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Quaderni

leif

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

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Direttore

GIUSEPPEPEZZINO

Direttore responsabile GIOVANNIGIAMMONA

Vice Direttore MARIAVITAROMEO

Redazione

SARACONDORELLI

ANNAPIADESI

GENNAROLUISE

DANIELAVASTA

MASSIMOVITTORIO

Segreteria di redazione ANTONIOG. PESCE

ELISABETTATODARO

Direzione, redazione e amministrazione

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania Piazza Dante, 32 - 95124 Catania

Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566

Email: fil.morale@unict.it - http://www.dsu.unict.it Questa rivista è distribuita gratuitamente

sino all’esaurimento delle copie.

Per richiedere una copia, rivolgersi

alla Segreteria di redazione, tel. 095 7102358, fax 095 7102566, e-mail: fil.morale@unict.it ISSN 1970-7401

© 2009

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania Registrazione presso il Tribunale di Catania,

n. 25/06, del 29 settembre 2006 Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Impaginazione e stampa:

, grafica editoriale di Pietro Marletta,

via Delle Gardenie 3, Belsito, 95045 Misterbianco (CT), tel. 095 71 41 891

Quaderni

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INDICE

Nota redazionale 5

Giuseppe Acocella Il lavoro ai tempi del consumo: ascesa e declino del-

l’homo faber 7

Gennaro Luise Coscienza e lavoro nella filosofia dello spirito jenese di

Hegel 17

Anna Ottani Cavina Organizzazione di una bottega neoclassica. Felice Gia-

ni e la decorazione d’interni 25

Giuseppe Pezzino Sull’etica crociana del lavoro 49

Maria Vita Romeo La concezione cristiana del lavoro in Romano Guardini 59 Francesco Totaro Le ambiguità del lavoro nell’era della comunicazione 73 Daniela Vasta Il lavoro rappresentato: pittura siciliana tra Ottocento

e Novecento 83

Massimo Vittorio L’arte del lavoro in John Dewey 101

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Anno III n. 4, gennaio-giugno 2009

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Nota redazionale

Q

 dei «Quaderni leif» si presenta con un taglio mono- grafico, perché abbiamo voluto attirare l’interesse del lettore su un tema particolare e ben definito: il lavoro, cioè, nella duplice prospettiva dell’arte e dell’etica.

Su sollecitazione e conforto da parte delle cattedre di Storia dell’arte moderna e di Filosofia morale (Facoltà di Lettere e Filosofia, dell’Univer- sità di Catania), abbiamo così invitato autorevoli studiosi e giovani ricer- catori a portare ciascuno il proprio contributo di scienza e di esperienza in merito a questo tema del lavoro.

Il nostro modesto progetto mirava alla realizzazione di una riflessione a carattere interdisciplinare, nel fecondo intreccio di etica e di storia del- l’arte, e, soprattutto, nel convincimento che il problema del lavoro deve pur attraversare i territori della filosofia e dell’arte, senz’accamparsi sol- tanto sul rispettabilissimo terreno dell’economia, della politica, del diritto o della società.

Invero, il concetto di lavoro è sempre stato presente nella speculazio- ne filosofica dell’Occidente, sia nel grande scenario della tradizione ebrai- co-cristiana, sia nel contesto etico-politico del paganesimo greco-romano, sia infine nel crogiolo della modernità che, da un canto, conosce il con- flitto fra capitale e lavoro; e, dall’altro, si culla nel sogno di un baconiano regnum hominis, fondato sul potere della scienza e della tecnica. Da que- sto punto di vista, l’etica assume un ruolo privilegiato nell’elaborazione filosofica del concetto di lavoro ed, anzi, il problema del lavoro si erge a questione morale come crocevia in cui s’intersecano i tracciati dell’antro- pologia, della metafisica e dell’etica sociale.

Per altro verso, il rapporto arte-lavoro nasce con la nascita stessa del- l’arte. Ogni produzione artistica è fondata sul lavoro dell’uomo, che fati-

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ca per piegare i più svariati materiali, per il tramite di specifiche e spesso raffinate tecniche, ad esprimere la propria realtà interiore, la propria visio- ne del mondo. Il lavoro, quindi, come mezzo per produrre arte. Il lavoro che, col succedersi delle epoche e col mutare dei contesti sociali, assume organizzazioni diverse in uno col mutare della condizione e del ruolo del- l’artista e del suo rapportarsi a coloro (privati e istituzioni) che questo la- voro sostengono, sollecitano, acquisiscono, o anche solo ne fruiscono.

Ma c’è anche la realtà del lavoro osservato dall’uomo-artista e rappre- sentato nelle più varie materie. Le immagini del lavoro umano hanno an- ch’esse origini molto antiche; e artisti di ogni epoca hanno proposto vive – e spesso sublimi – testimonianze dell’operosità umana, ora mettendo in evidenza la sintonia di uomo e natura e la produttività di un rapporto non alienato, ora denunciando difficoltà, miserie, sfruttamenti.

Da questa prospettiva e con queste finalità è sorto il nostro modesto progetto, che oggi ci permette di offrire al lettore – con una punta appe- na di comprensibile orgoglio – il confronto di idee e di esperienze che al- cuni valenti studiosi hanno posto in essere in maniera magistrale, accen- dendo nuovi interessi, creando feconde sollecitazioni e arrecando ulteriori lumi al tema del lavoro.

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GIUSEPPEACOCELLA*

Il lavoro ai tempi del consumo:

ascesa e declino dell’homo faber

T

      prometta più di quanto que- sto intervento possa mantenere. Le filosofie del lavoro che si con- frontano sul problema sembrano aver smarrito la propria forza interpreta- tiva, lasciando più i giuristi e gli economisti protagonisti di questa conte- sa. Eppure la filosofia della politica e la filosofia ispiratrice del diritto che si sono occupate del lavoro hanno in questi anni combattuto una dura battaglia, accanendosi a disputare con differenti suggestioni intorno a principi su cui furono invece capaci di convergere nel nostro paese, all’in- domani della ritrovata libertà, le diverse culture filosofico-politiche che animarono le posizioni politiche nel dibattito costituente.

Achille Grandi, Vice Presidente nell’Assemblea Costituente, mentre erano appena iniziati i lavori sulla definizione degli articoli fondativi della Carta Costituzionale, intervenne il 12 maggio 1946 su «Politica sociale»

ponendo tra i primi il principio – poi accolto nell’Art. 1 – che il lavoro e la dignità di esso fossero posti al centro dell’edificio costituzionale e della vita della democrazia che si andavano configurando:

Ritengo – scriveva – ancora che si possa raggiungere l’unanimità dei consensi sulla preminenza morale del lavoro su ogni altro fattore della produzione e sul- l’intervento generale del Paese.

In anni come i nostri – nei quali la centralità del lavoro viene messa in discussione e subdolamente insidiata – ci rimane la inestinguibile ere- dità del principio della preminenza morale del lavoro, che appunto nel-

* Vice Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Ordinario di Etica so- ciale nell’Università degli Studi di Napoli «Federico II».

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l’Art. 1 della Costituzione, «L’Italia è una Repubblica democratica, fon- data sul lavoro», ha trovato la sua consacrazione, quale contenuto fon- dativo della democrazia stessa. Il lavoro assume così la funzione di decli- nare l’essenza della libertà ritrovata, ed anzi ancor più il valore di quali- ficazione della sovranità popolare e della natura stessa del sistema demo- cratico.

