistema della responsabilità civile.

Si tratta infatti di un’azione con finalità preventiva e punitiva nella quale confluiscono profili di diritto civile (la giurisdizione appartiene al giudice ordinario in deroga ai principi desumibili dal sistema secondo cui dovrebbe rientrare nel campo della responsabilità amministrativa ed essere sottoposta alla giurisdizione della Corte dei Conti), profili di diritto amministrativo, per la tipologia dell’azione di rivalsa e profili di natura disciplinare, in ragione della misura rigida e prefissata della sanzione pecuniaria che, salvo il caso di dolo, non può superare una somma pari al terzo dello stipendio annuo del magistrato e costituisce il

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limite massimo alla sua responsabilità patrimoniale.

8) La responsabilità del revisore contabile (EMANUELE SAVINA)

Il progressivo allargamento dell’area dei danni risarcibili ha in questi ultimi anni indirizzato l’evoluzione giurisprudenziale, che ha dato sempre più rilevanza alla lesione di aspettative giuridicamente tutelate, oltre a garantire la tutela risarcitoria in casi di effettiva lesione del diritto di credito. La tutela dell’aspettativa di realizzazione del credito è oggi estesa anche a garanzia della libertà contrattuale, sia in positivo, quando l’attività del terzo induca mediante informazioni a concludere un contratto che altrimenti non si sarebbe concluso, sia in negativo, nell’ipotesi in cui la lesione, derivante dall’attività del terzo, consiste nella mancata conclusione del contratto che altrimenti si sarebbe concluso.

Nell’ambito della responsabilità a causa di informazioni inesatte, va inquadrato il tema della responsabilità della società di revisione, che si è ormai imposto all’attenzione della giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi sulla responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, di tali società per danni derivanti dall’esecuzione delle attività di revisione e certificazione, di cui al D.P.R. 31 Marzo 1975, n.136 (Trib. Torino 18/09/1993, in Giur. It., 1994, I, 2, 655;

Corte di Appello Torino 30/05/1995, in Danno e Resp., 1996, 367).

La figura del revisore contabile è pertanto legata alla fornitura di informazioni e la responsabilità che ne scaturisce è una responsabilità che, al contrario di quanto si potrebbe in prima approssimazione pensare, esiste, più che nei confronti della controparte contrattuale (la società revisionata), verso gli investitori, che spesso pianificano le loro operazioni confidando quasi esclusivamente nella serietà del controllo operato dalla società di revisione.

Accanto pertanto al rapporto contrattuale che lega la società di revisione a quella che le conferisce l’incarico, sussiste una concorrente responsabilità aquiliana della società di revisione e degli stessi revisori, tenuti in solido con la società nell’ipotesi di certificazione obbligatoria ai sensi dell’art.12 D.P.R. n.136/75, nei confronti dei terzi, delusi dall’aver fatto affidamento nella corretta certificazione del bilancio o addirittura ingannati dalle inesatte ed incomplete informazioni ricevute.

Dottrina e giurisprudenza, infatti, ormai da tempo concordano nel ritenere che vi sia responsabilità, e quindi danno risarcibile quando, tenuto conto delle circostanze, si possa ritenere che: chi abbia ricevuto l’informazione potesse ragionevolmente considerarla come affidabile; chi ha fornito l’informazione avrebbe dovuto essere conscio dell’affidamento ingenerato nei terzi poi effettivamente danneggiati.

Nel rapporto contrattuale che lega la società di revisione a quella revisionata è importante stabilire se la responsabilità che ne deriva vada identificata come una responsabilità professionale.

Vi è infatti chi ritiene che la società di revisione non abbia ad oggetto lo svolgimento dell’attività professionale, ma sia una società di impresa per l’esercizio in comune di attività economiche collegate all’attività professionale, con la conseguenza che il contratto concluso non sarebbe disciplinato dalle norme su contratto d’opera professionale ma è da considerare un appalto di servizi o altro contratto atipico.

