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Academic year: 2021

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Quaderni

leif

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Università di Catania

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Direttore

Maria Vita Romeo Redazione

Massimo Vittorio (coordinatore), Antonio Caramagno, Danila D’Antiochia, Floriana Ferro,

Antonio G. Pesce, Elisabetta Todaro, Daniela Vasta Segreteria di redazione

Melania D’Anna, Manuela Finocchiaro Comitato Scientifico

Paolo Amodio (Università «Federico II», Napoli)

Laura Berchielli (Université «Blaise Pascal», Clermont Fer- rand)

Domenico Bosco (Università di Chieti-Pescara) Calogero Caltagirone (Università LUMSA, Roma) Riccardo Caporali (Università di Bologna)

Carlo Carena (Casa editrice Einaudi)

Dominique Descotes (Université «Blaise Pascal», Clermont Ferrand)

Laurence Devillairs (Centre Sèvres et Institut catholique de Paris)

Gérard Ferreyrolles (Université Paris Sorbonne-Paris IV) Denis Kambouchner (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne) Gordon Marino (St. Olaf College, Minnesota USA) Denis Moreau (Université de Nantes)

Giuseppe Pezzino (Università di Catania)

Philippe Sellier (Université Paris Sorbonne-Paris IV) Paolo Vincieri (Università di Bologna)

Direttore responsabile Giovanni Giammona

Direzione, redazione e amministrazione

Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di Catania.

Piazza Dante, 32 - 95124 Catania.

Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566 Email: mariavitaromeo@unict.it ISSN 1970-7401

© 2011 - Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di Catania

Registrazione presso il Tribunale di Catania, n. 25/06, del 29 settembre 2006

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania

Impaginazione e stampa:

, grafica editoriale di Pietro Marletta,

via Delle Gardenie 3, Belsito, 95045 Misterbianco (CT), tel. 095 71 41 891,

e-mail: emmegrafed@tiscali.it

Quaderni

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Quaderni

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agorà

Giuseppe Bentivegna Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 5 Maria Vita Romeo Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 19 Alessandro Chiessi e other Mandeville: the origins of a scandalous

thought. Mechanism, Materialism and Naturalism 47

coffee break

Giuseppe Pezzino Platone in Italia 79

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Anno V n. 7, luglio-dicembre 2011

Università di Catania

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Giuseppe Bentivegna

Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento

L

a STorIa DeL PeNSIero fILoSofIco e PoLITIcodell’Ottocento sici- liano è stata ricostruita con intenti storiografici che, se giustificati alla luce delle finalità etico-politiche a cui rispondevano, non permettono più allo storico della cultura di comprendere efficacemente la reale dinamica delle teorie filosofiche e politiche, senza rischiare di scivolare in forme sto- riografiche attardate, quali l’agiografia o il municipalismo.

Con questo non voglio sostenere che manchino del tutto studi soddi- sfacenti, ricchi nelle loro analisi filologiche (necessarie trattandosi il più delle volte di “territori inesplorati”) e interpretative. Questi studi di diverso orientamento, anche se offrono ampie suggestioni e direzioni di analisi, non si soffermano sulla filosofia liberale isolana, non ne operano una rico- struzione concettuale, non ne individuano le valenze pratiche, non ne col- gono la reale incidenza nella dinamica per la modernizzazione delle strut- ture e della cultura. Se si fa eccezione dei saggi di R. Romeo1e F. Pillitteri2, gli altri sono attraversati il più delle volte da un implicito, e non sempre motivato, giudizio di condanna del liberalismo, inteso come freno ideolo- gico ad una vera rivoluzione risorgimentale, come momento di avanza- mento e affermazione delle ideologie democratiche. Ciò, se in parte è con- divisibile, almeno per quelle regioni italiane dove le ideologie democratiche erano mature e ben radicate nel tessuto sociale, in Sicilia necessita di una revisione in quanto la rivoluzione risorgimentale nell’isola è opera soprat- tutto dei liberali, almeno fino al 1848-49, quando le differenze ideologiche si evidenziano e le fragili alleanze saltano. Tutto questo emerge chiaramen- te dal saggio di Romeo che, però, brillante nella ricostruzione storica, offre

1 Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1950, rist. ivi 1973.

2 Il liberalismo economico in Sicilia e Giovanni Bruno, Palermo, Palumbo, 1983.

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poco allo storico della cultura se non uno scenario dove le idee nascono, operano e si comprendono3. Molti intellettuali e opere sono citati da Ro- meo, ma ciò che manca è una compiuta analisi delle loro ideologie, com- pito, questo, marginale rispetto all’intento complessivo dell’opera. Al con- trario i saggi di G. Berti e S. M. Ganci tendono a porre troppo in evidenza lo spessore teorico e la funzione dei democratici enfatizzandone lo spessore teorico e la capacità organizzativa4. Una strada “mediana” è certamente percorribile, considerando però che, dopo il 1848, liberali e democratici so- no “sconfitti” o almeno relegati a ruoli marginali, isolati dall’alleanza “for- te” tra aristocrazia e monarchia sabauda. Il primo parlamento del nuovo Regno vede insieme all’opposizione liberali e democratici siciliani rinchiusi nella loro nostalgia degli anni Quaranta, con le loro utopie di giustizia e li- bertà. Stessa sorte, per certi versi emblematica, tocca ai democratici conti- nentali, cui però si è portata l’attenzione degli storici, strappandoli al buio della sconfitta5.

Oltre ai saggi citati, che in qualche modo costituiscono delle tappe ob- bligate e dei paradigmi interpretativi convincenti, debbo ricordare l’ormai datato lavoro di G. De Ruggiero6, Con questo studioso siamo lontani dalle abili ma mistificanti ricostruzioni di G. Gentile7sulle quali sono state scrit- te pagine illuminanti8e che proprio per l’abilità con cui sono state condot-

3 Lo stesso Romeo lamentava in un suo saggio la povertà degli studi sulla cultura siciliana del primo Ottocento; si veda I liberali napoletani e le rivoluzione siciliana del 1848-’49, in AA. VV., Il 1848 nell’Italia meridionale, Napoli, Tip. Torella, 1950, pp. 106-45.

4 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1962 e S. M. Ganci, L’Italia antimoderna. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi, Parma, Guanda, 1968.

5 Tra tutti gli studi, per le prospettive che ha aperto, ricordo N. Bobbio, Una filosofia militan- te. Saggi su C. Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971. Si veda anche F. Della Peruta, Carlo Cattaneo poli- tico, Milano, F. Angeli, 2001.

6 Il pensiero politico meridionale nei secc. XVIII e XIX, Roma-Bari, Laterza, 1922; a questo saggio va accostata la Storia del liberalismo europeo, ivi. 1925.

7 Il tramonto della cultura siciliana, rist. della II ed. riv. e accr., Firenze, Sansoni, 1963.

8 Per una confutazione delle tesi gentiliane si veda C. Dollo, Implicazioni politiche e determi- nazioni ideologiche della filosofia in Sicilia (1870-1915), in AA. VV., La presenza della Sicilia nella cul- tura degli ultimi cento anni, Palermo, Palumbo, 1977, pp. 820-86. Tuttavia, quando si affrontano i temi della storiografia idealista, si devono fare nostre le cautele e le raccomandazioni suggerite da P.

