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R a g i o n e v o l e d u r a t a d e l p r o c e s s o e t u t e l a d e l l i m p u t a t o

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Academic year: 2022

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R a g i o n e v o l e d u r a t a d e l p r o c e s s o

e t u t e l a d e l l ’ i m p u t a t o

d i E n n i o A m o d i o *

Si va diffondendo tra gli interpreti un modo acritico e deformante di concepire la ragionevole durata del processo penale come strumento volto a limitare la garanzia del diritto di difesa.

Si comincia con il dire che la norma contenuta nella seconda parte dell’art. 111 comma 2 Cost. è formulata in termini che attribuiscono alla speditezza del processo il valore di una «garanzia oggettiva», intesa come forma di tutela destinata ad operare non nell’interesse dell’imputato, ma a vantaggio dello stesso sistema, che deve poter raggiungere, senza ingiustificati ritardi, il suo traguardo nell’iter di accertamento della verità. Di qui l’idea che il divieto costituzionale di tempi irragionevoli costituisca un «limite logico» per l’attuazione del giusto processo, dovendo il legislatore ordinario fare attenzione a non espandere le garanzie difensive, sacrificando l’esigenza di ce- lerità che fa capo all’apparato della giustizia penale. La conclusione di questo davvero sorprendente modo di argomentare è scontata: la garanzia costituzionale della ragionevole durata imporrebbe di pre- disporre congegni finalizzati a impedire abusi del processo da parte

* Professore di Procedura Penale presso l’Università Statale di Milano.

Relazione tenuta l’11 dicembre 2003.

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di imputati e difensori, così da scongiurare il pericolo connesso al maturare della prescrizione del reato1.

Il significato della norma costituzionale è dunque, in questa vi- suale, tutto racchiuso all’interno di un orizzonte che non solo è re- frattario al garantismo, ma lo penalizza in nome di un presunto im- perativo che vorrebbe ridurne gli spazi. E se è vero che qualche commentatore tenta di stemperare l’assurda antinomia tra «durata ragionevole» e «giusto processo» mettendo in risalto obiettivi di

«economia processuale» desunti dall’art. 111 comma 2 Cost.2, c’è an- che chi si esprime invece in termini di incontrollata perentorietà con l’affermare che l’art. 111 comma 2 Cost. prescrive la «liquidazione di garanzie e controlli difensivi, se ritenuti ingiustificatamente pregiu- dizievoli per la tempestiva definizione del processo»3. È un pro- gramma inequivocabile, in cui la celerità processuale diventa «ra- gionevole» solo se soddisfa esigenze di difesa sociale per prevenire i rischi derivanti dalle garanzie «troppo robuste» reclamate dai nuovi valori del giusto processo.

Le basi giuridiche di questa crociata antigarantista sono del tutto inconsistenti. Depurata dalla vis polemica che ha accompagnato la recezione del giusto processo nella Costituzione, la norma contenuta nell’art. 111 comma 2 rivela la sua natura di diritto fondamentale dell’imputato, alla luce di solidi argomenti esegetici e sistematici, corroborati dagli orientamenti interpretativi maturati intorno alle norme di fonte internazionale da cui il nostro principio di spedi- tezza processuale ha tratto origine.

Non può anzitutto condividersi l’enfasi con la quale viene letta la formulazione letterale della norma costituzionale là dove stabilisce, dopo aver enunciato il principio del «contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità», quale regola indefettibile in ogni processo, che

«la legge ne assicura la ragionevole durata». Ritenere che il disposto normativo sia talmente sganciato dal piano soggettivo da indurre a

1 V. Grevi, «Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di giusto pro- cesso penale tra ‘ragionevole durata’, diritti dell’imputato e garanzia del con- traddittorio», Pol. dir., 2000, p. 436.

2 A. Nappi, «La ragionevole durata del giusto processo», Cass. pen., 2002, p.

1541.

3 P. Ferrua, «Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione», Questione giustizia, 2000, p. 52.

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concludere che l’interesse tutelato è solo quello della buona ammini- strazione della giustizia significa alterare il senso letterale della norma. È evidente, infatti, che la locuzione «ne assicura» si riferisce al processo e alla garanzia del contraddittorio tra le parti, secondo quanto esplicitato dalla proposizione precedente. Di qui la conferma che destinatari dello speedy trial sono i soggetti che assumono la qualità di parte nella sede processuale. Altro modo di intendere la norma non c’è, se non si vuole cadere nella lettura banale e asfittica di un solenne impegno costituzionale, per configurarlo come mero auspicio di buona organizzazione giudiziaria che assicuri la spedi- tezza dei tempi processuali4.

Che sia poi l’imputato la parte privilegiata sul piano della ragio- nevole durata, rispetto al Pubblico Ministero, deriva dalla oggettiva diseguaglianza delle parti, tipica del processo penale, cui la parità costituzionalmente sancita vuole apprestare un rimedio. L’attore, in sede penale, è un organo pubblico, dominus dei tempi delle indagini e del materiale probatorio, prescelto ai fini della costruzione dell’ad- debito e raccolto in un regime di segretezza che non consente di sindacare la ragionevolezza delle scansioni temporali. Logico, quindi, che sia anzitutto la parte più debole a vedersi riconosciuta una protezione prioritaria rispetto a inerzie e ritardi imputabili alla parte istituzionalmente più forte.

Nessun dubbio che anche il PM sia titolare di un diritto alla cele- rità processuale, che gli consente di prevenire abusi e strumentaliz- zazioni tali da frenare ingiustificatamente lo svolgersi delle attività dirette a vagliare il fondamento della notitia criminis o a dimostrare la consistenza dell’accusa nel processo. Nella scala dei valori costi- tuzionali, quello della pubblica accusa è tuttavia un interesse di grado minore rispetto al diritto che fa capo all’imputato e non può certo essere elevato al rango di matrice primaria o esclusiva della garanzia costituzionale, come si fa quando lo si concepisce come li- mite all’esercizio del diritto di difesa.

4 Del resto, vi sono altre norme costituzionali redatte nella stessa forma dell’art.

111 comma 2 Cost., rispetto alle quali, pur in mancanza di una precisa indica- zione dell’imputato quale destinatario della tutela, nessuno ha mai pensato di parlare di garanzia oggettiva. Si veda, ad esempio, l’art. 13 ult. comma Cost., in cui si prevede che «la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione pre- ventiva».