La giurisprudenza ha ritenuto comunque configurabile una responsabilità contrattuale da mandato (Trib. Milano 18/06/1993, in Giur. It., 1993, I, 2, 1), in virtù di quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 1 del D.P.R. n.361/75, secondo cui alla società di revisione si applicano le disposizione del I° co. dell’art.2407 c.c. (Resp. dei Sindaci).

Tale disposizione, stabilita in tema di responsabilità dei sindaci, afferma che costoro devono adempiere i loro doveri con la diligenza del mandatario, e proprio su questo tessuto

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normativo è stato facile costruire una responsabilità da inadempimento della società di revisione che non esegua diligentemente il compito assunto, con riguardo alla natura dell’attività esercitata e con un chiaro richiamo alla disposizione generale di cui al c.p.v.

dell’art.1176 c.c.

La responsabilità del revisore nasce dunque da un venir meno ai propri obblighi istituzionali con conseguente, consapevole, tradimento della fiducia dei terzi che, come il revisore sa, faranno affidamento sulla sua incauta pronuncia.

Ci troviamo perciò al cospetto di uno di quei casi in cui l’inadempimento contrattuale genera un ulteriore danno, prevedibile e spesso previsto dalla parte inadempiente, a terzi che abbiano incolpevolmente fatto affidamento sul diligente adempimento del contratto, danno il cui risarcimento è regolato dalle norme sulla responsabilità extracontrattuale.

La responsabilità aquiliana si fonda, come già detto, sul fatto che la società di revisione può rispondere per lesione della libertà contrattuale, e non necessariamente per la lesione di un diritto di credito. Essa non è limitata al dolo o alla colpa grave, ma estesa ad ogni tipo di comportamento negligente, per cui l’affidamento può aver agito, in senso positivo, dando luogo ad investimenti, o negativo, evitando che i finanziamenti fossero portati altrove, una volta conosciuta l’effettiva situazione patrimoniale e contabile della società revisionata. La responsabilità è comunque limitata “alla perdita da investimento sbagliato” e non si estende alle perdite derivanti da successive e conseguenti decisioni. Essa è solidale con quella degli amministratori, salva la graduazione delle colpe ai fini delle azioni di regresso ex art.2055 c.c.

9) Responsabilità del curatore fallimentare

(EMANUELE SAVINA)

L’inquadramento della responsabilità civile del curatore del fallimento non può prescindere dall’indagine relativa al particolare ruolo ricoperto da questo soggetto nell’ambito della procedura concorsuale e dai diversi poteri attribuitigli, pur essendo egli soltanto un ausiliario del giudice e quindi un libero professionista occasionalmente inserito nelle strutture giudiziarie.

Il quesito che ne deriva è quello relativo alla natura, contrattuale od extracontrattuale della sua responsabilità.

Si è detto che il titolo di questa sarebbe sempre extracontrattuale poiché nel fallimento non sono ipotizzabili rapporti giuridici intersoggettivi la cui violazione possa acquisire connotati di contrattualità.

In prevalenza, tuttavia, si riconosce il doppio binario, da una parte assumendosi una responsabilità di tipo contrattuale derivante dall’investitura di un ufficio pubblico da parte del curatore e dalla possibile sua violazione del dovere di diligenza nella realizzazione dell’interesse del fallimento, la cui azione risarcitoria può essere esercitata in costanza della procedura dal nuovo curatore nei confronti dell’organo revocato; dall’altra, per le azioni esercitate successivamente alla chiusura, anche a causa della eterogeneità degli interessi che confluiscono nel fallimento, la responsabilità sarebbe di tipo extracontrattuale (art. 2043 c.c.) ed esperibile da ogni soggetto che ritenga di aver subito un danno dalla condotta del curatore.

Proprio la natura dell’attività svolta da quest’ultimo viene in rilievo al fine di determinare il grado di diligenza con cui egli deve adempiere ai doveri del proprio ufficio. Se si ritiene generalmente che la diligenza richiesta al curatore sia quella che si ricollega alle norme sul mandato (art. 1710 c.c.) e cioè quella del buon padre di famiglia, non bisogna dimenticare che il curatore è il pubblico ufficiale deputato dalla legge a gestire con diligenza un patrimonio altrui, nell’interesse non solo del titolare di questo, ma dell’intero ceto creditorio.

