• Non ci sono risultati.

Il ruolo delle dinamiche familiari nella genesi dell anoressia mentale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Il ruolo delle dinamiche familiari nella genesi dell anoressia mentale"

Copied!
217
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

TESI DI LAUREA

IN

PSICOLOGIA GENERALE

Relatore: Prof. Liliana DE GIORGI

Candidato: Maria Rosella LUCIANI

Anno Accademico 2004-2005

Il ruolo delle dinamiche familiari

nella genesi dell’anoressia mentale

(2)

Alla mia famiglia

(3)

“E’ attraverso l’appetito

che vengono espressi i sentimenti più intimi.”

(Hilde Bruch, Patologia del comportamento alimentare)

(4)

I

I n d i c e

Introduzione

Prima Parte

Capitolo Primo

ANORESSIA: IL CONTESTO SOCIOCULTURALE

1.1 La dimensione simbolica del cibo 1.2 Rifiutare il cibo per accettare se stessi 1.3 L’anoressia come “disturbo etnico”

1.4 Il paradosso della società occidentale: l’invito al consumo e il culto della magrezza

1.5 L’adolescenza, un’età a rischio 1.6 L’esordio della malattia: la dieta 1.7 Il disturbo anoressico: un linguaggio

soprattutto al femminile

1.7.1 Il concetto di “genere femminile”

1.7.2 Le contraddizioni culturali intorno al ruolo

attribuito alle donne

(5)

Capitolo Secondo

STORIA, EPIDEMIOLOGIA, CRITERI DIAGNOSTICI E FATTORI DI SVILUPPO DELL’ANORESSIA

2.1 L’anoressia nella storia

2.2 Il significato del termine “anoressia”

2.3 Un’epidemia sociale

2.4 La questione della classe sociale 2.5 Il quadro dell’anoressia mentale 2.6 Criteri diagnostici

2.6.1 Classificazione Internazionale delle Sindromi e dei Disturbi Psichici e Comportamentali (ICD)

2.6.2 Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) 2.7 Lo sviluppo e il mantenimento del

disturbo anoressico

2.7.1 Condizioni predisponenti

2.7.2 Condizioni scatenanti

2.7.3 Condizioni perpetuanti

(6)

III

Seconda Parte

Capitolo Terzo

L’IMPORTANZA DELL’INTERAZIONE MADRE-BAMBINO NELLO SVILUPPO

DELL’ANORESSIA

3.1 Anoressia primaria e deficit di autoconsapevolezza 3.2 Il difetto nella percezione degli stimoli corporei 3.2.1 L’importanza di un corretto feedback tra madre e

bambino

3.3 Il senso di inadeguatezza

3.4 La distorsione dell’immagine corporea

Capitolo Quarto

LA FAMIGLIA DELLA PERSONA ANORESSICA:

CARATTERISTICHE TIPICHE

4.1 Sottomissione e compiacenza come “doti”

richieste alla figlia

4.2 Le figlie come prova della “perfezione” dei genitori

4.3 Una madre intrusiva e dominante

(7)

4.4 Il valore attribuito al successo personale e alla bellezza

4.5 La bambina perfetta è nei guai

Capitolo Quinto

LA FAMIGLIA COME SISTEMA:

L’ANORESSIA NEL CONTESTO TRANSAZIONALE

5.1 Cos’è la famiglia

5.2 Il sistema familiare anoressico e le sue

caratteristiche

5.2.1 Come i membri della famiglia qualificano le comunicazioni

5.2.2 Il problema della leadership 5.2.3 Il problema delle alleanze 5.2.4 Il problema della colpa 5.2.5 L’escalation sacrificale

5.3 Modelli di interazione disfunzionale 5.3.1 Invischiamento

5.3.2 Iperprotettività

5.3.3 Evitamento del conflitto

5.3.4 Rigidità

5.4 Il coinvolgimento della figlia anoressica:

i processi di triangolazione

(8)

V 5.4.1 Tipologia dei processi di triangolazione 5.5 Il sistema anoressico

5.6 Le dinamiche interattive nell’anoressia

Capitolo Sesto

I MITI E I FANTASMI NELLE FAMIGLIE CON PROBLEMI DI ANORESSIA

6.1 Mito e identità familiare

6.2 Quando il mito diventa fonte di patologia 6.3 Miti di unità e fantasmi di rottura

6.4 Il linguaggio del sintomo anoressico 6.5 Oltre le parole: il metodo delle Sculture del Tempo Familiare (STF)

6.6 Un esempio clinico – il caso di Enza

Conclusione Bibliografia

NOTA REDAZIONALE

La presente tesi si compone di 217 pagine

(9)

I In I n n t t t r ro r o o d d d u u u z zi z i io o on n ne e e

L’anoressia mentale è un disturbo del comportamento alimentare in crescente espansione nel mondo occidentale. Diffusa soprattutto tra gli adolescenti, in particolare tra le ragazze, questa patologia si manifesta nella ricerca volontaria ed ossessiva della magrezza, che spinge l’individuo che ne è affetto a ridurre gradatamente l’alimentazione, fino ad arrivare ad un vero e proprio rifiuto del cibo. Pur ruotando attorno alla sfera alimentare, questa malattia esprime una sofferenza che va al di là del semplice problema nutrizionale e che coinvolge la sfera psicologica e quella relazionale del soggetto.

Per questo motivo, è in realtà riduttivo parlare dell’anoressia come di un problema alimentare, perché il significato profondo di tale patologia è indissolubilmente legato a problematiche che riguardano lo sviluppo dell’identità.

Infatti, il nucleo di base dell’anoressia mentale è un profondo senso di inadeguatezza, che spinge l’individuo a credere di non valere niente, di non sentirsi capace di affrontare le situazioni, di non essere apprezzato dagli altri.

Per questo motivo, una persona anoressica, non riuscendo a sperimentare se stessa nei rapporti inter-personali, tenta di trasportare tale potere nel rapporto intra-personale, concentrandosi sul proprio corpo e cercando in questo modo di

(10)

2

concretizzare il suo malessere, traducendolo in qualcosa di definito su cui poter esercitare un controllo.

L’anoressia è un fenomeno piuttosto complesso, in cui intervengono molteplici componenti: influenze socio-culturali, che riguardano le trasformazioni del ruolo della donna in una società che esalta in modo ossessivo la bellezza e la ricerca della forma fisica; aspetti psicologici individuali, che nel problematico rapporto col corpo esprimono una complessiva difficoltà di crescita; dinamiche familiari disturbate, che evidenziano un’incapacità evolutiva del corpo familiare stesso.

Sebbene il titolo della mia tesi verta su quest’ultimo aspetto, ho ritenuto opportuno non trascurare gli altri fattori, in quanto la patologia anoressica risulta dal complesso intrecciarsi di queste molteplici forze.

Pertanto, ho deciso di suddividere la tesi in due parti. Nella prima, che comprende i primi due capitoli, ho cercato di fornire uno sguardo d’insieme sull’anoressia mentale, che non può essere compresa estrapolandola dal contesto socioculturale in cui si manifesta e non tenendo conto del suo grado di diffusione, dei criteri che sono necessari per diagnosticarla e dei fattori che possono concorrere al suo sviluppo.

Nella seconda parte invece, che comprende i rimanenti tre capitoli, ho approfondito il ruolo di uno dei fattori che possono contribuire alla genesi dell’anoressia: quello dell’ambiente familiare in cui le ragazze anoressiche crescono e dei problemi che lo caratterizzano.

(11)

Come ho detto, non è possibile parlare di anoressia senza considerare il contesto socio-culturale che le fa da sfondo.

Nel Primo Capitolo ho messo in evidenza come tale patologia sia caratteristica dei paesi occidentali. Gli studi dimostrano infatti che la diffusione dell’anoressia è direttamente proporzionale al livello di benessere economico raggiunto da una società. Essa è praticamente inesistente nei paesi del Terzo Mondo, caratterizzati da povertà e scarsità di beni, mentre ha raggiunto proporzioni endemiche nei ricchi paesi occidentali., la cui cultura attribuisce un grande valore all’aspetto fisico e in particolare alla magrezza.