Nell’età dell’individualismo trionfante – e dell’economicismo senza confini indotto dai processi di globalizzazione – ha senso ancora procla- mare che «la Repubblica democratica è fondata sul lavoro», sulla base del presupposto etico che “il lavoro è la persona” (la persona, non il solipsisti- co individuo appagato di sé), con una enunciazione debitrice della lezio- ne rosminiana sul diritto? La proclamazione del valore del lavoro (e della persona umana) a confronto con il profitto e il denaro è essa stessa opzio- ne politica e morale, che la nostra Costituzione ha posto a fondamento della Repubblica, ma questo principio – oggi contestato, come si è detto – è in realtà comprensibile solo quando si tratti di riaffermare la superiori- tà del lavoro (e cioè in questo caso della persona del lavoratore), in quan- to homo faber, su ogni altro fattore della produzione, come scriveva Grandi, ma non più se riferito alla gerarchia dei valori riconosciuta dallo stesso lavoratore.

Non mi soffermerò su questo tema importante e complesso. Mi limi- terò solo ad una considerazione: se appare sostenibile riaffermare le ragio- ni del lavoro in questo senso, meno lineare appare oggi affermare persino nel lavoratore la superiorità ed il valore del suo lavoro nei confronti delle finalità che egli intende attribuire al reddito che ne ricava, e ai consumi che esso può consentirgli. Il valore del lavoro per i destini personali appa- re definito in modo diverso da quello che gli era stato in precedenza attri- buito.

Si tratta di un grande cambiamento rispetto alla consapevolezza diffu- sa che il lavoro umano è sociale per sua natura, poiché è capace di trasfor- mare il mondo per renderlo giusto. Se il lavoro procede dalla persona ed è ad essa ordinato, è la persona a fornire senso al lavoro e non viceversa.

Quando questa relazione si altera, e la persona del lavoratore si attende di ricevere significato o dall’attività svolta di per sé (il problema della tiran- nia del lavoro sulla vita personale) oppure, di contro, dalla mera conve-

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nienza del lavoro, ridotto per propria scelta o costrizione a merce (nel pri- mo caso l’esistenza consolata dallo stordimento e nel secondo assorbita dall’effimero, ambedue consentiti dal mero consumo, piccolo o grande che possa essere), è la persona stessa che smarrisce senso e valore dell’esi- stenza.

Nello scenario introdotto dalle profonde mutazioni economiche, so- ciali, culturali intervenute, gli stessi diritti dei lavoratori acquistano signi- ficati nuovi. L’organizzazione del lavoro nuova che si profila – e che inve- ste la stessa organizzazione del lavoro – inverte la gerarchia dei valori, as- soggettando il senso del lavoro alla necessità del consumo. Il lavoro non appare dunque più l’elemento ordinatore delle esistenze e delle esperien- ze, fondamentale – come storicamente è stato – per lo sviluppo civile, in ragione del quale la persona si costruisce in relazione alla società per quel che è, per quel che ha, per quel che dà e riceve, ma anche, e talvolta so- prattutto, per quel che fa, per il mondo sociale e familiare di cui fa parte, fino a far divenire il lavoro segno di identificazione sociale e morale.

La centralità del lavoro e la sua rilevanza sociale appaiono segnate non più dalla identità che forniscono, ma piuttosto dalla disponibilità dei be- ni – materiali e immateriali, ed anche di potere o di invece di impotenza – che il lavoro può procurare, cosicché l’attività lavorativa resta una di- mensione essenziale della vita sociale non per se stessa, ma per ciò che consente o meno di godere.

Il problema del lavoro mostra dunque connotazioni etiche evidenti, dal momento che il paradosso indicato svela che all’identità personale fornita dall’attività lavorativa è subentrata una identità che del lavoro si serve solo per favorire l’assunzione del nuovo ruolo sociale, quello del consumatore, reso possibile dal reddito che il lavoro procura. Il lavoro non più ricondotto alla persona porta allo scoperto questa prevalente finalità di procacciamento di reddito, in virtù del crescente valore sociale assunto dalla possibilità di desiderare di consumare, e dalla conseguente debolezza della relazione nuova tra lavoro e reddito, perché quest’ultimo può deri- vare anche da attività diverse – e persino più gratificanti – rispetto a quel- la lavorativa.

Il consumo diviene pertanto parte costitutiva e fondamentale del- l’identità sociale ancor più del lavoro che permette di conseguirlo. Così

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anche nella cultura del lavoro acquista un nuovo significato il tempo del lavoro: esso si riduce e perde la sua centralità, e conseguentemente perde consistenza anche il valore del lavoro, e persino il senso del lavoro come responsabilità ed assolvimento di un dovere personale e sociale, e quindi naturalmente anche la sua attitudine ad essere fondamento comune della vita collettiva della Repubblica.

Dunque lo scenario, nel quale il lavoro aveva contribuito in misura determinante a fissare i caratteri della democrazia costituzionale, con l’in- gresso degli uomini del lavoro nell’area della cittadinanza pleno iure, è an- dato rapidamente mutando. Paolo Grossi ha rilevato la forza normativa di fonti diverse dalla legge affermatesi nell’età del declino dello statalismo legato alla sovranità economica nazionale, molto al di là del fenomeno della pluralità degli ordinamenti giuridici che già si era affermato, e col quale il contratto di lavoro aveva già ricevuto ampio riconoscimento di fonte del diritto grazie alla premessa della centralità del lavoro.

Chi oggi riprende il tema del lavoro o per farne una bandiera da sven- tolare (in campagne elettorali o in dibattiti, o per metterne in luce i pro- blemi sollevati dalla precarietà, o per lamentarne la mancanza, o per rim- piangere con lunghi giri di frase l’età dell’oro dello sfruttamento, reso per fortuna spesso inapplicabile dalle garanzie sindacali e giuridiche), rivendi- candola in nome del liberismo, non impropriamente si riferisce ad una occupazione segnata da mobilità, temporalità, parzialità.

Il lavoro attuale – considerato senza più alcun riferimento alla perso- na, e dunque mero fattore economico – non è più l’elemento ordinatore delle esistenze, capace di dare l’identità più vera e permanente alla condi- zione personale, ma l’impiego del tempo finalizzato a coprire i bisogni ed i consumi, e – se andasse bene nella vita – a realizzare l’incontro tra occu- pazione e vocazione.

Da un lato l’insistenza sulla competitività che caratterizza l’economia contemporanea, esposta – dopo la fine di ogni protezionismo ed il trion- fo delle liberalizzazioni – alla incertezza dell’organizzazione mutevole del lavoro – e quindi in condizione di piegare il lavoro alle esigenze della pro- duzione flessibile e senza più garanzie – dall’altro il rifiuto della insicurez- za determinata dalla infinita precarietà dei rapporti, dei diritti, delle ga- ranzie.

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Il proliferare di strategie pubbliche – come il dibattito sul salario mi- nimo – finisce per svalutare il lavoro a favore della mera distribuzione di reddito ai fini di consumo. Le proposte avanzate in questa direzione – spesso per la difficoltà di progettare risposte politicamente responsabili in tema di regolazione del mercato del lavoro – confermano comunque la sopravvenuta preminenza del consumatore, a scapito della ricerca delle tu- tele efficaci e delle garanzie per il lavoratore, per le sue condizioni di vita, di benessere e di sicurezza, disciplinate per via contrattuale e normativa.