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Ragionare così significa ribaltare il rapporto regola-eccezione, che connota l’area operativa del diritto costituzionale: la durata ragio- nevole garantisce all’imputato la tutela contro il protrarsi di accer- tamenti che si riflettano a danno della sua persona; i ritardi e gli in- tralci causati dallo stesso imputato fanno prevalere, in via di ecce- zione, l’interesse pubblico e giustificano la repressione degli abusi.

Stupisce poi che, sul piano sistematico, non si sia avvertito come la cosiddetta natura «oggettiva» della speditezza processuale sia smentita dallo stesso art. 111 comma 3 Cost., che riconosce all’im- putato il diritto a disporre «del tempo e delle altre condizioni neces- sarie per preparare la sua difesa»5. È dunque la difesa, nella ge- rarchia dei valori costituzionali, a poter influire sui tempi proces- suali, dilatandoli se è indispensabile per la salvaguardia del bene primario. Del resto, non si riesce a capire perché, in una carta fon- damentale come la nostra, in cui tutte le norme concernenti il pro- cesso penale sono concepite come garanzie della persona chiamata a rispondere di un fatto di reato (presunzione di non colpevolezza; li- bertà personale; diritto di difesa; precostituzione del giudice natu- rale), solo la previsione di tempi ragionevoli per il processo do- vrebbe essere considerata espressione di una esigenza di difesa so- ciale, destinata anzitutto ad operare contra reum.

Anche nel sistema codicistico della legge ordinaria non c’è traccia di una speditezza processuale in funzione del solo interesse all’economia del rito. Al contrario, l’istituto dei termini massimi delle indagini preliminari costituisce una attuazione ante litteram dell’art. 111 Cost., perché ne consacra la finalità di tutela dell’in- dividuo assoggettato alle investigazioni, con la significativa san- zione di inutilizzabilità delle prove che penalizza vistosamente il PM

irrispettoso della durata ragionevole (art. 407 CPP). Inoltre, anche a prescindere dai limiti massimi della custodia cautelare, garanzia fondamentale radicata nella nostra tradizione e assurta al rango co- stituzionale nell’art. 13 Cost., nei procedimenti speciali di conio più recente, strettamente apparentati con gli istituti della common law, vi

5 La formulazione della nostra norma costituzionale appare in questa parte an- cor più cogente dell’analoga disposizione contenuta nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’art. 6 comma 3 lett. b) riguarda, infatti, il tempo e le «fa- cilitazioni» necessarie a preparare la difesa, termine, quest’ultimo, reso nell’art.

111 comma 2 Cost. con la più impegnativa locuzione «condizioni».

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sono i segni tangibili di una disciplina che raccorda la scelta dei tempi processuali alle garanzie dell’imputato.

L’esempio del giudizio abbreviato è più che mai illuminante.

L’imputato è autorizzato a rinunciare al dibattimento, senza che il

PM possa far valere istanze di accertamento in forma più adeguata alle sue esigenze repressive, e il giudizio si celebra in udienza pre- liminare. Qui la parte privata dispone dei tempi del processo con una opzione insindacabile, qualora non sia richiesta l’assunzione di mezzi di prova (art. 438 comma 5 CPP)6. Analogamente, con la richie- sta di giudizio immediato a norma dell’art. 419 comma 5 CPP, l’im- putato rinuncia all’udienza preliminare e incide sui tempi pro- cessuali eliminando una fase.

Persino quando è il PM ad assumere l’iniziativa per ridurre la du- rata del processo, con la richiesta di giudizio direttissimo e di giudi- zio immediato, l’ultima parola spetta sempre all’imputato, che può evitare l’avvio della fase dibattimentale mediante la domanda intro- duttiva del giudizio abbreviato, dalla quale scaturisce una contra- zione delle attività processuali (artt. 452 e 458 CPP). Ecco la prova più inconfutabile del prevalere della ragionevolezza pro reo nella disci- plina della speditezza del rito.

L’interpretazione autentica dell’art. 111 comma 2 Cost. è comun- que desumibile dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, che ha previsto l’equa riparazione del pregiudizio conseguente alla irragionevole durata del processo. Il dettato normativo è inequivocabile: la garan- zia dello speedy trial è un diritto inviolabile dell’uomo, riconosciuto dalla legge ordinaria nell’art. 6 della Convezione Europea. Esso è tanto poco «oggettivo» da offrire il titolo di una azione riparatoria a chi abbia subito un danno per effetto della sua violazione. Parados- salmente, a voler seguire la tesi della celerità processuale quale fonte di un potere statuale di limitazione del diritto di difesa, si dovrebbe ritenere incostituzionale tanto la norma di fonte pattizia, quanto la nuova legge sull’equa riparazione. L’assurdità di queste conclusioni impone di respingere la premessa aprioristicamente ancorata a una visuale che ripudia il garantismo del giusto processo7.

6 Nel patteggiamento, invece, è richiesto il consenso del PM per l’incidenza che il rito riveste sulla pretesa punitiva.

7 Nel senso che la Convenzione Europea privilegia la tutela dell’individuo, a fronte dell’interesse statale alla buona amministrazione della giustizia, poiché la

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Può risultare di qualche interesse una verifica sul piano compara- tivo volta a vagliare il fondamento della tesi qui contrastata. Anche nel processo di common law si è infatti consolidato, storicamente, uno stretto rapporto tra prevenzione dei tempi irragionevoli e abuso del processo, ma in un senso antitetico a quello elaborato dalla dottrina italiana sulla base della nuova norma costituzionale. L’abuse of pro- cess è una categoria che racchiude solo le condotte anomale della Pubblica Accusa, vale a dire i comportamenti che incidono negati- vamente sulla speditezza del processo recando pregiudizio al diritto di difesa dell’imputato.

L’orientamento delle corti inglesi sul tema dell’abuso dei poteri del prosecutor si è sviluppato alla metà degli anni Ottanta in assoluta indipendenza rispetto al principio della ragionevole durata del pro- cesso sancito dall’art. 6 della Convenzione Europea. Nel caso R. v.