Sono gli adolescenti, con il grande bisogno di approvazione che caratterizza quest’età, ad essere particolarmente sensibili a questo tipo di messaggi e a convincersi che la magrezza sia un modo per essere accettati.

L’importanza attribuita alle diete e all’aspetto fisico influenza soprattutto le ragazze, costantemente esposte ad immagini che propongono modelli di bellezza femminile sempre più magri.

Ma la ragione per cui il disturbo anoressico colpisce soprattutto le donne è da ricercare anche nelle contraddizioni culturali che riguardano il loro ruolo all’interno della società; infatti si chiede ad esse di essere libere, indipendenti e di successo, ma anche di ricoprire i ruoli tradizionali di moglie e di madre.

Credendo di non avere un sufficiente controllo sulla propria vita, molte donne possono sentire l’esigenza di esercitare un controllo sul proprio corpo, per dimostrare agli altri e a se stesse di valere qualcosa.

(12)

4

La cornice sociale che ho appena descritto è quindi una condizione necessaria per lo sviluppo di tale patologia, tuttavia di per sé non è sufficiente; infatti, tutte le donne del mondo occidentale sono esposte agli stessi messaggi e alle stesse pressioni sociali e culturali, ma solo una percentuale di esse arriva ad ammalarsi di anoressia.

Nel Secondo Capitolo, dopo aver tracciato un breve quadro storico ed epidemiologico della malattia ed aver illustrato quali sono i criteri necessari per diagnosticarla, parlo di quei fattori che, interagendo con la dieta, possono portare allo sviluppo della malattia. Si tratta di condizioni culturali, individuali e familiari che rendono l’individuo particolarmente vulnerabile e insicuro. La reazione è una concentrazione sul corpo, sul peso e sul cibo come campo privilegiato nel quale recuperare un sentimento di dominio e di valore.

A questo punto ha inizio la seconda parte della mia tesi, che ha come scopo quello di approfondire il ruolo giocato dalle dinamiche familiari nello sviluppo dell’anoressia mentale.

Ho deciso di partire con l’analisi delle primissime interazioni del bambino con la figura materna. Per questo, nel Terzo Capitolo, ho preso in considerazione gli studi che Hilde Bruch e Mara Selvini Palazzoli hanno svolto sull’argomento.

Dalle ricerche di queste studiose, emerge che il deficit di autostima e di autoconsapevolezza che si riscontra nelle ragazze anoressiche deriva da esperienze interpersonali perturbate avvenute nell’infanzia.

In particolare, il problema sarebbe dovuto all’incapacità da parte della madre di rispondere in modo corretto ai segnali di bisogno della figlia, che crescerebbe, per questo motivo, priva di un adeguato concetto di sé.

(13)

Le due studiose hanno inoltre riscontrato che in tutte le famiglie da loro osservate si ritrovano delle caratteristiche comuni.

È ciò di cui parlo nel Quarto Capitolo, in cui metto in evidenza come la presenza di una madre intrusiva e dominante, la mancanza di un valido rapporto affettivo tra i genitori, la grande importanza attribuita al successo personale e all’aspetto fisico e l’incapacità di giudicare la figlia come una persona a sé stante siano aspetti tipici di queste famiglie, in cui la ragazza anoressica non riesce ad acquisire il giusto senso di autonomia.

Se questo capitolo è piuttosto descrittivo e riporta numerosi racconti tratti dalla casistica personale di entrambe le ricercatrici, nel Quinto Capitolo affronto il tema delle dinamiche relazionali e delle loro disfunzionalità in modo più specifico e dettagliato, facendo particolare riferimento agli studi svolti da Mara Selvini Palazzoli e da Salvador Minuchin.

Invischiamento, iperprotettività ed evitamento del conflitto sono le modalità interattive che caratterizzano queste famiglie, ma per riuscire a comprendere pienamente il loro significato è necessario andare oltre il piano fenologicamente visibile per analizzare quello più profondo dei miti e dei fantasmi che rappresentano il cemento emotivo dell’appartenenza familiare.

È quello che mi propongo di fare nel Sesto Capitolo, al termine del quale ho inserito il caso di una paziente osservata personalmente dal Prof. Luigi Onnis presso il Sevizio Universitario di Terapia Familiare di Roma.

Alla luce degli argomenti trattati, ho cercato di offrire, nella Conclusione, una chiave di interpretazione dell’anoressia mentale, mettendo in evidenza come il sintomo anoressico divenga l’espressione metaforica di un compromesso tra

(14)

6

un’esigenza personale di differenziazione e di cambiamento e una necessità di mantenere il precario equilibrio di un sistema familiare incapace di crescere e di evolvere.

Da questo punto di vista, l’anoressia non può essere considerata soltanto come un problema che riguarda la singola paziente, ma come la spia evidente di un profondo disagio che coinvolge l’intero corpo familiare.

(15)

Prima Parte

(16)

8

Capitolo Primo

ANORESSIA: IL CONTESTO SOCIOCULTURALE

1.1 La dimensione simbolica del cibo

L’alimentazione può sembrare una pratica banale della vita quotidiana, infatti tutti dobbiamo mangiare per sopravvivere. In realtà però, ritenere che il cibo sia legato soltanto alla necessità di nutrirsi sarebbe alquanto riduttivo. Esso diventa parte integrante della nostra vita sin dalla nascita, si amalgama alle emozioni, alle tradizioni, al nostro senso dei valori, entra a far parte dei rapporti sociali ed è strettamente connesso con le credenze religiose. Per questo, al cibo non può essere associata soltanto un’importanza biologica.

Alla nascita, il nutrimento è indissolubilmente legato al contatto fisico con la figura materna e con tutta una serie di emozioni e di sensazioni attivate da questa esperienza. Winnicot1 afferma che per il neonato il seno della madre è molto più che una semplice fonte di cibo; esso infatti non soddisfa solo il suo bisogno di essere nutrito, ma anche quello di essere accudito ed accarezzato.

1 Winnicot D. W. (1968), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970

(17)

Dal momento della nascita in poi, attraverso l’infanzia e per tutta l’età adulta, l’individuo, nell’atto del mangiare, non nutrirà soltanto il proprio corpo, ma anche il proprio Sé, perché il cibo sarà connesso di volta in volta a sentimenti di appagamento e di sicurezza, oppure di frustrazione e di colpa, di accettazione e di condivisione ecc.

Ogni volta che mangiamo, investiamo l’alimento di un significato che risponde a codici affettivi, relazionali e sociali. Come sostiene la sociologa Deborah Lupton, attraverso l’atto del mangiare noi non incorporiamo soltanto sostanze nutritive, ma “assimiliamo il mondo.” 2

Infatti, fin dal primo giorno di vita mangiamo secondo delle regole e dei codici, quindi ci è impossibile prescindere dalla cultura che fa parte integrante di noi. È per questo che il cibo è fortemente correlato alla soggettività.

In ogni società, le pratiche alimentari assumono precisi significati culturali. Il cibo segna i confini tra le classi sociali, tra le regioni geografiche, segna i cambiamenti di stagione, le feste, i riti di passaggio.

Attraverso la spartizione di uno stesso cibo si celebrano alleanze e si perpetuano riti.

Molte delle nostre relazioni sociali si realizzano intorno ad una tavola, da quelle più intime e familiari a quelle più formali ed ufficiali.

Il solo fatto di classificare una sostanza come “commestibile,” sottintende che essa è stata accettata prima dalla comunità e poi dall’individuo.

2 Lupton D. (1996), L’anima nel piatto, Il Mulino, Bologna, 1999

Deborah Lupton insegna Sociologia dei processi culturali nell’Università di Bathrust (Gran Bretagna)

(18)

10

Dunque, partecipare ad una stessa mensa significa sentirsi parte di un gruppo e rapportarsi ad esso attraverso un linguaggio comune. Condividere il pane, infatti, significa essere compagni (dal latino cum-panis). Dare e ricevere cibo, mangiare insieme, significano accettazione e riconoscimento reciproci e stabiliscono legami che si tessono e si riaffermano ogni volta.

Se l’alimentazione è densa di simboli e di significati sociali e culturali, non lo è di meno l’astensione da essa. La privazione totale o parziale di cibo riveste significati diversi in base al contesto e alle motivazioni.

