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Academic year: 2021

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Quaderni

leif

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

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Direttore

GIUSEPPEPEZZINO

Direttore responsabile GIOVANNIGIAMMONA

Redazione

SARACONDORELLI

ANNAPIADESI

CATERINALIBERTI

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ISSN 1970-7401

© 2007

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania Registrazione presso il Tribunale di Catania,

n. 25/06, del 29 settembre 2006 Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Impaginazione e stampa:

, grafica editoriale di Pietro Marletta,

via Delle Gardenie 3, Belsito, 95045 Misterbianco (CT), tel. 095 71 41 891

Quaderni

leif

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Quaderni

leif

AGORÀ

Giuseppe Acocella Etica e lavoro - In margine ad uno scritto di Giuseppe

Capograssi 5

Denis Kambouchner La follia nelle Meditazioni di Descartes: un problema

storiografico 11

Giuseppe Lissa Etica e politica: un dialogo tra religioni? 31 Gennaro Luise Metafisica delle facoltà dell’anima in Joseph Maréchal 89

BORDERLINE

Maria Vita Romeo Questioni pascaliane 113

COFFEE BREAK

1991: C’eravamo tanto odiati. A proposito di politici e di intellettuali 125 RING

M. Gabriella Puglisi Le possibili ricostruzioni della democrazia. Intervista a

Larry Hickman 140

SPIGOLATURE

Massimo Vittorio Relativismo: questione di punti di vista 145 Daniela D’Antiochia Le quattro virtù cardinali della libertà 150

Elisabetta Todaro L’etica nella comunicazione 156

Massimo Vittorio Multiculturalismo e femminismo: alleati o nemici? 162 CRONACHE LEIF

Rapporto Zoomafia 2006: il “caso Sicilia” 166

Carlo Carena e le Provinciali di Pascal 166

Semestrale del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica

Anno II n. 2, gennaio-giugno 2007

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GIUSEPPEACOCELLA*

Etica e lavoro

In margine ad uno scritto di Giuseppe Capograssi

N

  ‒    in quei giorni l’Europa – Giuseppe Capograssi svolgeva una riflessione densa, stringente, ricca di suggestioni, sul posto che compete al lavoro nella esistenza del- l’individuo contemporaneo, travolto ma non spazzato via dal vento del- la storia, fino ad anticipare con lucida fermezza concettuale i temi del- l’isolamento solipsistico dell’uomo nell’età della sua massificazione che il passaggio dal XX al XXI secolo ha oggi reso ancor più drammatici. Ne Il significato dello Stato contemporaneo scrive infatti di una nuova metafi- sica che

è di una semplicità inaudita. Si riduce a una intuizione ancora incerta e tale che per esporla occorre adoperare termini ancora incerti. E l’intuizione è che l’indi- viduo per sé, nel suo nudo e limitato essere individuale, non vale, deve appog- giarsi a qualche cosa, confondersi con qualche cosa perdersi in qualche cosa,

chiedendosi infine:

Ma qual è in tutto questo il dovere preciso e quotidiano dell’individuo? Questa etica della perfezione e della perdizione per quale via entra nella vita quotidiana dell’individuo? La risposta è una vecchia risposta. La via è il lavoro: questa vec- chia idea del lavoro così logora, acquista un significato di vita, diventa la legge della vita. Identificato con la vita stessa dell’individuo il lavoro porterebbe con sé come suo termine questo uscire dell’individuo da se stesso questo trasfondersi dell’individuo nella vita di tutti. C’è qui la oscura intuizione, che il lavoro sia, per dirla con una parola difficile, la gnoseologia della vita; il lavoro, quando la vita dell’individuo è interamente lavoro, quando dipende dal lavoro, sarebbe

* Vice Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Ordinario di Etica so- ciale nell’Università di Napoli «Federico II».

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l’unico processo traverso il quale l’individuo esce dalla sua solitudine e prende coscienza della realtà1.