Derby Magistrates’ Court ex parte Brooks si è affermato che, se vi è ra- gione di ritenere che l’imputato abbia subito un pregiudizio nella preparazione o nell’esercizio della sua difesa in conseguenza dell’in- giustificato ritardo con cui l’accusa ha instaurato il giudizio, il giudice è legittimato a far uso del suo potere discrezionale di ordi- nare il cosiddetto stay of the proceeding8. Si tratta di un provvedimen- to giurisdizionale che preclude all’accusa di proseguire oltre nell’e- sercizio dell’azione penale e registra una sorta di non luogo a decidere sul merito dell’imputazione.

È chiarissimo, in tutta la giurisprudenza che ha consolidato suc- cessivamente la doctrine dell’abuse of process, che la tutela accordata al diritto di difesa si ricollega direttamente alla garanzia del giusto processo. Il modo di procedere del prosecutor diventa unfair quando l’imputato è costretto a discolparsi da una accusa che è portata in giudizio a notevole distanza di tempo dalla commissione del fatto.

ratio della celerità processuale prevista dall’art. 6 è quella di «evitare che una persona sotto accusa resti troppo a lungo nell’incertezza delle sua sorte»; si veda M.G. Aimonetto, La «durata ragionevole» del processo penale, Giappichelli, Torino 1997, p. 41. Analogamente, mettendo peraltro in luce come la giurispru- denza europea non abbia trascurato i diritti della vittima, G. Ubertis, Principi di procedura penale europea. Le regole del giusto processo, Cortina, Milano 2000, p. 16.

8 Si veda l’opinion di Sir Roger Ormrod in Corner, Young, Abuse of process and fairness in criminal proceedings, 2000, p. 2, che riassumono il quadro complessivo dalla giurisprudenza sul punto.

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Ad assumere rilievo non sono le ragioni che possono aver indotto l’accusa a richiedere il dibattimento con ritardo. L’abuso del pro- cesso si integra nei casi in cui l’imputato deve difendersi dall’addebito di un fatto risalente nel tempo, così da rendere effet- tivo il suo pregiudizio, sia sotto il profilo della difficoltà di racco- gliere efficaci prove a discarico, sia dal punto di vista dell’impatto psicologico conseguente a una azione penale tardiva, destinata a creare ansia e sconcerto per il protrarsi dell’incertezza sull’esito delle indagini9.

Anche nel common law inglese si tiene conto talvolta dell’incidenza che può aver avuto sui tempi processuali tanto la condotta colposa dell’imputato, quanto la complessità delle indagini10.

Pure in questa visuale, che restringe l’area delle condotte abusive del prosecutor passibili di sanzione in base alla inherent jurisdiction ri- conosciuta alle corti11, l’interesse primario tutelato rimane peraltro sempre quello dell’imputato. Lo dimostra, tra l’altro, il richiamo tal- volta fatto alla clausola 29 della Magna Carta, là dove afferma il principio secondo cui «a nessuno sarà negato o differito l’accesso alla giustizia o l’esercizio dei suoi diritti» [we will not deny, or defer, to any man, either justice or right]12.

9 Cfr., al riguardo, A. Ashworth, The criminal process: An evaluative Study, OUP, Oxford 2001, p. 186.

10 In questo senso, ritenuto più restrittivo rispetto all’orientamento sino ad al- lora prevalente, si veda l’opinion di Lord Lane CJ in Attorney, General’s Reference n. 1 of 1990 [1992] Q.B. 630, secondo cui il potere di ordinare la non prosecu- zione dell’azione penale deve essere esercitato solo «in exceptional circumstan- ces».

11 Come è noto, nel common law è attribuito alle corti un potere di autorego- lamentazione del lavoro giudiziario che si spinge fino alla disciplina di veri e propri istituti processuali mediante rules.

12 Alla Magna Carta aveva fatto riferimento l’imputato nell’udienza, in grado d’appello, per contrastare gli argomenti dell’Attorney General, che richiedeva di negare la configurabilità dell’abuso del processo riconosciuta in primo grado (si veda la decisione citata alla nota 10). La Corte d’Appello escluse, peraltro, la ri- levanza della fonte normativa invocata. Nel senso che il potere delle corti di re- primere l’abuse of process mira a far sì che si faccia un uso corretto dei diritti pro- cessuali da entrambe le parti, in modo che, anzitutto, si possano prevenire prassi sleali a danno dell’imputato secondo un principio che has always been a part of the English criminal law; si veda però l’opinion di Lord Devlin in Connelly [1964] AC 1254, in Corner, Young, Abuse of process, cit., p. 3.

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Anche la disciplina dello speedy trial nel sistema federale statuni- tense è tutta incentrata sulla tutela dell’interesse difensivo.

Al di là della normativa contenuta nello Speedy Trial Act del 1974, che stabilisce rispettivamente il termine di trenta giorni dalla notizia di reato alla formulazione dell’accusa e il limite temporale di set- tanta giorni da quest’ultima all’instaurazione del giudizio13, è il di- ritto dell’imputato ai due process of law, previsto nel Quinto Emen- damento della Costituzione Federale, ad assicurare rimedi contro il ritardo nella chiusura della fase delle indagini che sia derivato dal proposito del prosecutor di guadagnarsi vantaggi sul piano proces- suale e che abbia causato un effettivo pregiudizio all’imputato14. Analogamente, nella fase che va dall’esercizio dell’azione penale all’inizio del dibattimento, l’imputato gode del diritto allo speedy trial contemplato dal Sesto Emendamento della Costituzione Fede- rale, la cui operatività è subordinata all’esplicito reclamo dell’im- putato che dimostri le cause della durata irragionevole e la sussi- stenza di un pregiudizio conseguente alla stasi processuale15.

Tutti i diversi rimedi rinvenibili nel sistema statunitense, pur an- corati ai differenti presupposti della lesione effettiva o presunta del diritto di difesa, convergono nel delineare un’unica sanzione conse- guente alla violazione della regola della speditezza. Il giudice può disporre la non procedibilità dell’azione penale, precludendo all’ac- cusatore di ottenere una pronuncia sul merito della imputazione nelle due forme alternative del dismissal with prejudice, che blocca definitivamente ogni iniziativa del prosecutor, ovvero del dismissal without prejudice, che consente di riproporre l’azione penale16.