I gusti e le preferenze personali, per cui alcuni cibi vengono soggettivamente scartati o preferiti ad altri, sono anch’essi legati al progetto di costruzione personale, in quanto sono dimostrazione, per se stessi e per gli altri, di aspetti della propria soggettività.

Esistono poi delle situazioni in cui il cibo viene considerato un vero e proprio tabù. Ad esempio, molte religioni impongono ai fedeli dei periodi di digiuno (pensiamo al Ramadan), oppure delle restrizioni alimentari, attraverso l’elaborazione di un complesso sistema dietetico basato sulla distinzione tra cibi

“permessi” e cibi “vietati.”

Vediamo come il cibo sia in grado di svolgere un ruolo essenziale nel mantenere l’identità etico-religiosa di un popolo, perché ha una capacità straordinaria nel definire le barriere tra “noi” e “gli altri.” 3

3 Bourdieu P. (1983), La distinzione, critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1987

(19)

E ancora, coloro che si dichiarano vegetariani, hanno scelto di includere nella loro alimentazione solo cibi di origine vegetale, per non mangiare la carne di altri esseri viventi.

In altri casi però, l’astensione volontaria dal cibo non è frutto di prescrizioni etiche o religiose, ma rappresenta l’espressione di un disagio.

Ad esempio, lo sciopero della fame è una manifestazione di profondo disappunto che si concretizza nel rifiuto del cibo fino alle estreme conseguenze e in cui il corpo diventa uno strumento di protesta e di rivendicazione.

Si tratta spesso di un atto estremo con cui si cerca di ottenere qualcosa attirando l’attenzione sulla propria condizione di disperazione e di abnegazione nei confronti di una certa causa in cui si crede fermamente.

Il fatto che il digiuno possa rappresentare un mezzo di pressione efficace dimostra che mangiare non è un’azione banale che riguarda la vita privata, ma un atto sociale, attraverso cui possiamo riconoscere o negare l’altro.

(20)

12

1.2 Rifiutare il cibo per accettare se stessi

Se mangiare significa impegnarsi in un rapporto, il rifiuto del cibo diventa un atto di rottura. Possiamo quindi immaginare quanto siano significative quelle gravi pratiche di rifiuto o scempio del cibo che caratterizzano una patologia tipica dei nostri giorni: l’anoressia.

Questa rappresenta un disturbo del comportamento alimentare4 in crescente espansione nel mondo occidentale, soprattutto tra gli adolescenti.

Essa ruota attorno alle problematiche legate all’aspetto fisico e al controllo del corpo, ed è una patologia per cui una persona, di solito una donna, si concentra ossessivamente sul raggiungimento della magrezza, arrivando persino a rifiutarsi di mangiare, nella paura che un piccolo boccone di cibo possa trasformarsi subito in grasso corporeo.

Tale disturbo esprime una sofferenza che va al di là del puro problema nutrizionale e che coinvolge la sfera psicologica e relazionale dell’individuo.

L’anoressia rappresenta dunque non solo una patologia, ma anche una metafora di cui vanno ricostruiti i significati.

4 “Disturbi del comportamento alimentare” (DCA) è la traduzione attualmente accettata dalla comunità scientifica italiana del termine inglese eating desorders. Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata sono i quadri principali, anche se è presente un’ampia categoria di disturbi alimentari atipici. Tra queste, l’Anoressia rappresenta indubbiamente la patologia più grave.

(Fonte: Associazione PR.A.TO. – Prevenzione Anoressia Torino)

(21)

Infatti, arrivare al rifiuto del cibo implica, da parte del soggetto, un’incapacità più o meno consapevole di accettare o di gestire parte della realtà in cui si trova a vivere e di cui il cibo rappresenta uno dei sistemi di comunicazione più importanti.

Anche il corpo affetto da un disturbo dell’alimentazione, come tutti i corpi, è impegnato in un processo di produzione di senso atto a parlare di sé in modo efficace e significativo e ad esprimere i valori che il soggetto desidera incarnare.

A questo proposito, Richard Gordon 5 afferma che le persone anoressiche tendono a giudicare il proprio valore personale principalmente in relazione all’aspetto fisico, concentrandosi sulla ricerca ossessiva della magrezza, obiettivo che diventa per loro più importante di qualsiasi altra cosa.

Esse pongono al centro dei loro interessi il corpo, imponendosi una dura disciplina per modificarlo secondo i propri desideri. Digiuni, diete, esercizi fisici estenuanti sono frequenti nella loro vita quotidiana.

Il corpo ideale, per i soggetti anoressici, è un corpo privo della più piccola quantità di grasso; un corpo etereo, filiforme, frutto del loro impegno e dei loro sforzi, che possa soddisfare il loro bisogno di perfezione e di autonomia e testimoni a tutti la loro straordinaria forza di volontà.

La forma più tipica di anoressia è caratterizzata da un’inedia autoindotta, che si basa sul rifiuto di mangiare una quantità sufficiente di cibo. Ci sono poi delle forme di anoressia che sfociano nella bulimia, in quanto le ragazze mangiano, ma

5 Gordon R. (1990), Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina, Milano, 2004 2

Richard Gordon insegna Psicologia al Bard College di New York. Ha maturato un’esperienza clinica ventennale con pazienti anoressiche e bulimiche ed ha pubblicato diversi saggi sui disturbi del comportamento alimentare.

(22)

14

poi ricorrono a delle pratiche di eliminazione del cibo come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi, affinché esso non venga assimilato dall’organismo.

Spesso le anoressiche negano di avere un problema, affermando di essere in forma, di sentirsi benissimo, di non avvertire né fame, né stanchezza. Il loro progressivo dimagrimento non desta in esse nessuna preoccupazione, anzi diventa addirittura fonte di soddisfazione. Queste ragazze sono orgogliose della propria capacità di autodisciplina, che permette loro di resistere alle tentazioni del cibo e quindi di restare magre.

Il non mangiare diviene un comportamento teso alla loro realizzazione personale.

Esse desiderano apparire al mondo esterno come piene di energia e di resistenza, ma questo stile di vita, così rigidamente controllato e ostinato, non procura loro un reale appagamento, né provoca sicurezza di sé. Infatti, sebbene la loro magrezza sia vissuta come un successo, esse hanno un’immagine negativa di se stesse e tendono a considerarsi delle persone incapaci e non in grado di prendere delle decisioni in modo autonomo per ciò che riguarda la loro vita, eccetto per il discorso del cibo, che controllano alla perfezione.6

Si tratta di persone particolarmente insicure, che cercano, nel raggiungimento di una forma fisica ideale, un modo per accrescere la loro autostima e per essere maggiormente accettate dagli altri, oltre che da se stesse.

6 Lawrence M.: ‘Anorexia Nervosa: the control paradox’. In Woman’s Studies International Quarterly, 2, pp. 93-101

(23)

Secondo il medico e psicoterapeuta Riccardo Dalle Grave7, questa valutazione negativa di sé, che generalmente precede l’esordio della malattia, sembra essere il fattore che induce l’individuo a concentrarsi sul peso e sulla forma del corpo nel tentativo di raggiungere un aspetto fisico ideale che possa farlo sentire più sicuro e più apprezzato.

Hilde Bruch, una delle studiose più importanti riguardo a questa patologia afferma che «i soggetti anoressici soffrono di una profonda insoddisfazione nei confronti di se stessi e della loro vita e trasferiscono tale insoddisfazione sul proprio corpo. Tutti i loro sforzi per raggiungere la magrezza sono diretti a mantenere nascosto il loro senso di inadeguatezza.» 8

Del resto, nella nostra cultura, dominata dal culto della magrezza, è facile pensare che una persona con uno scarso concetto di sé possa scegliere di intraprendere una dieta come mezzo per aumentare la propria autostima e il proprio valore. In questo modo, il cibo può diventare qualcosa da controllare, se non addirittura da evitare.

7 Riccardo Dalle Grave è specialista in Endocrinologia e Scienza dell’Alimentazione. E’

direttore scientifico dell’AIDAP (Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso) e membro di numerose società scientifiche, tra cui Academy of Eating Disorders, World Psychiatric Association, Eating Disorders Research Society.

