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Se i significati connessi al digiuno sono cambiati nel corso del tempo, ciò che è sempre rimasto preminente è il tema dell’autocontrollo sui desideri del corpo. Un dato interessante è che questo tipo di disciplina ha da sempre riguardato quasi esclusivamente le donne. Nel Medioevo ad esempio, molte sante erano anoressiche: infliggersi la fame in segno di devozione religiosa era una pratica tipicamente femminile.

Lo studioso americano Rudolph Bell,33 ha analizzato i casi di donne italiane riconosciute ufficialmente dalla Chiesa come sante o beate, arrivando a sostenere che l’anoressia da esse esibita avesse in comune molte caratteristiche comportamentali con la moderna anoressia.

33 Bell R. (1987), La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo ad oggi, Laterza, Roma, 1987

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Come le pazienti attuali, la maggior parte delle sante anoressiche cominciava a digiunare nell’adolescenza, di solito per superare un senso di inadeguatezza o come ricerca di perfezione morale e spirituale.

Il loro comportamento di radicale ascetismo, che rendeva i loro fragili corpi asessuati e sterili, le escludeva dalla vita coniugale e le poneva in aperta sfida con la famiglia, che sperava di vederle sposate.

La maggioranza di queste donne ricorreva alla privazione volontaria del cibo come segno di protesta contro le limitazioni convenzionali imposte al ruolo femminile.

Per esempio, per Santa Caterina da Siena, nata a metà del XIV secolo, il rifiuto del cibo rappresentava un tentativo di ribellione e di affermazione del proprio sé all’interno di una società nella quale l’autonomia femminile poteva essere raggiunta quasi esclusivamente attraverso la religione.

Vandereycken e Van Deth34 mettono in luce come il corpo sottile della santa anoressica, che soffriva di digiuno con spirito ascetico, fosse diverso dal corpo della ragazza anoressica moderna, proprio perché nel corso del tempo è cambiato il contesto che fa loro da cornice.

Oggi infatti, il digiuno non conserva più alcuna finalità di elevazione morale e spirituale, ma rappresenta l’adeguamento ad un ideale di bellezza, che porta con sé l’espressione di un disagio rispetto al proprio tempo, il quale, come scrive

34 Vandereycken W., Van Deth R. (1994), Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo nella storia, Raffaello Cortina, Milano, 1995

Ricalbuto35 «si fa riflesso di una società non più fondata sull’etica, ma sull’estetica.»

La prima descrizione medica dell’anoressia risale al 1689, anno in cui il medico inglese Richard Morton diede notizia di una sindrome da deperimento che egli definì di origine nervosa, perché non accompagnata da altri sintomi come la febbre o la tosse, tipici della consunzione. 36

Morton descrisse i connotati essenziali della malattia: disturbo dell’appetito, estremo dimagrimento, amenorrea, incessante attività fisica e rifiuto di qualsiasi forma di cura.

L’attenzione dei medici si rivolse alla malattia soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, quando il medico inglese Sir William Gull e il neurologo francese Charles Lasègue pubblicarono alcuni lavori su diversi casi di digiuno volontario.

Lasègue descrisse il fenomeno adottando la definizione di “anoressia isterica,”

Gull invece, coniò il termine “anoressia nervosa.” L’utilizzo di un nome diverso intendeva sottolineare un’importante differenza: in quel periodo infatti, per i clinici, la sofferenza isterica era considerata tipica del genere femminile, ma nella sua esperienza, Gull ebbe in cura anche pazienti maschi, con una sindrome sovrapponibile a quella riscontrata nelle donne.

35 Ricalbuto A., ‘L’anoressia: dalle origini all’attualità. Un omaggio al femminile,’ in www.psychomedia.it

36 Le informazioni relative alla storia dell’anoressia contenute in questo paragrafo sono state tratte da Gull W., Lasegue E. C. (1873), La scoperta dell’anoressia, Mondadori, Milano, 1998 e da Gordon R., (1990) Anoressia e bulimia. Aanatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina, Milano, 20042

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A partire dal secondo decennio del Novecento e fino alla fine degli anni Trenta, il problema dell’anoressia nervosa fu praticamente abbandonato dalle discussioni in ambito psichiatrico. Con molta probabilità, questo fatto fu dovuto alla scoperta, da parte di un patologo di Amburgo, Morris Simmonds, di un disturbo endocrino dovuto ad una lesione dell’ipofisi, che provocava inappetenza e grave perdita di peso.