Piovani in un contesto diverso, quello del previchismo meridionale, ma generalizzabili per realizza-

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te hanno affascinato gli storici bloccando per anni la ricerca sul pensiero fi- losofico e politico siciliano. Il dibattito è stato tenuto vivo solo da studiosi di formazione liberale o marxista; giacché non mi sembra che meritino particolare attenzione le ricostruzioni agiografiche o semplicemente erudite alla V. Di Giovanni9, funzionali all’esaltazione di valori filosofici e politici

“fuori del tempo”.

Da qualche decennio alcuni storici hanno ravvivato l’attenzione per la storia culturale della Sicilia, approntando metodi più critici e indagando nuovi settori del sapere. Le ricerche di G. Giarrizzo sull’illuminismo, quelle di Dollo su Cinque e Seicento e Otto e Novecento, le mie sull’età dei Lu- mi e sul primo Ottocento, danno una visione dinamica e problematica del- la realtà culturale dell’isola. Emerge una immagine nuova della Sicilia che non si presenta chiusa in se stessa, restia alla cultura europea e sequestrata, ma che partecipa attivamente, e a volte con risultati rilevanti, al dibattito culturale generale. Una rassegna anche sommaria delle indicazioni biblio- grafiche stilate da Giarrizzo, da Dollo e da me mostra una vasta e profonda circolazione di testi filosofici, politici, scientifici dei maggiori studiosi ita- liani ed europei. Ciò di cui siamo ancora privi è un’analisi del primo Ot- tocento e del Risorgimento, che costituisce, invece, un momento di grande interesse, ricco e articolato, ricostruibile con una storia che non sia solo di dottrine etico-politiche ma della più ampia e ricca categorie della storia della cultura, perché sono convinto che il liberalismo isolano non è solo li- berismo, teoria dello Stato e della società civile, ma un tentativo di rinno- vamento concettuale di tutta la cultura isolana e, quindi, di tutto l’appara- to produttivo e distributivo dei beni materiali.

re un vero superamento della storiografia di Croce e Gentile: «[…] per studiare la filosofia meridio- nale della fine del Seicento con piena autonomia non bisogna mettersi quasi per partito preso, contro la storiografia idealista, bisogna invece, tenendo conto di risultati ormai acquisiti, riprendere il di- scorso in più aperta visuale e con più scaltrita documentazione, con la costante preoccupazione di non tentare sintesi che non siano sorrette dalla analisi minuziosa del pensiero e dei pensatori che si vogliono conoscere ed interpretare», Il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la «Scienza Nuova», in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli», vol. LXX (1959), p. 69.

9 Del Di Giovanni, come modello della sua storiografia, mi limito a segnalare i saggi Della fi- losofia moderna in Sicilia, Palermo, Amenta, 1868 e Storia della filosofia in Sicilia, ivi, Pedone-Lauriel, 1873, rist. anast. Bologna, Forni, 1985.

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L’attenzione non deve essere rivolta alla ricostruzione del solo pensiero politico, in quanto del liberalismo bisogna cogliere tutti gli aspetti di rin- novamento della vita isolana, senza esagerarne la spinta propulsiva, come movimento coinvolgente non solo la politica, con le scienze ad essa con- nesse, in particolar modo l’economia, ma anche la filoso- fia, come visione del mondo, come gnoseologia, meto- dologia, ecc. e le lettere, continuando così, secondo coor dinate e modalità diversificate, l’opera di sman- tellamento della feudalità intrapresa dagli illuministi di fine Settecento, assorbendone la mentalità critica e antisistematica. L’appello degli illuministi aveva trovato la sordità dei ceti nobiliari, ma non dei ‘figli’

della borghesia, dediti agli studi e più sensibili all’ag- giornamento dei valori storici tradizionali. Da questo gruppo emerge il ceto degli intellettuali liberali, impe- gnato nel doppio fronte del rinnovamento strutturale e culturale negli anni del Risorgimento.

Nel primo fronte la battaglia è condotta, pur con qualche ambiguità, in nome del liberoscambismo e del potenziamento delle attività agricole e manifatturiere10; nel secondo con la proposta di nuovi valori connessi ad un forte interesse per il civile, in antitesi alle oscure metafisiche romantiche o idealiste o, peggio ancora, dell’ontologismo tradizionale.

Si tratta di un rivolgimento che si potenzia attraverso la lettura delle opere di Vico e Romagnosi, senza trascurare l’influsso controverso dell’e- clettismo francese e della tradizione empiristica inglese.

Ritengo necessario ricordare le coordinate storiche fondamentali che circoscrivono l’ambito di questo contributo. Il periodo che va dal 1830 al 1848 è il più ricco – dal punto di vista della dinamica culturale – di tutto il primo Ottocento e segna la rottura con il liberalismo degli Scinà e dei Gre- gorio, ancora operante negli avvenimenti del ’12 per aprirsi a più ampie e

10 Sul dibattito economico-politico nella Sicilia del primo Ottocento si vedano, con le relative indicazioni bibliografiche, M. Grillo, Protezionismo e liberalismo. Momenti del dibattito sull’economia siciliana del primo Ottocento, Catania, Cuecm, 1994 e P. Travagliante, Sui privilegi in materia di in- dustria. Il concorso di Economia del 1841 nell’Università di Catania, ivi, 1994.

Giuseppe Mazzini.

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aggiornate prospettive culturali, rompendo l’asse portante del vecchio “si- cilianismo”, che fissava nell’idea di nazione siciliana il presupposto fonda- mentale per spezzare le catene della feudalità, rimaste quasi integre nono- stante i coraggiosi ma per molti aspetti inefficaci colpi dei viceré Caracciolo e Caramanico. È con gli anni Trenta che la feudalità, con il suo rigido, soffocante apparato giuridico, è spazzata via, non più in nome dell’ideale resurrezione della nazione siciliana, ma nella prospettiva più aperta e pro- gredita, che assume forme e contenuti diversi, della nazione italiana.

Detto così, potrebbe sembrare un movimento continuo e indolore; in realtà la sua affermazione ha comportato un quasi radicale mutamento del- la mentalità siciliana, non dico dei ceti aristocratico-nobiliari, nemici di ogni pur tiepido cambiamento, ma nella borghesia piccola e media, della città e della campagna, soffocata dalle strettoie di un apparato produttivo e legislativo, che ne impedisce qualsiasi espansione economico-politica. Si tratta di un processo che in qualche modo cerca di colmare l’enorme vuoto storico vissuto dall’isola, rimasta estranea agli effetti progressivi della rivo- luzione francese prima e della politica napoleonica poi. La borghesia isola- na, tolte le ambigue e sostanzialmente inefficaci mediazioni inglesi, non è stata nutrita e irrobustita dagli avvenimenti continentali, ma, attraverso i suoi uomini di punta, si impegna in un profondo programma di revisione ideologica e sociale. Questa dinamica inizia con gli anni Trenta e, parados- salmente, è messa in moto dalla Monarchia Borbonica convinta finalmente (ma ormai tardivamente) della necessità di abbattere le strutture feudali. In realtà, il suo sforzo si rivela inadeguato alla realizzazione di un programma riformistico. Il tentativo, però, favorisce un largo passaggio della proprietà fondiaria dagli aristocratici alla borghesia che si andava consolidando. Tut- to questo facilita l’irrobustirsi della mentalità antiborbonica e inserisce la Sicilia, com’è noto, in un ampio orizzonte contestativo ricco di fermenti culturali inglesi, francesi e, per la prima volta in maniera chiara ed esplicita, della tradizione filosofica italiana da Vico a Romagnosi, con l’intento di immettere la Sicilia nel dibattito italiano. Questo è il progetto politico di fondo del liberalismo isolano, quasi compatto fino al Quarantotto, anno della rivoluzione e delle disillusioni; anno in cui inizia la revisione dei va- lori portanti dei moti per l’affermazione di una nuova linea politica, quella unitaria, alla quale molti dei liberali del Quarantotto restano estranei evi-