La dimensione sociale, l’unica possibilità di far sortire l’individuo dalla sua solitudine, rischia così anche di schiacciarlo, annientarlo, alienarlo. Le dimensioni molteplici del dramma dell’uomo contemporaneo di fronte al lavoro sono tutte già qui in questa sofferta meditazione. Il No- vecento – il secolo del lavoro – sembra con- traddire sia la pretesa centralità del lavoro, celebrandone mestamente la proclamata fine, sia la temuta ed esaltata idolatria del lavoro, che finisce per apparire il suggello e al tempo stesso la dannazione della dimensione sociale del lavoro, elemento ordinatore delle esistenze individuali nel declinare del millennio2. Al- l’inizio del nuovo millennio il problema indi- cato da Capograssi sembra nuovamente in- combere: il lavoro appare smarrire il senso sociale e la dimensione comunitaria della sua esperienza per diventare (o ridiventare?) soli- tudine senza rimedio. In questo senso, e solo in questo, veramente è da riconoscere la fine del lavoro, più che in quello banalmente descrittivo e rapsodico annunciato da Rifkin.

La dimensione economicista del lavoro – che incrementa un crescente spazio per la dimensione ludica, cui cede il tempo della vita – sembra aver assorbito e travolto ogni dimensione esistenziale e sociale del lavoro.

André Gorz – ha ricordato Francesco Totaro3– ha rilevato che

1 G. Capograssi, Il significato dello Stato contemporaneo, in L’esperienza pratica e le sue forme fondamentali, Milano, 1942, ora in Opere, Milano, Giuffrè, vol. IV, 1959, pp. 383 e 385. «Uscire da se stesso perdersi nella vita collettiva lavorare: alla fine è sempre la stessa canzone con cui si ten- ta di cullare l’individuo moderno per consolarlo di una speranza infinita che ha perduto» (p. 385).

2 Cfr. G. Acocella, Rappresentare il lavoro?, in AA. VV., Ripensare il lavoro, Bologna, Edizio- ne Dehoniane, 1998, p. 198.

3 Cfr. F. Totaro, Il lavoro per la persona, in AA. VV., La questione lavoro oggi, Roma, AVE, 1999, p. 53. L’autore rilegge in una mirabile sintesi il problema del lavoro nel pensiero filosofico.

Mario Sironi, Solitudine, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

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ci troviamo in un sistema sociale che non sa né ripartire, né gestire, né impiega- re il tempo liberato; che ne teme la crescita mentre fa di tutto per incrementar- lo; che al tempo liberato, infine, non trova altra destinazione che cercare in tutti i modi di ricavarne denaro4.

A Capograssi, mezzo secolo prima di Gorz, era parso che l’azione umana, se si conviene che

la salvezza è il lavoro, sperimenta per così dire due vie per portare l’individuo al suo fine. Nell’avere scoperto queste due prospettive è forse il massimo di poten- za speculativa che l’azione nel suo puro sforzo abbia raggiunto. Prima via:

l’azione ha l’intuizione che il lavoro abbandonato a sé stesso, abbandonato alla sua natura porterà l’individuo al suo sbocco nella vita comune; l’individuo av- viato al suo destino, non deviato in altre avventure, semplificato nella sua storia, arriverà spontaneamente al suo fine. Seconda via: l’individuo in quanto tale non può arrivare a quello sbocco che è la sua salvezza se non nega radicalmente sé stesso: queste due vie esprimono le due tendenze

fondamentali dello Stato contemporaneo5.

Se «il lavoro è la via della salvezza»6, la pri- ma via è la via sociale, che costruisce il mondo umano intorno all’esperienza del lavoro e al suo significato per la vita, salvando l’individuo;

la seconda via è la via solitaria, che per para- dosso annienta l’individuo negandolo a se stes- so. La prima è la

via positiva che spera di trovare la salvezza nella

vita pazientemente vissuta secondo le idee che fanno l’umanità della vita, che ri- chiama l’esperienza del filatore di montagna Renzo Tramaglino, l’uomo ateore- tico, che non conosce altro che il suo povero sogno di fondare una famiglia, e invece di chiedere aiuto al demonio lotta col demonio, invoca contro di lui l’aiuto degli uomini e, con parole che gli uomini non capiscono, l’aiuto di Dio7.