8 Bruch Hilde, Anoressia. Casi clinici, Milano, Raffaello Cortina, 1988, p.2

La Bruch è una psichiatra tedesca emigrata negli Stati Uniti nel 1940. Ha cominciato ad interessarsi dei disturbi del comportamento alimentare, in particolare dell’anoressia e dell’obesità, già a partire da questo periodo. Il suo primo libro sull’argomento, uscito negli anni Settanta, è stato scritto dopo un’esperienza di ben trent’anni nel campo di tali patologie. E’ stata medico e professore di psichiatria al Baylor College of Medicine di Houston, Texas. Ancora oggi, la Bruch è considerata una delle più importanti studiose nella comprensione e nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare.

(24)

16

E’ evidente che tale patologia tocca profondamente il tema dell’identità.

Un’identità che, come afferma Deborah Lupton, è sempre più rappresentata dall’immagine esteriore che si costruisce attraverso il proprio aspetto fisico e che deve rappresentare un sé perfettamente gestito e regolato, all’interno di una cultura consumistica che ha reso profondamente problematica la gestione della fame e del rapporto col cibo e col proprio corpo.

Parlare dell’anoressia come di un “disturbo dell’alimentazione” è per questa ragione un po’ riduttivo, perché tale definizione non coglie pienamente il significato profondo di tale patologia, che è indissolubilmente legata a problematiche che riguardano lo sviluppo dell’identità.

Infatti, come sostiene Mara Selvini Palazzoli, una delle prime ricercatrici ad occuparsi del fenomeno anoressico in Italia, «l’anoressia è considerata un disturbo alimentare perché implica schemi di alimentazione che si allontanano dalla norma, ma la sua caratteristica principale è l’ossessiva ricerca della magrezza, considerata come l’unico modo per essere apprezzati ed accettati dagli altri .» 9

Secondo Gordon, l’anoressia è una condizione clinica molto complessa e una sua piena comprensione deve tener conto di più fattori: socio-culturali, psicologici e familiari. Tale patologia rappresenta l’espressione di squilibri nell’interazione di queste diverse forze.

9 Mara Selvini Palazzoli, L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 32

La Selvini Palazzoli si è laureata in medicina all’Università di Milano, specializzandosi dapprima in medicina interna e accostandosi successivamente ai problemi di medicina psicosomatica. Ha completato la preparazione psichiatrica e psicoanalitica a Basilea (Svizzera). I suoi studi sull’anoressia sono considerati ancora oggi tra i contributi più importanti e significativi.

(25)

Nel corso di questo capitolo, mi soffermerò in particolare sul contesto socio- culturale all’interno del quale l’anoressia si manifesta.

Essa infatti è un disturbo che interessa prevalentemente il mondo occidentale, quindi non è possibile riuscire a comprenderne l’odierna proliferazione senza un’analisi delle caratteristiche che contraddistinguono questo tipo di società, come il culto della magrezza, il pregiudizio nei confronti del sovrappeso e il cambiamento nel ruolo sociale della donna. L’importanza di questi fattori ha indotto Gordon a parlare dell’anoressia come di un “disturbo etnico,”

riprendendo un concetto con cui Devereux (1955) indicava quei disturbi psicologici che esprimono le contraddizioni e i problemi irrisolti di una cultura.

(26)

18

1.3 L’anoressia come “disturbo etnico”

Lo psicoanalista e antropologo Georges Devereux afferma che esistono delle complesse relazioni tra cultura e psicopatologia, così che certi disturbi psicologici possono divenire espressioni centrali delle angosce e delle tensioni che rappresentano il tratto distintivo di una particolare cultura o di un determinato periodo storico.

Il termine chiave attraverso il quale egli esprime tale concetto è quello di

“disturbo etnico”, dove l’aggettivo “etnico” sta per “tipico di una cultura”.

Devereux si era occupato di patologie psichiche scoperte da alcuni etnologi all’interno di società non occidentali. Tra queste “sindromi culturalmente caratterizzate” vi erano l’amok, una forma di violenza omicida diffusa soprattutto nel Sudest asiatico e il latah, una sindrome da terrore rilevata nella popolazione femminile del Sud del Pacifico. Tuttavia, il suo interesse si estendeva al di là di questi argomenti, in quanto egli si sforzava di comprendere l’ambito della psicopatologia occidentale, applicando il concetto di disturbo etnico alla schizofrenia e ai disturbi ossessivo-compulsivi.

Secondo Devereux, un disturbo etnico è una forma di malattia che, in virtù di dinamiche proprie, arriva ad esprimere le contraddizioni cruciali e le angosce esistenziali di una determinata società.

(27)

In un suo famoso saggio sul rapporto tra normalità e anormalità, Devereux enumera una serie di criteri che permettono di qualificare una sindrome come disturbo etnico: 10

1. Il disturbo si sviluppa più frequentemente nella cultura in questione, rispetto ad altri tipi di patologia psichica.

2. Se esiste una certa continuità tra i sintomi del disturbo e gli elementi

“normali” della cultura, il disturbo costituisce l’espressione intensa di forme precliniche.

3. Il disturbo mostra conflitti fondamentali e tensioni patologiche normalmente diffuse nella popolazione che però, a livello dei singoli individui, possono svilupparsi verso forme acute di ansia e arrivare ad innescare alcuni meccanismi di difesa.

4. Il disturbo è la tappa finale per l’espressione di un disagio psichico e di una grande varietà di problemi personali.

10 Gordon riporta questi criteri dall’opera di Georges Devereux, Normal and abnormal, Universuty of Chicago Press, in Gordon R. (1990), Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina, Milano, 20042, p. 8

(28)

20

5. I sintomi non sono solo l’estensione di atteggiamenti normali e ricorrenti, ma includono spesso comportamenti che, in situazioni normali, vengono considerati altamente positivi.

6. Il disturbo è un disordine fortemente strutturato, che dà la possibilità a chi lo attua di comportarsi in modo deviante, pur rimanendo in un certo senso all’interno di ciò che è socialmente accettato.

7. Poiché il disturbo si fonda su comportamenti apprezzati, ma costituisce al tempo stesso un’espressione di devianza, provoca negli altri risposte ambivalenti: da una parte timore e rispetto, dall’altra invece, reazioni negative e di controllo della devianza. In questo modo, il disturbo acquista una certa notorietà all’interno della cultura e sviluppa un suo particolare modo di proporsi.

Utilizzando come quadro di riferimento il concetto di disturbo etnico proposto da Devereux, Richard Gordon esplora i fattori socio-culturali che sono alla base dell’aumento dei casi di anoressia nel nostro tempo.

Secondo l’autore, si può sicuramente definire l’anoressia come un disturbo etnico, in quanto in essa ritroviamo le caratteristiche elencate da Devereux.

Infatti, l’anoressia esprime, a livello sintomatico, le contraddizioni presenti nell’identità femminile all’interno della società contemporanea.

(29)

Secondo Gordon, il valore attribuito dalla società alle diete e al controllo del cibo viene usato dalla persona anoressica come una difesa, che permette di sfuggire ad un disagio interiore ritenuto intollerabile, il quale, nella maggior parte dei casi, ruota intorno al problema dell’identità.

Devereux afferma che i sintomi di un disturbo etnico rappresentano l’esagerazione dei valori dominanti in una certa cultura e che pertanto costituiscono sia un’affermazione, sia una sconfessione di tali valori.

Perciò, la risposta sociale nei confronti del disturbo è ambivalente. Da una parte, coloro che ne sono affetti suscitano ammirazione, dall’altra vengono invece considerati dei devianti o dei ribelli.

A questo proposito, Hilde Bruch ha rilevato che le persone anoressiche incutono rispetto, ma anche timore, a causa dell’universalità della paura umana per la fame; coloro che se la procurano volontariamente suscitano sentimenti ambivalenti di ammirazione e di terrore al tempo stesso.

