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Academic year: 2021

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Quaderni

leif

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Università di Catania

(2)

Direttore

MARIAVITAROMEO

Redazione

MASSIMOVITTORIO(coordinatore),

ANTONIOCARAMAGNO, DANILAD’ANTIOCHIA, FLORIANAFERRO, ANTONIOG. PESCE,

ELISABETTATODARO, DANIELAVASTA

Segreteria di redazione

MELANIAD’ANNA, MANUELAFINOCCHIARO

Comitato Scientifico

PAOLOAMODIO, LAURABERCHIELLI,

DOMENICOBOSCO, CALOGEROCALTAGIRONE, RICCARDOCAPORALI, CARLOCARENA,

DOMINIQUEDESCOTES, LAURENCEDEVILLAIRS, GÉRARDFERREYROLLES, DENISKAMBOUCHNER, GORDONMARINO, GIUSEPPEPEZZINO,

PHILIPPESELLIER, PAOLOVINCIERI

Direttore responsabile GIOVANNIGIAMMONA

Direzione, redazione e amministrazione

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania.

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Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566

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alla Segreteria di redazione, tel. 095 7102358, fax 095 7102566,e-mail: fil.morale@unict.it ISSN 1970-7401

© 2010

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania Registrazione presso il Tribunale di Catania,

n. 25/06, del 29 settembre 2006

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania

Impaginazione e stampa:

, grafica editoriale di Pietro Marletta,

via Delle Gardenie 3, Belsito, 95045 Misterbianco (CT), tel. 095 71 41 891

Quaderni

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Quaderni

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AGORÀ

Laurence Devillairs Considerazioni sul Dio di Descartes 5 Denis Kambouchner Descartes e il problema della fede 23 Floriana Ferro Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 45 Maria Vita Romeo Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 61 Giuseppe Pezzino Etica e politica nelle «Provinciali» 81

SPIGOLATURE

A. Giovanni Pesce La forte fede del pensiero debole 99 Antonio Caramagno Bon ton dell’informatica o etica dell’informatica? 103 Massimo Vittorio Un affascinante viaggio nel pianeta uomo 108

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Anno IV n. 5, gennaio-giugno 2010

Università di Catania

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LAURENCEDEVILLAIRS

Considerazioni sul Dio di Descartes

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RADURRE, TRADIRE. PERSINO L’OPERArecente di Umberto Eco non può non farci pensare al frequente accostamento che si effettua fra traduzione e tradimento: «dire quasi la stessa cosa» comporta sempre il ri- schio di parlare al di là della cosa.

Le numerose correzioni che apportò al testo latino delle Meditazioni mostrano a quale punto Descartes fosse scrupoloso sulla scelta dei termi- ni, come provano particolarmente le Lettere del 4 e del 18 marzo 1641 indirizzate a Mersenne. Se ogni parola conta, si può sperare che ogni pa- rola della traduzione sia pensata e soppesata. La traduzione delle Medita- zioni del duca di Luynes poteva fare affidamento su un testo iniziale per- fettamente riveduto e corretto.

Tuttavia, su un punto preciso, che a tutta prima potrebbe essere con- siderato un dettaglio, noi desidereremmo mostrare che la traduzione è non soltanto fallace ma che essa opera un importante controsenso, che ha condotto, senza dubbio fino ai nostri giorni, a nascondere un elemento fondamentale della metafisica cartesiana, e più esattamente della cono- scenza cartesiana di Dio. In effetti, quando Descartes scrive

illa [idea] per quam summum aliquem Deum, æternum, infinitum, omniscium, omnipotentem, rerumque omnium, quæpræter ipsum sunt, creatorem intelligo,

il suo traduttore è forse autorizzato a tradurre

[l’idea] per la quale concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, che tutto conosce, onnipotente, e Creatore universale di tutte le cose che sono fuori di lui?1

1 R. Descartes, Meditazione Terza, in Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, testo fran- cese e latino a fonte, Milano, Bompiani, 2009, pp. 733-5 (AT IX, 32, VII, 40).

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Tradurre il latino intelligere con concepire costituisce ben più che un errore di traduzione, poiché lo stesso Descartes provava – a più ripre- se – l’impossibilità di una concezione di Dio o dei suoi attributi, e instau- rava una distinzione radicale fra conoscere (intelligere, percipere, cognisce- re2) e comprendere o concepire (comprehendere; capere; adæquate compre- hendere):

so però che Dio è autore di tutte le cose […] Dico che lo so, e non che lo conce- pisco o lo comprendo; si può infatti sapere che Dio è infinito e onnipotente, benché la nostra anima, essendo finita, non lo possa comprendere né concepire3.

Oggetto di conoscenza, Dio sfugge al concetto. Tale è dunque una delle specificità più importanti della metafisica cartesiana, sulla quale de- sidererei ritornare con tutta l’attenzione richiesta dallo stesso Descartes.

Prima di affrontare l’esame dell’incomprensibilità dell’infinito divino, comincerò dall’aspetto positivo che accompagna quest’affermazione, e cioè la rivendicazione della possibilità di una conoscenza chiara e distinta della natura divina.

L’opposizione pascaliana fra il Dio dei filosofi e il Dio dei credenti – opposizione che è diventata un luogo comune della storia della filosofia – ha scartato la possibilità di una via filosofica, e più precisamente cartesia- na, di accesso a Dio. Avendo adottato facilmente la lettura pascaliana dei rapporti tra fede e ragione, siamo ormai convinti che il razionalismo (car- tesiano) escluda la possibilità d’integrare nel suo ordine il Dio della fede.

Una tale interpretazione richiede di fermare la lettura di Descartes al- la Seconda Meditazione e alla formulazione del famoso Cogito oppure Io sono, Io esisto. Ora la conoscenza di sé è seconda, e segue la conoscenza di Dio: l’idea dell’infinito precede l’idea di sé come finito:

2 Ivi, p. 734 -738-740; (AT VII, 40; 45). «Postquam fatis accurate investigavimus quid sit Deus, clare et distincte intelligimus ad ejus veram et immutabilem naturam pertinere ut existat», Pri- me obiezioni, in Opere 1637-1649, cit., p. 832; (AT VII, 116). «Per infinitam substantiam, intelli- go…», Lettera di Descartes a Clerselier, Egmond-Binnen, 23 aprile 1649, in R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, testo francese, latino e olandese, Milano, Bompiani, 2005, p. 2694. (AT V, 355).

3 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 27 maggio 1630, in Tutte le lettere, cit., p. 153 (AT I, 152); cfr. J. Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris, Vrin, pp. 293-6; J.-M. Beyssade, Descartes au fil de l’ordre, p. 158 e sgg.

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Quindi, in me, la percezione dell’infinito viene prima di quella del finito, ossia quella di Dio, prima di quella di me stesso4.