Si rischia così di fatto una separazione tra reddito erogato (per esempio in funzione di ammortizzatore sociale) e attività lavorativa corrispondente anche ad una identità sociale, separando forse definitivamente nell’ambito della comunità membri attivi e membri passivi, con una crisi dei diritti di cittadinanza, specie per i giovani, ed una accentuata crisi di responsabili- tà, gravida di conseguenze per l’ordinato svolgimento della vita associata.

Il fermento sviluppatosi nel dibattito su questi temi è assai vivace, e in al- cune nazioni – come la Gran Bretagna – ha dato luogo a politiche pub- bliche oggetto di serrato confronto.

* * *

Si pensi al dibattito solo di recente sviluppatosi in Italia sulla insuffi- cienza dei salari e sulla iniqua redistribuzione della ricchezza a danno del lavoro. Il fenomeno è certo complesso e intrecciato inestricabilmente con le questioni degli ineguali carichi fiscali e spesso, per altro verso, con la complessità della questione monetaria e finanziaria, influenzata da inte- ressi sovranazionali che sfuggono ai tentativi di regolazione nazionale in termini di equità. Il fenomeno è quello da anni avvertito dei Poor Wor- kers, i lavoratori per i quali il conseguimento di una occupazione stabile – avvertita fino a non molto tempo fa come la garanzia contro la povertà – non costituisce affatto il raggiungimento di una vita dignitosa e tutelata.

Il lavoro non è più presidio sociale di sicurezza e di cittadinanza.

Il problema sta dunque anche nel chiedersi se esista un prioritario di- ritto al lavoro come elemento fondamentale di identità sociale e di realiz- zazione della persona attraverso regolazioni pubbliche capaci di garantir- ne l’esercizio. Oppure domandarsi se l’ordinamento debba limitarsi a ri- specchiare l’esercizio della forza (economica), o piuttosto non sia chiama-

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to a disciplinare le relazioni e le energie che vengono messe in campo nel

“gioco” economico. Se la legge ha il significato ed il ruolo di consolida- mento di una relazione tra persone, cose e azioni, sottratta all’arbitrio del più forte, e restituita ad una regolazione che innanzitutto tuteli il più de- bole, il tema del lavoro investe ancora una volta le ragioni essenziali della convivenza sociale e politica. Si pensi alla evoluzione del diritto del lavoro come disciplina autonoma, che ha attraversato una fase nella quale ha prevalso il carattere di diritto pubblico, in quanto riconosciuta parte del- l’ordinamento che regola le relazioni sociali, temperando la asimmetria delle forze operanti nel rapporto di lavoro.

Nella relazione di apertura al Convegno in memoria di Gérard Lyon- Caen a Parigi, Umberto Romagnoli ricordava che

il diritto del lavoro è stato una salvifica eresia non solo perché ha vittoriosamen- te conteso alle codificazioni civili dell’Ottocento la disciplina dell’obbligazione contrattuale di lavorare alle dipendenze di altri, ma anche e soprattutto perché ha valorizzato la centralità del ruolo del lavoro dipendente nella società indu- striale. Se fosse rimasto lontano dalla dimensione politico-istituzionale, non sa- rebbe diventato una componente essenziale dell’originale riprogettazione dello Stato che, in misura diseguale e con rilevanti sfasature temporali, si è sviluppata nell’Occidente europeo.

Il contratto collettivo di lavoro, infatti, ha consentito di elaborare modi di produzione del diritto e strumenti adatti a sottrarre i soggetti più deboli alla morsa, rivendicata nel processo economico, della mera conve- nienza dei soggetti più forti. Il processo è stato descritto con efficacia da Romagnoli nell’occasione sopra ricordata:

Il diritto del lavoro non era venuto al mondo per rifarlo da cima a fondo, ma soltanto per renderlo un po’ più tollerabile per categorie di soggetti che, scrive- va Werner Sombart con aristocratica quanto inutile cattiveria, avevano col lavo- ro “all’incirca gli stessi rapporti del bambino con la scuola, dove non si reca se proprio non deve”. I più zelanti gli imposero il nome di droit ouvrier. Malgrado le sue umili origini, invece, questo diritto ha cominciato presto a pensare in grande e, con la precocità di un enfant prodige, si è spinto al di là della soglia di un contratto a prestazioni corrispettive. Appena ha scoperto la propensione a sfidare l’ambiente che all’insaputa anche di se medesimo si portava dentro fin dai primordi, l’ha assecondata. Non si è accontentato di incivilire l’etica degli

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affari che presiedeva all’attuazione del rapporto di lavoro. Ne ha valorizzato la dimensione collettiva e, così facendo, ha intercettato l’evoluzione del costituzio- nalismo euro-continentale tardo-ottocentesco, ha interagito con essa e ne ha ac- celerato i ritmi. Infatti, si deve anche alle sue sollecitazioni la spettacolare ascesa al culmine della quale i comuni mortali inchiodati per motivi di censo nella condizione di sudditi di uno Stato mono-classe hanno potuto accedere allo sta- tus di cittadini di uno Stato pluri-classe.

Tra le ragioni della competitività economica – ineludibili nell’attuale assetto economico globale – e le ragioni del lavoro si consuma il dibattito sul valore del lavoro e sulla sua centralità nelle moderne democrazie. Tra la flessibilità, ritenuta indispensabile a causa dei cambiamenti nell’orga- nizzazione produttiva e nella concorrenza da un lato, e la difesa delle ga- ranzie del lavoro dall’altro, si sta svolgendo la più drammatica delle ten- zoni sociali del nostro tempo. Lavoro precario, carenze gravi di misure di sicurezza sul lavoro, asimmetria incolmabile tra profitti dell’impresa e bassi salari, costituiscono temi che necessariamente modificano i tradizio- nali approcci filosofici al problema del lavoro. Lo stesso diritto del lavoro sembra impotente e smarrito, come privato dei fondamenti teorici che ne avevano consentito lo sviluppo impetuoso fino a poco tempo fa.

Su questi nodi il dibattito vede differenziarsi le posizioni europee da quelle nord-americane, per esempio sul tema centrale della flexicurity che incrocia le questioni essenziali del lavoro nel nostro tempo (flessibilità e sicurezza). Da un lato il modello danese, dall’altro quello statunitense. Ma paradossalmente nelle due posizioni sembra esservi una radice culturale comune: il realismo giuridico. Sulla connessione e sulle corrispondenze tra realismo giuridico scandinavo e realismo giuridico americano basterà ri- cordare nella filosofia del diritto gli studi in Italia – negli anni Sessanta e Settanta – di Giovanni Tarello e Silvana Castignone, tanto per citare solo i più noti studiosi. Se nell’area americana i contributi più accreditati si ri- ferivano ai nomi di Holmes e Pound, il realismo scandinavo annoverava quale esponente di punta il nome di Alf Niels Christian Ross, professore all’Università di Copenaghen tra il 1938 ed il 1979, dopo essere stato al- lievo di Hans Kelsen – di cui rifiutò le posizioni espresse nella Dottrina pura del diritto – nonché dello svedese Karl Olivecrona, esponente illustre dello stesso realismo giuridico.