Eppure, pur sapendo di provocare tali sentimenti, le pazienti anoressiche ammettono spesso la segreta gratificazione che provano quando sentono di essere temute e al tempo stesso ammirate. Il disturbo diviene infatti una parte importante della loro identità. Come ha osservato una paziente della Bruch, ella non avrebbe mai potuto rinunciare alla sua malattia, perché altrimenti si sarebbe sentita “niente.” 11

11 Si veda il caso di Betty in Bruch H., (1988), Anoressia. Casi Clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. 49

(30)

22

Descrivendola, la terapeuta afferma che «il non mangiare le dava potere; ogni chilo perduto era come un tesoro che andava ad aggiungersi al suo potere e da questo accumulo di potere le derivava un peso di tipo diverso, il diritto di essere riconosciuta come individuo.»

L’anoressia ha anche una connotazione politica, perché è strettamente connessa alla questione della femminilità e della conformità agli standard di bellezza tipici della cultura occidentale e per tanto è stata spesso utilizzata in nome della causa femminista.

L’emaciazione delle anoressiche funge da caricatura delle richieste irrealistiche di magrezza proprie della cultura moderna,12 proprio perché ne rappresenta l’adesione estrema.

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che una delle funzioni culturali dell’anoressia è stata ed è tuttora quella di provocare una discussione sui rischi legati ai regimi dietetici, esattamente come l’isteria provocò, a suo tempo, una critica della repressione sessuale femminile.

Si tratta dunque di una patologia che ha acquisito una certa notorietà all’interno del mondo occidentale e anche questa caratteristica è annoverata da Devereux tra i criteri per qualificare un disturbo come etnico.

Egli definisce i sintomi etnici come “comportamenti sociali anti-sociali,”

perché permettono all’individuo di adottare comportamenti antisociali secondo

12 E’ possibile approfondire questo concetto in I. Story, “Caricature and impersonating in other:

Observations from the psychotherapy of anorexia nervosa”, in Psychiatry, 39, 1976, pp. 176- 188

(31)

una modalità socialmente approvata. Gordon fa notare che ciò avviene anche nel caso dell’anoressia.

In effetti, il sintomo principale di questa malattia, che consiste in una progressiva perdita di peso dovuta a pesanti restrizioni alimentari, rappresenta l’esasperazione di atteggiamenti che, nella nostra società, non solo sono considerati normali, ma vengono anche connotati come altamente positivi.

Ricorrere ad una dieta, comportamento così in voga nel mondo occidentale, soprattutto tra le donne, è considerato come un segno di autocontrollo e di cura personale, oltre che un modo per essere più attraenti e quindi avere maggior successo nelle relazioni sociali.

L’anoressia è quindi un disturbo socialmente strutturato; una possibilità “alla moda” di distinguersi attraverso l’attuazione di comportamenti estremi, pur rimanendo all’interno di ciò che viene socialmente accettato, ovvero il culto della magrezza.

(32)

24

1.4 Il paradosso della società occidentale: l’invito al consumo e il culto della magrezza

Abbiamo visto che, secondo Deverux, ogni epoca sviluppa le proprie forme di patologia, che esprimono, in forma amplificata, le angosce e i problemi irrisolti di una cultura. Questa affermazione descrive molto bene ciò che accade nel caso dell’anoressia.

Gli studi condotti su tale disturbo, di cui la medicina ha iniziato ad occuparsi appena un secolo fa e che oggi ha assunto proporzioni endemiche, dimostrano che la sua diffusione è direttamente proporzionale al livello di benessere economico raggiunto da una società.

Infatti, essa è praticamente sconosciuta nei paesi del Terzo Mondo, dove predominano povertà e scarsità di alimenti, mentre si riscontra nei paesi occidentali, caratterizzati da una grande abbondanza e disponibilità di beni.13

Come afferma Hilde Bruch, «il rifiuto del cibo, qualunque ne siano lo scopo e il significato, sarebbe uno strumento privo di effetti in un ambiente di povertà e

13 Richard Gordon afferma che l’anoressia è una patologia rara nei paesi non occidentali e che le persone che emigrano da questi ultimi verso i paesi ricchi sviluppano più facilmente questo disturbo rispetto a quelle rimaste nel paese d’origine.

Questa tesi è confermata dal Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali IV pag. 629, dove si legge che gli immigrati da culture in cui la frequenza del disturbo è bassa verso paesi a prevalenza maggiore, possono sviluppare l’anoressia nervosa mano a mano che assimilano il valore conferito alla magrezza.

(33)

di carestia. L’autocondanna alla fame si osserva solo in condizioni di sufficiente o abbondante disponibilità di cibo.» 14

Verrebbe da dire che, in effetti, non si può rifiutare ciò di cui non si dispone e ciò spiegherebbe in modo semplicistico l’assenza di tale patologia nei paesi poveri. Ma in realtà, è bene concentrarsi su un aspetto paradossale che caratterizza il mondo occidentale: nella società dei consumi, dove il cibo è abbondante e disponibile, l’imperativo categorico diventa la magrezza.

Pensiamo ai messaggi pubblicitari: essi reclamizzano i cibi invitandoci ad una soddisfazione costante ed immediata dei nostri desideri alimentari.

Eppure, in televisione o sulle riviste popolari, le immagini di cibi succulenti si alternano alla pubblicità delle diete e dei prodotti dimagranti, delle ricette ipocaloriche e degli attrezzi ginnici per perdere peso e rimanere in forma.

Il contrasto tra questi messaggi è evidente: da una parte essi invitano i consumatori ad abbandonarsi al piacere del cibo, dall’altra li esortano a padroneggiare i loro desideri nel nome della forma fisica.

L’antropologa Mary Douglas15 sostiene che il corpo abbia una funzione simbolica importantissima, perché il suo linguaggio è metafora della cultura a cui appartiene. Quella occidentale attribuisce un grande valore all’aspetto fisico e in particolare alla magrezza, considerata indice di buona salute e di cura personale.

Per questo, ogni anno moltissime persone decidono di iniziare a seguire una dieta.

14 Bruch H. (1973), Patologia del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 26

15 Douglas M. (1975), Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Il Mulino, 1985

(34)

26

Come afferma Deborah Lupton, le scelte legate al consumo del cibo, oltre ad agire simbolicamente come pratiche per la costruzione della soggettività, agiscono anche sul corpo, influenzandone la forma, la taglia e la composizione organica.

Dunque, saper controllare il proprio corpo attraverso un attento regime dietetico serve non solo ad avere un fisico più sano e più snello, ma anche a mostrare agli altri la nostra capacità di autodisciplina.

Mara Selvini Palazzoli fa notare che «nei tempi e negli ambienti ove il cibo era privilegio di pochi, essere grassi rappresentava un segno di distinzione.

Nella società occidentale invece, caratterizzata dalla sovrabbondanza alimentare, per distinguersi occorre essere magri.»16

Secondo l’opinione comune, un corpo in sovrappeso parla di ingordigia e di mancanza di autocontrollo, mentre un corpo magro è sinonimo di equilibrio e di cura personale.

Esso codifica l’ideale di un Sé perfettamente gestito, in cui tutto viene mantenuto in ordine, nonostante le contraddizioni della cultura consumistica.

La scelta di un determinato regime alimentare coincide quindi con la scelta dell’aspetto che si intende conferire al corpo, in quanto la dieta pone la responsabilità dell’aspetto fisico e del suo mantenimento direttamente nelle mani dell’individuo.

Così, il corpo può essere fonte di grande orgoglio e realizzazione, soprattutto se si conforma al vigente concetto di bellezza e di accettabilità sociale, ma può

16 Selvini Palazzoli M., L’anoressia mentale, dalla terapia individuale alla terapia familiare, Feltrinelli, Milano, 19958, p. 58

(35)

essere anche fonte di ansia e di vergogna. I messaggi pubblicitari che reclamizzano alimenti ipocalorici o dimagranti puntano proprio su questi sentimenti negativi per invogliare i potenziali clienti ad acquistare i loro prodotti.

Il potere dei mezzi di comunicazione, pur non essendo assoluto, è comunque molto forte e pervasivo.

L’influenza che essi hanno sulla diffusione del canone estetico della magrezza e sul conseguente aumento delle diete emerge da un’indagine svolta da Anna Becker, un’antropologa della Harvard Medical School, sul cambiamento di attitudini verso il cibo e l’ideale corporeo degli adolescenti delle isole Fiji.17

Nel piccolo arcipelago si è sempre apprezzato, per tradizione, un fisico massiccio e “rotondeggiante,” ma dopo l’arrivo della televisione, avvenuto nel 1995, si è verificato un elevato incremento delle diete.