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denziando debolezze e contraddizioni. Certo è che nel “decennio di prepa- razione” si assiste allo sfaldarsi dell’alleanza tra liberali moderati e democra- tici e all’affermazione di un nuovo ceto politico in grado di orientare in senso unitario le sorti della Sicilia11. A questo processo non sono estranee le realistiche prese di coscienza di alcuni liberali – cito fra tutti M. Amari – che con il loro progrediente unitari- smo misero in minoranza gli irriduci- bili federalisti come E. Amari. Sono convinto che le origini della “sconfit- ta” dei liberali isolani non si spiegano solo con gli avvenimenti nazionali del “decennio di preparazione”, che evidenziano la fragilità del federali- smo liberal-cattolico, ma anche, nel caso della Sicilia, con l’incapacità dei moderati di spingersi al di là di una prospettiva che, seppur giustificata con argomenti schiettamente liberali ma astratti, rimane pur sempre legata alla vecchia idea di nazione siciliana, che si era aggiornata nella forma ma non nella sostanza, come si evince dal nascente regionismo degli anni Ses- santa che, al contrario di come ritiene S. M. Ganci12, mi sembra un movimento anacronistico e nostalgico. In realtà, mi sembra che questo movimento immiserisca, per riprendere i ter- mini di Romeo, il clima culturale dell’isola e gli dà un tono generale assai modesto e concettualmente inconsistente13, che non ha alcuna continuità con la vivacità e la profondità di quello del 1848.

11 Cfr. R. Romeo, op. cit., pp. 350-4 e G. Ciampi, I liberali moderati siciliani in esilio nel de- cennio di preparazione, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1979.

12 Questo studioso vede in esso l’inizio del movimento autonomistico. Cfr. quanto scrive in L’Italia antimoderna, cit., ad es., a p. 235 a proposito di F. P. Perez.

13 R. Romeo, op. cit., p. 381.

G. Induno, Sentinella.

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Mi sembra di poter ritenere che, attraverso queste brevi considerazioni storiche e metodologiche, la storia della cultura filosofica e politica della Si- cilia esca fuori dalla prospettiva “regionista agiografica” e acquista una di- mensione concettuale fondamentale per la comprensione dei modi attra- verso cui nella storia del sapere le “mappe particolari” siano elaborate al- l’interno dello “sviluppo dell’universale”.

Per quanto attiene alla storia del pensiero filosofico nei primi anni del - l’Ottocento in Sicilia, i “filosofi di professione”, mentre si dimostrano asso- lutamente incapaci di scrollarsi di dosso il ruolo di indagatori della Verità, assumono la funzione di uno dei canali, e non certo il più importante, per i quali si cerca di far passare un consenso, quanto più ampio, alla struttura so- cio-economica venuta fuori dagli avvenimenti del 1812-1815. La idéologie e successivamente l’eclettismo sostituiscono le tematiche scolastiche nelle scuole di filosofia e non costituiscono un salto qualitativo capace di dare alla filosofia un ruolo più incisivo e meno teorico; ciò non toglie però che l’eclet- tismo non sia stato in grado di formare la coscienza politica di intellettuali, che ebbero un ruolo determinante durante gli anni Quaranta, per la forma- zione di quei gruppi che nel 1848-49 si fecero promotori della rivoluzione e del processo di costituzione dell’unità nazionale. È d’altronde comprensi- bile il lento ma costante involversi della ideologia, attraverso la mediazione dell’eclettismo, nell’ontologismo tradizionale, come quello di Gioberti.

Negli anni Trenta, usando un’espressione di Romeo, si può parlare di una nuova coscienza storica o meglio di una nuova visione della storia14, formatasi attraverso la spinta della borghesia intellettuale isolana, alla ricer- ca di nuovi modelli teorici di sviluppo storico, che ne legittimassero l’aspi- razione egemonica. Questa visione della storia, che in alcuni intellettuali ha precisi connotati storicisti, formata da filosofi per lo più laici ma di for- mazione cattolica, si sviluppa secondo richiami teorici diversi. Con ciò non voglio affermare che in Sicilia si sia sviluppato un movimento storicista he- geliano15, ma che precisi motivi di ordine economico e politico hanno in- dotto alla studio filosofico della storia, fino a teorizzare in E. Amari, una fi-

14 Ivi, p. 257.

15 Faccio riferimento all’hegelismo napoletano che non ha rapporti con gli interpreti della cul- tura isolana di questi anni.

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losofia della storia progressiva sullo sfondo della Scienza nuova vichiana. Le riflessioni sulla storia costituiscono delle innovazioni che avvicinano gli in- tellettuali isolani alla contemporanea cultura italiana ed europea, non più ferma allo sterile spiritualismo dei metafisici tradizionali, ma aperta all’in- cisivo pensiero della filosofia civile.

La ripresa dei temi vichiani (che andrebbe approfondita all’interno del vichismo risorgimentale nazionale a partire da V. Cuoco) e l’adesione alla

“civile filosofia” di Romagnosi, presenti, fra gli altri, in B. Castiglia ed E.

Amari, non hanno nulla di materialistico (come sostiene Gentile), tranne che per materialismo non si intenda qualsiasi impegno teorico-pratico vol- to all’ammodernamento della società, che in questo caso addirittura è di chiara ispirazione cattolico-liberale. Un elemento che in questi due intel- lettuali si ritrova immediatamente è l’adesione al cattolicesimo, che però non li porta ad una chiusura nei confronti di autori di altra ispirazione fi- losofica (ad es. Bentham, Romagnosi, ecc.) utilizzati come punto di riferi- mento per nuovi modelli di sviluppo. Gli intellettuali di cultura borghese non potevano rivolgersi al Papato, ancorato ad una visione sociale di tipo medievale, ma alle forze italiane ed europee che lottavano a fianco della borghesia più avanzata per la conquista del potere politico. Bisogna sotto- lineare però che il dibattito non vede i cattolici in un unico fronte perché la questione sociale diventa la linea di demarcazione tra cattolici liberali e cattolici sociali, riproducendo in Sicilia una questione italiana ed europea.

Castiglia, ad esempio, avverte che la metafisica scolastica rappresenta poli- ticamente un momento regressivo rispetto alle esigenze di rinnovamento.