Si pensò così che l’anoressia avesse una causa organica e le pazienti di Simmonds vennero di conseguenza sottoposte ad un trattamento ormonale.

E’ lecito pensare che tra esse vi potesse essere un numero imprecisato di pazienti con anoressia nervosa.

Fu solo negli anni Quaranta che gli psichiatri e i medici riuscirono a distinguere, sotto il peso dell’evidenza clinica, tra l’anoressia nervosa e la malattia endocrina scoperta da Simmonds. Da quel momento, l’anoressia nervosa venne considerata sempre e solo come un disturbo psichiatrico.

Negli anni Settanta, Hilde Bruch, una psichiatra tedesca emigrata negli Stati Uniti, diede un ulteriore contributo allo studio dell’anoressia, pubblicando il libro Patologia del comportamento alimentare. La Bruch, che aveva osservato per trent’anni delle pazienti anoressiche, sosteneva che il disturbo ruotasse intorno al problema dell’immagine di sé.

L’autrice descriveva l’anoressia come caratterizzata da un’immagine corporea distorta, da una fissazione di essere grassi, dall’incapacità di identificare le sensazioni interne, in particolar modo la fame, e da un senso costante di inefficacia.

Quest’ultima caratteristica spiega perché l’anoressia emerga così spesso durante l’adolescenza, periodo in cui lo sviluppo di un senso di autonomia ha una grande importanza.

Inizialmente, il libro della Bruch circolò esclusivamente in ambiente psichiatrico, sebbene fosse tenuto in alta considerazione.

Ma fu cinque anni più tardi, con la pubblicazione del testo intitolato La gabbia d’oro, rivolto ad un pubblico più vasto, che l’anoressia nervosa venne resa nota ai più. E fu così che, durante gli anni Settanta e Ottanta, il numero di pubblicazioni e di ricerche sull’anoressia aumentò in modo vertiginoso.

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Il significato del termine “anoressia”

Il termine “anoressia” deriva dal greco (αν – ορέξις) e indica letteralmente un’assenza di brama. Poiché in ambito medico questo significato è stato riferito al cibo, si è soliti affermare che l’anoressia indichi una mancanza di appetito.

Quest’ultimo è di per sé un sintomo piuttosto generico, che può essere riferito a numerose affezioni. Tuttavia, Hilde Bruch fa notare che, nel caso dell’anoressia mentale, non si possa parlare di una vera e propria mancanza di appetito. Infatti, il sintomo principale di tale disturbo è costituito da una severa perdita di peso dovuta ad un progressivo rifiuto del cibo da parte del soggetto, ma tale rifiuto è volontario e non legato all’assenza di fame.

La Bruch sostiene che, per quanto la maggior parte delle pazienti anoressiche neghi di aver voglia o bisogno di mangiare, una volta sviluppatosi un clima di confidenza col terapeuta, esse sono solite ammettere la tortura dell’inedia che si impongono. Ciò dimostra che le anoressiche sentono lo stimolo della fame (anche se in seguito vedremo che ne possono avere una percezione distorta), ma si ostinano a non voler mangiare, perché temono che l’ingestione di una quantità di cibo anche minima possa tradursi in un significativo aumento di peso.37

37 Bruch H. (1973), Patologia del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977, p.347

Mara Selvini Palazzoli concorda con le osservazioni della Bruch, affermando che, essendo la mancanza di appetito un dato soggettivo, nessuno finora ha potuto dimostrare che le pazienti anoressiche non provino la fame.

Anzi, tutti i casi approfonditi in psicoterapia, oltre ad esternare in vari modi l’interesse per il cibo, hanno finito per far emergere le difficoltà che queste ragazze incontrano nel tentativo di dominare sé stesse per riuscire a non mangiare.