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Per restare nei limiti richiesti da questa occasione, mi limiterò a dire che il realismo giuridico – tanto quello scandinavo che quello americano, i quali peraltro differiscono, come si vedrà, per lo scenario culturale di- verso che li accoglie – se applicato alla categoria del lavoro sposta la que- stione del valore del lavoro dalla persona del lavoratore all’esercizio possi- bile e concreto dell’opera, la quale viene ricondotta e riferita non al signi- ficato identitario che il lavoro esprime, ma alla collocazione economica dell’atto lavorativo, così come il diritto effettivamente lo consente. Infatti il diritto non porta capograssianamente alla definizione del mondo del- l’azione umana, e dunque non è più riferito alla persona (agente morale ed agente giuridico), ma al fatto della prestazione d’opera, funzionale alla identità del consumatore invece che del lavoratore.

Per restare al caso concreto della flexicurity – che costituisce un privi- legiato osservatorio della condizione del lavoro nel nostro tempo – nel- l’ambito degli orientamenti del realismo giuridico, sopra sommariamente delineati, si possono scorgere le diverse conseguenze delle influenze del realismo giuridico scandinavo rispetto a quello nordamericano. In specie il modello danese – molto celebrato nel dibattito europeo – accentua i ca- ratteri della premialità e quelli sanzionatori rispetto al modello america- no, confermando l’accentuazione istituzionale (dall’alto verso l’individuo) della tradizione giuridico-politica europea e scandinava da un lato, e quel- la liberal-individualistica (dall’individuo verso l’organizzazione pubblica) della tradizione giuridico-politico americana.

La conferma viene dalla disciplina delle indennità e dei vincoli. Nel modello danese si incontrano maggiori vincoli per i datori di lavori, una copertura dell’indennità di disoccupazione fino a quattro anni, una for- mazione mirata – grazie alle lunghe indennità – a favorire la mobilità ascendente; nel modello americano si registrano minori vincoli per il da- tore del lavoro, una copertura dell’indennità per soli sei mesi, una carenza di regolazione normativa con effetto di accentuazione della mobilità di- scendente. Nell’ambito di una medesima, avanzata gestione della flexicu- rity, il realismo giuridico scandinavo si conferma più sensibile alla regola- zione collettiva e pubblica del mercato del lavoro, mentre quello nord- americano rivela una solida concezione della libertà individuale come li- bertà di costruire la propria sfera giuridica senza sostegni pubblici (cfr. la

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ricostruzione operata da Anna Ilsøe, Flexicurity and the Lisbon Strategy, Lessius University College, Antwerpen, 17 gennaio 2008).

Probabilmente la conclusione è che occorre soffermarsi a ripensare una diversa filosofia del lavoro, distante dal realismo giuridico, tanto scan- dinavo che americano, che pure sembrano tenere il campo oggi in misura incontrastata. Nell’Aula detta Parlamentino, nella sede del Consiglio Na- zionale dell’Economia e del Lavoro, fa splendida mostra di sé un affresco di Adolfo Cozza dei primi anni del XX secolo, raffigurante il lavoro agri- colo (vedi foto in basso). Il lavoro agricolo assume nell’affresco il valore di criterio di valutazione del progresso della scienza applicata al lavoro umano (da Omero a Esiodo, Teofrasto, Pitagora, Teocrito, Mosco, da Plinio a Columella, Varrone e Palladio, fino a Virgilio). Da inerte che era la terra diventa feconda grazie al lavoro dell’uomo attraverso la coltivazio- ne. È la celebrazione dell’homo faber, la cui storia oggi appare segnata da forti contraddizioni e dalla minaccia di un declino sul quale abbiamo ap- pena cominciato a ragionare, affinché del lavoro non si smarrisca mai senso e significato.

Adolfo Cozza, L’agricoltura dalle epoche barbariche fino ai tempi della Roma imperiale, Roma, CNEL, Parlamentino.

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GENNAROLUISE*

Coscienza e lavoro

nella filosofia dello spirito jenese di Hegel

I

    di Hegel a Jena (1801-07) è considerato da molti interpreti del pensiero hegeliano come uno dei periodi di maggiore importanza e di più travagliata fecondità nel processo di genesi del Gesamtsystem1. La sistemazione della Fenomenologia dello spirito non corrisponde agli annunci di imminente pubblicazione delle parti del si- stema completo della scienza filosofica, rintracciabili negli avvisi per le le- zioni del periodo corrispondente, avvisi che si erano susseguiti a Jena2a partire dagli anni 1802-03 e fino al semestre invernale 1805-06.

Ad essi, invece, corrisponde con maggior fedeltà la formulazione di un sistema completo, o meglio, di diversi progetti di un sistema, diviso in logica e metafisica, ovvero filosofia speculativa, e filosofia della natura e dello spirito (mentis), ovvero le due parti di quella che nell’annuncio delle lezioni del 1805-06 sarà designata come filosofia reale, così come viene ri- petutamente abbozzato nei manoscritti per le Vorlesungen del 1803-04 e 1805-063. In verità, la Fenomenologia del 1807 non sarà più solo una pre- messa all’intero sistema, preposta alla filosofia speculativa, ma una ripresa

* Università degli Studi di Catania.

1 Cfr. G. Cantillo, Introduzione a G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Roma-Bari, Laterza, 20082, pp. VII-XXXV. Questa edizione, alla quale facciamo riferimento in queste pagine salvo indicazione diversa, ripropone, rivista ed aumentata alla luce della pubblicazione dei voll. 6 (hrsg. v. K. Düsing u. H. Kimmerle, Hamburg, Meiner, 1975) ed 8 (hrsg. v. R. P. Horstmann u.

J. H. Trede, Hamburg, Meiner, 1976) della nuova edizione critica dei Gesammelte Werke (abbre- viato in GW) di Hegel, la traduzione già pubblicata – sempre a cura di G. Cantillo (Bari, Laterza, 1971) – delle Vorlesungen sulla filosofia dello spirito del 1803-04 e del 1805-06.

2 Cfr. su questo G. Cantillo, Hegel a Jena. Attività didattica e sviluppo del pensiero, in G. W.

F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Bari, Laterza, 1971, p. 29 e sgg.

3 Cfr. G. Cantillo, Introduzione, a G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Roma-Bari, Laterza, 20082, pp. XXIII-XXV.

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dei temi presenti nella filosofia dello spirito elaborata ai tempi di Jena.

Ripresa che chiarifica «scientificamente» la fondazione del sapere assolu- to, nata proprio in concomitanza alle prime formulazioni del sistema completo. In particolare, per il nostro tema, risulterà utile vedere, nella Fenomenologia dello spirito, come venga articolato il discorso di un passag- gio ad una dimensione compiutamente «spirituale» del lavoro.

I primi momenti di universalizzazione e di «toglimento»4dell’indivi- dualità irrelata dello spirito sono, nei frammenti jenesi, le prime forme della coscienza: memoria, linguaggio e intelletto, per quanto riguarda il processo teoretico e lavoro, strumento, come suo medio, famiglia e amo- re, per lo svolgimento pratico.