In Castiglia l’antisicilianismo è chiaro, deliberato, cosciente del valore di rottura, poiché il progresso non è possibile con l’isolazionismo e il prote- zionismo. Le scienze dell’umanità di cui parla Castiglia, limitando la ricerca al cerchio delle opere umane, hanno una precisa connotazione politica, poiché, affermando con Vico che il mondo storico-civile è il frutto dell’o- perare umano, escludono ogni intervento divino: l’uomo si riappropria del suo mondo e ne diviene l’artefice. Il ribaltamento del metodo vichiano, ri- tenuto aprioristico, è la prova evidente di questa nuova mentalità positiva, che vuole trarre dall’osservazione i principi che debbono regolare l’agire umano, non più determinato e guidato dalle leggi immutabili di Dio, ma frutto di ben calcolate indagini osservative e storiche. In tal senso Castiglia

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come ‘scienziato sociale’ si richiama a Romagnosi, che spesso contrappone a Vico, proprio per la vocazione di filosofo civile e come tale costruisce una gnoseologia che non è soggettivistica ma positivistico-naturalistica, che ha evidenti valenze politiche: la metafisica non è adatta agli italiani, che, inve- ce, hanno bisogno di studi civili e sociali per costruire le basi della loro uni- ficazione e del loro progresso.

La critica di Castiglia alla metafisica non fu compresa da Gentile, che la considerò opera di un “bizzarro ingegno”16. Dal saggio gentiliano questo intellettuale esce fuori falsato e sminuito.

Della battaglia contro lo Stato accentra- to, per la sovranità popolare e il suffragio universale, l’assoluta libertà di stampa, l’abolizione della pena di morte, la fine del potere temporale della Chiesa, nulla è detto.

Nel contesto tracciato da V. Di Gio- vanni è assente, fra gli altri, V. D’Ondes Reggio, mentre la sua azione teorica e pratica in Sicilia è corrosiva ed agisce in profondità sia nella critica dell’organizza- zione economico-sociale sia nei confronti del cattolicesimo arretrato e tradizionali- sta. D’Ondes Reggio è assente nella trat- tazione gentiliana forse perché assimilato agli intellettuali che dopo il Quarantotto vivono e operano nell’Italia settentriona- le, accostandoli alla cultura “nazionale”.

In effetti, tutti gli intellettuali che ruotano attorno al Giornale di Statistica, tranne G. Bruno, emigrano al Nord con il fallimento dei moti del 1848 e qui ricevono nuovi stimoli culturali, ma è innegabile che non dimenticano l’esperienza maturata durante gli anni siciliani17. Tuttavia, per D’Ondes

16 G. Gentile, op. cit., p. 70.

17 Sull’emigrazione politica siciliana oltre al cit. saggio di G. Ciampi, si veda G. B. Furiozzi, L’emigrazione politica in Piemonte nel decennio preunitario, Firenze, L. Olschki, 1979, pp. 7-181.

Giuseppe Garibaldi.

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Reggio bisogna fare qualche notazione particolare. Egli rappresenta un caso significativo di trasformazione della cultura cattolico-liberale che, con il trasferimento dell’autore nel più vasto ambiente nazionale, finisce con l’as- sumere un graduale e costante moderatismo e perfino di atteggiamenti conservatori in nome di quella libertà che dalle pagine del Giornale di Sta- tistica aveva esaltato il liberoscambi- smo e la ribellione al Borbone. Nella sua parabola culturale ho individuato due fasi: la prima, quella siciliana; la seconda, nella Introduzione ai principi delle umane società e nell’attività parla- mentare del nuovo Regno. Queste due fasi, per ragioni diverse, non sono con- siderate unitariamente né da Romeo né da Frattini. Il primo si sofferma, per evidenti ragioni di spazio stori- co, all’attività culturale e politica di D’Ondes Reggio svolta in Sicilia fino al Quarantotto e, con la solita capacità critica e sintetica, ne coglie i punti qualificanti, lo colloca all’interno del rinnovantesi liberalismo isolano e ne determina con precisione la funzione svolta durante gli anni preunitari.

Frattini, invece, pur con l’intento di tracciare il pensiero politico di D’On- des Reggio e di collocarlo all’interno dei diversi orientamenti ideologici del Risorgimento, ne trascura totalmente la produzione e l’impegno degli anni Quaranta e si ferma all’analisi della Introduzione ai principi delle umane so- cietà che è del 1857, e all’attività parlamentare. In sostanza, dalla sua mono- grafia viene fuori un D’Ondes Reggio monco di circa venti anni di impe- gno improntato fondamentalmente ai principi del liberalismo economico e filosofico con forti influenze dell’utilitarismo di Bentham. In Frattini il rapporto fra cattolicesimo e liberalismo nella svolta postunitaria di D’On- des Reggio non è visto come una intransigente difesa del cattolicesimo (an-

Camillo Benso conte di Cavour.

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tiliberale) ma della libertà senza attributi18. In realtà l’Introduzione e i Di- scorsi sulle presenti rivoluzioni in Europa19costituiscono il punto di passag- gio dalle posizioni liberali al cattolicesimo conservatore e intransigente dell’Opera dei Congressi, poiché, malgrado vi si tenti di armonizzare le istanze cattoliche con quelle liberali, sono la prova dell’adesione al modera- tismo di destra. Se le due opere rispondono

all’esigenza di formulare un sistema liberale di marca cattolica, che assegna allo Stato una funzione essenzialmente garantista e una legittimazione fondata sull’u- tilità e sul consenso degli associati20,

sul piano politico l’accettazione della formula cavouriana della “libera Chie- sa in libero Stato” nasconde un dissenso che

esplose più tardi nella vigorosa opposizione parlamentare del barone siciliano a tutte le iniziative di governo che rispondessero a una logica interventista in ma- teria ecclesiastica, in nome della propria coerente quanto dottrinaria idea di li- bertà. Individuando nella realizzazione dello Stato unitario l’applicazione di un liberalismo, per così dire, antiliberale, una forma moderna di assolutismo, il Reg- gio finì per escludere ogni idea di conciliazione tra il cattolicesimo e quel libera- lismo, attestandosi a sua volta su posizioni intransigenti21.

In fondo il D’Ondes Reggio di questi anni è molto lontano dall’accet- tare le conclusioni etiche e politiche del liberalismo22.

Le contraddizioni del barone siciliano non sfuggono a Sindoni, che, anzi, ne ricostruisce senza “intromissioni ideologiche” la figura attraverso

18 E. Frattini, Il pensiero politico di V. D’Ondes Reggio, Brescia, Morcelliana, 1964, p. 201.

19 Torino, Paravia, 1850.

20 F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, Torino, Utet, 1972, vol. V, p. 577.

21 Ibidem.

22 Come dirà nel 1879 nel V congresso dei cattolici intransigenti (Opera dei Congressi) nel pro- gramma del movimento: «[…] il liberalismo è tirannide; esso è l’incredulità, addimandata Filosofi- smo del secolo passato, la quale è l’ultima conseguenza che in sé nascondeva il Giansenismo. Libe- ralismo, Filosofismo, Giansenismo, tutte e tre nell’intrinseco sono la stessa cosa, ed hanno però lo stesso generatore, il Protestantesimo, ondeché non ci può essere cosa più impropria anzi più sconcia di dire Cattolicesimo liberale, levati i sofismi, gli arzigogoli, le lustre, e le inconseguenze, di cui si fa sovente uso per manco male, le due parole sono contraddizione in termini, significano verità-errore, la seconda nega la prima», Atti del quinto Congresso cattolico, Bologna, Tip. Falsinea, 1880, p. 283.