Secondo la Becker, la spiegazione di questo fenomeno è legata alle immagini e ai valori veicolati dai programmi televisivi occidentali, che esaltano l’ideale del corpo magro.

17 Questo studio è riportato in Gordon R. (1990), Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina, Milano, 2004 2, pp. 140-141.

(36)

28

1.5 L’ adolescenza, un’età a rischio

Sono gli adolescenti le persone più vulnerabili nei confronti dei messaggi relativi alle diete e all’ideale della magrezza. Infatti è noto che l’anoressia si manifesta soprattutto in quella fascia di età caratterizzata da profonde trasformazioni psichiche e somatiche che è appunto l’adolescenza.

Lo psicoterapeuta familiare Luigi Onnis18 spiega che, in questa fase del processo evolutivo, l’adolescente deve confrontarsi col problema critico di definire la propria identità e al tempo stesso deve differenziarsi come individuo dotato di una propria singolarità e capace di gestire la propria autonomia.

Atteggiamenti dimostrativi, provocatori e di antagonismo, soprattutto nei confronti del mondo adulto e in particolare dei genitori, esprimono proprio il bisogno dell’adolescente di definirsi come persona differenziata e autonoma.

Il senso di autonomia e di indipendenza è fondamentale per un adolescente, perché gli permette di distanziarsi dal quadro familiare e di integrarsi in nuovi spazi di vita in cui confrontarsi con gli altri e fare evolvere la propria identità.

Ai futuri anoressici, questo processo di separazione e di individuazione appare impossibile. Superficialmente, la relazione con i genitori sembra buona, ma in

18 Onnis L, Il tempo sospeso, Franco Angeli, Milano, 2004

Luigi Onnis è Professore di Psichiatria, Psicologia Clinica e Psicoterapia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Coordina da anni, presso il Servizio universitario di Terapia Familiare, un gruppo di ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare.

(37)

realtà è troppo stretta e coinvolgente e non permette ai figli di acquisire una vera e propria indipendenza.

Hilde Bruch descrive i suoi pazienti anoressici, quasi tutti di sesso femminile, come persone molto fragili e insicure, dominate da una sensazione costante di inefficienza che li rende incapaci di sentirsi padroni del proprio destino. Ella spiega che le origini di questa mancanza di sicurezza in se stessi sono da ricercare nella «benintenzionata ma altamente intrusiva attenzione fornita loro dai genitori.» 19

Ciò spiega perché il disturbo si manifesta soprattutto nell’adolescenza;

cresciuti in famiglie che non li hanno mai incoraggiati a divenire autonomi, questi ragazzi, trovandosi per la prima volta davanti a situazioni che richiedono indipendenza e iniziativa personale, si scontrano con sentimenti di incapacità e insicurezza che non permettono loro di affrontare le sfide della vita e di relazionarsi adeguatamente agli altri.

Mara Selvini Palazzoli afferma a questo proposito che «una persona anoressica non è in grado di sperimentare se stessa nei rapporti inter-personali e quindi trasporta tale potere nel rapporto intra-personale, concentrandosi sul proprio corpo.» 20

In tal modo, l’anoressia rappresenta un mezzo per acquisire un certo senso di sicurezza che il soggetto sente di non possedere in altri ambiti.

19 Bruch. H. (1988), Anoressia. Casi clinici. Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. XIV

20 Selvini Palazzoli M., L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 101

(38)

30

Del resto, se nella società in cui viviamo la pressione alla magrezza è così intimamente legata alla bellezza e alla virtù, può succedere che personalità più deboli si convincano che, per essere accettate, debbano diventare magre.

Il controllo del corpo attraverso il controllo del cibo rappresenta quindi, da un lato l’espressione di una grande forza e determinazione interiori, ma dall’altro la manifestazione di una forte eterodizione, cioè di un grande bisogno di approvazione e di desiderabilità sociale.

In una fase così delicata dello sviluppo, in cui i ragazzi devono confrontarsi con i cambiamenti che avvengono nel loro corpo e con i modelli imposti dalla società, la dieta può offrire l’illusione di poter assumere il controllo della propria vita e può presentarsi come uno strumento che dà sicurezza in un periodo tanto ricco di incertezze.

Col tempo però, il fatto di riuscire a dominare la fame genera un senso di sicurezza a cui diventa difficile rinunciare per una persona che si sente così profondamente fragile e il rifiuto del cibo può diventare una vera e propria ossessione.

(39)

1.6 L’esordio della malattia: la dieta

L’accento ossessivo che il mondo occidentale pone sull’aspetto fisico e sull’importanza della magrezza, condannando il sovrappeso come brutto e indesiderabile, ha sicuramente un ruolo importante nel far credere a molte persone, soprattutto a quelle che hanno una scarsa stima di se stesse, che un modo per essere socialmente accettate sia l’essere esili.

Hilde Bruch e Mara Selvini Palazzoli concordano nell’affermare che questo sia un motivo che spesso può indurre un individuo ad intraprendere una dieta.

Alcune loro pazienti anoressiche hanno affermato esplicitamente che essere continuamente inondate da immagini di corpi magri e perfetti abbia un qualche ruolo nel rafforzare il loro desiderio di perdere peso e quindi nel renderle maggiormente determinate a perpetuare il loro rifiuto del cibo.

Tuttavia, la Bruch osserva che, il più delle volte, le persone che poi sviluppano l’anoressia, quando si mettono a dieta non sono affatto grasse.

Ciò dimostra che il ricorso a pratiche dimagranti non sia in esse effettivamente legato all’eccedenza ponderale, ma ad una qualche profonda insoddisfazione interiore.

É dunque l’esigenza di poter essere rispettati e di piacere agli altri a rappresentare il fattore scatenante. Si tratta infatti di persone assai insicure e con una stima di se stesse molto bassa, che cercano di acquisire valore sottoponendosi a regole alle quali una qualunque persona non saprebbe reggere.

(40)

32

Per i soggetti anoressici, il fatto di perdere peso rappresenta una fonte di sicurezza, perché è possibile verificare in qualunque momento e in modo quantificabile i risultati raggiunti e ciò offre loro un profondo senso di autocontrollo e di autoefficacia, che in altri ambiti della loro vita sentono di non possedere.

Spesso, l’inizio di una dieta ferrea coincide con il momento in cui l’individuo deve affrontare delle esperienze nuove, per esempio il trasferimento in un’altra città, o l’ingresso in una nuova scuola. Queste rappresentano delle situazioni in cui è necessario confrontarsi con altre persone e con i loro giudizi.

Un gruppo di pazienti della Bruch, costituito da 45 ragazze ammalatesi in una fascia di età compresa tra i 10 e i 26 anni, indicava un momento abbastanza ben definito in cui ebbe inizio la malattia, ricordando anche l’avvenimento in cui si erano sentite troppo grasse e avevano avvertito l’esigenza di dimagrire, attraverso il ricorso ad un regime alimentare particolarmente restrittivo.

Alcune hanno dichiarato di essersi sentite a disagio perché non si vedevano abbastanza magre e atletiche e temevano di essere giudicate male per questo.

Altre hanno ammesso di aver iniziato la dieta in seguito a qualche commento sgradevole sul loro aspetto fisico.

Una di loro, Paula, raccontava di aver patito un grande disappunto quando nessun ragazzo l’aveva invitata al ballo studentesco. Per lei, questa era stata un’umiliazione pubblica che l’aveva fatta sentire brutta e indesiderabile. Ecco come la ragazza descrive il momento in cui pensò di mettersi a dieta: «Rimasi senza nessuno che mi accompagnasse al ballo e questo mi sconvolse, perché ero

(41)

preoccupata di ciò che gli altri avrebbero pensato. Così decisi che avevo bisogno di perdere un po’ di peso.» 21

Dai racconti di queste pazienti emerge che, all’inizio, la loro decisione non sembrava diversa da quella di tante ragazze che, in una società come la nostra, in cui la magrezza ha un grande valore, stanno attente al loro peso, ma se al primo calo ponderale seguivano elogi ed ammirazione, le ragazze cominciavano a trovare piacere nell’essere ancora più magre e quindi restringevano ulteriormente la loro alimentazione.