Forse con maggior chiarezza che altrove, in un testo in cui l’argomen- tazione è ridotta alla sua forma essenziale, come nelle lezioni di Jena sulla filosofia dello spirito, si può intendere il lavoro come il prototipo della considerazione dell’attività spirituale, in quanto creativa o meglio rivelati- va dell’attività creatrice immanente dell’Assoluto. Se poi si debba inten- dere tale creatività come parte di una dottrina demiurgica, oppure come una autoctisi della coscienza stessa, ovvero «l’essere ideale del mondo»5, ciò attiene alle varianti del sistema hegeliano, che ricomprende tutte le possibili visioni come momenti di una radicale dottrina emanazionista e panlogista.

Il modello della fecondità produttiva è allora da intendersi, nella filo- sofia dello spirito, primariamente come generatività del concetto, come progressione generativa interna al lovgo~6. In un secondo momento, il progressivo farsi «forma» (Form) del bisogno, il suo liberarsi dall’indivi- dualità per pervenire a gradi di coscienza superiori, avviene a mezzo di una progressiva introiezione di un mondo che, in prima istanza, appariva esterno alla coscienza singolare.

4 La scelta di Cantillo per la traduzione di aufheben ricade sul termine «togliere», in riferi- mento anche alla scelta operata da A. Moni, e confermata da C. Cesa nel 1968, nella traduzione della Wissenschaft der Logik. Su ciò vedi l’ampia nota esplicativa di Cantillo in G. W. F. Hegel, Fi- losofia dello spirito jenese, cit., pp. 4-5, nota 5.

5 Ivi, p. 45; GW, Bd. 6, p. 308.

6 Su questo si veda almeno W. Beierwaltes, Platonismo e idealismo, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 160-206.

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Questa relazione negativa alla natura è in generale il lato negativo dello spirito, o è il modo in cui esso si organizza in sé come questo negativo; il modo, cioè, in cui diviene totalità della coscienza del singolo; giacché la coscienza in quanto at- tiva, in quanto nega, toglie l’essere del suo essere-altro, è la coscienza come un lato di se stessa, come coscienza soggettiva, ovvero coscienza come singolarità assoluta7.

Se si calibra con attenzione questa considerazione e la si compagi- na con il presupposto di un radicale monismo, da intendersi, se non co- me acosmismo, per lo meno come impossibilità di pensare una fonte del reale che sia «antagonista» allo Spirito, che ne rompa l’unità, si può ap- prezzare, con ancora maggior chiarezza, come la forma generativa con- cettuale sia l’inizio della dinamica di svolgimento coscienziale, il cui ar- chetipo è il sillogismo. Dice Hegel, nell’esposizione dell’attività della vo- lontà:

Il volente vuole, cioè vuole porre sé, fare oggetto sé in quanto sé. Esso è libero, ma questa libertà è il vuoto, formale, cattivo [volere]. Esso è in sé conchiuso, ovvero è il sillogismo in se stesso; a) il volere è l’universale, il fine; b) è il singolo, il Sé, attività, realtà; g) è il medio di questi due, l’impulso, questo è un alcunché che ha due lati [das Zweyseitige], il quale ha il contenuto, è un universale, il fine ed il Sé attivo di questo; quello è il fondamento, questo la forma8.

Il lavoro, attività primariamente di relazione con il mondo inorganico e naturale in generale, è parimenti relazione fondante, insieme alla fami- glia ed alla proprietà, dello Stato nella sua forma puramente etica. Si ten- ga presente che la società civile, momento corrispondente dello spirito oggettivo, così come verrà definita nelle formulazioni del sistema succes- sive a quella abbozzata nelle lezioni jenesi, è astratta rispetto allo Stato or- ganizzato secondo il diritto, il quale si ritrova ad un livello successivo, ma è spirito di un popolo, spirito reale (Wirklicher Geist), in relazione alle forme individuali che sono state superate nelle aurorali attività dello spiri- to. Il compimento dell’atteggiamento di toglimento della natura avviene attraverso il passaggio da questo, che è ancora un momento ideale del-

7 G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 13; GW, Bd. 6, p. 275; corsivi nel testo.

8 Ivi, p. 86; GW, Bd. 8, p. 202; corsivi nel testo.

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l’esistenza dello spirito, attraverso il reciproco riconoscere (Anerkennen), al superamento della distinzione fra le coscienze dei singoli, che erano pervenute a sé attraverso la posizione della propria forma come riverbero oggettivo dell’agire di intelletto e volontà, a favore dell’organizzazione in un popolo come sostanza etica reale ed universale, assoluta.

Questa coscienza assoluta è dunque un essere-tolto delle coscienze in quanto sin- gole; un essere-tolto che è ad un tempo l’eterno movimento del divenire-se-stes- so in un altro e del divenire-a-sé-altro in se stesso; essa è coscienza universale, sussistente; non è mera forma dei singoli senza sostanza, al contrario i singoli non sono più; essa è sostanza assoluta, è lo spirito di un popolo per il quale la co- scienza considerata come singola è per sé soltanto forma, che diviene a sé imme- diatamente un che di altro – il lato del suo movimento, l’eticità assoluta; il sin- golo in quanto membro di un popolo è un essere etico la cui essenza [è] la vi- vente sostanza dell’eticità universale, la coscienza [es] in quanto singola [è] solo una forma ideale; di un essente [che è] solo in quanto tolto; l’essere dell’eticità nella sua vivente molteplicità sono i costumi del popolo9.

Questa facies della coscienza è da intendersi come la rappresentazione della considerazione universale delle relazioni fra le persone. Il lavoro, in quanto attività di superamento delle condizioni individuali della coscien- za, è allora presente non solo come momento dello svolgimento e del si- stema dello spirito, ma come una forma esemplare in sommo grado della sua dialettica e della sua necessità.

La fictio della generatività delle forme o guise dello spirito, nella Feno- menologia, nasconde la loro reale genesi riflessiva, che è un’anamnesi re- trocedente delle forme stesse dello spirito, così come si sono manifestate nello svolgimento. Nella Fenomenologia dello spirito quell’idea di lavoro troverà una sua esposizione paradigmatica nella trattazione della dialettica servo-padrone, in cui sono designati i primitivi rapporti di dipendenza reciproca maturati nel passaggio ad un rovesciamento dialettico della di- pendenza reciproca del padrone e del servo, e del pervenire del servo ad una progressiva indipendenza rispetto al bisogno che muove all’attività del lavoro. L’indipendenza maturata dal servo è però primariamente inte- riore, non ha un riflesso sociale, ma è contenuta nell’atto di pensiero che

9 Ivi, pp. 51-2; GW, Bd. 6, p. 314; corsivi nel testo.

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permette una coscienza di sé come bisogno tolto. Una posizione analoga è quella guadagnata, attraverso una dialettica che troviamo elaborata già nelle lezioni jenesi, dalla coscienza che produce, avendo come medio lo strumento correlato alla potenza del lavoro, il soddisfacimento di un im- pulso necessario; tale coscienza perviene in ultimo ad una consapevolezza di sé come «idealità del togliere»10l’impulso (Trieb).

Le realtà stesse prodotte dall’immaginazione e dal pensiero devono pervenire alla loro denominazione stabile, nel momento del linguaggio, previo al lavoro vero e proprio dell’attività pratica; all’inizio dell’attività del pensiero, l’agire verso sé stesso consisterà nel portare fuori sé stesso.