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un’esposizione cronologica e non sistematica delle sue opere; da questo punto di vista la spiegazione che dà della “rabbiosa” avversione per il libe- ralismo del D’Ondes appare in parte convincente23.

Dentro questo contesto gioca un ruolo di primo piano E. Amari, inne- stando la sua opera all’interno dell’emergente cultura liberale e cattolica isolana degli anni Quaranta. A tal proposito, è di notevole interesse il di- battito sviluppatosi tra “sicilianisti” e “autonomisti” (federalisti), cercando di individuare il ruolo giocato da E. Amari. Va inoltre chiarito che l’auto- nomismo di Amari, diverso da quello del cognato D’Ondes Reggio, ma molto affine a quello di G. La Farina e M. Amari, almeno fino agli anni Cinquanta, nella sua opera più matura trova una compiuta espressione dottrinale, che, non immune da ambiguità e contraddizioni, ha svolto una rilevante funzione di guida del ceto moderato. Nelle opere di Amari, tra l’altro, si tratta di vedere come si sfalda sotto i duri colpi della critica e della mediazione, l’antica ideologia sicilianista, che ebbe il suo momento più or- ganico nel moti del 1812. A tal proposito, mi sembra sostanzialmente cor- retta l’analisi di G. C. Marino quando scrive che il

lungo travaglio ideo-programmatico dell’opposizione di coscienti avanguardie al governo borbonico, l’influenza sempre più incisiva sugli ‘innovatori’ del pensiero del Vico scoperto anche nell’isola, la stessa penetrazione anomala (in commistione con cospicue valenze sicilianiste) degli ideali giobertiani del Primato, nella faticosa maturazione di una intellettualità borghese di cui la teodemocrazia di Gioacchino Ventura e di Vito D’Ondes Reggio e il liberalismo di Francesco Ferrara e il cat- tolicesimo liberale di Emerico Amari e il progrediente unitarismo di Michele Amari sarebbero stati fattori salienti, avrebbero reso indiscutibile per molti il con- cetto di una unità culturale italica entro la quale la cultura siciliana con le sue vir- tuose esperienze millenarie andava spiegata e inverata24.

Dopo il 1848-49 in Sicilia il movimento liberale non ebbe quasi alcun seguito per l’esiguità delle forze rimaste e perché in realtà non era riuscito ad incidere profondamente in larghi settori della vita civile, che, sostanzial-

23 A. Sindoni, Vito D’Ondes Reggio. Lo Stato liberale, la Chiesa, il Mezzogiorno, Roma, Ed. Stu- dium, 1990, p. 80.

24 G. C. Marino, L’ideologia sicilianista dall’età dei lumi al Risorgimento, Palermo, S. F. Flac- covio, 1971, p. 200.

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mente, erano rimasti estranei ai suoi principi. Il fallimento del liberalismo di primo Ottocento è per certi versi simile a quello dell’illuminismo di fine Settecento, con cui stabilisce una linea di continuità; e se si può parlare di sconfitta dell’illuminismo in Sicilia per il suo carattere essenzialmente in- tellettuale, lo stesso si può dire per il liberalismo, in particolare per quello cattolico. Sconfitta che alcuni seppero assorbire e superare adattando la lo- ro concezione all’ideale unitario. Tra gli altri, E. Amari si schiera contro costoro e nella sostanza non muta la sua impostazione politica neanche do- po il Sessanta, quando fece ritorno in Sicilia e fu tra i fondatori del partito regionista, destinato ad esaurirsi in pochissimi anni, appunto perché rap- presentava una posizione mediana tra il federalismo (ormai sconfitto) e l’u- nitarismo dei democratici, senza concretizzarsi in una reale e praticabile azione all’interno di un progetto di governo; una mediazione, quindi, che si configurava, ancora una volta, come just milieu teorico ed elitario, che trovò il consenso solo di pochi rappresentanti del ceto dirigente isolano, ti- moroso di perdere il controllo dello sviluppo e quindi di essere escluso dal- le decisioni governative del nuovo Regno.

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Maria Vita Romeo

Note etico-politiche

nel Gesuita Moderno di Gioberti

N

eL 1929, baLbINo gIULIaNo PoTeVa fINaLMeNTescrivere che Vin- cenzo Gioberti era uscito dall’esilio a cui tutta la tradizione positivi- stica lo aveva condannato. Il concetto di positivo, d’altra parte, appartene- va ancora alla scuola naturalistica e considerava pertanto

tutte le filosofie spiritualistiche come un solo blocco nemico, come forme di un’unica concezione irrazionale, che in nome di una divinità trascendente oppri- meva la libertà intima del pensiero, e giustificava l’oppressione di tutte le esteriori libertà sociali e politiche1.

Ora, è grazie alla filosofia idealistica che ci si comincia ad accostare al pensiero di Vincenzo Gioberti con occhi diversi. Certo, la rinascita degli studi giobertiani in Italia non inizia subito; Croce, per es., benché abbia portato alla luce con il suo idealismo filosofi dimenticati come Vico e Spa- venta, non s’interessò a Gioberti.

Ha persino sorriso di lui – scrive Giuliano – senza nemmeno sospettare quante luminose intuizioni idealistiche vi fossero nella speculazione filosofica talvolta un po’ torbida ma sempre appassionata e forte di questo battagliero abate cattolico, che si impostava come ardente nemico della filosofia moderna2.

Il giudizio non positivo del Croce su Gioberti è certamente legato alla diffidenza del filosofo abruzzese per ogni forma di pensiero che si lasci tur- bare dal dogma cattolico. Per il filosofo dei distinti3appare difficile conci-

1 B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento, Firen- ze, Vallecchi, 1929, p. VI.

2 Ivi, pp. VI-VII.

3 Su ciò cfr. G. Pezzino, L’economico e l’etico-utile nella formazione crociana dei distinti (1893- 1908), Pisa, ETS, 1983; e Idem, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce, Catania, c.u.e.c.m., 2008.

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liare, come pretendeva Gioberti, il dogma cristiano con il pensiero filoso- fico. Per Croce, la filosofia è filosofia e non è religione. Secondo noi, dun- que, se Croce accusa Gioberti di essere un filosofo teologizzante non è, com’è stato ipotizzato4, per attaccare il suo amico-nemico Gentile, promo- tore della rinascita degli studi giobertiani, ma perché la filosofia di Gioberti mal si accorda con la visione crociana di una filosofia molto cauta nei confronti e della contaminatio teo- logica e della tentazione dogmatica:

Non mi è mai riuscito di gustare il Gioberti filo- sofo, perché l’ho sentito sempre scarso di acume cri- tico e privo di originalità speculativa. È stato detto che questa mia avversione venisse da diversità di temperamento; ma, in verità, veniva unicamente dalla ragione che ho enunciata, e l’insofferenza, a me attribuita sotto nome di temperamento, ne era naturale effetto. Una poesia brutta dispiace perché è brutta, e non perché il lettore abbia diverso tempe- ramento dall’autore. Le scritture filosofiche del Gio- berti sono tutte piene di miti giudaici, cristiani e cattolici, accolti dall’autore e da lui dichiarati parte integrante, e anzi signoreggiante, del suo pensiero5.