In effetti, sostiene la Bruch, l’accanita determinazione con cui le anoressiche si dedicano a questo loro compito le differenzia dalle normali adolescenti grassottelle che vogliono perdere peso.

Intanto, come abbiamo già detto, nella maggior parte dei casi, quando le anoressiche iniziano la dieta non hanno un reale problema di sovrappeso, inoltre, esse insistono nel dire di non aver fame e di non aver bisogno di mangiare, quando invece l’individuo normale riconosce l’entità del sacrificio che deve compiere per mantenere la linea.

La Bruch spiega che il significato di questo timore di essere grasse si chiarisce soltanto nel corso di una psicoterapia intensiva, quando se ne scopre il nesso con i problemi di fondo della personalità, i quali rendono queste giovani estremamente vulnerabili ad ogni critica, che sentono come riprova di non meritare rispetto.

21 Si veda il caso di Paula in Bruch H., Anoressia. Casi Clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p.37

(42)

34

La studiosa fa notare inoltre come, paradossalmente, l’astensione dal cibo, esercitata allo scopo di diventare più attraenti e più rispettate, non migliori affatto i rapporti interpersonali; a mano a mano che il peso decresce infatti, queste ragazze tendono a ritirarsi sempre più in se stesse, fino all’isolamento estremo.

La loro vita ruota in modo ossessivo attorno al problema del controllo del cibo, che diventa così non più un piacevole momento di incontro, ma un nemico contro cui lottare ogni giorno, da rifiutare o controllare con regole rigidissime.

(43)

1.7 Il disturbo anoressico: un linguaggio soprattutto al femminile

L’importanza attribuita alle diete e all’aspetto fisico influenza soprattutto le donne, costantemente esposte a messaggi ed immagini che propongono modelli di bellezza femminile sempre più magri.

Non è un caso che l’anoressia e i disturbi del comportamento alimentare in genere prevalgano nel sesso femminile rispetto a quello maschile con un rapporto di 9 a 1.22

Basta sfogliare casualmente qualche rivista femminile per rendersi conto della forte pressione che viene esercitata sulle donne in tema di bellezza e di forma fisica. E’ praticamente impossibile trovare una rivista che non abbia in copertina immagini di donne magre ed estremamente curate e che, oltre alla promozione di abiti e di cosmetici, non presenti articoli su come perdere peso attraverso diete e trattamenti di vario genere.

Solitamente, nei titoli di tali articoli sono presenti degli imperativi e il linguaggio usato, molto sintetico ed incisivo, fa spesso ricorso a termini tipici dell’ambiente militare: “dichiara guerra al grasso,” “elimina i cuscinetti adiposi,”

“brucia i chili di troppo,” “combatti la cellulite.” Tali messaggi inneggiano alla

22 Dalle Grave Riccardo, Alle mie pazienti dico..., Positive Press, 1998

(44)

36

bellezza e alla magrezza come obiettivi che ogni donna deve porsi e che possono essere raggiunti con costanza e forza di volontà.

Gordon riporta un sondaggio pubblicato dalla rivista ‘Glamour’ negli anni Ottanta, basato su un campione di 32.000 donne appartenenti a varie fasce di età e con occupazioni diverse: il 75% di esse sentiva di essere troppo grassa, anche se, da un punto di vista medico, solo il 25% era realmente in sovrappeso.23

Questo dimostra quanto gli stereotipi di bellezza comunemente diffusi nel mondo occidentale incidano profondamente sulla percezione che le donne hanno del proprio corpo.

Gordon afferma che, per le più vulnerabili e insicure, l’interiorizzazione del modello estetico dominante può rappresentare una soluzione patologica al problema dell’identità, in quanto consente di ridurre il disagio causato da sentimenti di debolezza e di inadeguatezza. In questa prospettiva, i disturbi del comportamento alimentare esprimono i problemi latenti dell’identità femminile.

Le ragazze anoressiche sono molto vulnerabili nei confronti dei messaggi culturali relativi alle diete, che creano l’illusione di poter assumere il controllo della propria vita modificando il proprio corpo.

La Bruch racconta di una sua paziente di nome Megan, la quale andava molto fiera della sua magrezza: ella descriveva la sua sensazione di trionfo quando poteva far voltare la gente nei negozi di abbigliamento, domandando un capo che avesse taglia 40: «Era come se tutte le persone presenti provassero un senso di invidia e di rispetto nei miei confronti» - diceva orgogliosa.

23 “Feeling fat in thin society”, in ‘Glamour’, febbraio 1984, pp. 198-201

(45)

E ancora: «Il mio peso deve rimanere al di sotto dei 45 chili...quella del cibo è l’unica realtà su cui sento di avere il controllo. Non voglio perdere il controllo del mio peso, del mio corpo. Voglio essere sempre considerata una ragazza magra.» 24

Oltre al culto della magrezza e alla mania occidentale delle diete, c’è un altro fattore da considerare per cercare di capire perché l’anoressia sia una patologia sopratutto femminile: il cambiamento delle aspettative sociali nei confronti delle donne. Per comprendere meglio questo argomento, mi soffermerò sulla nozione di “genere femminile.”

1.7.1 Il concetto di “genere femminile”

Quando parliamo di “genere” ci riferiamo alla costruzione sociale delle categorie del maschile e del femminile e quindi all’insieme dei ruoli che vengono attribuiti dalla società ad una persona, esclusivamente sulla base dell’appartenenza sessuale.25 Con tale nozione si intende sottolineare un insieme di attributi e di caratteristiche attitudinali e comportamentali che si ritengono adeguati ad un uomo ed una donna e, ancora prima, ad un bambino e ad una bambina.26

Ne deriva che il genere non sia una diretta conseguenza delle caratteristiche sessuali, ma rispecchi piuttosto il contesto socio-culturale del proprio tempo.

24 Bruch H. (1988), Anoressia. Casi clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. 117

26 Busoni M., Genere, sesso, cultura, Carocci, Roma, 2000

(46)

38

Infatti, un compito ritenuto di stretta pertinenza maschile in una determinata società, può essere svolto da donne in un altro tipo di società.

Ciò dimostra che la divisione dei ruoli non risponde a nessun criterio naturale, ma è frutto dell’educazione e della cultura di appartenenza.

In quanto costrutto culturale, il genere si oppone al sesso, che è invece un dato biologico. Si parla quindi di “identità di genere” per riferirsi al modo in cui l’essere donna o l’essere uomo vengono prescritti socialmente.

Il potere di procreare della donna è stato in molte società, compresa la nostra, un elemento che ha caratterizzato la divisione dei compiti e la distinzione dei ruoli tra maschio e femmina. Ciò sembra essere vero ancora oggi. A questo riguardo, è interessante considerare il IV rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, che tratta ampiamente della percezione che i ragazzi hanno dei ruoli maschili e femminili.27

In questa ricerca emerge che i giovani hanno una visione interpretativa dei ruoli di genere di tipo paritario. Essi riconoscono l’interscambiabilità dei ruoli domestici e la compartecipazione dei partner nel mantenere la famiglia e nel prendere decisioni.

27 Si tratta di una ricerca condotta su un campione rappresentativo di individui tra i 15 e i 29 anni, intervistati in tutte le regioni d’Italia. Questo studio, pubblicato nel 1997, è stato preceduto da altri rapporti (1984, 1988 e 1993) ed è contenuto in Stagi L., La società bulimica, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 28-29.

L’Istituto IARD, fondato nel 1961, è un ente senza scopo di lucro, attivo nel campo della ricerca sociologica, finalizzata all’individuazione e allo studio dei processi culturali, educativi e formativi, con un approccio a tutto campo che integra le diverse scienze sociali. Presente sul territorio nazionale con un’attenzione costante all’evoluzione di atteggiamenti e comportamenti, l’Istituto IARD pone al centro delle proprie attività di ricerca l’osservazione dei fenomeni legati alla condizione giovanile, analizzata sia nei suoi aspetti strutturali, sia all’interno delle proiezioni sociali che dei vissuti individuali.