Questo lavoro è perciò il primo interno operare su se stesso, un’attività comple- tamente non sensibile e l’inizio della libera elevazione dello spirito, giacché esso ha qui se stesso come oggetto11.

In realtà il lavoro come pensiero si ritroverà, nelle articolazioni suc- cessive delle relazioni interne alla coscienza, in una forma superiore ri- spetto alla successiva appropriazione delle realtà esterne, che escono dalla mescolanza di luce e oscurità in cui è avvolto lo spirito nella sua attività previa alla memoria. Il lavoro come pensiero sarà, nella successiva dina- mica dell’attività pratica, attività di conoscenza riflessa di sé stessa, da parte della coscienza che riverbera la sua essenza in ciò che sta ad essa dinnanzi in quanto da essa stessa posto. Non si dimentichi che, in origi- ne, tale posizione era pur sempre un toglimento del desiderio, o del «fuo- co sacro» dell’agire, a sua volta indotto da un impulso ad agire che genera polivoche e ordinate tipologie di azione. La serie di considerazioni, che viene svolta nell’àmbito della trattazione della processualità teoretica, per- mette di ritrovare nel linguaggio la prima riconduzione alla coscienza del- la realtà.

Mediante il nome, dunque, l’oggetto nasce venendo fuori dall’io come essente.

Questa è la prima forza creativa che lo spirito esercita; Adamo diede un nome a tutte le cose, questo è il diritto di sovranità sull’intera natura, la prima appro-

10 Ivi, p. 36; GW, Bd. 6, p. 300. Su questi aspetti vedi l’eccellente monografia di M. Anzalo- ne, Volontà e soggettività nel giovane Hegel, Napoli, Luciano, 2008, pp. 212-9.

11 Ivi, p. 79; GW, Bd. 8, p. 194; corsivo nel testo.

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priazione di essa, ovvero la sua creazione da parte dello spirito; lovgo~: ragione, essenza della cosa e discorso, cosa e parola, categoria. L’uomo parlando si rivolge alla cosa come alla sua, e vive in una natura spirituale, nel suo mondo, e questo è l’essere dell’oggetto12.

Lo strumento per il lavoro, al pari del nome e del linguaggio per la memoria, è considerato come medio che permane rispetto alla semplice affermazione del bisogno; così come il mezzo permane rispetto allo sco- po, in quanto permette una infinità di realizzazioni dello stesso scopo e quindi una relazione estesa all’oggettivo13. Se l’azione è il farsi più radicale della coscienza, allora lo strumento, che permette di produrre la dimen- sione oggettiva, ha la sua maggiore utilità nella possibilità di far pervenire a sé l’azione stessa di toglimento del bisogno14.

L’impulso soddisfatto è il lavoro tolto dell’io, questo è quest’oggetto che lavora in sua vece. Lavoro è il concreto farsi cosa, la scissione dell’io che-è-impulso è appunto questo diventare oggetto […]. Il lavoro, nel suo senso proprio, è non solo attività (acido), bensì attività riflessa in sé, produrre; una determinata-e-li- mitata forma del contenuto, un singolo momento; ma qui l’impulso produce se stesso, produce il lavoro stesso – l’impulso si soddisfa – quelli cadono nella co- scienza esteriore. Ciò è il contenuto anche in quanto è il voluto, e mezzo del desi- derio, la possibilità determinata di ciò che è voluto; nello strumento o nel campo coltivato, fertilizzato, io possiedo la possibilità, il contenuto come un contenuto universale; perciò lo strumento, il mezzo è superiore allo scopo del desiderio, che è singolo; esso comprende tutte quelle singolarità15.

L’esposizione degli aspetti sociali del lavoro, la sua organizzazione e la codificazione dei rapporti che ad esso ineriscono, avviene nella dimensio- ne superiore dello «spirito del popolo»16, ovvero nel momento in cui è su- perata la singolarità astratta della coscienza nella genesi di una totalità eti- ca, frutto della «lotta per il riconoscimento». Ora, senza addentrarci nella

12 Ivi, p. 74; GW, Bd. 8, p. 190; corsivi nel testo.

13 Cfr. F. Totaro, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Milano, Vita e Pensiero, 1999, pp. 60-3.

14 Cfr. anche Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., pp. 33-7; GW, Bd. 6, pp. 297-300.

15 Ivi, p. 90; GW, Bd. 8, pp. 205-6; corsivi nel testo.

16 Cfr. ivi, pp. 52-62; GW, Bd. 6, pp. 315-26.

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ricostruzione di queste riflessioni, intendiamo richiamare, anche solo bre- vemente, lo svolgimento della dialettica della coscienza infelice così come esposto nella Fenomenologia dello spirito; in quel luogo si può ritrovare, infatti, una prospettiva religiosa, che propone ad un livello ancora ulte- riore, la relazione della coscienza alla propria azione17.

La coscienza religiosa alienata aveva vanamente cercato, nel primo momento della sua dialettica, la presenza del divino nel finito del mondo sensibile e dei segni, che propone, in verità, la presenza del divino come illusoria presenza e come assenza; dopo questa disillusione, la coscienza infelice è spinta di nuovo a sé ed al mondo circostante inteso come ciò che deve essere trasformato, con il quale, quindi, attraverso il lavoro, tro- va una momentanea e provvisoria unione, che tiene identica e sé e consa- puta l’unità della coscienza. Così sarà delineata nella Fenomenologia dello spirito, questa dialettica:

In questo ritorno in se stesso è divenuta per noi la sua seconda relazione, quella cioè dell’appetito e del lavoro18.

La «nuova» unità guadagnata da questo secondo momento sarà, poi, ricondotta alla reale giustificazione della certezza della coscienza, ovvero alla considerazione del terzo momento:

Nella prima relazione questa coscienza era soltanto concetto della coscienza effet- tuale o era l’animo interiore non ancora effettuale nell’operare e nel godimento; la seconda relazione è siffatta attuazione come operare e godere esteriori; ma, ritor- nata da questa posizione, questa coscienza è tale che ha sperimentato sé come co- scienza effettuale ed effettuante, o è tale che ad essa è vero di esser in sé e per sé19.

Ma, ancora una volta, la verità di tale coscienza è la considerazione della propria azione come nullità, come azione affettata dalla miseria del- la dimensione singolare, di cui la coscienza non perde notizia in virtù del-

17 Per tutto questo cfr. M. Fornaro, Il lavoro negli scritti jenesi di Hegel, Milano, Vita e Pen- siero, 1978, pp. 62-70.

18 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. a cura di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 19963, p. 137; Phänomenologie des Geistes, in GW, Bd. 9, hrsg. v. W. Bonsiepen u.

R. Heede, Hamburg, Meiner, 1980, p. 126; corsivo nel testo.

19 Ivi, p. 140; GW, Bd. 9, pp. 128-9; corsivi nel testo.

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la mai elusa animalità, e della verità dell’attività e del lavoro, che si rivela nel suo sacrificio, come anche nel sacrificio di tutta la struttura desiderati- va precedente, a favore della relazione all’Altro. Attraverso quest’unione, guadagnata via negationis, la coscienza perverrà alla rappresentazione del- la ragione, ovvero «la rappresentazione della certezza della coscienza, di essere, nella sua singolarità, assolutamente in sé, o di essere ogni realtà»20.