Il Cogito della Seconda Meditazione è una verità, ma una verità incom- pleta che la continuazione delle Meditazioni avrà il compito di arricchire, soprattutto mostrando come l’ego ha non soltanto l’idea di Dio, ma è idea di Dio, l’atto in virtù del quale si è e si conosce sé stessi, in quanto è indissociabile dall’atto per il quale si sa che Dio è:

E non c’è davvero da meravigliarsi del fatto che Dio, creandomi, abbia messo in me quell’idea, perché fosse come l’impronta dell’artigiano impressa nella sua opera; neanche c’è bisogno che quell’impronta sia cosa diversa dall’opera stessa.

Ma è del tutto credibile, in base al solo fatto che Dio mi ha creato, che io sia stato in qualche modo fatto a sua immagine e somiglianza, e che questa somi- glianza, in cui è contenuta l’idea di Dio, sia da me percepita attraverso la mede- sima facoltà attraverso cui io sono percepito da me stesso; quando, cioè, rivolgo verso me stesso l’acume della mente, non soltanto intendo d’essere una cosa in- completa e dipendente da altro, e che aspira indefinitivamente a qualche cosa che è sempre più grande, o migliore, ma al tempo stesso intendo anche che co- lui da cui dipendo possiede questo qualcosa di più grande5.

La metafisica cartesiana poggia quindi su questa affermazione in ap- parenza lapidaria, ma che ordina l’insieme della conoscenza dell’uomo e di Dio: io ho «un’idea positiva e reale di Dio»6.

Iscritta nella nostra mente, questa idea ha la capacità (grazie alla sua realtà oggettiva) di dare una rappresentazione chiara e distinta, una cono- scenza vera di Dio:

Bisogna dunque trovarsi d’accordo [sul fatto] che possediamo l’idea di Dio e che non possiamo ignorare quale sia questa idea, né come debba essere inte- sa: senza questa premessa, infatti, non potremmo conoscere assolutamente nulla di Dio7.

4 Meditazione Terza, cit., p. 741 (AT IX, 36).

5 Ivi, p. 749 (AT IX, 41).

6 Meditazione Quarta, in Opere, cit., p. 753 (AT IX, 43).

7 Lettera di Descartes a Mersenne, Endegeest, luglio 1641, in Tutte le lettere, cit., pp. 1483-5;

(AT III, 394).

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L’idea è una rappresentazione della natura o dell’essenza di Dio; essa permette la determinazione di ognuno dei suoi attributi, in quanto essi

«convengono» alla sua «grandezza», o alla sua stessa divinità:

Come avrebbe potuto dire che Dio è infinito e incomprensibile, e che non può essere rappresentato con la nostra immaginazione? E come potrebbe assicurare che questi attributi, e una infinità di altri che ci dimostrano la sua grandezza, gli convengono, se non ne avesse l’idea?8

L’idea è fondamento della conoscenza di Dio e criterio a partire dal quale determinare le sue perfezioni:

E si avrebbe un bel dire, per esempio, che si crede che Dio è e che qualche attri- buto o perfezione gli appartiene: sarebbe come non dire nulla, poiché ciò non porterebbe alcun significato per la nostra mente9.

Se meditiamo l’idea di Dio o, per utilizzare un termine cartesiano, se noi facciamo riflessione [respicientes] su questa idea, sappiamo non sol- tanto che Dio è, ma anche e soprattutto ciò che egli è, come afferma in modo esemplare l’articolo 22 dei Principes:

Questo modo di provare l’esistenza di Dio, cioè attraverso la sua idea, ha un grande privilegio: che cioè mentre ne proviamo l’esistenza veniamo al tempo stesso a conoscere chi mai egli sia, per quanto è possibile alla nostra debole na- tura. Infatti volgendo lo sguardo alla sua idea, nata con noi, vediamo […] che ha in sé tutto ciò in cui possiamo osservare chiaramente esservi una qualche perfezione infinita, cioè non limitata da imperfezione alcuna10.

L’idea «rappresenta l’essenza» della cosa; l’idea di Dio rappresenta, quindi, Dio nella sua essenza; ed è a partire da questa rappresentazione che è possibile determinare con chiarezza e il più distintamente possibile quali siano i suoi attributi o perfezioni:

18 Ivi, p. 1484.

19 Ivi, p. 1485 (AT III, 394).

10 «Magna autem in hoc existentiam Dei probandi modo, per ejus scilicet ideam, est prærogati- va: quod simul quisnam sit, quantum naturænostræsert infirmitas, agnoscamus. Nempe ad ejus ide- am nobis ingenitam respicientes, videmus […] ac denique illa omnia in se habentem, in quibus ali- quam perfectionem infinitam […] clare possumus advertere» (Princìpi della filosofia, I, XXII, in Ope- re, cit., p. 1726, 1727; (AT IX-B, 35, VIII-A, 13).

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L’idea, infatti, rappresenta l’essenza della cosa che, se ad essa viene aggiunto o detratto qualcosa, diviene subito l’idea di un’altra cosa […]. Ma, dopo che sia stata concepita una volta l’idea del vero Dio, per quanto possano essere scoperte in lui nuove perfezioni di cui non ci si era ancora accorti, non per questo, tutta- via, la sua idea viene aumentata, ma è soltanto resa più distinta ed espressa, poi- ché tali perfezioni avevano dovuto essere tutte contenute nella stessa idea che si aveva prima, dal momento che si suppone fosse vera11.

Con questa rivendicazione della possibilità per l’intelletto finito di rap- presentarsi l’essenza divina, per mezzo di un’idea, Descartes rompe espli- citamente e radicalmente con Tommaso d’Aquino, che in effetti sostiene:

con una rappresentazione creata, qualunque essa sia, [non si potrà] scorgere l’es- senza di Dio. Poiché l’essenza divina è qualcosa di illimitato, contenente in sé, in modo trascendente, tutto ciò che può essere significato e compreso da un in- telletto creato. E ciò non può in alcun modo essere rappresentato da una specie creata12.

Per Descartes, invece, l’essenza di Dio può essere racchiusa in un’idea che la rappresenta chiaramente e distintamente, positivamente e realmen- te13. Ecco perché noi non conosciamo semplicemente dei nomina o nomi divini, determinati per astrazione e negazione a partire dagli effetti sensi- bili, ma conosciamo degli attributi reali, ottenuti per «riflessione» (respi- cientes) sull’essenza divina. È a partire dall’essenza stessa di Dio, come la fa conoscere la sua idea, che gli si attribuiscono l’esistenza e tutte le altre sue perfezioni. Ecco un altro modo, per Descartes, di opporsi ai princìpi tomisti della conoscenza di Dio:

Inoltre, negli argomenti che si fanno per dimostrare l’esistenza di Dio, non è necessario prendere come termine medio della dimostrazione l’essenza o la na- tura di Dio […]; ma al posto della quiddità, si prende quale termine medio l’ef- fetto, come avviene nelle dimostrazioni quia (ovvero induttive). E da tale effetto si desume il significato del termine Dio. Infatti tutti i nomi di Dio sono desun- ti, o dall’intenzione di escludere da Dio certi effetti che dipendono da lui, o da quella di indicare una somiglianza di Dio con alcuni di essi14.