La seconda è la

4 A. Gorz, Métamorphoses du travail. Quête du sens. Critique de la raison économique, Paris, 1988, tr. it. Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 16.

5 G. Capograssi, Il significato dello Stato contemporaneo, cit., p. 386.

6 Ibid.

7 Ibid., p. 389.

Renzo incontra Lucia nel lazzaretto

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via negativa, la via che pretende portare a termini assoluti la vita del relativo, e invoca l’aiuto della scienza come chiave magica dei segreti della natura, che ri- chiama l’esperienza del dottor Faust, il quale, volendo stringere e vivere in un momento la vita come godimento, è costretto a concludere il patto col demonio cioè a farsi prestare, per grottesche avventure, la grottesca onnipotenza del de- monio8.

Ogni assolutizzazione che voglia scacciare l’Assoluto erge nuovi, mise- rabili assoluti, il cui suggello – il patto col demonio – è l’idolatria del la- voro e nel contempo la esaltazione del tempo liberato dal lavoro, come il pensiero moderno, in Locke come in Marx, ha in modo convergente as- sunto9, di fatto dichiarando di rinunciare all’opera «di creare il mondo umano della storia»10, che prevede invece e bene intende il significato eti- co del lavoro. Infatti secondo Capograssi il lavoro è cosa diversa, altro, tanto dalla sua idolatrica esaltazione quanto dalla sua mortificante demo- nizzazione.

Ma il lavoro è qualche cosa che gli uomini fanno spontaneamente. Come è che gli uomini lavorando cioè sperimentando la vita come dolore, seguitano a vivere, cioè a credere nella vita come valore; sperimentando col lavoro che la vita è pati- mento cioè non vale, seguitano a vivere vale a dire credono che la vita valga la pena d essere vissuta? Se il lavoro si sopporta, esso ha dunque in sé una sua pro- messa, nella sua inesauribile spontaneità è racchiuso un inesauribile compenso11.

La dimensione sociale del lavoro, che lega l’uomo indissolubilmente ai suoi simili nella vita collettiva, appare a Capograssi irrinunciabile, per- ché perdendosi perderebbe con sé la vita collettiva stessa. Il lavoro si sop- porta perché comporta un compenso inesauribile:

E l’individuo trova il compenso del suo sforzo in tutte le forme della vita in cui l’azione va scoprendosi come amore. Nel matrimonio, in cui l’azione è proprio ed espressamente unione totale di vita con vita, nella famiglia che per la prima volta rivela all’individuo che l’essenza dell’azione e della vita è l’amore e l’ab- bandono; nella proprietà che per la prima volta gli rivela la indissolubile con- nessione del suo sforzo con le cose del mondo materiale quasi la fraternità delle

18 Ibid.

19 Cfr. F. Totaro, Il lavoro per la persona, cit., pp. 48-50.

10 G. Capograssi, Il significato dello Stato contemporaneo, cit., p. 390.

11 Ibid., p. 386.

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cose, nella patria nella quale si realizza l’unione più profonda della vita dei sog- getti con tutte le vite del passato e con tutte le vite del futuro, nella religione che dando al soggetto il senso di un legame con l’Essere infinito gli trasforma l’amore in carità e il dolore in promessa di salvezza. […] E quindi in ultima istanza lavoro e vita collettiva sono la stessa cosa; l’uno la vita che si va forman- do traverso lo stento e lo sforzo per trovare la possibilità di uscire da se stesso e arrivare alle altre vite, e l’altra questo sforzo arrivato a creare tutto un sistema di partecipazioni e di comunioni, che danno al cuore avido del soggetto tutta la possibile esperienza dell’essere in questa vita12.