Rispetto all’ordinamento inglese, la disciplina nordamericana ap- pare dunque improntata a un maggior rigore. Se è vero infatti che nell’ambito dei principi dell’abuse of process elaborato dalle corti in- glesi si privilegia la sanzione definita stay of the proceedings, corri-

13 Le disposizioni sono ora inserite nel titolo 18 del United States Code ai para- grafi 1361 e 1362.

14 Si vedano le sentenze della Corte Suprema Federale United States v. Lovasco, 431 US 783 (1977) e United States v. Marion, 404 US 307, 324 (1971).

15 Si veda J.H. Israel, Y. Kamisa, W. La Fave, Criminal procedure and the constitu- tion, 1991, in cui è riprodotta la sentenza della Corte Suprema Federale nel caso Barker v. Wingo, 407 US 514 (1972).

16 Questo duplice effetto è espressamente contemplato dal paragrafo 3162 del titolo 18 del United States Code.

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spondente alla prima delle due forme di dismissal più sopra richia- mate in relazione alla procedura penale statunitense, non mancano peraltro precedenti che fanno discendere dalla irragionevole durata del processo una attenuazione della pena17 o l’inutilizzabilità dalle prove18.

Sotto il profilo sanzionatorio il processo di common law risulta quindi indubbiamente più efficace nella tutela delle esigenze di cele- rità processuale in confronto al quadro garantistico ricavabile dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In man- canza di una espressa sanzione per i casi in cui il processo si sia protratto al di là dei termini ragionevoli, l’unico rimedio è quello racchiuso nell’art. 13 della stessa Convenzione, che garantisce il di- ritto a un ricorso effettivo davanti a una autorità nazionale.

D’altra parte, però, la clausola convenzionale appare più avanzata del common law, sia perché costruisce l’inosservanza della ragione- vole durata in chiave di fattispecie di pericolo, prescindendo dalla prova della effettiva lesione del diritto di difesa19, sia perché copre un’area più estesa della sola fase procedimentale che culmina nella instaurazione del giudizio, manifestando la sua attitudine operativa per tutto l’arco delle attività processuali, che va dalla contestazione dell’addebito nel corso delle indagini preliminari alla sentenza defi- nitiva20.

In un retroterra culturale come quello esibito dalle fonti di com- mon law, che hanno fatto penetrare il principio della ragionevole du- rata del processo nell’art. 111 comma 2 Cost. attraverso la mediazio- ne dell’art. 6 della Convenzione Europea, il tentativo di ridefinire il disposto costituzionale come «garanzia oggettiva» operante a favore

17 Cfr. R. v Dery Crown Court ex parte Brooks (1984) 80 Cr App R 164-169. È stato talvolta statuito dalle Corti inglesi che la violazione dell’art. 6 della Conven- zione Europea rilevato dal giudice dell’impugnazione comporta necessaria- mente l’annullamento delle sentenza frutto della irragionevole durata del pro- cesso, si veda B. Emmerson, A. Ashworth, Human rights and criminal justice, Sweet & Maxwell 1999, p. 355.

18 Per la prospettazione di una simile sanzione, in alternativa all’attenuazione della pena, si veda la sentenza della South African Constitutional Court del 1998, citata da Emmerson, Ashworth, cit., p. 354.

19 Per un confronto tra l’abuse of process e la ragionevole durata prevista dall’art.

6 della Convenzione Europea, si veda Emmerson, Ashworth, cit., p. 354.

20 Per ampi riferimenti alla giurisprudenza della Corte Europea si veda Aimo- netto, La «durata ragionevole», cit., p. 39 e sgg.

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dell’accusa quale prevenzione degli abusi della difesa appare un’operazione destinata a scontrarsi contro l’evidenza di una tutela profondamente radicata, sotto il profilo storico-politico, nell’ambito delle garanzie difensive. Il diritto a una giustizia rapida e non fre- nata da strategie processuali o difficoltà operative del PM è una ga- ranzia coessenziale al giusto processo. Essa nasce dall’esperienza degli abusi che la Pubblica Accusa, storicamente, ha fatto patire all’imputato, costringendolo a sopportare la scelta di tempi proces- suali congeniali alla parte più forte, che rappresenta la società di fronte all’individuo destinatario della repressione penale. Nessun dubbio che le regole di lealtà e correttezza debbano essere rispettate anche dalla difesa21, ma ciò non autorizza di certo a rovesciare una prospettiva ormai fortemente consolidata, fino a trasformare la spe- ditezza in un pretesto per limitare il diritto di difesa.

Basta dare uno sguardo alla prassi del nostro processo penale per capire che l’attenzione prestata dalla tradizione angloamericana all’abuso dei tempi processuali da parte dell’accusatore è tutt’altro che ingiustificata, anche alla luce dell’esperienza del sistema ita- liano.

Sul piano dei principi, le scansioni temporali e i doveri posti a ca- rico del PM sono di una esemplare chiarezza. Le indagini sono as- soggettate a un rigoroso termine stabilito a pena di inutilizzabilità degli atti compiuti al di là della durata stabilita dalla legge o proro- gata dal giudice (art. 407 comma 3 CPP). Le investigazioni devono adeguarsi alla regola della completezza, secondo quanto sancito dalla Corte Costituzionale e dalla riforma attuata con la legge n.

479/199922, al fine di rendere effettivo il diritto di difesa sotto il pro- filo della facoltà di procedere a una consapevole scelta tra rito ordi- nario e procedimenti speciali. Infine, con l’esercizio dell’azione pe-

21 Sul punto la dottrina inglese richiama l’opinion di Lord Devlin nel caso Con- nelly: la High Court ha il potere di applicare «rules of practice in order to ensure that the court’s process is used fairly and convenienty by both sides»: si veda Corker, Young, Abuse of process, cit., p. 3.

22 Come è noto, gli istituti che consentono di colmare le lacune nella comple- tezza delle indagini sono costruiti in modo da rendere possibile ora l’iniziativa dell’imputato dopo il deposito degli atti a norma dell’art. 415 bis CPP, ora l’esercizio di poteri del giudice dell’udienza preliminare finalizzati alla integra- zione delle risultanze investigative già acquisite (artt. 421 bis e 422 CPP).

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nale quale epilogo di indagini preliminari di durata predeterminata, ma necessariamente complete, il fatto oggetto dell’imputazione ap- proda a un alto grado di determinatezza e di stabilità che è parame- trato sulla esistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudi- zio (art. 125 disp. att. CPP).