11 Meditazioni. Quinte Risposte, in Opere, cit., p. 1175 (AT VII, 371).

12 Somma teologica, I a, q. 12, a. 2.

13 Vedi sopra, nota 5, p. 7.

14 Somma contro i Gentili, libro I, cap. XII.

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Nella metafisica cartesiana, l’attribuzione delle perfezioni divine si realizza non a partire dagli effetti ma dalla causa medesima, e cioè l’essen- za di Dio, rappresentata attraverso la sua idea:

Se ricaverò da un’idea innata qualcosa che era certo contenuto implicitamente in essa […] come ad esempio […] dall’idea di Dio che esiste […] sarò tanto lontano da una petizione di principio, che anzi è questo, anche secondo Aristo- tele, il più perfetto modo di dimostrare, quello appunto nel quale al vera defini- zione della cosa serve da termine medio]15.

«Nell’idea dell’ente sommamente perfetto […] è contenuto che cosa Dio sia»16. Dio non è dunque al di là della ragione; al contrario ne è l’og- getto primo, il più chiaro, il più distinto [maxime clara et dictincta]17. Quello di cui noi dovremmo avere la conoscenza più immediata:

E per ciò che è di Dio, certamente, se la mia mente non fosse prevenuta da qualche pregiudizio, e se il mio pensiero non fosse distratto dalla presenza con- tinua delle immagini delle cose sensibili, non ci sarebbe alcuna cosa che io po- tessi conoscere meglio né più facilmente che lui

Quanto poi a Dio, certamente, se io non fossi avvolto nei pregiudizi e le imma- gini delle cose sensibili non assediassero il mio pensiero da ogni parte, non c’è nulla che conoscerei prima o più facilmente di lui18.

L’evidenza con cui conosciamo Dio dovrebbe dispensarci dal ricorso al sistema complicato delle prove della sua esistenza, se almeno fossimo capaci di meditare con attenzione la sua idea:

15 Lettera di Descartes a Mersenne, Endegeest, 16 giugno 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1467 (AT III, 383). Si faccia il paragone con Tommaso d’Aquino: «Inoltre, poiché secondo la dottrina di Aristotele, principio della dimostrazione è il significato del termine in questione, mentre “il concetto espresso col nome è la definizione”, come è detto nel quarto libro della Metafisica, non rimane nessuna via per dimostrare che Dio esiste, non avendo noi la cognizione né dell’essenza né della natura divina […] Ma la falsità di quest’opinione risulta evidente sia dall’arte della dimostra- zione, che insegna a raggiungere le cause dai loro effetti […] Inoltre, negli argomenti che si fanno per dimostrare l’esistenza di Dio, non è necessario prendere come termine medio della dimostra- zione l’essenza o la natura di Dio, […] ma al posto della quiddità si prende quale termine medio l’effetto» (Somma contro i Gentili, I, XII).

16 Meditazioni. Prime Risposte, in Opere, cit., p. 823 (AT IX, 85).

17 Meditazione Terza, cit., p. 742 (AT VII, 46).

18 Meditazione Quinta, cit., p. 771 (AT IX, 54-55, VII, 69).

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Che, poi, in noi ci sia l’idea dell’ente sommamente potente e perfetto, ed anche che la realtà obiettiva di questa idea non si trovi né formalmente né eminente- mente in noi, diverrà più chiaro a coloro che presteranno la dovuta attenzione e mediteranno a lungo con me […] Ora, in base a tutto ciò, si conclude nel mo- do più manifesto che Dio esiste19.

Ma Descartes ha cura di moderare questa rivendicazione di univocità gnoseologica (l’intelletto umano conosce l’essenza di Dio, nella sua infi- nità) con l’affermazione dell’incomprensibilità divina. Ecco perché è di fondamentale importanza rispettare la differenza fra intelligere o cognisce- re e comprehendere o capere.

«La stessa incomprensibilità è contenuta nella ragione formale dell’in- finito»20. Descartes pone così l’incomprensibilità di Dio come un princi- pio logico evidente: il finito non può comprendere l’infinito, a meno di ridurlo a una cosa finita. Aspirare a una comprensione di Dio, è dunque sforzarsi «quasi di renderlo finito e di comprenderlo»21.

L’incomprensibilità è il carattere peculiare di Dio, in quanto essere per Dio è essere infinito. Più che un attributo, e sia pure un attributo prima- rio, l’infinito è come il nome stesso di Dio, ciò che lo designa e lo esprime nella sua divinità stessa, nella sua trascendenza. E alla divinità o all’infini- tà è necessariamente legata l’incomprensibilità. Ecco perché, oggetto della ragione, Dio sfugge anche di diritto alla ragione, in quanto non può esse- re né compreso e neanche concepito: «io so che Dio è autore di tutte le cose […]. Dico che lo so, e non che lo concepisco né che lo comprendo».

Lungi dall’essere una «modestia affettata»22, il principio dell’incom- prensibilità dell’infinito garantisce che l’essere, che è l’oggetto della meta- fisica, è proprio Dio; che la causa prima, ricercata nelle prove, possiede realmente una essenza infinita.

Questa incomprensibilità dell’infinito non è una deficienza, che un progresso della conoscenza potrebbe in seguito colmare; essa caratterizza fondamentalmente la conoscenza umana di Dio: «sarebbe ridicolo che

19 Meditazioni. Seconde Risposte, cit., p. 861 (AT IX, 107, VII, 135-6).

20 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1171 (AT VII, 368).

21 Princìpi della filosofia, I, XXVI, cit., p. 1729 (AT IX-B, 36).

22 AT V, 274-5.

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noi, che siamo finiti, tentassimo [di] determinare qualcosa [dell’infini- to]»23. Tutti gli attributi, in quanto attributi di Dio, sono al tempo stesso intellegibili e incomprensibili o, più precisamente, intellegibili per ciò stesso che sono incomprensibili, cioè attributi del Dio infinito.

L’infinito, al quale si rapporta l’incomprensibilità, non è una nozione negativa e non rimanda ad una qualsiasi indicibilità di Dio. Tutt’altro, il conoscere nella sua infinità incomprensibile è il conoscere realmente e positivamente:

per dire che una cosa è infinita, infatti, bisogna avere qualche ragione che la fac- cia conoscere come tale, cosa che si può avere solo da Dio24.

L’incomprensibilità non mette fine alla conoscenza di Dio, ma ne fa una conoscenza conforme della sua infinità25. L’incomprensibilità fa parte della conoscenza di Dio. In effetti, conoscere che Dio è incomprensibile significa conoscerlo ancora positivamente, in quanto è sapere perché è tale e dunque avere un’idea chiara e distinta della sua infinità. Bisogna rinun- ciare ad una comprensione del divino, per averne una conoscenza certa.

L’incomprensibilità, dunque, non è sinonimo d’indicibilità ma, proprio al contrario, di intellegibilità di Dio. Se osassimo il paradosso, potremmo dire che l’incomprensibilità non significa non comprendere Dio, ma co- noscerlo (nella sua infinità): «l’infinito, in quanto infinito, in verità non è affatto compreso [comprehendi ], ma […] nondimeno è inteso [intelligi ]».