Conseguenza ne è che la diligenza richiesta, a causa della funzione e dell’interesse pubblicistico che integrano l’attività del curatore, non può che essere quella qualificata ex

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art.1176 c.c. e che è legittimo pretendere da un accorto gestore di un patrimonio altrui, posto a garanzia degli interessi dell’intero ceto creditorio del debitore fallito.

L’ulteriore corollario è che se nell’adempimento dei doveri del suo ufficio il curatore non usi questa particolare diligenza, incorre in responsabilità per sanzionare la quale la legge prevede sia la revoca dal suo ufficio (art.37 L.F.) che la proposizione nei suoi confronti dell’azione di responsabilità, se l’inadempimento doloso o colposo ha cagionato un danno al patrimonio del fallito (art. 38, II° co. L.F.). E’ evidente che la responsabilità del curatore si dilati, quanto più allo stesso vengono attribuiti poteri volitivi nell’ambito della procedura concorsuale, e ciò si verifica soprattutto in relazione all’attività di amministrazione del patrimonio. A tale riguardo la diligenza richiesta dall’art. 38 L.F. deve essere necessariamente riempita di contenuti soprattutto con riferimento a quelle attività di indagine, accertamento, valutazione, relazione, controllo, che sono poi quelle che determinano in gran parte le sorti del fallimento ed i cui risultati riferiti al giudice delegato metteranno quest’organo nelle reali condizioni di dirigere con profitto la procedura.

Al fine di meglio inquadrare l’azione di responsabilità nei confronti del curatore bisogna peraltro distinguere il rapporto esterno tra quest’ultimo ed i terzi, creditori o non, dal rapporto interno del curatore con la massa dei creditori concorrenti.

Pochi problemi pone quest’ultimo tipo di rapporto nel quale il curatore risponde dei danni subiti dal fallimento per effetto dell’inadempimento dovuto a dolo o colpa dei doveri fissati dalla legge o derivati dall’attività negoziale del suo ufficio. Al contrario, nel rapporto esterno il terzo può chiedere il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento doloso o colposo delle obbligazioni derivate da rapporti negoziali posti in essere dal fallito, ma legittimamente proseguiti dal curatore, o da rapporti da questo personalmente assunti. Potrà reclamare inoltre il risarcimento conseguente ad un fatto illecito doloso o colposo del curatore ed in tal caso, derivando la responsabilità dalla violazione del precetto del neminem laedere, il curatore (e non il fallimento) risponderà del danno subito dal terzo, il quale quindi potrà agire nei suoi confronti promuovendo azione extracontrattuale ex art. 2043 c.c., senz’altro diversa da quella prevista e disciplinata dal II° co. dell’art.38 L.F., diretta a fare ottenere alla massa dei creditori concorsuali il risarcimento del danno derivato dall’attività del curatore.

10) Obbligazioni professionali di risultato

Vi sono dei particolari aspetti nelle professioni intellettuali che riguardano specifiche prestazioni che assumono, secondo certa giurisprudenza, connotazioni di obbligazioni di risultato contrariamente al concetto generale dell'obbligazione di mezzi tipica del contratto d'opera intellettuale.

Ciò avviene laddove l'esecuzione dell'opera, pur essendo indubbiamente intrapresa con i mezzi intellettivi a disposizione del professionista, sia costituita da un'opus e quindi finalizzata ad un risultato, espletandosi per di più con tecniche o pratiche che richiedono precisione, manualità e diligenza per cui il raggiungimento dello scopo è il fine per il quale è richiesta l'opera del professionista.