Del tutto diversa, invece, la realtà esibita da una prassi che incide profondamente sulla ragionevole durata del processo. Il PM si au- toinveste di un diritto alla continuità investigativa, al di là dei limiti stabiliti dalla legge, per rimediare alla incompletezza delle indagini che permane dopo la richiesta di rinvio a giudizio. L’accusa finisce così per mantenere un carattere di accentuata fluidità anche dopo l’esercizio dell’azione penale, come è testimoniato dalle sue modifi- cazioni conseguenti alla acquisizione di nuovi risultati investigativi o della produzione in udienza preliminare di atti non depositati a norma dell’art. 415 bis CPP. Il PM dispone inoltre di una ampia discrezionalità nel cumulare o separare imputazioni relative alla stessa persona o a soggetti diversi, così da soddisfare le esigenze dettate dalle sue strategie investigative e dalle necessità collegate all’onere probatorio che gli incombe nel dibattimento.

Certo, la continuità investigativa è in qualche misura assecondata dal legislatore che consente al PM, in via di eccezione rispetto alla regola, di compiere «eventualmente» ulteriori indagini dopo il de- posito della richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3 CPP). E non poco rilievo riveste sicuramente pure la mancanza di una vera sanzione per l’inosservanza del termine stabilito per l’esercizio dell’azione penale23.

Proprio per la fragilità di questi argini legislativi, nell’esperienza applicativa l’organo dell’accusa diventa dominus dei tempi proces- suali, anche dopo lo spirare del limite massimo di durata delle inda- gini, e questa libertà lo autorizza a «riaprire le indagini» nel mo- mento in cui decide di dare avvio all’udienza preliminare .

A dilatare in concreto l’ambito della discrezionalità operativa è anche la mancanza di effettivi controlli giurisdizionali. Come è ben noto, quando si pronuncia sulla richiesta di proroga delle indagini a norma dell’art. 406 CPP, il giudice compie, in sostanza, una opera-

23 Il rimedio della avocazione, previsto dall’art. 412 CPP in caso di mancato esercizio dell’azione penale, trova, nella pratica, una applicazione così rara da far pensare alla scomparsa dell’istituto.

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zione puramente notarile. Tanto più che, nel dettato legislativo e ne- gli orientamenti giurisprudenziali, all’organo giurisdizionale è ini- bito, da un lato, di dichiarare con effetti sul piano investigativo la mancanza di legittimazione territoriale del PM (art. 22 comma 2 CPP) e, dall’altro, è preclusa la declaratoria di prescrizione del reato per la ritenuta inapplicabilità dell’art. 129 CPP insede di decisione sulla ri- chiesta di proroga24.

Le indagini proseguono, dunque, anche quando si accerta che l’organo della accusa svolge investigazioni su un reato di compe- tenza di un giudice diverso da quello presso cui il PM è costituito25 e persino quando il controllo giurisdizionale fa emergere l’anomalia di un procedimento che si protrae nonostante l’estinzione del reato oggetto delle indagini. Qui la continuità investigativa si manifesta in forme radicalmente incompatibili con la durata ragionevole del pro- cesso garantita dall’art. 111 Cost26.

Per quanto attiene, poi, alla fluidità della imputazione, che si contrappone alla programmatica stabilità dell’accusa percepibile dai principi del sistema, basterà ricordare l’ampiezza ormai riconosciuta al potere di procedere alla contestazione suppletiva nell’udienza preliminare. È ben noto, anzitutto, che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, è consentito al PM modificare l’accusa anche sulla base degli stessi elementi di prova già esistenti nel fascicolo e quindi non acquisiti «nel corso dell’udienza prelimi-

24 Così, con riferimento alle decisioni incidentali del GIP, Cass. 24.3.1993, Shoukj Tarek, CED 193865; Cass. 1.2.1991, Ermeti, in Cass. pen. 1992, 2773.

25 Non vale a colmare l’attuale vuoto di tutela il rimedio previsto dall’art. 54 quater CPP introdotto dalla legge n. 479/1999. Il congegno del reclamo proponi- bile da parte dell’indagato rimane racchiuso entro l’ambito del controllo gerar- chico interno all’ufficio del PM privandolo di una reale efficacia, come confer- mano le prime esperienze applicative della norma.

26 Anche tutta la disciplina della proroga delle indagini, così come modificata dalla legge n. 356/1992 e dalla sentenza n. 174/1992, deve ora essere rielaborata alla luce del nuovo disposto costituzionale. Il potere del giudice di autorizzare la proroga anche dopo la scadenza del termine (art. 406 comma 1 CPP) è infatti il presupposto per creare un nuovo spazio investigativo che va dalla richiesta del

PM alla comunicazione del provvedimento autorizzativo della proroga con il ri- sultato di rendere utilizzabili gli atti compiuti in questo arco temporale (art. 406 comma 8 CPP). Sul punto si vedano le considerazioni svolte di seguito.

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nare», come prevede invece l’art. 423 CPP27. Quando, come accade non infrequentemente, l’organo della accusa viola il dovere di com- pletezza e procede a indagini suppletive o deposita in udienza atti già acquisiti, ma esclusi dalla discovery, il materiale probatorio che in tal modo rifluisce nell’udienza preliminare può determinare una modifica della imputazione, pregiudizievole per la difesa e negativa per la durata del processo.

La situazione che si delinea in questi casi è quella di una azione penale esercitata «con riserva di più ampie investigazioni», in viola- zione della regola di giudizio stabilita dall’art. 125 disp. att. CPP. Una simile eventualità è così ricorrente nella prassi da avere spinto il le- gislatore a prevedere la «sanzione» ora contenuta nell’art. 421 bis

CPP: il giudice dell’udienza preliminare può ordinare il compimento di ulteriori indagini per integrare i risultati investigativi già acqui- siti, ma incompleti.