L’incomprensibilità non è un dato che si impone alla filosofia dal- l’esterno; essa corrisponde a ciò che dev’essere una conoscenza filosofica di Dio. Appartiene alla natura di un Dio infinito il non essere compreso, ed è solo accettando di non comprenderlo che se ne possiede una vera idea. Chi dichiara di comprendere o di concepire Dio ne ha solo una co- noscenza falsa e confusa; chi ammette di non comprenderlo possiede allo- ra una conoscenza chiara e distinta della sua natura. Conoscerlo nella sua stessa divinità è conoscerlo nel suo infinito, di cui abbiamo l’idea e non il concetto. L’incomprensibilità fa che Dio resti Dio, cioè un essere infini-

23 AT IX, 37.

24 Lettera di Descartes a Chanut, L’Aia, 6 giugno 1647, in Tutte le lettere, cit., p. 2467 (AT V, 51).

25 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1166 (AT VII, 365).

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to, quando è l’oggetto di una conoscenza razionale. Non comprendere è il segno che la nostra conoscenza è buona conoscenza di Dio. L’incom- prensibilità dà la garanzia che non si ha a che fare con un semplice Dio dei filosofi, i cui predicati ci sarebbero noti e di cui potremmo dare una definizione genetica. Vi è il Dio dei filosofi, solo quando Dio non è co- nosciuto nella sua infinità, ma ridotto ad un essere finito:

non concepiamo [non concipimus] le perfezioni e gli attributi di Dio, ma li in- tendiamo [sed intelligimus]; e quand’anche li concepissimo, li concepiremmo [concipimus] come indefiniti26.

Dio è dunque allo stesso tempo «maxime cognoscibilis et effabilis». Ed è appunto per convalidare questo paradosso dell’incomprensibile intelli- gibilità di Dio che Descartes ricorre ad Agostino:

Il passo di sant’Agostino relativo al fatto che Dio è ineffabile, non dipende che da una piccola distinzione facile da intendere. Non possiamo abbracciare con parole e neppure comprendere con la mente tutto quel che vi è in Dio, e per questo Dio è ineffabile e incomprensibile [Deus est maxime Cognoscibilis et Effabilis].

Tuttavia, ci sono in Dio, o spettano a Dio, molte cose che possiamo toccare con la nostra mente ed esprimere con parole, e perfino di più che in qualsiasi altra cosa; e perciò, in questo senso, Dio è massimamente conoscibile ed esprimibile27.

Ecco l’affermazione originale di Agostino, nel De Doctrina christiana:

neanche Dio potrebbe essere detto inesprimibile poiché, soltanto nel dirlo, si esprime qualcosa. Si verifica in ciò non so quale contraddizione in termini […].

D’altronde, è meglio evitare col silenzio questa battaglia di termini che placarla con le parole28.

26 Colloquio con Burman, in R. Descartes, Opere postume 1650-2009, testo francese e latino a fronte, a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2009, p. 1261 (AT V, 154). Cfr. il commento di J.-M. Beyssade, Entretien avec Burman. RSP ou le Monogramme de Descartes, Paris, PUF, 1981, p. 174.

27 «Il passo di sant’Agostino relativo al fatto che Dio è ineffabile, non dipende che da una piccola distinzione facile da intendere. Non possumus omnia quæin Deo sunt verbis complecti, nec etiam mente comprehendere, ideoque Deus est Ineffabilis et Incomprehensibilis; sed multa tamen sunt revera in Deo, sive ad Deum pertinent, quæpossumus mente attingere ac verbis exprimere, imo etiam plura quam in ulla alia re, ideoque hoc sensu Deus est maxime Cognoscibilis et Effabilis » (Lettera di Descartes a Mersenne, Leida, 21 gennaio 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1381) (AT III, 284).

28 De Doctrina christiana, 11, I, VI, 6. Questa distinzione tra intellegibilità e incomprensibi- lità si ritrova ugualmente nel De Civitate Dei, XXI, 10; XII, 18.

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Dio non è né nascosto né ineffabile, poiché egli ha iscritto l’idea chia- ra e distinta della sua natura nella nostra mente; tuttavia è incomprensibi- le, visto che questa idea non può essere un concetto, cioè l’afferrare esau- stivo della sua natura. Ma, come ha mostrato Agostino, l’incomprensione è sapere e non già abdicazione della ragione.

Si potrebbe quasi dire che l’infinito è incomprensibile, a forza di esse- re intellegibile:

la cosa che è infinita, in sé stessa, la intendiamo [intelligimus] senz’altro in mo- do positivo, ma non adeguatamente, ossia non comprendiamo tutto ciò che in essa è intelligibile [sed non adæquate, hoc est non totum id, quod in ea intelligibile est, comprehendimus]29.

L’infinito tiene in scacco la ragione, solo perché esige troppo da essa:

la supera in intellegibilità. Per essere conosciuto nella sua infinità, l’essere divino provoca come una “imballatura”, un eccesso della ragione. Dio riempie massimamente – su una modalità infinita – l’idea che abbiamo di lui. Noi non arriveremo mai a comprendere Dio, a esaurirne tutta l’intel- legibilità. L’infinito divino supera la ragione, colmandola. Questo “rilan- cio” dell’infinito sulla ragione non scredita la conoscenza filosofica, ma la conduce al suo compimento.

Su questo punto, un cartesiano misconosciuto e dimenticato offre il commento più pertinente, e cioè Fénelon:

è vero che non saprei esaurire l’infinito, né comprenderlo, cioè conoscerlo, tan- to è intelligibile. Non devo meravigliarmene, poiché ho riconosciuto che la mia intelligenza è finita; di conseguenza essa non saprebbe eguagliare ciò che è infi- nitamente intellegibile. Tuttavia certo che ho un’idea precisa dell’infinito30.

Noi conosciamo di Dio unicamente ciò che la sua idea ci concede di conoscerne. La nostra conoscenza è irrimediabilmente tributaria della rappresentazione dell’infinito, che fornisce questa idea del nostro intellet- to finito:

29 Le precedenti citazioni rinviano tutte a Meditazioni. Prime Risposte, in Opere, cit., pp.

829-31 (AT IX, 90, VII, 112-3).

30 Démonstration de l’existence de Dieu, cit., p. 615.

(16)

Per me, ogni volta che ho detto che Dio poteva essere conosciuto chiaramente e distintamente, non ho mai inteso parlare che di questa conoscenza finita, e adattata alla capacità delle nostre menti31.

Di conseguenza, siamo nell’impossibilità di avere una concezione adeguata di Dio, che ne esaurirebbe tutta l’intellegibilità:

Quando Dio è detto inconcepibile [inconceptibilis], si intende di un concetto che lo comprende adeguatamente [conceptu adæquate illum comprehendente]32.

Oggetto di una conoscenza chiara e positiva, l’infinito non può essere colto in un concetto:

non distinguete un’intellezione conforme al livello del nostro ingegno […] – chiunque lo esperisca a sufficienza in sé – dell’infinito, da un concetto adeguato delle cose [a conceptu rerum adæquato], quale nessuno ha33.