Pensiamo per esempio all'obbligazione del notaio di redigere un atto pubblico e di trascriverlo negli appositi pubblici registri; oppure all'obbligazione del commercialista di predisporre la denuncia dei redditi; o quella dell'avvocato che abbia ricevuto l'incarico di redigere un atto monitorio o un precetto o, caso ancora più particolare, del chirurgo estetico od odontoiatrico. Parte della giurisprudenza ritiene che laddove si richieda non già una intermediazione con altri soggetti o di espletare l'attività mediante interpretazioni di leggi, scelte gestionali o tecniche e quindi al di fuori delle proprie capacità di realizzazione, ma la diligente esecuzione tecnica di una attività destinata a raggiungere uno scopo, ci si trovi al

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cospetto di un impegno al risultato che quindi comporta, in caso negativo, una responsabilità presunta dalla quale ci si può liberare fornendo solo la prova del fortuito, dell'imprevedibile o del fatto di terzi19. In questi casi alcune decisioni di merito, avallate da parte della dottrina, hanno ritenuto che la diligenza nell'adempimento non sia l'unica esimente della responsabilità del professionista, ma che questi debba, per liberarsi della responsabilità presunta, dimostrare la sussistenza del fortuito per cui il titolo di responsabilità per il quale risponde è quello previsto dall'art. 1218 c.c.20.

Il risultato negativo comporta quindi la inadempienza all'obbligazione assunta per cui è indubbio che la prestazione sia stata negligente ed il professionista responsabile a titolo contrattuale.

Ma dove la responsabilità del professionista per mancato raggiungimento del risultato assume connotazioni più caratteristiche e particolari è nella chirurgia estetica. Infatti l'attività medica a fini estetici, che non abbia finalità terapeutiche e rientri invece nell'ambito della cosmesi, viene definita terapia "elettiva" e quindi frutto di una libera scelta del paziente che si rivolge al chirurgo estetico non per necessità di salute ma per migliorare il proprio aspetto, e quindi a fini relazionali, eliminando quei dismorfismi che lo limitano nelle relazioni sociali, affettive, lavorative ecc.21.

Trattandosi per la maggior parte dei casi di esigenze psicologiche dovute a complessi per il proprio aspetto fisico, l'opera del chirurgo estetico è finalizzata non solo ad eliminare il difetto, ma anche a migliorare la qualità della vita del paziente. E' evidente quindi che l'intervento del chirurgo su un organo sostanzialmente sano ha portato a ritenere che, di fronte ad un risultato peggiorativo, sussista un'ipotesi di responsabilità contrattuale oggettiva che va al di là degli aspetti della semplice colpa.

In pratica il chirurgo si obbliga ad un risultato che è quello per il quale il paziente si rivolge a lui e quindi potrà intraprendere l'operazione solo se è in grado di garantirne il buon esito, altrimenti verrebbe meno lo scopo per il quale l'intervento è stato richiesto. La giurisprudenza di merito ha ritenuto che sussiste inadempienza alla obbligazione assunta dal chirurgo estetico qualora questi non abbia svolto precise ed approfondite indagini al fine di accertare la presenza di difficoltà nel compimento dell'opera22.

In questo particolare campo viene in specifico rilievo l'informazione che il chirurgo estetico deve necessariamente dare al proprio paziente, eliminando millanterie o facilonerie, perché si deve tener conto che il committente dell'opera richiede quell'intervento chirurgico sulla propria persona al solo scopo di trarne un beneficio puramente estetico e del tutto voluttuario, senza alcuna necessità od urgenza di migliorare la propria salute o salvare la propria vita.

Ed è per questo che il chirurgo estetico si obbliga al risultato e per farlo deve essere in grado non solo di garantirne il raggiungimento, ma di raggiungerlo effettivamente.

Oggi la chirurgia estetica, che in gran parte dei casi si svolge a livello ambulatoriale e spesso con drammatiche conseguenze, è divenuta una sorta di commercio al di fuori dei canoni di sicurezza ed etica professionale, per cui il primo a dover essere prudente è il paziente stesso che dovrà rivolgersi a strutture sanitarie che in qualche modo garantiscano una serietà professionale e a non farsi abbindolare da quelle forme di pubblicità che appaiono su