Il fenomeno delle attività integrative con eventuali riflessi sulla modificazione dell’accusa e, conseguentemente, sui tempi proces- suali, si ripropone poi con un impatto apparentemente minore an- che nel dibattimento. Le operazioni ante iudicium compiute dal PM a norma dell’art. 430 CPP costituiscono indubbiamente potenziali fat- tori di instabilità della imputazione e, comunque, contribuiscono a turbare l’equilibrio tra accusa e difesa raggiunto a conclusione della udienza preliminare. Le conseguenze per la durata del processo so- no qui meno vistose e allarmanti, forse soltanto perché, nella nostra tradizione processuale, è sempre stato ammesso, entro i limiti tuttora segnati dall’art. 516 CPP, modificare l’accusa in sede dibatti- mentale. Non bisogna però dimenticare che nel rito accusatorio di common law non è di regola consentito al prosecutor contestare nel di- battimento fatti diversi da quelli oggetto del rinvio a giudizio, es- senzialmente perché non si vuol attribuire all’accusatore, che già gode di tanti privilegi nella fase delle indagini, l’ulteriore vantaggio

27 Cfr. Cass 14.11.1995, Di Mauro, in Cass. pen., 1997, p. 828, nonché Cass.

4.12.1997, Pasqualetti, in Cass. pen., 1999, p. 249, entrambe nel senso che le vi- cende oggetto di contestazione suppletiva non devono necessariamente essere venute a conoscenza dal PM nell’udienza, ma possono essere già state apprese nel corso delle indagini pur essendo rimaste estranee all’ambito delle valuta- zioni richieste al fine della formulazione dell’accusa.

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di emendare la sua imputazione con conseguenze pregiudizievoli per il diritto di difesa28.

Continuità investigativa, fluidità della accusa e discrezionalità nella selezione di fatti e persone sono, al tempo stesso, sintomi e fattori di una degenerazione dei poteri del PM che determina l’irragionevole durata del processo. Per soddisfare le diverse strate- gie funzionali agli obiettivi volta a volta presi di mira, l’organo della accusa si produce in attività investigative o processuali in eccesso ovvero in difetto rispetto ai parametri desumibili dal sistema. Na- scono così i «procedimenti inutili», portati avanti nella certezza della prescrizione del reato o nonostante il già intervenuto avveramento dell’effetto estintivo del reato.

Emblematici di un eccesso, sotto un diverso profilo, sono i maxi- processi instaurati mediante richieste di rinvio a giudizio per decine o centinaia di imputati e avviati così su un binario dibattimentale nel quale la mole dell’attività istruttoria e l’intreccio tra la moltepli- cità delle persone e dei fatti rendono i tempi dell’accertamento pro- cessuale sicuramente irragionevoli e comunque incompatibili con le modalità di un processo giusto.

Sul fronte opposto si colloca l’anomalia dei «processi non istruiti», in cui la strategia di esercitare l’azione penale con riserva di ulteriori indagini condanna l’udienza preliminare e il dibattimento a tra- sformarsi in un luogo in cui si va a caccia della prova, latitante per l’incompleta preparazione investigativa con cui il PM si presenta alla ribalta del processo29.

28 Per i limiti in cui il giudice è autorizzato a ordinare l’amendment dell’accusa nel processo inglese, si veda J. Spack, Emmins on Criminal Procedure, OUP, Oxford 2002, p. 74.

29 Si potrebbe obiettare che l’iniziativa così attribuita all’indagato finisce per riu- scire scarsamente efficace di fronte al potere del PM di esercitare in qualsiasi momento l’azione penale, paralizzando l’istanza di archiviazione proposta al giudice. Va peraltro osservato che spesso i ritardi nel perfezionamento dell’iter previsto per l’archiviazione derivano, nelle indagini cumulative, dalla riluttanza del PM o della sua segreteria a formare un fascicolo separato quando per alcuni degli indagati si è deciso di richiedere il rinvio a giudizio. Questo ostaco-lo d’ordine pratico determina, nella prassi, la trasmissione di un unico fascicolo al giudice dell’udienza preliminare con richiesta di archiviazione, parallela a quella di rinvio a giudizio per altri imputati, sulla quale il giudice si pronuncia in esito all’udienza preliminare. In questo contesto in cui i tempi sono frenati da difficoltà di ordine organizzativo, la istanza di archiviazione presentata dall’in-

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Se è anzitutto il Pubblico Ministero a imporre le sue strategie con il sacrificio della ragionevole durata del processo garantita all’impu- tato, il compito primario che spetta all’interprete, al fine di dare attuazione all’art. 111 Cost., è quello di individuare i profili di il- legittimità costituzionale che nella normativa vigente aprono gli spazi di discrezionalità su cui si innesta l’anomalia operativa dell’organo della accusa.

Indubbiamente, la disciplina che rivela i più acuti contrasti con l’art. 111 comma 2 Cost. è quella dei termini delle indagini prelimi- nari e dei relativi controlli giurisdizionali. Anche prescindendo da una riforma più incisiva protesa a disegnare una nuova figura di

GIP, più autorevole perché funzionalmente idoneo a seguire il lavoro del PM in permanenza e non in via incidentale, sul piano della legit- timità costituzionale vanno rimossi gli ostacoli normativi che impe- discono all’attuale GIP di rendere effettivo il diritto dell’indagato a una tempestiva chiusura del procedimento.

Si è già più sopra rilevato come siano inadeguate le sanzioni at- tualmente previste per l’ipotesi di inosservanza del termine stabilito dall’art. 406 CPP per l’esercizio dell’azione penale. L’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine e l’avocazione d’ufficio o a richiesta dell’indagato, previste rispettivamente dagli artt. 412 e 413 CPP, non sono, nel diritto vivente, strumenti idonei a sollecitare il PM ad assumere tempestivamente le sue determina- zioni. Scaduto il termine di durata massima delle indagini, il proce- dimento finisce spesso per cadere in uno stato di quiescenza dal quale l’indagato può avere interesse a risvegliarlo per farne decre- tare la chiusura con un provvedimento di archiviazione.

È quindi intuibile lo sbocco imposto dal nuovo art. 111 Cost. Poi- ché nel sistema codicistico il GIP è il garante della ragionevole durata delle indagini, dal momento che allo stesso sono attribuiti i controlli sulle richieste di proroga, sussiste innegabilmente un vuoto di tutela là dove, esaurite le indagini, il PM ritarda senza motivo la formula- zione della richiesta di archiviazione che l’indagato ragionevol- mente si attende alla luce di investigazioni infruttuose. Di qui

dagato al GIP potrebbe avere la funzione di stimolo indiretto sul PM perché trasmetta gli atti con il suo parere al giudice.