(47)

Tuttavia, la cura e l’educazione dei figli sono attività attribuite in modo specifico alla donna, che è generalmente vista come pronta a sacrificarsi per la famiglia in misura superiore all’uomo.

Come si può notare, anche se collocata in una prospettiva formalmente paritaria, l’identità femminile sembra quindi ancora giocarsi nell’ambito familiare, mentre quella maschile risulta maggiormente legata al ruolo professionale. Il successo nel lavoro è considerato da molti giovani più importante ai fini della realizzazione personale dell’uomo, rispetto a quanto lo sia per la donna. Inoltre, i due terzi del campione considerato evidenziano lo stereotipo della bellezza come importante attributo femminile.

L’analisi di questi dati è particolarmente significativa perché mostra come certe convenzioni relative ai ruoli di genere siano estremamente radicate, tanto da essere diffuse anche tra i giovani, dai quali ci si aspetterebbe un atteggiamento più rivolto al cambiamento.

La psicologa Jean Baker Miller afferma che, nelle donne, malgrado i mutamenti promossi dal femminismo, la percezione del proprio valore sia ancora largamente determinata dall’esigenza di aiutare ed assistere gli altri, in particolare i membri della propria famiglia, secondo un modello che richiede la subordinazione dei propri bisogni a quelli altrui. 28

28 Jean Baker Miller, Towards a New Psichology of Woman, Beacon Press, Boston, 1976.

Jean Baker Miller ha dato grandi contributi nel campo della psicologia femminile.

(48)

40

Concorda con quest’idea Carol Gilligan,29 quando afferma che le donne tendono a giudicare molto se stesse in base alla loro capacità di prendersi cura delle cose e delle persone.

E’ evidente come le definizioni sociali dell’identità di genere e dei ruoli che ad essa vengono attribuiti, costituiscano un sistema di riferimento costante per l’individuo, un modello che orienta i vissuti soggettivi riguardo all’integrazione sociale, al senso di adeguatezza personale, all’autovalutazione e all’autostima. 30

Secondo Elena Faccio, i problemi nascono quando le aspettative sociali riguardo ai ruoli di genere cominciano a presentare delle incongruenze e delle discontinuità che riflettono le contraddizioni derivanti da una società in mutamento. In questo quadro, se le richieste della società appaiono difficili da assecondare, l’individuo può sentirsi profondamente insicuro e inadeguato.31

È ciò che accade oggi a molte donne, le quali sentono che, da un lato, le aspettative sociali nei loro confronti sono cambiate e si richiede loro di essere autonome, intraprendenti e di avere successo in campo professionale, mentre

29 Gilligan C. (1982), In a different voice. Psychological theory and woman’s development, Harvard University Press; trad. It. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano, 1987.

Carol Gilligan è tra le più note studiose americane. Attraverso i suoi studi sulla formazione del giudizio morale nell'adolescenza ha proposto una teoria della differenza femminile che ha avuto grande influenza culturale in diversi campi disciplinari, sul pensiero femminista e nel modo comune di rappresentare i rapporti di genere.

30 Saraceno C., Pluralità e mutamento. Riflessioni sull’identità al femminile, Franco Angeli, Milano, 1987

31 Faccio E., Il disturbo alimentare, Carocci, Roma, 1999

(49)

dall’altro, esse si sentono ancora condizionate da un tipo di educazione che ha inculcato loro i valori tradizionali della famiglia e della maternità.

Sorge allora un conflitto tra due linee d’azione: perseguire il successo individuale, che in un certo senso comporta l’assunzione di un ruolo maschile, oppure diventare pienamente femminile e perciò subordinata ai bisogni altrui.

Si tratta di prospettive contrastanti, che contribuiscono a generare, nei soggetti più vulnerabili, un autentico disagio psicologico.

1.7.2

Le contraddizioni culturali intorno al ruolo attribuito alle donne

La condizione femminile contemporanea risulta piuttosto problematica perché il ruolo attribuito alle donne è fonte di richieste molteplici e spesso contrastanti.

Infatti, il valore che, nelle società occidentali, viene attualmente attribuito al successo e alla riuscita delle donne, rappresenta una brusca inversione di tendenza rispetto alle precedenti definizioni di ruolo basate sulle tradizionali virtù femminili della condiscendenza e della cura degli altri.

Tuttavia, la maggioranza delle donne sente che, accanto ad accresciute aspettative di successo e di riuscita, resta forte la pressione verso la femminilità tradizionale, basata sulla compiacenza e la passività.

(50)

42

La cultura di massa ha mitizzato il concetto della “superdonna,” 32 capace e ambiziosa, ma anche sensuale e materna. Questa immagine di donna ideale assomma in sé caratteristiche maschili, legate al successo, all’autorealizzazione, all’autonomia e all’indipendenza e al tempo stesso caratteristiche femminili, legate alla bellezza, alla seduzione e alla maternità.

Secondo la Bordo, molte donne vorrebbero riuscire a raggiungere questo modello di perfezione, ma conciliare tutti questi ruoli è un’impresa estremamente difficile.

Dalle Grave sostiene che, nello strenuo tentativo di riuscire in tutti questi ruoli, è possibile che alcune donne sentano di non avere il controllo sulla propria vita e lo ricerchino quindi nella dieta e nella forma del corpo, cioè in un ambito in cui riescono ad esercitarlo in maniera assoluta e personale.

Mara Selvini Palazzoli evidenzia come la «maggiore presenza di ragazze anoressiche si riscontri in quelle famiglie in cui non hanno trovato spazio i cambiamenti culturali.

Così, le ragazze si sentono divise tra un bisogno di autonomia e di realizzazione personale e una richiesta di adesione ai valori femminili tradizionali della sottomissione e della compiacenza. Per questo, esse si trovano come imbrigliate in una doppia spinta di senso contrario che le disorienta.»

Anche Hilde Bruch concorda con le osservazioni della Palazzoli affermando che: «a ragazze educate fin da piccole ad assumere un ruolo passivo e

32 Il concetto di “superdonna” è stato creato dalla giornalista Ellen Goodman. Si veda il suo Close to home, Simon and Schuster, New York, 1979. Un mamifesto di tale ideologia è contenuto in un libro scritto da Helen Gurley Brown, la direttrice di ‘Cosmopolitan’, dal titolo Having It All, Pockets Books, New York, 1982.

(51)

compiacente, la società chiede di diventare, nel corso dell’adolescenza, donne di successo. Questo sembra essere all’orizzonte di gravi problemi di identità e di una mancanza di sicurezza. Nella loro remissività, queste giovani scelgono il dettame della magrezza per mostrarsi degne di rispetto.»

(52)

44 Alcune immagini tratte da riviste femminili in cui viene esaltato

l’ideale della magrezza.

Riferimenti

Documenti correlati

Parlando di telemetria e di Luna, vediamo ora come il problema della determina- zione della distanza Terra - Luna sia stato affrontato due millenni dopo

Il gioco “Indovina Chi?” prevede due tavolette, su ciascuna delle quali sono raffigurati gli stessi 24 personaggi. Questi stessi personaggi sono rappresentati

In queste imprese, anche il capitale sociale del successore è molto alto ed i successori comu- nicano di frequente con i membri della famiglia, con i dipendenti esterni alla

In particolare l’ipotesi “a caso” ci permette di affermare che la visita al bar può avvenire ogni giorno della settimana con la stessa probabilità. E questo giustifica la

Scommessa 10€ sulla prima dozzina (o sulla seconda): in caso di vincita viene restituita 2 volte la puntata.. Scommessa 10€ su un numero singolo: in caso di vincita viene

Se il Giocatore Offensivo resta senza Carte Incontro durante il proprio turno e deve giocarne una, il suo turno termina immediatamente (questo può succedere a causa di un

Dai dati pubblicati dal Ministero della Salute, le donne con disturbo depressivo sono quasi il doppio degli uomini anche tra gli utenti dei servizi specialistici per la salute mentale

«Anche nel gioco degli scacchi, grazie ad una certa regola (piu propriamente: grazie ad un intero sistema di regole), certe azioni psicofisiche ricevono un nuovo significato