Capitolo Terzo
3.3 Il senso di inadeguatezza
Al primo incontro, le anoressiche danno un’impressione di grande vigore, orgoglio e caparbietà. Tuttavia, quando si conoscono più da vicino, quest’impressione è sostituita da un quadro di inefficacia di fondo, incapacità di prendere decisioni e timore costante di non essere rispettate e considerate abbastanza. Infatti, un’altra caratteristica che accomuna le ragazze anoressiche è un profondo sentimento di inadeguatezza, che le spinge a credere di non valere niente e di non avere un ruolo attivo nel controllo del proprio destino.
Queste giovani non hanno sicurezza in se stesse e sono tutte tese a cercare di indovinare il pensiero altrui per fare ciò che gli altri sembrano aspettarsi.
Tale sentimento spiega perché l’anoressia emerga così spesso durante l’adolescenza, periodo in cui lo sviluppo di un senso di autonomia e padronanza di sé è fondamentale per il raggiungimento della maturità e dell’indipendenza.
Di solito, gli eventi che innescano il meccanismo patologico delle diete sono proprio quelli che mettono alla prova il senso di autonomia e di indipendenza dell’adolescente: l’ingresso ad un livello di istruzione superiore, le prime feste tra amici, le prime relazioni sessuali, oppure la perdita di un’amicizia, l’allontanamento da casa ecc. Gordon sottolinea che nei soggetti che mancano di autonomia, questi episodi normali possono generare una crisi di autostima.
Come abbiamo visto, secondo Hilde Bruch e Mara Selvini Palazzoli è dunque una relazione disturbata con la figura materna, che non è in grado di offrire
risposte adeguate ai bisogni della figlia, a generare in quest’ultima un concetto di Sé impotente ed inefficace.
Madri che si occupano delle figlie in funzione dei propri bisogni, anziché dei loro, oppure che impongono ad esse la propria interpretazione delle loro necessità o delle loro sensazioni, non permettono alle figlie stesse di sviluppare un senso di autonomia e di autoconsapevolezza. In queste ragazze, il corpo viene esperito come qualcosa che appartiene alla madre, non a se stesse. Ad esempio, una paziente della Selvini Palazzoli, alla domanda apparentemente semplice della terapeuta “Come ti sei sentita in quella situazione?,” ha dichiarato di non essere in grado di rispondere ed ha invitato la terapeuta stessa a chiedere a sua madre, affermando che ella la conosce molto bene, forse meglio di quanto non si conosca lei stessa.
A questo proposito, Sullivan79 sostiene che il sentimento del proprio potere e del proprio senso di efficacia sono fondamentali nell’essere umano. Il completo sviluppo della personalità è fondato sulla scoperta che il bambino fa del proprio potere di raggiungere certi stati finali desiderati, attraverso i mezzi e gli strumenti che egli stesso ha a disposizione. Dal fallimento di questa scoperta fondamentale provengono il sentimento di inadeguatezza, di impotenza e di incapacità e le conseguenti misure messe in atto per proteggersi da tale sentimento.
Le ragazze anoressiche cercano di difendersi dalla loro sensazione di inadeguatezza attraverso un eccessivo conformismo; esse si adattano alle richieste altrui, facendo sempre ciò che ci si aspetta da loro. Il prezzo di tutto
79 Sullivan H. S., La moderna concezione della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1961
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questo è la rinuncia ad un progresso attivo verso lo sviluppo dell’autonomia interiore.
Il mistero dell’anoressia mentale, afferma la Bruch, sta nel fatto che famiglie affermate e ben integrate non riescano a trasmettere un senso adeguato di fiducia e di valutazione di sé a queste ragazze, che crescono confuse nei loro concetti circa l’organismo e le sue funzioni e carenti di un senso di identità, indipendenza e governo di sé. Per molti versi, queste ragazze si comportano come se non avessero diritti autonomi, come se non fossero esse stesse a guidare il proprio corpo, le proprie azioni e i propri rapporti con gli altri. Non vi è alcun dubbio che queste giovani siano state accudite bene e che i loro genitori abbiano cercato di offrire loro il meglio, tuttavia queste cose buone sono state elargite senza essere specificamente adattate ai bisogni o ai desideri della figlia stessa.