Per questo l’insidia che cela la riduzione alla sola dimensione indivi- duale del lavoro compromette la stessa costruzione del mondo umano del- la storia. L’individualismo pretende l’assolutizzazione del lavoro, che viene privato dei suoi legami con la realtà intera dell’umano, fino alla banalizza- zione dell’esistenza e delle scelte fondamentali come, con parola sorpren- dente, Capograssi giunge a valutare l’altra via: «l’individuo non può arriva- re a salvarsi se non nega se stesso», giacché, come ha rivelato la prima via,

12 Ibid., p. 387.

Julien Dupré, Glaneuses, 1880

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la vita dell’individuo come tale in quanto se stesso, culmina e si concreta nelle forme in cui il soggetto si unisce alla vita degli altri; con potente acume ma con terribile errore la lotta è portata proprio contro queste idee e forme, contro il matrimonio e la profonda legge di pudore che esso nasconde, contro la patria e la profonda fede nella perpetua individualità delle generazioni che essa contie- ne, contro la religione e la profonda speranza avverso il tempo e la morte che ne costituisce l’essenza. Si ritiene che queste sieno tappe che ritardano ed ostacola- no il cammino dell’individuo: una volta liberato da queste tappe il cammino dovrebbe procedere rapido.

Il capovolgimento è compiuto, e l’illusione dell’assoluto non sopporta il relativo nel momento stesso nel quale si riduce ad esso:

Di qui una quasi mistica negazione e distruzione della vita sociale e civile del- l’umanità; di qui, in una specie di rapimento mistico, il tentativo inaudito di sopprimere tutto il relativo. […] Sopprimere tutte le tappe, arrivare subito; e la meta è una società ricca di tutte le ricchezze puramente meccaniche del mondo moderno che riesce ad assicurare il supremo fine cioè la sazietà dell’individuo che è assorbito in essa. La meta è insomma una società tipicamente relativa posta trattata vissuta come assoluta13.

La via negativa, che «pretende di portare a termini assoluti la vita del relativo» non vuole accettare che «il lavoro e il lavoro per gli altri è la leg- ge la promessa e il premio della vita», come la via positiva disperatamente ed instancabilmente proclama. Ma alla fine anche il dotto Faust dovrà convenire con il filatore di montagna che

tutte e due le vie si riducono alla stessa affermazione che la vita, la vita associata e la vita storica sono il serioso poema si direbbe nel quale l’individuo ha quasi in figura tutto il suo destino14,

giacché deve accorgersi che non vi è

nulla di più orribile della “banalizzazione” che ha subito l’individuo moderno, perduto nei futili sogni del benessere o dell’aspra ascesa del guadagno o della superbia di chi crede di aver creato il mondo15.

13 Ibid., p. 388 (il corsivo è mio).

14 Ibid., p. 390.

15 Ibid., p. 392.

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DENIS KAMBOUCHNER*

La follia nelle Meditazioni di Descartes:

un problema storiografico**

Q

’    su una delle più famose querelles della filosofia francese contemporanea. Si tratta di una di- scussione che ha visto fronteggiarsi, trenta o quaranta anni fa, due tra i maggiori pensatori della fine del XX secolo, Michel Foucault e Jacques Derrida. Essa prendeva spunto da alcune righe situate all’inizio delle Me- ditazioni Metafisiche, sulle quali sino a quel momento non si era ancora soffermato nessuno. La discussione è stata nello stesso tempo filosofica e filologica; essa interessa la filosofia in generale e gli studi cartesiani in par- ticolare, la filosofia della storia in quanto tale e la storia della filosofia in quanto tale (nel suo metodo e nel suo progetto). Questa discussione non ha smesso di affascinare studiosi e critici, e naturalmente non ho la prete- sa di esaurire in questa occasione tutti i risvolti. Vorrei solamente esporre l’oggetto centrale, e riflettere sulla maniera di interrogare un testo filosofi- co classico, come quello di Descartes, che i due pensatori hanno abborda- to da due punti di vista notevolmente diversi.

I

Ognuno si ricorda che all’inizio della Prima Meditazione, dopo aver enunciato la prima ragione per la quale occorreva revocare tutto in dub- bio (mediante l’argomento che si suole ormai definire dei “sensi inganna-

* Université de Paris 1, Panthéon-Sorbonne.