19 Cass. Civ. Sez. III 7.5.1988 n.3389 in Dir. Prat. Ass. 1989, 487 con nota di Antinozzi.

20 Cass. Civ. Sez. II 21.7.1989 n.3476 in Rep. Giur. It. 1989, V. Professioni intellettuali n.72-73)

21 Cass. Civ. Sez. II 8.8.1985 n.4394 in Resp. Civ. Prev. 1986, 44.

22 Trib. Milano 19.11.1992 in Resp. Civ. Prev. 1994, 1157.

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molti periodici. Ne consegue che l'informazione che il paziente deve pretendere dal chirurgo estetico deve essere ampia ed esaustiva per cui il conseguente consenso deve essere altrettanto ampio. Si deve tener conto infatti che in ogni caso, pur trattandosi di una prestazione medica sostanzialmente estranea all'ambito della medicina tradizionale, quella estetica contiene sempre margini di rischio elevatissimo che molto spesso non si compatiscono con il beneficio che si intende raggiungere. Le tecniche anestesiologiche, che per esempio vengono adottate negli interventi di liposcultura o liposuzione, l'introduzione di protesi negli organi mammari, il trapianto della pelle o l'uso di materie estranee a quelle organiche, fanno sì che il rischio certe volte sia assolutamente inaccettabile ma che venga comunque assunto dal paziente di fronte alla suggestiva prospettazione di un facile risultato che comporterà un miglioramento del proprio aspetto e quindi della propria vita.

Anche la giurisprudenza ha in questo senso interpretato l’obbligazione assunta dal chirurgo estetico affermando che: "Nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato da intendersi quest'ultimo non come un dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obbiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie"23.

La responsabilità del medico-chirurgo, per le conseguenze che ne discendono, è senz'altro maggiore rispetto a quella degli altri professionisti perché il mancato raggiungimento dello scopo nell'intervento di chirurgia estetica si potrà ripercuotere negativamente non solo nell'ambito relazionale del paziente, ma anche nell'ambito patrimoniale e forse nella sfera psichica già indubbiamente influenzata dal complesso che lo affliggeva e per il quale si era determinato alla operazione stessa.

11) La prova della responsabilità

Da quanto abbiamo sino ad ora detto emerge che vi è un contrasto giurisprudenziale sulla individuazione del titolo di responsabilità facente carico al professionista per cui l'onere della prova di volta in volta è stato affidato al cliente o al professionista a seconda che si sia ritenuta l'applicazione degli artt. 2236 o 2043 oppure 1218 del codice civile. Esistono evidenti difficoltà probatorie allorquando il cliente debba dimostrare la responsabilità del professionista, come per esempio può avvenire allorquando il danno sia stato subito a seguito di prestazioni professionali avvenute all'interno di una struttura complessa (casa di cura, studio professionale associato). In questi casi si è ritenuto di ricorrere alla ipotesi della colpa presunta a carico dell'ente od organizzazione che ha prestato il servizio anche quando è impossibile individuare la persona fisica autrice del fatto24.

Risulta quindi evidente che la disputa giurisprudenziale riguarda più che altro l'obbligazione che il professionista assume in particolari casi, di risultato o di mezzi, e la natura contrattuale o extra contrattuale della discendente responsabilità. Per individuare il soggetto a carico del quale è posto l'onere della prova la giurisprudenza si è regolata in modo complesso e dissimile arrivando a distinguere la responsabilità discendente da prestazioni di routine da quelle di difficile esecuzione richiedendo al danneggiato la dimostrazione che la

23 Cass. Civ. Sez. III 25.11.1994 n.10014 in Foro It. 1995, I, 2914, con commento di Scoditti; Cass. Civ.

8.8.1985 - cit. vedi nota 21.

24 Trib. Verona 11.3.1989 in Giur. Merito, 1990, 259.

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prestazione rientrava nell'una o nell'altra categoria25.

Si è ritenuto infatti che la limitazione della responsabilità ai sensi dell'art. 2236 c.c. si applica a non tutti gli atti del professionista ma solo a quelli che trascendono la preparazione media; che spetta al cliente provare che l'atto era di facile esecuzione e che per effetto dell'attività del professionista vi è stato un peggioramento della situazione, mentre spetta al professionista provare di aver adottato nella prestazione la diligenza necessaria. Pur quindi restando nell'ambito dell'obbligazione di mezzi, i giudici hanno però a volte invertito l'onere probatorio ritenendolo a carico del cliente quando la prestazione prevede la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ed invece, nel caso di attività di routine, la prova liberatoria deve essere fornita dal professionista, presumendosi altrimenti la sua colpa laddove egli non dimostri di essersi comportato in modo diligente ai sensi dell'art. 1176 II comma c.c..