20 Ivi, p. 143; GW, Bd. 9, p. 131; corsivo nel testo.

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ANNAOTTANI CAVINA*

Organizzazione di una bottega neoclassica

Felice Giani e la decorazione d’interni

F

 ,  .In un certo senso lo sappiamo benis- simo. Basta leggere, come in un film, i fotogrammi che lo ritraggono mentre disegna, con penna e taccuino, in un angolo dei fogli autografi.

All’ombra delle rovine, spesso insieme a un amico, con il cappello a tesa larga per vincere il riverbero del sole romano, Giani si ritrae sul seg- giolino pieghevole, la cartella in pelle per i disegni, un foglio sulle ginoc- chia. Altre volte è al lavoro nelle gallerie delle raccolte antiquarie oppure è in cammino, in cerca dell’angolazione più giusta, la matita già pronta fra le dita della mano (fig. 1).

È anche lui un pittore-viaggiante. Come molti nel Settecento. Utiliz- za i taccuini da tasca: formato ridotto, in dodicesimo, appunti a penna o matita tracciati rapidamente sul posto, qualche scritta per catturare i rapporti cromatici, cosí labili nella memoria. Molti dei suoi taccuini do- cumentano questo primo tempo, che si prolungava nella tranquillità dello studio, dove i disegni venivano elaborati e trasferiti in formati più grandi.

Se già il pittore non li aveva ultimati nelle locande sulla via del ritorno.

Era questa una prassi abbastanza comune: infatti sull’unico disegno datato del soggiorno italiano di David, uno studio da due statue antiche delle collezioni vaticane, il pittore ha aggiunto di proprio pugno: « finie dans une auberge en revenant de Rome» (fig. 2).

Accanto a questi piccoli album, ancora intatti e legati, tantissimi fogli in collezioni diverse potrebbero idealmente ricomporre i taccuini che nel- la febbre del conoscere e nell’angoscia del non ritorno su luoghi inaccessi- bili e spesso lontani dovevano costituire, per l’intera vita, un archivio del-

* Università degli Studi di Bologna.

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la memoria. Un repertorio di invenzioni e motivi cui attingere a distanza nel tempo.

* * *

«Lege da oservarsi alla matina apena alsato: studio di 2 ore e poi al la- voro della giornata, poi la sera essere per l’ave maria in casa e si studierà la musica per lo tempo di un’ora. Domenica letura / lunedi anatomia / martedi prospetiva / mercoledi antico / venerdi prospetiva e giometria / sabato anatomia».

Queste righe, copiate da un foglio autografo oggi disperso1 restitui- scono l’arco degli interessi di Giani, diramati e sistematici. Resta da met- tere a fuoco il «lavoro della giornata» che, nella buona stagione, da aprile a dicembre2, doveva identificarsi essenzialmente con la decorazione d’in- terni, mentre l’inverno era speso piuttosto nella messa a punto dei nuovi progetti, nello studio dei reperti di scavo, nei disegni condotti dal vivo.

La documentazione larghissima cui ho potuto attingere (disegni, lette- re, contratti di lavoro, il famoso Taccuino che è un libro autografo detta- gliatissimo su commissioni, pagamenti, spese della bottega) restituisce il diario dell’attività vagabonda di Giani, nei suoi quotidiani rapporti da un lato con i committenti, dall’altro con i collaboratori più stretti. Ma al di là di questo primo obiettivo, la ricostruzione del suo procedimento di lavoro (che ora si conosce nei tempi, nei ritmi, nelle responsabilità, nei costi) può essere utile anche in termini più generali, quale modello rappresentativo di una bottega dell’età neoclassica che si applicava alla decorazione d’interni.

* * *

A leggere una memoria dell’Ottocento che registra i ricordi del pittore Francesco Giangiacomo, la bottega di Giani era composta da un gruppo casuale e improvvisato: «Prese a stipendio quattro individui, ch’ei capric-

1 La trascrizione è stata effettuata sopra il cartone di un album di Giani del Cooper-Hewitt Museum di New York, scatola n. 1254.

2 «Si chiuderà bottega sempre alla fine di dicembre e si riaprirà la bottega alli primi d’aprile o alli primi di maggio» (Taccuino, c. 14). Eccezionalmente l’équipe lavorava in inverno, come prova una lettera del 10 gennaio 1822: «… si è dato principio al lavoro, giacché abbiamo bellissime giornate» (in S. Acquaviva, M. Vitali, Felice Giani. Un maestro della civiltà figurativa faentina, Faenza 1979, p. 101).

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ciosamente, secondo suo vivace carattere, chiamava la sua bottega»3. Ma le pagine manoscritte di un altro contemporaneo Arcangiolo Migliarini, il quale nella giovinezza aveva frequentato a Roma quella Accademia de’

Pensieri che ruotava attorno alla personalità di Giani, trasmettono, quanto alla bottega, informazioni forse più attendibili: «facea d’uopo di pittori di vaglia, e compositori non comuni, e soprattutto spediti nella esecuzione»4. Lo spoglio dei documenti consente qualche altra interessante conside- razione.

A parte Gaetano Bertolani che, quale pittore d’ornato responsabile della bottega nel suo complesso, ebbe un ruolo più incisivo, l’équipe di Felice Giani registra nel corso degli anni nomi di collaboratori del tutto secondari che si avvicendano, mentre costante rimane la composizione e la struttura della bottega.

C’era, da sempre, un pittore d’ornato. Questo ruolo finirà a un certo punto per coincidere con la figura stessa di Bertolani (1758-1856) a parti- re dal suo ingresso nella bottega. È lui infatti l’interlocutore fedele cui Gia- ni fa riferimento fino alla conclusione della propria carriera. Prima (fino al 1802 manca purtroppo la documentazione preziosa del Taccuino) Giani sembra affidarsi di volta in volta a partner diversi suggeriti dal committen- te o, è più probabile, dall’architetto cui Giani ancora è tenuto a fare riferi- mento (Giuseppe Barberi a Roma, Giovanni Antonio Antolini a Faenza).

La presenza di Bertolani in bottega è segnalata una prima volta nel maggio 1796, quando l’équipe di Felice Giani si installa nella città di Jesi (Ancona) proveniente da Roma5. È probabile tuttavia che Bertolani, faentino di adozione, fosse stato assunto da qualche tempo. I pagamenti, d’ora in avanti, saranno equamente divisi fra Giani e Bertolani.

Era nata a questo punto la «bottega» di Giani, un piccolo gruppo iti- nerante cui si aggiungevano garzoni ingaggiati sul posto6. Essa si aprirà in

3 F. Gasparoni, Cenni biografici del pittore da decorazione Felice Gianni, in «Arti e Lettere», I, 1860, pp. 10-12.

4 In S. Rudolph, Felice Giani: da Accademico “de’ Pensieri” a Madonnero, in «Storia dell’Ar- te», nn. 31-32, 1977, p. 176.

5 C. Annibaldi, Il Teatro di Jesi, Jesi 1882, p. 24.

6 Nel 1796 si citano due giovani pittori di Jesi, Luigi Gilli e Enrico Torri (Annibaldi 1882, p. 24).

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molte occasioni alla collaborazione di stuccatori, mobilieri, tappezzieri i quali realizzeranno progetti di Giani seguendone alla lettera i disegni, ma riceveranno il saldo direttamente dal committente.