** Questo articolo fonde in una sintesi inedita, e con taluni sviluppi, degli elementi di analisi precedentemente esposti nel mio lavoro Les Méditations Métaphysiques de Descartes, vol. I, Paris, PUF, 2005, §§ 23 e 32. Tutti i miei ringraziamenti vanno a Emanuela Scribano, per il suo ami- chevole invito a questo impegno; a Luigi Delia, per la cura e la competenza dedicate nel realizzare questa versione italiana; come pure a Giuseppe Pezzino e a Maria Vita Romeo, per la generosa ac- coglienza riservata a questo testo nei «Quaderni leif».

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tori”), Descartes – o quanto meno il soggetto delle Meditazioni, questo personaggio che si esprime qui alla prima persona – rivolge a se stesso un’obiezione: può darsi che i nostri sensi ci ingannino sulle cose poco sensibili o molto lontane; ma vi sono altre cose di cui sarebbe irragione- vole dubitare («di cui è del tutto impossibile dubitare», recita il testo latino); «per esempio, che io sia qui, se- duto vicino al fuoco, vestito con una veste da came- ra, con questo foglio tra le mani, e altre cose di questo genere». È a proposito di questa impossibi- lità di dubitare di certe cose che si introduce, nel- la Prima Meditazione, il riferimento alla follia.

Leggiamo il testo cartesiano (AT VII, 18, 20 sq.):

A) E in che modo potrei negare che queste mani e questo corpo siano miei? Forse solo paragonandomi a certi folli (nescio quibus insanis), il cui cervello è talmente sconvolto e offuscato dai neri vapori della bile, che affermano co- stantemente di essere dei re, quando invece sono molto poveri; di essere vestiti d’oro e di porpora, quando invece sono completamente nudi; o immaginano di essere dei vasi, o di avere un corpo di vetro. Ma cosa dico? sono dei folli (sed amentes sunt isti), e io non sarei meno stravagante (io stesso non sembrerei meno privo di ragione, nec minus ipse de- mens viderer), se mi regolassi sul loro esempio (si quod ab iis exemplum ad me transferrem).

Questa prima evocazione della follia ne precede immediatamente una seconda:

(B) Tuttavia, devo qui considerare che sono un uomo, e che quindi ho l’abitu- dine di dormire, e di rappresentarmi (fare l’esperienza, pati) in sogno le stesse cose, o talvolta cose meno verosimili, che quei (isti) folli si rappresentano quan- do sono svegli.

Questa seconda considerazione condurrà direttamente all’idea che i dati della coscienza immediata, per quanto netti essi siano, possono parte- cipare di un’illusione simile a quella del sogno.

Tale è il contesto in cui nasce la discussione. La questione è sapere quale ruolo esattamente Descartes attribuisca qui al folle; detto altrimen-

Frans Hals (1580-1666), René Descartes, Paris, Louvre

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ti, quale relazione intercorra tra la follia, o per lo meno tra una certa for- ma di follia, e l’impresa filosofica che si vuole qui intraprendere. E questa questione l’ha sollevata Michel Foucault, nel 1961, all’inizio del suo pri- mo grande libro, la Storia della follia nel periodo

classico1. O, se non altro, è Foucault che per primo ha risposto a questa questione, indentificando in queste poche righe la prova di una svolta epocale nel modo di considerare la follia.

Di che cosa si tratta? Nei secoli precedenti, il folle aveva conservato il suo posto nella comunità, o nel villaggio. E questo posto gli era dato in ragio- ne dell’idea – già inscritta nella saggezza popolare ma anche coltivata dai migliori autori antichi e mo- derni – di una certa prossimità o affinità tra la follia e la saggezza. Ne sono una testimonianza, non lon-

tana dall’epoca di Descartes, le opere di Montaigne e di Charron (Pierre Charron, il celebre autore del trattato De la Sagesse (1601), nel quale la materia antropologica degli Essais di Montaigne è ripresa ed esposta in modo più dottrinale). Si poteva leggere in Charron quanto segue:

È una cosa miracolosa trovare un intelletto grande e vivo, equilibrato e modera- to […]. Saggezza e follia sono molto vicine. Solo un passo le separa […] Di che cosa è fatta la sottile follia se non della più sottile saggezza? Per questo Aristotele dice che non ci sono affatto grandi intelletti che non abbiano un qualche bri- ciolo di follia…2.