In altre occasioni invece si è ritenuta non sufficiente la prova della diligenza, ma addirittura si è presunta la colpa del professionista in quanto si sarebbe obbligato ad un risultato e cioè a realizzare un'opera specifica26.

Peraltro è evidente che laddove il professionista si sia obbligato ad un risultato, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, e quindi alla realizzazione di un opus, il mancato raggiungimento lo costituisca in colpa presunta ai sensi dell'art. 1218 c.c. qualora egli non dimostri l'evento imprevedibile od il caso fortuito27.

La conseguenza di tale impostazione giurisprudenziale è che la posizione del professionista, come abbiamo già detto, diventa più delicata in quanto la prova liberatoria che gli si richiede è a volte impossibile da fornire mentre il cliente può limitarsi a dimostrare il peggioramento della sua salute.

Ma la giurisprudenza ha di recente aggiunto ulteriori elementi in tema di responsabilità del medico, con particolare riferimento al medico-chirurgo, arrivando a sostenere che qualora sia violato il dovere di informazione, che consente al paziente il consapevole esercizio del diritto costituzionalmente tutelato dagli artt. 13 e 32 di scegliere quanto sia di meglio per la sua salute, il sanitario risponde non solo a titolo di responsabilità contrattuale ma anche di colpa aquiliana, cumulandosi i due titoli di responsabilità28.

Peraltro il limite tra responsabilità contrattuale e extra-contrattuale è oggi estremamente labile tanto che ci si chiede quale sia la distinzione nella responsabilità civile.

Il diritto comunitario ha infatti aperto il varco alla commistione tra le due ipotesi di responsabilità in particolar modo con il decreto 23.7.1996 n.415 che ha accolto le direttive CEE in materia di Eurosim dove la responsabilità contrattuale concorre e si cumula con quella aquiliana, divenendo responsabilità generale, laddove vengano lesi i diritti dei clienti a seguito di comportamento negligente degli operatori finanziari. Ed è proprio quindi la diligenza l’ago della bilancia che determina il cumulo delle due responsabilità.

La Direttiva C.E.E. 9 Novembre 1990, in tema di responsabilità del prestatore di servizi, aveva introdotto in ambito comunitario una serie di principi ai quali gli stati membri avrebbero dovuto uniformare le proprie legislazioni, tra i quali quello relativo alla

25 Cass. Civ. Sez. III 1.2.1991 - cit. vedi nota 1; Trib. Roma 10.10.1992 in Giur. It. 1993, I, 2, 337 con nota di Magni; contra Cass. Civ. Sez. II 11.8.1990 n.8218 in. Rep. Giur. It. 1990, v. Prof. Int. n.43.

26 Cass. Civ. Sez. II 21.7.1989 - cit. vedi nota 20; Cass. Civ. Sez. III 7.5.1988 cit. - vedi nota 19; Cass. Civ. Sez.

II 28.1.1985 n.488 in Riv. Giur. Edil. 1985, I, 459.

27 Pret. Modena 16.9.1993 in Giur. It. 1994, I, 2, 1032 con nota di Carusi; Cass. Civ. Sez. III 26.3.1990 cit. vedi nota 1; Cass. Civ. Sez. III 16.11.1988 n.6220 in Dir. e Prat. Ass. 1989, 497; Trib. Verona 11.3.1989 cit. - vedi nota 24; Trib. Santa Maria Capua a Vetere 6.2.1989 in Foro It. 1989, I, 2, 3315.

28 Cass. Civ. Sez. III 6.10.1997 n.9705 in Gazzetta Giur. Giuffrè n.41/97, 22 ; Cass. Civ. Sez. III 8.4.1997 n.3046 in Giust. Civ. Mass. 1997, 556.