Occorre subito precisare che, per Giober- ti, la filosofia si distingue dalla religione: se infatti la filosofia trae origine dalla religione, essa tuttavia è autonoma poiché ha in sé la norma della verità, cioè l’evi- denza razionale. Resta comunque indiscussa la dipendenza almeno iniziale della filosofia dalla religione.

È dunque con Gentile che assistiamo ad una vera rinascita degli studi giobertiani in Italia. Il filosofo siciliano vede in Gioberti uno dei filosofi an- tesignani di un nuovo sapere filosofico, in cui convivevano in una sintesi ar-

4 Cfr. L. Malusa-L. Mauro, Cristianesimo e modernità nel pensiero di Vincenzo Gioberti. Il «Ge- suita Moderno» al vaglio delle Congregazioni romane (1848-1852). Da documenti inediti, Milano, Fran- co Angeli, 2005, p. 11.

5 B. Croce, Conversazioni filosofiche, V, Del Gioberti filosofo, in «La Critica», 40, 1942, p. 1.

Vincenzo Gioberti.

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monica pensiero e realtà. Sin dalla stesura della sua tesi di laurea, Gentile si accosta al pensiero giobertiano, cogliendo dapprima un Gioberti quasi in- capace di superare il dualismo scolastico e che quindi ha una visione anti- storica del neoguelfismo; e, successivamente, un Gioberti che, superando il limite dualistico mediante il concetto di unità tra Ente ed Esistente, coglie la realtà storica italiana ed i problemi del Risorgimento con la concretezza di chi ha visto comporsi i contrasti della realtà storica nell’unità dell’idea6.

L’unificazione d’Italia, – scrive Gentile – come ogni altro fatto storico considera- to nella sua dinamicità, non poteva essere, secondo la formola giobertiana, se non una creazione dello spirito; un ritorno dell’esistente all’Ente. Il punto di partenza, dunque, non poteva essere altrove che nell’esistente7.

Seguendo quel fil rouge che lega idealmente Platone, sant’Agostino e san Bonaventura, Gioberti ripropone la formula bonaventuriana l’ens pri- mum cognitum est ens primum: ciò che è nella nostra mente è lo stesso Ente assoluto dal quale deriva ogni altro ente. Così accanto alla prima formula giobertiana, «l’Ente crea l’esistente», che esprime il ciclo metafisico della vi- ta reale, troviamo la seconda formula, «l’esistente ritorna all’Ente», che esprime il ciclo storico, ove tutto il divenire, tutta la storia dell’umanità hanno un valore religioso. Ed è in questo processo che entra in gioco l’uo- mo, il quale, intuendo l’attività creativa di Dio, agisce come un «dio incoa- to», autore di un mondo, quello della storia, attraverso la quale l’uomo (l’e- sistente) può tendere al suo principio divino (l’Ente)8.

È chiaro così che per Gioberti la civiltà è sinonimo di sviluppo del pen- siero. La civiltà come pensiero ha un’origine ed una finalità divina: parte da Dio e tende a congiungersi con Dio. Inizialmente, infatti, cogliamo l’u- nità (Ente) attraverso l’intùito dell’atto creativo, grazie al quale sono comu- nicati all’intelletto i princìpi fondamentali ed immutabili sui quali poggia il sapere umano: il pensiero ha origine nella Rivelazione e l’Idea, cioè Dio,

6 Cfr. B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento, cit., pp. V-VIII.

7 G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze 1928, p. 121.

8 «Lo spirito umano è l’immagine di Dio, è un dio finito, è il coato del finito verso l’infinito, dell’esistente verso l’Ente, e quindi l’apice, il compimento del mondo e il ministro del secondo ciclo creativo» (Protologia, I, p. 466).

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si svela all’intelletto per mezzo della parola, cioè il Verbo. Successivamente, il pensiero umano, ormai illuminato, crea a sua volta la scienza e la civiltà, progredendo sempre più nella perfezione fino a ricongiungersi con Dio.

Ora questo processo di risalita si forma attraverso il pensiero, il quale non è soltanto uno strumento del progresso civile, ma anche di quello della Chiesa, poiché la religione costituisce l’esteriorità dell’Idea e la filosofia l’in- teriorità9. Solo grazie all’idea, cioè al pensiero, è possibile conciliare i princìpi religiosi con il progresso della cultura, la fede con la scienza. Gra- zie all’idea, o meglio alla fede nel pensiero, è possibile combattere il pessi- mismo, il misticismo, l’egoismo e tutti quei vizi morali che sono delle forze corrosive per la nazione10. Il motto del Gioberti è dunque: aver fiducia nel pensiero e credere nello spirito.

Da qui la necessità di definire la relazione che intercorre tra la sfera fi- losofica e la sfera religiosa. Secondo Gioberti, infatti, per rigenerare la filo- sofia occorre la religione, la quale può offrire i princìpi ed il metodo per fa- re uscire la filosofia dalla trappola mortale a cui l’avevano destinata i due orribili mostri dell’Ottocento: lo psicologismo e il sensismo, progenitori, a loro volta, del materialismo, del fatalismo, dell’immoralismo, dell’ateismo, dell’idealismo, del panteismo, dello scetticismo e di altri «ludibrii» della fi- losofia moderna11. In altri termini, per Gioberti la filosofia ha la sua base nella Rivelazione; Dio è il primo filosofo e l’umana filosofia è la continua- zione e la ripetizione della filosofia divina12.

Religione, dunque. Ma una religione che sia filosofia: una religione cioè, che non cominci dal dividere l’uomo in due parti, in una delle quali sia dato filosofare li- beramente, e nell’altra l’anima abbia ad abbandonarsi a una forza superiore, che la soggioghi con la potenza del mistero. Una filosofia potente e generosa, come quella che preconizza Demofilo; la quale accostumi «l’intelletto all’indipendenza, addestrando così gli uomini a cercare di fuori la libertà gustata dentro, la quale non è perfetta, e non sazia gli spiriti colti se per via di buone istituzioni non si al- larga nel mondo civile». Una filosofia siffatta, non atomistica e meccanicistica, non sensistica e incapace di sollevare gli uomini al di sopra del senso e della vita

19 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, Firenze, Vallecchi, 1931, pp. 425-6.

10 Cfr. ivi, pp. 161-2.

11 Cfr. Introduzione alla filosofia, I, 142.

12 Cfr. ivi, II, 171-2.

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dei bruti e delle naturali tendenze, ma razionale come quella di Socrate e di Pla- tone, come quella di Bruno e di Vico, non può discordare da una religione come il Cristianesimo, che svestito dalla sua forma mistica e simbolica, è una pura filo- sofia; e “nella sua morale è libertà, e non altro che libertà, primieramente dell’a- nimo, dove la passione è il tiranno, la ragione è la legge che lo vince e doma, poi nel mondo esteriore e civile, in cui ella si diffonde, come conseguenza e immagi- ne di quella prima, colle istituzioni e leggi di repubblica ben ordinata”13.

Alla luce di tutto ciò, si comprende perché nel 1923, «quando fu posto il problema della nostra esistenza nazionale e se ne additò la soluzione a mo’ di profezia», Giovanni Gentile non esitò a definire Gioberti e Mazzini

«i profeti del Risorgimento italiano» riconoscendo in entrambi due «guide spirituali»14della nostra unificazione nazionale. E la profezia, secondo il fi- losofo siciliano, non si compì col 20 settembre 1870 o con Vittorio Veneto, poiché «essa è una fede, un pensiero alla cui vita e al cui sviluppo son legati in perpetuo la vita e lo sviluppo della nuova Italia»15.