E in Montaigne si leggeva:

1 Plon, 1961. Il brano su Descartes si trova all’inizio del cap. II («Le grand renfermement»), pp. 54-7 di questa edizione, alle quali corrispondono le pp. 56-9 delle ulteriori edizioni (2èmeéd., Gallimard, 1972; réimpr., coll. Tel, 1977), che utilizziamo qui.

2 P. Charron, De la Sagesse (1601), I, XIV, 15, éd. B. de Negroni, Paris, Fayard, 1986, pp.

140-1; citato da Foucault pp. 45-6. [«C’est miracle de trouver un grand et vif esprit bien réglé et modéré (…). La sagesse et la folie sont fort voisines. Il n’y a qu’un demi-tour de l’une à l’autre (…) De quoi se fait la subtile folie que de la plus subtile sagesse? C’est pourquoi, dit Aristote, il n’y a point de grand esprit sans quelque mélange de folie…»]. La vicinanza tra «la plus subtile sa- gesse» e «la plus subtile folie» è un luogo comune risalente almeno ad Aristotele, Problème XXX.

Cfr. l’opera classica di R. Klibansky, E. Panofsky et F. Saxl, Saturne et la mélancolie.

Michel Foucault

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La nostra veglia è più addormentata del sonno; la nostra saggezza, meno saggia della follia; i nostri sogni valgono più dei nostri ragionamenti3.

E anche – tenuto conto della debolezza dei nostri strumenti conosci- tivi (i sensi in primo luogo):

La scienza umana non si può sostenere che con una ragione irragionevole, folle e forsennata4.

Ma con Descartes si produce quello che Foucault chiama «l’evento classico» (p. 59), quello in virtù del quale la follia sarà «ridotta al silen- zio». E questo evento si trova, forse non contenuto, ma simboleggiato, se- condo Foucault, dal passo della Prima Meditazione che abbiamo letto prima, passo in cui si opera, secondo lui, uno strano «atto di forza» (p.

56). Perché, «lungo il cammino del dubbio», Descartes ha incontrato tra le diverse forme dell’errore il sogno e la follia (ibid.). Ma se l’eventualità del sogno sarà presa sul piano metodico, «per quanto riguarda la follia, il discorso è diverso» (p. 57). Nel caso del sogno Descartes si impegna a cercare ciò che, persino all’interno dei nostri sogni, non potrà essere falso;

mentre nel caso della follia considera che non ne valga la pena. Con que- sta esclamazione sprezzante: «Ma cosa dico? sono dei folli…», si limita a far valere la pura e semplice impossibilità, in cui si trova il soggetto che pensa, di fingersi folle. Questa impossibilità deve essere detta essenziale per il soggetto che pensa. Quindi, questa certezza di non essere folle, che mancava a Montaigne, «Descartes, ora, l’ha acquisita, e ci si appoggia for- temente: la follia non può più riguardarlo» (p. 58). Essa è «esclusa dal soggetto che dubita», allo stesso modo in cui sarà esclusa la possibilità che questo soggetto che dubita non pensi o non esista (p. 57). È l’inizio del

“grande internamento” [le grand renfermement] della follia al quale proce- derà il Seicento: questo isolamento [enfermement] della follia (nel mani- comio) risponderà ormai unicamente a questa forma di certezza che si trova qui espressa.

3 Essais, II, 12, éd. Villey p. 568 c. [Notre veillée est plus endormie que le dormir; notre sa- gesse, moins sage que la folie; nos songes valent mieux que nos discours (= raisonnements)].