La concezione adeguata è «quale nessuno ha non solo dell’infinito, ma forse neppure di alcuna altra cosa per quanto piccola»34. È impensabi- le che un intelletto creato e non creatore possa pervenire ad una cono- scenza adeguata:

La differenza sta nel fatto che, affinché una conoscenza sia adeguata [adæqua- ta], devono esservi contenute tutte le proprietà che sono nella cosa conosciuta;

e, perciò, solo Dio sa di avere conoscenze adeguate di tutte le cose [cogitationes rerum omnium adæquatas]. L’intelletto creato [intellectus creatus], invece, sebbe- ne forse abbia realmente conoscenze di molte cose [adæquatam], non può tut- tavia mai sapere di averle, a meno che non sia Dio a rivelarglielo in modo parti- colare: affinché, l’intelletto creato abbia conoscenza adeguata di una cosa, ossia sappia che Dio non ha posto in questa cosa nulla di più di ciò che tale intelletto conosce, occorre che la sua capacità di conoscere sia adeguata al potere infinito di Dio [infinitam Dei potestatem], e ciò ripugna nel modo più assoluto35.

Avere una conoscenza adeguata dell’infinito richiederebbe di com- prendere l’infinito, come esso stesso si comprende:

31 AT IX, 90-91.

32 Meditazioni. Terze Obiezioni e Risposte, in Opere, cit., p. 935 (AT IX, 147, VII, 189).

33 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1167 (AT VII, 365).

34 Ivi.

35 Ivi, p. 979 (AT IX, 171, VII, 220).

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l’idea che abbiamo dell’infinito […] rappresenta […] tutto l’infinito […]; seb- bene Dio […] possa senza dubbio averne un’altra molto più perfetta […] di quella umana36.

Impossibile da circoscrivere adeguatamente in un concetto, l’infinito è anche ciò che sfugge ad ogni rappresentazione «univoca»37: per avere una conoscenza chiara e distinta degli attributi e delle opere di Dio, dob- biamo in effetti conoscerli nella loro intellegibilità non univoca, ovverosia in ciò stesso che non possono essere compresi. Così potremmo, per esem- pio, sapere chiaramente che il rapporto fra il suo intelletto e la sua volon- tà è un rapporto di unicità e non di distinzione38, e che la sua libertà è al tempo stesso necessità e indifferenza39.

L’incomprensibilità impedisce di immaginare «Dio come un uomo enorme»40, di rappresentarlo

come un grande uomo che si propone questo e quel fine e che vi tende con questi o quei mezzi; il che è senz’altro massimamente indegno di Dio41.

È contro questa indegnità dell’univocità che Descartes formula la tesi di un Dio libero creatore di essenze e di verità eterne. La “gente” potrà così «abitua[r]si a sentir parlare di Dio più degnamente, mi sembra, di quanto non ne parli il volgo, che l’immagina quasi sempre come una cosa finita»42. L’incomprensibilità dell’infinito rifiuta la concezione che fa de- gli attributi divini la semplice copia delle perfezioni umane, e che dichia- ra che la natura divina «è alla meta dove guarda la nostra», che essa coin- cide con il punto ultimo del perfezionamento umano43. In anticipo, De- scartes sembra così invalidare la critica di Feuerbach.

36 Ivi, p. 1171 (AT VII, 368).

37 Princìpi della filosofia, I, LI, cit., p. 1745 (AT IX-B, 47); Meditazioni. Seconde Risposte, cit., p. 862 (AT IX, 108).

38 Princìpi della filosofia, I, XXIII e XLI, cit., p. 1726 e 1739; Meditazioni. Seste Risposte, cit., p. 1225 (AT IX, 233).

39 Colloque con Burman, cit., p. 1285 (AT V, 166).

40 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1167 (AT VII, 365).

41 Colloque con Burman, cit., p. 1269 (AT V, 158).

42 Lettera di Descartes a Mersenne, 15 aprile 1630, in Tutte le lettere, cit., p. 147 (AT I, 146).

43 Lettera di Descartes a Chanut, Egmond, 1 febbraio 1647, in Tutte le lettere, cit., p. 2391 (AT IV, 608).

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Indice dell’infinito divino, l’incomprensibilità funziona come un’idea regolatrice che guida la nostra conoscenza. Conoscere Dio è conoscerlo in ciò che è incomprensibile. L’incomprensibilità è dunque intellezione positiva; essa permette di correggere, se non addirittura di contraddire, la ragione quando essa attribuisce all’infinito dei predicati del finito.

Nel suo primo significato, l’incomprensibilità è dunque legata all’in- tellegibilità paradossale dell’infinito, chiaramente e distintamente cono- sciuto ma inconcepibile ed incomprensibile. Ci sembra possibile e utile rilevare un secondo significato, quello tenuto ancor più raramente in conto dai commentatori.

Se Dio è incomprensibile, è anche perché tutto in lui, nella sua natura infinita, non è accessibile alla ragione. Conoscere Dio come infinito è am- mettere che egli possiede numerosi attributi, che non sono razionalmente accessibili e che dipendono da un’altra giurisdizione, quella delle Scritture.

In seno alla metafisica, l’infinito è anche ciò che apre alla legittimità della Rivelazione ed alla realtà del Dio della fede. L’incomprensibilità è allora quella del rivelato: tutti gli attributi di Dio sono intellegibili e in- comprensibili, ma alcuni di essi sono inconoscibili, «incogniscibles», e in- comprensibili.

È appunto questo significato particolare dell’incomprensibilità che pensiamo di poter leggere nel seguente brano della Terza Meditazione:

Questa stessa idea [di un essere sovranamente perfetto e infinito] è anche molto chiara e molto distinta, poiché tutto quello che la mia mente concepisce [perci- pio] chiaramente e distintamente di reale e di vero, e che contiene in sé qualche perfezione, è contenuto e racchiuso interamente in questa idea. E ciò non fini- sce d’essere vero, benché io non comprenda l’infinito [non comprehendeam], o perfino che si incontrano in Dio un’infinità di cose [alia innumera] che non posso comprendere [nec comprehendere], né forse raggiungere anche in nessun modo col pensiero [nec forte etiam attingere cogitatione]44.

Nella sua natura infinita, Dio possiede degli attributi che noi non possiamo neanche pensare [cogitare]. È anche quello che esprime, più esplicitamente, l’articolo 25 della prima parte dei Principes:

44 Meditazioni. Terza, cit., p. 741 (AT IX, 36-37, VII, 46).

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A tal punto che se egli ci fa la grazia di rivelarci [revelet ], oppure a qualcun al- tro, delle cose che superano la portata comune della nostra mente, come sono i misteri dell’Incarnazione e delle Trinità, noi non faremo alcuna difficoltà a cre- derle, benché non le intendiamo forse abbastanza chiaramente. Poiché non dobbiamo per nulla trovare strano che vi sia nella sua natura, che è immensa [immensa], e in ciò che egli fa, molte cose [multa] che superano la capacità della nostra mente [captum nostrum excedant]45.