Secondo il filosofo idealista, il torinese Gioberti ed il genovese Mazzini ebbero il grande merito di avere elevato il problema del Risorgimento dal piano politico ed economico a quello spirituale. Essi infatti si adoperarono affinché gli italiani sentissero il bisogno di unirsi, liberandosi dal giogo del- lo straniero, come un’esigenza dello spirito e della dignità umana. Tale spe- ranza era certamente alimentata dalla profonda concezione religiosa che animava i due «profeti»:

Essi – scrive a tal proposito Solmi – erano convinti che non si può parlare di li- bertà, di unità, d’indipendenza, di civiltà e di progresso senza una rigenerazione religiosa dell’umanità; sentivano che la religione ispira e consacra i pensieri e le azioni umane; nobilita, consola, fortifica l’individuo e la fratellanza, ogni uomo.

Per essi nella coscienza di ciascuno sta profondo, inseparabile il senso dell’infinito e dell’imperituro, l’aspirazione all’ignoto e all’invisibile. Non esiste, parlando sto- ricamente, una sola grande conquista dello spirito umano, un solo passo impor- tante, mosso sulla via del perfezionamento della società, che non abbia avuto le prime mosse da una forte credenza religiosa16.

13 G. Gentile, I profeti del Risorgimento, cit., p. 100.

14 G. Gentile, Prefazione (Roma, 12 febbraio 1923) a I profeti del Risorgimento italiano, cit., p. 5.

15 Ivi.

16 E. Solmi, Mazzini e Gioberti, Milano 1913.

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Ed è questo comune sentire religioso che spinge Gioberti a scrivere a Mazzini, incitandolo ad ingaggiare una battaglia contro quei prìncipi che, servendosi empiamente della religione, opprimevano i popoli:

Strappate la maschera dell’ipocrisia ai prìncipi, che con bestemmie nefande osano chiamarsi cristiani, cattolici, padri del popolo, stabiliti da Dio; e oltraggiano la santità della religione col vituperoso omaggio che le rendono. Penetrate nelle cor- ti dei re e dipingete al vivo quelle fogne di malvagità e di bruttura; chiedete qual sorta di cristianesimo sia quello tenuto dai governi assoluti […] ponete mano al vero e vivo cristianesimo, chiarìtelo, divulgatelo, proclamate le sue dottrine per impedire che esso si confonda con quella religione di servitù e di barbarie che og- gi regna17.

Dal punto di vista giobertiano, la causa della rovina d’Italia era da ri- cercare in quella crisi spirituale e morale che aveva investito il popolo ita- liano e conseguentemente le sue istituzioni. Da qui la necessità di liberare l’Italia spiritualmente, prima ancora che materialmente. La vita e la civiltà di un popolo dipendono infatti dal vigore del suo spirito ed il vigore spiri- tuale di un individuo, così come di uno Stato, ha le sue radici nella religio- ne ed in particolare nella più vera delle religioni: la cattolica; una religione negata dai filosofi stranieri ed in particole dai francesi18.

Gioberti, in effetti, ha il grande merito di aver tentato una sorta di sin- tesi tra il pensiero filosofico e il sentimento nazionale, così come mostrano le sue diverse opere. Dall’Introduzione allo studio della filosofia del 1841 al Pri- mato morale e civile degli italiani del 1842; dal Gesuita Moderno del 1847 al Rinnovamento civile dell’Italia del 1851, l’obiettivo di Gioberti è sempre lo stesso: mettere in rilievo la sostanziale unità di ragione e fede, di civiltà e cat- tolicesimo. Contro il proclamato «primato» culturale e politico di Francia e Germania, dove, secondo Gioberti, il soggettivismo aveva generato mali co- me l’immanentismo idealistico, l’immoralismo sensistico, l’ateismo e il rela- tivismo, bisogna proclamare, da un canto, l’egemonia spirituale della Chiesa cattolica, detentrice della Rivelazione sovrannaturale, e, dall’altro, l’egemo- nia culturale dell’Italia, detentrice della rivelazione naturale sull’Europa.

17 Lettera del Gioberti, fasc. IV, 1834 della Giovine Italia.

18 Cfr. C. Librizzi, Il Risorgimento filosofico in Italia, Padova, CEDAM, 1953, p. 4.

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L’Italia possiede – scrive Gioberti – il principio della civiltà che è il dogma di creazione incarnato nella parola cattolica. Finché ci fu fedele fu la prima delle na- zioni. Ecco la causa del primato italiano: primato doppio; nell’ordine dei tempi, poiché noi fummo civili prima degli altri, nell’ordine delle cose perché fummo più civili degli altri. L’Italia creò i primi germi di tutta la civiltà moderna: com- mercio, industrie, lettere, arti, ecc. Questi germi furono spesso svolti e perfezionati di fuori, ma creati da Dio. L’Italia nell’Europa è la nazione creatrice. E perché?

Perché essa sola possiede … il principio di creazione e la parola che la esprime. Fu la nazione ideale e sacerdotale. L’Italia è piccola come la Grecia. Ma nelle lettere e nelle arti italiane splende l’idea cattolica che abbraccia tutto il genere umano19.

Certo tutto ciò oggi potrebbe apparire retorico, provinciale e persino utopico; ma non dobbiamo dimenticare che queste riflessioni giobertiane s’inseriscono pienamente all’interno di un clima culturale in cui, come sap- piamo, altri paesi europei rivendicavano il primato politico e culturale sugli altri popoli. Pensiamo alla Francia, ma soprattutto alla Germania di Fichte.

Nei Discorsi alla nazione tedesca, scritti quando ancora i francesi occupavano la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena, Fichte presenta un nuovo modello di educazione volto al rinnovamento spirituale dei tedeschi, l’unico popolo degno «più di nessun’altra nazione d’Europa di ricevere la nuova educazione»20. Nella visione filosofico-politica di Fichte, infatti, il popolo tedesco è il solo ad aver conservato intatte le proprie caratteristiche nazionali originarie e naturali. Basti pensare alla stessa lingua tedesca; l’unica, rispet- to alle altre lingue europee, ad essersi conservata pura nel corso dei secoli:

La prima differenza tra il destino dei Tedeschi e quello degli altri popoli di origi- ne germanica, è questo: I primi restarono nelle sedi abitate in origine dal popolo primitivo, i secondi invece emigrarono in cerca di altre sedi; i Tedeschi manten- nero la lingua originale; i secondi presero una lingua straniera e la trasformarono a poco a poco a modo loro21.

Da qui l’esaltazione del popolo tedesco, il solo «che ha il diritto di chia- marsi il popolo». Persino «la parola tedesco nel suo significato letterale de-

19 Del primato morale e civile degli italiani, I, XL.

20 J. G. Fichte, I Discorsi alla Nazione Tedesca, intr. trad. e note di E. Burich, Milano-Paler- mo-Napoli-Genova-Bologna, Remo Sandron, p. 65.