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responsabilità presunta del prestatore cui spetta l'onere di fornire la prova liberatoria. Anche se tale direttiva è stata di fatto abbandonata, non di meno evidenzia la tendenza per il diritto comunitario ad invertire l’onere della prova, quale maggior tutela del danneggiato. Mentre prima era esclusa dall'ambito della responsabilità del professionista la presunzione di colpa di cui all'art. 1218 c.c., applicabile solo alle obbligazioni di risultato, e spettava al danneggiato non solo la dimostrazione del danno subito ma quella del nesso causale con l'opera professionale compiuta della quale si doveva dimostrare la erroneità, ora vi è una tendenziale inversione dell'onere probatorio per cui spetta al professionista liberarsi dalla presunzione.

Non è più sufficiente quindi dimostrare di avere eseguito la prestazione in modo diligente, come avviene nell'ipotesi di obbligazione di mezzi, ma si deve fornire la prova che il fatto è avvenuto per caso fortuito, forza maggiore o per fatto di terzi.

Si ha quindi un qualcosa in più di una semplice inversione dell'onere della prova perché la dimostrazione delle cause ignote dell'insuccesso non gravano più sul cliente ma sul professionista.

Altra giurisprudenza di merito abbastanza recente ha ritenuto peraltro di imputare l'onere probatorio secondo la natura della responsabilità del professionista per cui, qualora si verta in tema di responsabilità contrattuale, è il danneggiato a dover fornire la prova della colpa, mentre spetterà al professionista dimostrare di aver adoperato la diligenza necessaria in ipotesi di responsabilità aquiliana29.

Dal tipo di responsabilità che di volta in volta è stata ritenuta a carico del professionista, contrattuale o extra contrattuale, presunta o limitata, ne discendono conseguenze anche in ordine alla individuazione del nesso eziologico tra inadempimento e danno.

E' evidente che laddove la colpa del professionista ha determinato un danno di mera natura patrimoniale, non incidendo negativamente nell'ambito dell'integrità psicofisica del soggetto come avviene sempre nelle professioni diverse da quella sanitaria, il problema non si pone, perché va risarcito il danno subito dal cliente sia per lucro cessante che per il danno emergente, a meno che non vi sia una ipotesi di dolo e quindi di reato penale, per cui risarcibile risulta anche il danno morale.

Ma quando il danno dipende da una attività medico-chirurgica, che comporta inevitabilmente una lesione alla integrità psicofisica, si è discusso se, inquadrando la responsabilità nell'ambito meramente contrattuale, vada risarcito solo il danno patrimoniale od anche quello morale. Si è ritenuto infatti di far riferimento all'art. 1225 c.c. che, escluse le ipotesi di dolo, limita il risarcimento solo "al danno che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l'obbligazione"30.

In altri casi, ritenuto che l'errore del medico, pur discendendo da una obbligazione contrattuale, fosse comunque illecita, si è liquidato anche il danno morale oltre quello patrimoniale e biologico31. Altri giudici di merito hanno invece sorvolato sulla natura della responsabilità ammettendo il ristoro di entrambe le specie di danno32.

Il Tribunale di Lucca33 ha invece ricondotto l'attività dannosa nell'ambito contrattuale e quindi ha riconosciuto solo il ristoro del danno biologico escludendo quello morale in quanto

29 Trib. Trieste 30.4.1993 in Resp. Civ. Prev. 1994, 302, con nota Pontonio; Trib. Lucca 18.1.1992 in Foro It.

1993, I, 2, 264 con nota di Coppari.

30 Trib. Vicenza 27.1.1990 in Nuova Giur. Comm. 1990, I, 734 con nota di De Gregorio.

31 Trib. Trieste 30.4.1993 - cit. vedi nota 28 ; Trib. Roma 10.10.1992 - cit. vedi nota 25; Trib. Udine 13.5.1991 in Foro It. 1992, I, 2, 549; Trib. Verona 15.10.1990 in Giur. It. 1991, I, 2, 696 con nota di Pinto Borea.

32 Trib. Milano 19.11.1992 - cit. vedi nota 22; Trib. Milano 19.5.1992 -cit. vedi nota 1.

33 Trib. Lucca 18.1.1992 - cit. vedi nota 28.

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