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l’incostituzionalità dell’art. 413 CPP nella parte in cui non prevede che l’indagato possa richiedere al GIP di archiviare la notizia di reato quando il PM non abbia esercitato l’azione penale nel termine stabi- lito dalla legge o prorogato dal giudice. È ovvio che un simile con- gegno richiede l’applicazione delle norme sul procedimento came- rale previsto dall’art. 408 CPP, essendo necessario instaurare il con- traddittorio con l’organo dell’accusa, al quale deve essere garantito il potere di formulare l’imputazione in ossequio all’art. 112 Cost.

Sicuramente incostituzionale appare poi anche il disposto dell’art.

406 comma 8 CPP, introdotto dalla legge 7 agosto 1992 n. 356. Anche se può essere mantenuto fermo il principio sancito dalla sentenza n.

174/1992 della Corte Costituzionale, secondo cui al giudice è con- sentito disporre la proroga delle indagini pure dopo la scadenza del termine purché essa sia stata richiesta anteriormente, risulta ormai incompatibile con l’art. 111 comma 2 Cost. il potere del GIP di «sa- nare» con il provvedimento di proroga l’inutilizzabilità degli atti compiuti a termine scaduto, ma prima della comunicazione del provvedimento del giudice. Si tratta di una anomala remissione in termini del PM, che vanifica la perentorietà della disciplina circa il suo tempus agendi, spingendo il giudice ad autorizzare la proroga solo per salvare gli atti nel frattempo posti in essere e spostando così l’attenzione del controllo giurisdizionale dall’attività compiuta od omessa nell’arco temporale oggetto di esame al quantum dei risultati investigativi acquisiti dopo la scadenza del termine.

È infine contrastante con la garanzia della ragionevole durata delle indagini la regola di creazione giurisprudenziale che vieta al

GIP di sindacare la tardiva iscrizione della notizia di reato nel regi- stro previsto dall’art. 335 CPP. È evidente che quando il PM trasgredi- sce il suo dovere di registrare il nome dell’indagato nel momento dell’effettiva insorgenza di indizi a suo carico, la conseguenza che ne deriva è la illegittima estensione temporale delle investigazioni e la correlativa esclusione della inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine calcolato in base all’effettivo dies a quo, anteriore alla data risultante dalla iscrizione nel registro dell’art. 335

CPP. Questa forzatura interpretativa, motivata dall’idea della asso- luta sovranità del PM in una operazione strettamente prodromica

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alla attività finalizzata all’esercizio dell’azione penale30, risulta ora improponibile per la sua palese irragionevolezza rispetto al conte- nuto della norma costituzionale. In questo modo, infatti, la durata delle indagini finisce per essere rimessa all’arbitrio del PM, che la pa- rametra sulle sue esigenze investigative, sottraendosi a qualsiasi controllo idoneo ad accertare l’osservanza dei termini stabiliti dalla legge.

Si deve quindi ritenere costituzionalmente illegittimo, per contra- sto con l’art. 111 comma 2 Cost., il disposto dell’art. 406 CPP, che non consente al GIP, in sede di decisione sulla richiesta di proroga, di ac- certare la tempestività delle iscrizioni risultanti dal registro delle no- tizie di reato.

Un ulteriore profilo di illegittimità si può ravvisare in relazione alla attuale preclusione che impedisce al giudice di dichiarare l’in- competenza per territorio nel corso delle indagini preliminari. Come si è più sopra anticipato, l’art. 22 comma 2 CPP rende irragionevole il protrarsi del procedimento da parte di un ufficio della Pubblica Accusa, che diventa consapevole della sua mancanza di le- gittimazione territoriale dopo l’emissione di un provvedimento in- cidentale del giudice. Mentre sarebbe forse necessario un intervento legislativo per attribuire all’indagato il potere di attivare il giudice a pronunciarsi sull’istanza volta a far trasmettere gli atti al Procura- tore della Repubblica di un’altra sede, la declaratoria di incostitu- zionalità dell’art. 22 comma 2 CPP può essere pronunciata senza ma- nipolazioni delle norme codicistiche.

Analogamente si rivela incompatibile con la ragionevole durata del procedimento il limite stabilito dall’art. 129 CPP, che impedisce al giudice di dichiarare la mancanza di una condizione di procedibilità o l’estinzione del reato nel corso delle indagini preliminari31. Si è in-

30 Nel senso che il legislatore avrebbe vietato qualsiasi ingerenza dell’organo giurisdizionale circa l’individuazione del dies a quo, identificandolo nella data in cui il PM iscrive effettivamente la notizia di reato; si veda Cass. 11.3.1999, Testa,

CED 213927; Cass. 24.10.1997, Todini, in Cass. pen., 1999, p. 582. Secondo un indi- rizzo minoritario, invece, il GIP avrebbe il potere di sindacare ex post l’inos- servanza dell’obbligo di immediata iscrizione, con la conseguente declaratoria di inutilizzabilità degli atti compiuti a termine scaduto: si veda, ad esempio, Cass. 28.2.1994, Nisi, in Riv. pen., 1995, p. 459.

31 La preclusione riguarda anche la declaratoria delle altre «cause di non punibi- lità» che investono il merito dell’imputazione, ma in relazione a queste appare

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fatti ormai consolidato un orientamento giurisprudenziale che, fa- cendo leva sulla locuzione «processo» contenuta nel primo comma dell’articolo, nega al GIP il potere di dichiarare qualsiasi «causa di non punibilità» prima dell’esercizio dell’azione penale32. Viene così a profilarsi la situazione, veramente irragionevole, del protrarsi di indagini nei confronti di un soggetto, che ne sopporta tutto il pre- giudizio, nonostante l’accertamento giurisdizionale della non pro- cedibilità o della causa estintiva del reato oggetto delle investiga- zioni.

I problemi posti dalla nuova norma costituzionale in relazione al dibattimento richiedono invece una elaborazione mirata e attenta qual è quella resa possibile solo dal filtro delle riforme legislative.

Non è facile trovare rimedi idonei ad arginare i fenomeni della flui- dità dell’accusa e della discrezionalità nella selezione di fatti e per- sone che connotano la gestione del potere di accusa nella nostra esperienza processuale.