È nella natura di Dio, in quanto infinito, di essere conosciuto senza essere compreso; ma è anche nella sua natura di non essere ridotto a quel- lo che la ragione conosce di lui. La filosofia pone così, fuori dei limiti del suo campo, in quanto non razionalmente deducibili, «innumerevoli» at- tributi, di cui Dio ha voluto che noi avessimo non la conoscenza, ma la Rivelazione46. Se tutti gli attributi divini fossero riducibili a un contenuto razionale, noi avremmo da fare con «qualche divinità» o «qualche idolo» e non al «vero Dio», cioè all’infinito47.

L’opposizione fra l’intellegibile e l’incomprensibile non implica la se- parazione del Dio dei filosofi dal Dio della fede, ma richiede, in seno al- la conoscenza stessa che noi abbiamo di Dio, di riconoscere l’esistenza di attributi, che sono inaccessibili alla ragione ma essenziali alla fede. È so- lo a questa condizione che il Dio della filosofia è anche il Dio della Rive- lazione.

Anche se Dio è chiaramente e distintamente conosciuto grazie all’idea innata che ne abbiamo, la sua natura non può ridursi al contenuto rap- presentativo di questa idea. Allo stesso modo che un geometra conosce più proprietà di un triangolo di un non geometra, così il teologo ha, per mezzo della Rivelazione48, accesso a perfezioni divine che la filosofia non può determinare:

Per il mistero della Trinità, io giudico, con san Tommaso, che esso appartiene del tutto alla fede e non si può conoscere con il lume naturale […] non nego af-

45 Princìpi della filosofia, I, XXV, cit., p. 1729 (AT IX-B, 36, VIII-A, 14). Cfr. Agostino:

«tranne questa regola, se qualche punto permane ancora oscuro per la nostra intelligenza, noi non cesseremo di credervi fermamente» (De Trinitate, cit., I, 1).

46 Cfr. Princìpi della filosofia, I, XXVIII, in Opere 1637-1649, cit., p. 1731 (AT IX-B, 37).

47 Lettera di Descartes a Chanut, Egmond, 1 febbraio 1647, cit., p. 2391 (AT IV, 607-8).

48 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, cit., p. 147 (AT I, 145).

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fatto che vi siano delle cose in Dio che noi non intendiamo, così come vi sono in un triangolo parecchie proprietà che mai nessun matematico conoscerà, ben- ché tutti sappiano benissimo cosa sia un triangolo49.

Il Dio della filosofia non è meno incomprensibile del Dio della fede, poiché la conoscenza della sua infinità implica necessariamente l’esistenza di attributi rivelati, fondamento della fede:

Poiché è sufficiente che io capisca proprio che Dio non può essere colto da me [a me non comprehendatur] […] purché io giudichi inoltre che sono in lui tutte le perfezioni che comprendo chiaramente [clare intelligo], e per di più alcune perfezioni molto più numerose [multo plures] di quanto io non possa cogliere50.

Il filosofo conosce di Dio solo quello che è conoscibile, ossia ciò che è non rivelato ma accessibile al lume naturale:

Che conoscendo che vi è un Dio nel modo qui spiegato [cioè dalla sua idea] si conoscono anche tutti i suoi attributi, tanti quanti ne possono essere conosciuti dal solo lume naturale [omnia ejus attributa naturali ingenii vi cognoscibilia si- mul cognosci ]51.

L’idea di infinito permette di costituire Dio al contempo come ogget- to della ragione e come ciò che di diritto trascende la ragione. È la cono- scenza chiara e distinta dell’infinità di Dio, e dell’incomprensibilità che le è annessa, che permette di porre l’esistenza di attributi che son quelli del Dio della Rivelazione, trino e incarnato. Se tutti gli attributi fossero ridu- cibili a un contenuto razionale, allora potremmo avere un concetto di Dio, una conoscenza adeguata della sua natura.

49 Lettera di Descartes a Mersenne, Leida, 31 dicembre 1640, in Tutte le lettere, cit., pp. 1357- 9 (AT III, 274). Per Tommaso d’Aquino, vedi Somma contro i Gentili, I, 3, cit., p. 71; Somma teologica, II a. q. I, a. 5.

50 Lettera di Descartes a Clerselier, Egmond-Binnen, 23 aprile 1649, in Tutte le lettere, cit., p.

2695 (AT V, 356).

51 Princìpi della filosofia, I, XXII, cit., p. 1727 (AT IX-B, 35, VIII-A, 13); «Nam certe est lu- mine naturali notissimum», Princìpi della filosofia, I, XXII, cit., p. 1724 (AT VIII-A, 12); «E non c’è davvero alcunché, in tutto ciò, che non sia manifesto per lume naturale» (Meditazioni. Terza, cit., p. 743) (AT IX, 38); Descartes ha appena formulato la prova a posteriori: «È infatti notissimo per lume naturale che ciò che può esistere per propria forza esiste sempre» (Meditazioni. Prime Risposte, cit., p. 837) (AT IX, 94).

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Gli attributi che la ragione può appena raggiungere sono quelli che ri- guardano Gesù Cristo:

innanzitutto mi viene in mente che non mi devo affatto meravigliare, se la mia intelligenza non è capace di comprendere perché Dio fa ciò che fa, e che così non ho nessuna ragione di dubitare della sua esistenza, del fatto che io veda con l’esperienza molte cose, senza poter comprendere per quali ragioni e in qual modo Dio le abbia prodotte. Poiché, sapendo già che la mia natura è estrema- mente debole e limitata, al contrario di quella di Dio che è immensa, incom- prensibile e infinita, non ho più difficoltà a riconoscere che vi sono un’infinità di cose nella sua potenza, le cui cause superano la portata della mia mente. E questa sola ragione è sufficiente per convincermi che tutto questo genere di cau- se, che si ha l’abitudine di trarre alla fine, non è di alcun uso nelle cose fisiche o naturali; poiché non mi sembra che io possa ricercare e intraprendere senza te- merarietà di scoprire i fini impenetrabili di Dio52.

Le perfezioni inconoscibili e incomprensibili sono quelle che riman- dano alla questione della salvezza, poiché il loro apprendimento dipende, in effetti, dalla grazia e non dalla nostra «capacità di conoscere»:

vi è grande differenza fra le verità acquisite e le rivelate, giacché la conoscenza di queste dipendendo solo dalla grazia […], i più sciocchi e i più semplici vi pos- sono riuscire tanto quanto i più sottili; anziché, senza avere più intelletto del comune, non si deve sperare di fare nulla di straordinario che riguardi le scienze umane53.

Sono ugualmente i fini di Dio che non sono razionalmente deducibili e che appartengono al campo della Rivelazione: «È una cosa che è di per sé manifesta, che noi non possiamo conoscere i fini di Dio, se egli stesso non ce li rivela»54. La determinazione delle cause finali è dunque esclusa in filosofia: «Noi non ci soffermeremo anche ad esaminare i fini che Dio si è proposto creando il mondo, e respingeremo interamente dalla nostra filosofia la ricerca delle cause finali»; poiché «tutti i fini di Dio ci sono

52 Meditazioni. Quarta, cit., pp. 753-5 (AT IX, 44).

53 À***, août 1638 (?), AT II, 347.