Questa almeno è la condizione dei plasticatori che affiancano l’équipe del pittore nelle prime imprese importanti: Antonio Trentanove e Gio- van Battista Ballanti Graziani.

Avevano entrambi un avviato atelier e la collaborazione con Giani, intensa e affiatata, non significava integrazione nella bottega dal punto di vista economico. I loro nomi non compaiono nei pagamenti perché evi- dentemente venivano saldati a parte. Antonio Trentanove morirà nel 1812, ma dal 1804 si era trasferito stabilmente a Carrara. Giovan Battista Ballanti Graziani scomparirà nel 1818, ma già da tempo Giani era ricorso all’aiuto dei due stuccatori ticinesi che, alternandosi, lo seguiranno fedeli nei suoi spostamenti, Pietro e Marcantonio Trifogli.

* * *

Sui ruoli della bottega mi è accaduto di interrogarmi a più riprese. Al- cuni aspetti sono definitivamente chiariti, in altri casi si propone una ri- sposta plausibile, in attesa che siano accessibili confronti con organizza- zioni analoghe.

Sulla preminenza di Giani, nell’ambito del gruppo che lavorava con lui, non c’è bisogno di portare altre prove: i contratti fanno riferimento al pittore in prima persona e nonostante rapporti assai poco gerarchici, fino alla fine della carriera niente si avvia senza sue indicazioni precise. Una lettera di Gaetano Bertolani a Giani più che sessantenne (siamo nel 1821) è in questo senso molto indicativa: «né ho fissato alcun soggetto, talché senza di voi lo non do principio all’opera»7.

Ma al momento dell’esecuzione quali erano i tempi dei rispettivi in- terventi e quali le responsabilità?

Gaetano Bertolani pittore d’ornato non dava inizio al lavoro, come sappiamo, senza un progetto di Giani. Ma lo precedeva ogni volta sul po- sto e in base all’impegno della commissione concordava il prezzo e le sca-

7 Acquaviva, Vitali, 1979, p. 100.

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denze dei pagamenti8. Fissato il contratto, Bertolani svolgeva il lavoro pre- paratorio: a lui il committente inviava la pianta generale dell’appartamento e quella delle singole stanze «non solo per ciò che riguarda le volte, ma anche i muri circondari di ciascheduna camera con vani rispettivi di por- te e di finestre»9. Studiava le misure, ripartiva le superfici (volte e pareti), quindi procedeva alla preparazione delle zone destinate ad essere dipinte.

Quanto alle scelte tematiche della decorazione, esse riguardavano Fe- lice Giani oppure Giani e il suo committente quando quest’ultimo riven- dicava un ruolo attivo e partecipe nella definizione della propria immagi- ne. Ciò che sempre accadeva nelle commissioni di maggiore impegno.

Era ancora Felice Giani a progettare lo schema decorativo, disegnando i riquadri a figure e anche gli inserti ad ornato (fig. 3). L’acquisizione di questo dato è un fatto nuovo e importante, perché scardina il tradizionale rapporto gerarchico fra pittore d’ornato e pittore di figura. In altre parole quel rapporto di dipendenza, da parte del pittore di figura, che la tradizio- ne quadraturistica bolognese aveva consacrato negli anni. Invece alcune dichiarazioni fermissime («desidero che non si muti gli ornati, che chi li dovrarà dipingere, avrà la bontà di non mutare»)10e i disegni che ho repe- rito provano in maniera definitiva che anche l’ornato, sia nella scelta dei motivi decorativi che nella sua inserzione all’interno del racconto figura- to, veniva impostato fino ai dettagli dallo stesso Giani, secondo quell’idea totalizzante e globale che caratterizza la decorazione d’età neoclassica.

Quanto all’esecuzione, le grandi superfici dipinte non erano meccani- camente divise. In linea di massima Bertolani eseguiva gli ornati e Giani i riquadri a figure, ma in tutte le commissioni importanti è Giani a realiz- zare personalmente anche le figurine (Vittorie, eroti) che completano le grottesche.

La sua grafia elegante e sicura è inconfondibile a palazzo Milzetti a Faenza, a palazzo Marescalchi (ma solo nella preziosa «sala da pranzo»; gli ambienti secondari non sono altrettanto curati) e a palazzo Baciocchi a

18 «Per il pagamento fate voi, a me va bene» gli scriveva Giani nel 1821, durante le trattative per palazzo Nagliati a Ferrara.

19 Acquaviva, Vitali, 1979, p. 49. La lettera è datata 28 gennaio 1807.

10 Lettera al conte Ludovico Laderchi, datata da Roma 26 maggio 1792 (Acquaviva, Vitali, 1979, p. 34).

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Bologna, per citare qualche episodio fra i tanti (figg. 4, 5, 6, 7). Fin dal- l’inizio del resto Giani aveva rivendicato per sé questa parte: «Il signor Ogolini [Giovanni Ugolini] suo pittore d’ornato sarà bonissimo per ese- guire gli ornati e per qualche figura che ci vorà intrecciata mi farà vostra si- gnoria illustrissima un regallo alla fine»11. Ma se la commissione era peri- ferica e di minore prestigio, cresceva il ruolo di Bertolani, che disegnava la decorazione del pavimento12o realizzava dettagli che Giani non aveva il tempo di seguire di persona.

Un criterio del tutto analogo regolava i rapporti con gli stuccatori e con quanti altri fossero coinvolti nella decorazione di quegli ambienti che, dal mobili al pavimento, dalle pitture al rilievi, dovevano risultare assolu- tamente unitari secondo i principi di un vero e proprio Gesamtkunstwerk.

Quanto agli stuccatori, essi seguivano il disegno di Giani che aveva avocato a sé la progettazione di tutti i rilievi. Su questo punto non esisto- no dubbi da quando è stato possibile individuare una serie di studi prepa- ratori, indiscutibilmente di Giani, per pannelli e sovrapporte realizzati in stucco (figg. 8, 9, 10, 11). E se si ricorda che i plasticatori erano anche scultori di grande talento, come ad esempio Antonio Trentanove, l’esi- genza di Giani di controllare anche loro sul piano della creatività e dello stile, è una prova ulteriore di consapevolezza nel perseguire un progetto unitario ed organico.

Tuttavia qualcosa va detto del rapporto elettivo fra il pittore e i suoi traduttori a rilievo.

Gli scultori lavoravano l’impasto tenero e duttile dello stucco sulla base di disegni sommari, che Giani eseguiva su scala ridotta. Lui definiva la composizione entro i confini di un foglio di carta, loro lavoravano pan- nelli di quasi due metri, realizzati sul posto. Sul grezzo – di calce e sabbia impalpabile – stendevano l’ultima mano di gesso mescolato con polvere di marmo, poi intervenivano con pochi colpi di stecca. Ma «il dominio dello stiacciato pittorico, i trapassi plastici molto sfumati con cui tener

11 Lettera al conte Ludovico Laderchi, datata da Roma 23 marzo 1792 (Acquaviva, Vitali, 1979, p. 33).

12 Bologna, Casa Bertazzoli: «i pavimenti di mistura sono fatti con disegni del detto Bertola- ni» (P. Bassani, Guida agli Amatori delle Belle Arti … per la città di Bologna, Bologna 1816, p. 25).

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