La patologia certamente più grave, nella prospettiva della tutela costituzionale alla speditezza del giudizio, rimane indubbiamente ancora quella che si annida nel maxiprocesso. Il dipanarsi dell’istru- zione dibattimentale per anni, con centinaia di testimoni il cui contributo probatorio è riconducibile, volta a volta, solo a singoli imputati o a gruppi degli stessi, determina non solo la perdita del valore della oralità e dell’immediatezza, ma anche il sorgere di enormi problemi di orientamento valutativo da parte di giudici co- stretti a muoversi nella congerie di episodi, volti e situazioni da di- stinguere e memorizzare per ricondurli ai fatti addebitati a ciascun imputato.

Di qui l’idea di un nuovo strumento da attribuire al giudice di- battimentale proprio in quella logica di riscoperta della «cultura della giurisdizione» che viene spesso invocata dalla Magistratura, sia pure al diverso fine di contrastare le proposte di ridefinizione ordinamentale dello status del PM. Il giudice deve essere messo in

giustificato mantenere l’attuale non rilevabilità, tenuto conto che l’accertamento compiuto in sede incidentale dal GIP circa l’insussistenza del fatto e la mancanza di responsabilità dell’indagato riflette necessariamente lo stato delle indagini ed è quindi suscettibile di evoluzioni in senso favorevole all’organo della accusa nell’ulteriore sviluppo delle investigazioni.

32 Cfr. la giurisprudenza citata nella nota 24 .

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condizione di operare un bilanciamento tra le istanze punitive dell’accusa e i limiti intrinseci all’uso di uno strumento raffinato e complesso qual è quello della istruzione dibattimentale. Una nuova disposizione, da inserire quale terzo comma dell’art. 18 CPP, po- trebbe allora prevedere il potere del giudice dibattimentale di di- sporre d’ufficio la separazione dei processi relativi a uno o più im- putati ovvero a una o più imputazioni, qualora risulti necessario al fine di assicurare la ragionevole durata del giudizio.

Naturalmente una simile proposta richiede una puntuale elabora- zione, volta a definire con maggiore determinatezza la fattispecie della separazione destinata ad operare fuori dell’accordo delle parti.

È evidente che ne potrebbe derivare una sorta di frantumazione dell’impianto complessivo prescelto dal PM e, quindi, un provvedi- mento assai poco gradito a quest’ultimo.

Un giudice veramente imparziale deve però poter sindacare, an- zitutto, le modalità di esercizio dell’azione penale, rivendicando il suo ruolo di soggetto investito del dovere di soppesare la compati- bilità delle operazioni probatorie prospettate dall’accusa con i limiti operativi e cronologici connaturali all’attività dibattimentale.

L’imperativo costituzionale sulla ragionevole durata del processo non può ridursi a una vuota declamazione. Così come nei confronti dei difensori deve essere inflessibile nel reprimere qualsiasi mano- vra ostruzionistica, anche nei confronti del PM il giudice deve essere posto in grado di impedire gli abusi nei modi di esercizio dell’azione penale, intervenendo per frenare l’ingresso in sede pro- cessuale di imputazioni esorbitanti per numero ed estensione.

Un ultimo rilievo a proposito delle impugnazioni. In questo set- tore la speditezza processuale, garantita dall’art. 111 comma 2 Cost., propizia di solito visuali programmatiche che si esprimono nel senso della riduzione dei poteri di gravame dell’imputato, quasi che ogni iniziativa volta a sollecitare una pronuncia nei gradi ulteriori di giudizio fosse nella prassi motivata solo dalla prospettiva di una eventuale prescrizione e non dalla ingiustizia della decisione impu- gnata, causata da carenze d’ordine probatorio e valutativo nonché dai tempi lunghi talvolta imposti dal gigantismo delle strategie ac- cusatorie.

Non c’è dubbio che tutta la problematica delle impugnazioni esi- ga una riflessione approfondita, condotta, peraltro, alla luce di una riconsiderazione del reale grado di effettività delle garanzie di-

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fensive nel giudizio di primo grado. Non si può comunque condivi- dere l’ottica unilaterale e fuorviante che scorge il terreno di coltura degli abusi solo nelle condotte di imputati e difensori. La garanzia costituzionale della ragionevole durata impone di misurare la parità delle armi nei gravami guardando anzitutto ai poteri riconosciuti al rappresentante della accusa.

Basta sfogliare il codice per accorgersi che al PM sono tuttora ac- cordati ingiustificati privilegi, eredità derivanti dal vecchio sistema inquisitorio in cui ad ogni eventuale proscioglimento doveva potersi contrapporre sempre un riesame critico nell’interesse del titolare dell’istanza punitiva. L’esempio più illuminante è quello racchiuso nell’art. 428 CPP che autorizza gli uffici della Pubblica Accusa a im- pugnare la sentenza di non luogo a procedere emessa nell’udienza preliminare. È difficile negare che l’appello ante iudicium, proposto contro una sentenza inidonea a divenire irrevocabile per espressa previsione dell’art. 434 CPP, sia ormai incompatibile con la ragione- vole durata del processo. Basta pensare che, in caso di conferma del proscioglimento in appello, il rappresentante dell’accusa può pro- porre ricorso per cassazione, dando vita così a un procedimento che si protrae al solo scopo di verificare, in una istanza di controllo che si aggiunge a quelle dell’udienza preliminare e dell’appello, se sus- sistono elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio33.

L’irragionevolezza di questo congegno processuale mostra bene quanto impegno occorra ancora spendere per rendere davvero ef- fettiva la garanzia della speditezza processuale all’interno del nostro sistema.

33 Come è noto, a proporre l’appello e il ricorso è legittimato anche l’imputato quando il proscioglimento sia pronunciato in udienza preliminare con formule diverse da quelle che escludono l’interesse a impugnare (il fatto non sussiste;

non aver commesso il fatto) (art. 428 comma 1 lett. a, e comma 8 CPP).

Un’eventuale declaratoria di illegittimità dell’art. 428, per contrasto con l’art.

111 Cost., sotto il profilo del potere di gravame attribuito al PM dovrebbe, ov- viamente, comportare, per il principio di parità stabilito dalla stessa norma co- stituzionale, la caducazione della legittimazione a impugnare anche con ri- guardo all’imputato.

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