54 Lettera di Descartes a X***, Endegeest, agosto 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1523 (AT III, 431); «E non si può fingere che alcuni fini di Dio siano più di altri davanti agli occhi di tutti: so- no infatti tutti allo stesso modo reconditi nell’imperscrutabile abisso della sua sapienza» (Medita- zioni. Quinte Risposte, cit., p. 1179) (AT VII, 375).

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(ugualmente) nascosti, ed è temerario volerci innalzare fino ad essi. Io qui passo sotto silenzio la Rivelazione, per considerarli soltanto da filosofo»55. Una volta chiarita e dimostrata l’importanza della distinzione operata da Descartes fra conoscere e comprendere Dio, non si può che formulare un doppio stupore: perché questa traduzione errata del duca di Luynes? E perché questa mancanza di vigilanza da parte di Descartes?

Forse bisogna vedere in quest’errore di traduzione lo zelo del tradut- tore? L’insistenza di Descartes sul carattere puramente intellettuale della conoscenza di Dio56ha potuto indurre il suo traduttore, più realista del re, a rafforzare il carattere intellettuale traducendo il verbo, giudicato troppo generico, di intelligere con quello, più “tecnico”, di capere: la me- tafisica cartesiana considera Dio come un oggetto dell’intelletto puro, senza che sia fatto riferimento al mondo esterno, alla conoscenza sensibi- le. Ciò che sembra più appropriato, per rendere conto di questa natura esclusivamente intellettuale della conoscenza di Dio, sembra maggior- mente il termine «concepire» che quello di «intendere».

Inoltre, Descartes desidera non parlare di Dio come ne parla il «vol- go», ciò che sembra ancora confortare la scelta “elitista”, tecnica del suo traduttore. Il duca di Luynes, più cartesiano di Descartes, avrebbe così commesso un controsenso maggiore sulla filosofia cartesiana accogliendo un’ingiunzione di Descartes stesso:

Vorrei che il mondo si abituasse a sentir parlare di Dio più degnamente, mi sembra, di quanto non ne parli il volgo, che l’immagina quasi sempre come una cosa finita57.

55 Princìpi della filosofia, I, XXVIII, cit., p. 1731 (AT IX-B, 37).

56 Regole per la direzione dell’ingegno. Regola III, in Opere postume 1650-2009, cit., p. 685 (AT X, 368); vedi anche Princìpi della filosofia, I, XXVIII, cit., p. 2083 (AT IX-B, 60).

57 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, cit., p. 147 (AT I, 146).

(23)

DENISKAMBOUCHNER

Descartes e il problema della fede

A

FFRONTERÒ LA QUESTIONE DEL DIO di Descartes sotto un’angola- zione diversa da quella scelta da Laurence Devillairs. La mia do- manda non sarà, almeno all’inizio: qual è il Dio di Descartes? (ancorché questa resti la questione di fondo), ma piuttosto: quale è stata la relazione di Descartes col suo Dio? – col solo Dio che egli abbia mai rivendicato:

quello della religione cristiana e più precisamente della Chiesa cattolica.

Non è una questione nuova. Sotto forma di un’antinomia elementa- re, del genere: «Descartes è stato un vero cristiano, oppure un libertino mascherato?», essa ha occupato tutta una sequenza della bibliografia car- tesiana.

Uno dei principali attori di questa controversia, ed un sostenitore del- la seconda tesi, Maxime Leroy, autore di un’opera dal titolo rimasto fa- moso: Descartes, Le philosophe au masque (1929), scriveva così all’inizio della sua opera (p. 23):

Da quando si studia Descartes, vi sono due comprensioni: la comprensione ra- zionalista e la comprensione apologetica che, più che mai, si affrontano.

Non aveva del tutto torto, e la storia della controversia cominciò mol- to presto. Che ci si ricordi delle accuse di empietà mosse contro Descar- tes quando era ancora vivo, particolarmente dai calvinisti di Utrecht, e del fatto che già, nel 1637, ci si domandasse a Parigi «di quale religione egli fosse»1; per contro, con l’accento posto dagli eredi giansenisti e orato- riani del cartesianismo sulla parentela del pensiero cartesiano con quella di sant’Agostino. Che ci si ricordi, anche, della rivendicazione di un certo

1 Cfr. à Mersenne, maggio 1637 (AT: 27 aprile 37), AT I, 367; Bompiani 378.

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spirito cartesiano fatta dagli illuministi (come D’Alembert), che precede la tenace impresa di certi autori del XIX secolo per reintegrare la metafisi- ca cartesiana in una filosofia di orientamento benpensante2.

Di queste opposizioni ancor oggi qualcosa sussiste, a dispetto delle passioni naturalmente smussate. Ed ancora oggi si può tracciare una linea di demarcazione fra gli interpreti per i quali Descartes è prima di tutto il promotore di una nuova scienza della natura e dell’uomo, che mira ad una utilità della specie anteriormente definita da Bacone, e coloro per i quali lo stesso Descartes resta prima di tutto l’inventore di una metafisica inaudita, le cui straordinarie difficoltà hanno fecondato il pensiero classi- co. Non ci si meraviglierà che, per gli uni, le prove cartesiane dell’esisten- za di Dio non comportano molto spesso che un interesse tecnico (di tec- nica filosofica, di apparecchiatura concettuale), mentre, per gli altri, esse costituiscono il teatro o il protocollo di un’autentica esperienza intellet- tuale che rimane sempre da meditare. Non ci si meraviglierà ancora di più che, per gli uni, le dichiarazioni di sottomissione di Descartes alla Chiesa di Roma dipendono da una pura convenzione, mentre, per gli al- tri, esse definiscono veramente una parte del suo progetto.

Finché è durata la querelle, o almeno la materia del contendere, sono incline a pensare che essa non sia stata ancora risolta, o più esattamente che i problemi posti dalla definizione della posizione cartesiana in mate- ria di religione non siano stati ancora esaminati in maniera abbastanza si- stematica. E se non temessi di dilungarmi oltre misura, entrerei volentieri in una discussione del genere metodologico, a partire da alcune righe di Jean Laporte che contesta il metodo di Maxime Leroy.

Maxime Leroy, spirito appassionato di psicanalisi (è autore di una let- tera a Freud, che solleva la questione del significato dei celebri sogni car- tesiani del 10 novembre 1619) partiva, con erudizione e talento, alla ri- cerca di un segreto di Descartes, che non consisteva del resto in nulla di determinato se non in una irreligiosità innata e in un ideale fondamental- mente epicureo. Voleva assolutamente che Descartes avesse pensato un’al-

2 Sulla battaglia che proseguì in Francia per tutto il periodo della III Repubblica, all’interno come all’esterno dell’Università, si può consultare l’eccellente opera di F. Azouvi, Descartes en France, Paris, Fayard, 2002.

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tra cosa di quello che gli era capitato di dire e forse anche il contrario. È precisamente la possibilità di imputare a Descartes un pensiero diverso da quello che rivelano i suoi testi che Jean Laporte, per parte sua, ha voluto ricusare in primo luogo, e non senza solide ragioni3.