21 Ivi, p. 67.

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nota questo»22. Se dunque un popolo doveva essere investito di un primato culturale e politico sugli altri Stati europei, questo non poteva che essere, per Fichte, il popolo tedesco a cui gli stessi stranieri avrebbero fatto asse- gnamento, poiché solo nei tedeschi «è riposto […] fra tutti i nuovi popoli, il germe dell’umana perfezione»23. Ecco perché – conclude Fichte, rivolgendosi ai suoi compa- trioti – «non c’è […] una via di mezzo: se voi perite, perisce con voi tutta l’umanità, senza la speranza di un nuovo risorgimento»24. Baste- rebbe quest’ultima affermazione a scagionare Gioberti dall’accusa di provincialismo e a com- prendere storicamente tanto Gioberti quanto Mazzini, che attribuivano all’Italia una sorta di funzione messianica e redentrice quale guida per i futuri Stati Uniti d’Europa.

Secondo Gioberti, la filosofia, aggredita dai

«mostri» del pensiero moderno, poteva in ef- fetti rinascere solo in Italia. In un’Italia, però, in cui si fosse ristabilito quel senso dello spiri- tuale, del religioso, che da secoli la rende na- zione. La vera filosofia, infatti, vive nella vera religione. Indubbiamente quest’ultima offre solo i princìpi ed il metodo; il resto è opera del pensiero umano che crea la scienza e la cultura. Ecco perché prendere coscienza di essere italiano è la migliore condizione per sentirsi cattolico; come quella di essere cattolico è la migliore condizione per sentirsi pienamente italiano.

L’Italia e la Santa Sede – afferma Gioberti – sono certo due cose distinte ed es- senzialmente diverse, e farebbe opera assurda, anzi empia e sacrilega, chi insieme le confondesse; tuttavia un connubio di diciotto secoli le ha totalmente congiunte ed affratellate, che se altri può esser cattolico senza essere Italiano (e sarebbe trop- po ridicolo, anche in grammatica, il metterlo in dubbio), non si può essere per- fetto Italiano da ogni parte, senza essere cattolico, né godere meritamente del pri- mo titolo, senza partecipare allo splendor del secondo. E se negli ordini perfetta-

22 Ivi, p. 125.

23 Ivi, p. 302.

24 Ivi, p. 303.

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mente religiosi il papa non appartiene più all’Italia, che ad un’altra nazione, ed è personaggio cosmopolitico; negli ordini civili egli fu il creatore del genio italico, ed è talmente connaturato con esso, che si può dire con verità l’Italia essere spi- ritualmente nel papa, come il papa è materialmente in Italia, allo stesso modo che, avendo riguardo all’ordine psicologico, il corpo è nello spirito, come riguar- do all’ordine fisiologico lo spirito è nel corpo25.

Nel Primato morale e civile degli italiani del 1843, il filosofo torinese ri- propone le sue due formule ontologiche nel contesto storico. Così la for- mula «l’Ente crea l’esistente» diventa «l’Italia ha creato l’Europa»; e la for- mula «l’esistente torna all’Ente» diventa «l’Europa ritorna all’Italia». Co - m’egli stesso afferma chiaramente:

Il primato religioso d’Italia è indubitato, e siccome la religione tiene per la sua natura il primo grado fra le cose umane, ella conferisce agli italiani una maggio- ranza morale e sociale. […] Rivolgano dunque i popoli gli occhi verso l’Italia, an- tica ed amorosa madre, che chiude i semi della loro redenzione. L’Italia è l’organo della ragione suprema e della parola regia e ideale, fonte, regola, guardia di ogni altra ragione e loquela; perché ivi risiede il capo che regge, il braccio che muove la lingua che ammaestra e il cuore che anima la cristianità universale… L’Italia ha creato l’Europa cristiana e moderna, l’Europa deve ritornare all’Italia…Veggo in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi d’Europa e del mondo; veggo le al- tre nazioni, prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei per un moto spon- taneo i principi del vero, la forma del bello, l’esempio e la norma del bene opera- re e del sentire altamente…Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; e i principi e i popoli pareggiare fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice, riconoscendolo e a dorandolo, non solo come successore di Pietro, vicario di Cristo e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfalo- niere della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, in- stitutore e incivilitore del mondo, erede ed amplificatore naturale e pacifico della grandezza latina. E mi rappresento assembrata ai suoi piedi e benedetta dalla sua destra moderatrice la dieta d’Italia e del mondo26.

Con il Primato, dunque, dopo trentacinque anni, Gioberti fornisce una risposta tutta italiana ai Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, risvegliando le coscienze offuscate di tanti italiani da tempo sfiduciati nel sogno risorgi-

25 Del primato morale e civile degli italiani, I, 54.

26 Ivi, II, XI.

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mentale di un’Italia unita e libera. Un sogno che sembra trovare realizza- zione con l’elezione al soglio pontificio di Pio IX il quale, in un primo mo- mento, sembra mettere in atto il piano neoguelfo di Gioberti: unire l’Italia liberale sotto il papato. Tale progetto, tuttavia, fu subito dichiarato nullo:

la rivoluzione del 1848, nata sotto il segno del neoguelfismo, distrusse in- fatti tutte le aspirazioni di Gioberti e fu sufficiente l’allocuzione del 29 aprile, per annullare e cancellare i propositi dello stesso Pio IX.

Resta comunque indiscusso il successo del Primato e l’entusiasmo che suscitò in tutte la parti d’Italia, sancendo in tal modo l’affermazione del cattolicesimo liberale che, nonostante la condanna di papa Gregorio XVI con l’enciclica Mirari Vos, raggiunse l’apice con il neoguelfismo di Giober- ti, segnale che gli italiani nella lotta per l’indipendenza desideravano effet- tivamente legare religione e patria, Stato e Chiesa.

A differenza dei cattolici reazionari, che rivendicano un sistema teocra- tico, il movimento dei cattolici liberali (N. Tommaseo, A. Rosmini, A.

Manzoni, R. Lambruschini) propugna una Chiesa veramente compenetra- ta dello spirito evangelico, una Chiesa contraria ai sistemi dei privilegi, vi- cina alle classi popolari e favorevole all’indipendenza dei popoli. Lo spirito del cristianesimo, infatti, per i suoi princìpi di fratellanza e di uguaglianza non può sostenere né le tirannidi né le violenze popolari, ma favorire la na- zionalità, l’uguaglianza e la libertà. Da ciò il progetto cattolico-liberale di svecchiare la Chiesa cattolica, abbandonando le monarchie assolute e le vecchie strutture feudali, e facendosi promotrice di riforme politiche e so- ciali che favorissero il popolo. Un progetto che Gioberti seppe cogliere, tra- scinando dalla sua parte, nella lotta contro l’Austria, la gran parte della bor- ghesia italiana.

La risposta gesuitica al cattolicesimo liberale arrivò nel 1850 con la fon- dazione della rivista «Civiltà Cattolica», con la quale i padri gesuiti si pro- ponevano di combattere le nuove idee del tempo: la Chiesa, in quanto isti- tuzione divina, non poteva adattarsi alla civiltà moderna. Un’idea, que- st’ultima, del tutto opposta a quanto affermato sempre da alcuni padri del- la Compagnia di Gesù nel lontano XVII secolo, quando, per affrontare il

«problema modernità», scesero a compromessi con le nuove esigenze del tempo, al fine di non perdere le simpatie dei potenti. Ed è sempre per as- sicurarsi le simpatie dei potenti che nel XIX secolo i Gesuiti scelsero la li-

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