Non è dunque nel problema dell’appetito o nelle sue distorsioni che va ricercato il significato di fondo dell’anoressia mentale. Infatti, definirla come

“mancanza di appetito” significa limitarsi soltanto alla superficie del fenomeno, senza cogliere la realtà interiore del soggetto. Il fatto è che spesso, afferma la Selvini Palazzoli, gli studiosi che si sono accostati a pazienti affette da anoressia mentale, trovandosi di fronte a persone molto chiuse e generalmente dissimulanti, si sono limitati ad accettarne le spiegazioni più superficiali, credendo ad una inanizione dovuta ad inappetenza, a disturbi digestivi, oppure a ripugnanza verso il cibo. Questo però non è il caso dell’anoressia mentale, patologia che deve essere intesa come il risultato di una spinta volontaria verso la propria emaciazione, cosa che la rende un’entità clinica ben definita, non sovrapponibile a nessun’altra forma morbosa. 38

38 Selvini Palazzoli Mara, L’anoressia mentale, dalla terapia individuale alla terapia familiare, Feltrinelli, 19958, p. 54

La Selvini afferma che l’anoressia mentale vera si distingue:

1. dalle anoressie come reazione neurotica, che possono sorgere in ogni età, anche tardiva, in stretto rapporto con un trauma emotivo, e in cui le variazioni fisiologiche dell’appetito sono in rapporto agli stati emotivi.

2. dalle anoressie croniche, che iniziano già nella prima infanzia e persistono per tutta la vita con numerosi disturbi ipocondriaci.

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In Germania, il vocabolo usato per indicare tale patologia è Pubertäts-magersucht, che si può tradurre come “mania giovanile per la snellezza,” o anche come “dipendenza giovanile dalla magrezza,” in quanto il suffisso – sucht è utilizzato dalla lingua tedesca proprio per indicare le dipendenze, comprese quelle da alcolici o da sostanze stupefacenti.

Questa definizione offre una connotazione più precisa del fenomeno anoressico, perché mette in evidenza la ricerca implacabile della magrezza da parte del soggetto che ne è affetto, cosa che col tempo si trasforma in una vera e propria dipendenza.

L’anoressica infatti non può più fare a meno della sua malattia, perché questa fa parte della sua identità. Ricordiamo il caso di Ida,39una paziente della Bruch, la quale affermava di non voler guarire, perché ciò avrebbe significato per lei sentirsi vuota e insignificante: «Se rimango legata alla disciplina (la dieta), al controllo del mio corpo, allora mi sento speciale, anche perché sento di incutere soggezione, di riuscire in qualcosa che nessun altro può fare. Non potrei neanche concepire di vivere senza seguire la mia disciplina. E’ questo il segreto per essere speciale. L’alternativa è la sensazione di non valere niente.»

3. dai dimagrimenti per difficoltà meccanico-funzionali ad alimentarsi, in cui il dimagrimento è involontario ed esiste chiara coscienza della malattia e desiderio di porvi rimedio.

4. dai rifiuti del cibo di origine malinconica o schizofrenica, in cui non si riscontra l’iperattività tipica dell’anoressia mentale.

5. dalle anoressie di origine endocrina, dovute a lesioni ipofisarie, in cui il quadro psicopatologico non presenta iperattività né desiderio attivo di emaciazione.

39 Si veda il capitolo intitolato ‘Ida: sforzi sovrumani’ in Bruch H. (1988), Anoressia. Casi clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, pp. 104-105

Come abbiamo visto, Gull coniò il termine “anoressia nervosa” per distinguerla da altre forme di inanizione dovute a patologie organiche. Tuttavia, sia Hilde Bruch che Mara Selvini Palazzoli dichiarano di preferire la formula

“anoressia mentale” rispetto a quella di “anoressia nervosa,” per evidenziare il carattere mentale di questa forma morbosa, che esprime appunto una sofferenza di carattere psicologico; il termine “nervosa” potrebbe infatti risultare più ambiguo rispetto a forme di pertinenza neurologica o neuroendocrina.

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