La religione di Descartes», scrive, «ha fatto scorrere molto inchiostro. Tutto quello che se ne può dire è subordinato alla questione della sua sincerità. In quanto a questo, siamo condannati a girare all’interno di un cerchio. Poiché possiamo decidere delle vere opinioni di un autore solo attraverso i suoi scritti e le testimonianze dei contemporanei, i quali ne giudicano essi stessi dalle sue di- chiarazioni scritte e orali, e anche dalla sua condotta.

E più avanti: «Non possiamo, così come nota egli stesso [a proposito dell’anima delle bestie], scavare nel suo cuore». Noi non potremo né do- vremo solo paragonare i suoi scritti, senza esclusiva, e senza voler «operare con finezza» (espressione tratta da una lettera di Descartes a Elisabetta).

Laporte ha sicuramente ragione: l’essenziale è nei testi, e solo i testi possono servirci da pietra di paragone. Vi è tuttavia, dobbiamo notare, un problema con la “finezza”. Che vorrà dire: «Non operare con finezza»?

E che valore ha questa massima, se non si è innanzi tutto stabilito che Descartes non potè egli stesso operare con finezza? E per prima cosa, la cita- zione di Laporte non è per niente esatta (né nel suo testo, né d’altronde in nota). Nella sua lettera a Elisabetta4, Descartes scriveva:

La massima che io ho osservato di più in tutta la condotta della mia vita è stata di seguire soltanto la strada maestra, e di credere che la principale finezza fosse il non volere affatto operare con finezza.

«Non volere affatto operare con finezza»: vi è qui un leggero scarto fra la nolonté (o nolition) e l’astensione rigorosa. «Non volere affatto» non è proibire assolutamente; è piuttosto, all’occorrenza, «volere operare con fi- nezza il meno possibile» (poiché vi sono, forse, delle circostanze in cui l’uso di una certa finezza rimane obbligatorio). Oltre al fatto che qui si tratta innanzi tutto della condotta di vita, del resto il piacevole paradosso

3 Le Rationalisme de Descartes, III, Religion et raison, pp. 299-300.

4 Gennaio 1646, in fine, AT IV, 357 = Bompiani 2138

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retorico segnala abbastanza che, se franchezza cartesiana vi è, essa è otti- mamente concertata e pensata.

Con il problema del grado di “finezza” inerente gli scritti di Descar- tes, si presenta qui la grande questione del rapporto fra l’arte di scrivere di un autore come Descartes e la necessità della dissimulazione, segnata- mente con le opinioni che Leo Strauss ha sviluppato nel celebre articolo del 1952 su La persecuzione e l’arte di scrivere.

Per Strauss, tutti lo sanno, l’arte di scrivere degli autori classici è in sostanza un’arte della dissimulazione. Questa dissimulazione deve inten- dersi non in senso radicale, ma relativo, e per così dire dialettico: è quella che si verifica quando un testo contiene «in primo luogo, un insegnamen- to a carattere edificante», su cui si fermerà il lettore volgare o frettoloso;

ma anche, in secondo luogo, «un insegnamento filosofico sull’argomento più importante, indicato soltanto fra le righe»5, e dunque accessibile sol- tanto a colui che usa attenzione e riflessione. Una tale arte di scrivere è quella che si addice ad una situazione di non libertà, in cui il vero filosofo si trova nell’impossibilità di esporre apertamente le proprie idee, salvo ad incorrere in una persecuzione che metterebbe in pericolo la sua vita e la sua stessa opera. In questa situazione, e forse anche oltre, il pensatore pru- dente bada di riservare ai veri amici della filosofia l’essenziale della sua co- municazione. Ciò che consiste, dunque, nel non rendersi illeggibile a tut- ti gli altri, ma a disporre in un discorso accessibile agli altri (essoterico), e apparentemente conforme alla loro attesa, degli indizi, delle «particolarità enigmatiche», delle irregolarità più o meno manifeste, che il lettore atten- to, ma solo lui, non mancherà di rilevare e di interpretare; poiché

se un maestro nell’arte dello scrivere prende delle cantonate che farebbero vergo- gna ad un liceale intelligente, è ragionevole supporre che esse siano intenzionali6.

Strauss evoca qui le oscurità di schema, le contraddizioni all’interno di un’opera o fra due o parecchie opere dello stesso autore, l’omissione di anelli importanti dell’argomentazione, ecc.7; ma anche le «ripetizioni ine-

5 A, p. 36; B, p. 69.

6 A, 30; B, 63.

7 A, 31; B, 64.

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satte di affermazioni anteriori, espressioni strane, ecc.»8: tutti indizi su- scettibili di segnare un difetto di adesione reale dell’autore in relazione al- le dottrine alle quali egli dichiara d’altronde di restar fedele e che preten- de di trattare con rispetto.

Leo Strauss, come si sa tuttora, ha applicato questa ermeneutica della dissimulazione ai filosofi arabi ed ebrei, Al-Farabi, Maïmonide, Spinoza, ma anche a Machiavelli e a Hobbes. Sembra non aver mai trattato di De- scartes, e Descartes non è stato per lui del tutto fuori portata. Nel volume al quale l’articolo su «La persecuzione e l’arte di scrivere» dà il titolo, e più precisamente in uno studio intitolato: Come studiare il “Trattato Teo- logico-politico” di Spinoza, Strauss scrive (trad. fr. p. 247):

Le regole di vita di Spinoza che si aprono con il ad captum vulgi loqui (parlare mettendosi alla portata del volgo: prima regola di vita, regula vivendi, del Trattato sulla riforma dell’intelletto) seguono il modello delle regole della “morale provvi- soria” di Descartes che si aprono con l’esigenza di un rigoroso conformismo in ogni cosa, eccetto l’esame strettamente privato delle sue proprie opinioni. Noi non possiamo che fare allusione al problema della tecnica di scrittura di Descar- tes, problema che sembra sfuggire alla vigilanza di tutti gli specialisti a causa dell’estrema precauzione che caratterizza tutte le azioni di questo filosofo.

Benché Descartes sia passato per maestro nell’arte di “proiettare om- bre” sulle cose (come scrive nel Discorso sul Metodo a proposito della fisica9), vi sono delle buone ragioni per negare che egli abbia mai voluto praticare una dissimulazione alla Strauss. Mai il suo proposito esplicito porta qualcosa che abbia delle buone ragioni da identificare come l’oppo- sto del suo proprio pensiero; e il principio di una comunicazione esoterica (fra iniziati) per lui non è nulla che abbia un vero significato. Descartes ha avuto un bell’«odiare il mestiere di fare dei libri»: per lui, pubblicare doveva intendersi nel senso pieno della parola, come una comunicazione senza dubbio raffinata, ma tuttavia univoca, dei suoi pensieri ad un pub- blico istruito. Detto ciò, bisognerà ricordarsene continuamente: nella si- tuazione dell’epoca, nessuno scritto che riguardasse da vicino o da lonta-

8 A 37; B 69.

9 Quinta parte, AT VI, 42.

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