Ecco ad esempio cosa riferisce Lucy, una paziente di Hilde Bruch, durante un colloquio con la studiosa: «Ero costantemente preoccupata di quello che potevo sembrare agli altri. Anche il solo fatto di entrare in una stanza nella quale c’era gente che non conoscevo mi intimidiva, perché non sapevo come dovevo comportarmi. Sentivo che attorno a me c’erano delle richieste troppo forti e io avevo un’immagine di me troppo debole. Anzi, forse non avevo realmente un’immagine di me, non sapevo niente di me stessa, se non che dovevo a tutti i costi accontentare mia madre. Per questo motivo andai al college, ma non trovavo via d’uscita...era il posto sbagliato per me...» 80
80 Bruch H. (1988), Anoressia. Casi clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. 63
La Selvini Palazzoli concorda con le affermazioni della Bruch asserendo che, conformemente alla ricostruzione dettagliata dell’infanzia di queste pazienti così ben curate, a cui tutto era dato, si nota un cospicuo deficit nell’incoraggiare le loro espressioni spontanee e peculiari, nel rinforzare ciò che esse desideravano fare. Implicitamente, afferma la studiosa, i loro genitori hanno attribuito alle loro figlie un ruolo preciso, cioè quello della ragazza mite, dipendente, che ascolta i genitori e che segue sempre le loro regole. Non di rado, identificandosi totalmente in questo ruolo, esse sono diventate gloria della famiglia, un motivo di orgoglio di cui essere fieri e di cui parlare ad amici e parenti. Rompere il ruolo significa per queste ragazze perdere non solo la stima dei genitori, ma in un certo senso anche la loro identità.
Il risultato è, nella fase premorbosa, uno stile di vita compiacente, che distrugge il loro senso di distinzione dagli altri. Insomma, in queste giovani si può notare una «grave atrofia nel senso del potere personale come diritto all’iniziativa, all’azione, all’influenza sugli altri e sulle cose.» 81
Secondo la Bruch, non sentendosi padrone di se stesse e del proprio corpo, le future ragazze anoressiche possono pensare che sottoporlo ad una disciplina estrema, come può essere il ricorso ad una dieta ferrea, possa essere l’unico modo per impossessarsene davvero.
Il rifiuto del cibo rappresenta per queste ragazze la dimostrazione dell’unica forma di autonomia che appare loro possibile. Infatti, non essendo in grado di sperimentare efficacemente il loro potere nel rapporto inter-personale, esse
81 Selvini Palazzoli M., L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 96
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trasportano il cimento di tale potere nel rapporto intra-personale, cioè col proprio corpo.
Il rifiuto del cibo potrebbe significare anche il volersi ribellare a quel Falso-Sé costruito per compiacenza ai desideri materni, per dare voce ad un vero Sé, sopito per troppi anni.
Mara Selvini Palazzoli racconta a questo proposito di Azzurra, una sua paziente che diceva, alludendo ai propri genitori: «Possono obbligarmi a fare tutto quello che vogliono, ma non possono costringermi ad ingoiare neppure un boccone di più.» 82
Ed ancora, una paziente della Bruch, Esther, dovendo uscire dalla clinica di Houston, in cui era ricoverata, per incontrare i genitori affermava: «Sono spaventata, perché se esco con loro e mi trovo davanti a del cibo...non so proprio perché, ma non potrei mangiare davanti a loro come ho mangiato in ospedale. Non voglio dar loro la soddisfazione di vedermi mangiare. Io posso mangiare, ma non voglio dar loro questa soddisfazione.» 83
Le diete, che generano risposte sociali positive, ma anche un sentimento di potenza mai provato prima dal soggetto, diventano ben presto comportamenti consolidati e quindi motivo di orgoglio e di stima personale.
Inoltre, la perdita ponderale serve ad ottenere grandi vantaggi: visto lo stato di denutrizione della figlia, i genitori non possono essere esigenti con lei, ma devono proteggerla. La Bruch sostiene infatti che «profondamente convinte della propria incapacità, è possibile che queste ragazze sperimentino la sensazione di
82 Selvini Palazzoli M., L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 104
83 Bruch H. (1988), Anoressia. Casi clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. 76
ottenere attenzione e considerazione solo provocando l’insorgere di paura e di apprensione in coloro che sono responsabili del loro benessere.» 84 E così, esse sentono di avere un potere su di loro, di riuscire a dominarli. Molte anoressiche spiegano perché restano aggrappate alla loro malattia, usando spesso frasi come
«se stessi bene non mi presterebbero attenzione, non mi amerebbero più.» 85 La tragedia, continua la Bruch, è che proprio quell’attenzione che queste ragazze esigono rafforza la “necessità” della loro malattia e rende impossibile lo sviluppo di una vera indipendenza.
84 Bruch H. (1988), Anoressia. Casi clinici, Raffaello Cortina, Milano, 1988, p. 46
85 Bruch H. (1978), La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 104
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