4 Ibid., 592 c. [L’humaine science ne se peut maintenir que par raison déraisonnable, folle et forcenée].

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La prima, e credo sola critica di questa implicazione di Descartes nella storia della follia sarà formulata da Jacques Derrida nel 1963, cioè due anni dopo l’uscita del libro di Foucault. Derrida, di cinque anni più gio- vane di Foucault, non pubblicò i suoi primi grandi libri – La voce e il fe- nomeno, Della grammatologia e La scrittura e la

differenza – prima del 1967. La conferenza su Foucault, Cogito e Storia della follia, sarà peraltro ripresa nell’ultimo di questi libri.

Contro l’interpretazione di Foucault, Derri- da sottolineava principalmente questo: che certo il testo di Descartes comporta, in un primo tem- po, un allontanamento della follia, ma solo nella misura in cui Descartes dà la parola al non-filo- sofo, al “novizio in filosofia”, novizio che il sem- plice dubbio sui sensi era bastato a spaventare, e

che protesta (p. 78). In un primo momento, pertanto, Descartes “finge”

in effetti di riposarsi in questa confortevole certezza: «io non sono pazzo, né lo siete voi: siamo persone sane di mente». Ma è solo per portare, in un secondo momento, dei colpi decisivi a questa certezza ingenua [naï- ve]. E non è vero che il passaggio all’ipotesi del sogno è imposta dal- l’esclusione dell’ipotesi della follia: al contrario, se si ammette che noi so- gniamo le cose più folli, e dunque che il sognatore è spesso «più folle del folle», l’ipotesi del sogno rappresenterà l’«esasperazione iperbolica» della precedente (p. 79). E ancora l’ipotesi della follia raggiunge solo, insieme con il sogno, un primo grado di “esasperazione”; perché un’ipotesi anco- ra più radicale sarà formulata più avanti, mediante la figura del Genio Maligno, «molto potente e molto astuto», il quale «impiega tutta la sua abilità» a ingannarmi. Secondo Derrida, questa ultima ipotesi «renderà presente la possibilità di una follia totale», follia che «introduce la sovver- sione» non più nella sola coscienza percettiva, ma fin «dentro il pensiero puro». Qui, la “stravaganza” di fronte a cui il soggetto delle Meditazioni si era in un primo tempo ritirato, non risparmia più nulla (pp. 81-2). Ed è solo con il Cogito che il pensiero filosofante potrà cominciare ad assicu- rarsi contro il rischio della follia; anche se questo Cogito sarà lui stesso sperimentato sullo sfondo della possibilità della follia, «molto vicino alla

Jacques Derrida

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follia» (p. 92), in quanto il progetto filosofico da cui scaturisce è esso stes- so di una «folle audacia» (p. 86); audacia che viene disconosciuta o ridot- ta, non senza violenza, quando ci si sforza, come fa Foucault, di confinare questo progetto in una «totalità storica determinata», dalla quale sarebbe interamente dominato.

Foucault aspetterà nove anni prima di rispondere alla critica pronun- ciata da Derrida nella sua conferenza; che diventano cinque anni se si considera la ripubblica- zione di tale conferenza nel volume: L’écriture et la différence. La risposta di Foucault, meticolosamen- te preparata, apparirà nel- la postfazione redatta nel 1972 per la seconda edi- zione della Storia della fol- lia. Essa insiste su due punti principali:

a) È incontestabile che il sogno si presti meglio della follia al fine di legit- timare, o di dispiegare il dubbio sull’insieme delle apparenze sensibili: ragion per cui la Prima Medita- zione passa dall’evocazio- ne dell’una all’ipotesi del- l’altro. Ma in nessun mo- mento di questo processo il posto del folle si trova ad essere espressamente assunto o ripreso dal soggetto medi- tante. Ciò è comprensibile: perché il «pensiero del sogno» non proibisce di «continuare a meditare in modo valido» (p. 1117), laddove ritenersi folle pregiudicherebbe la meditazione stessa, e qualunque ricerca della ve-

Francisco Goya, Il recinto dei pazzi, 1794

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rità (p. 1128). «Sarebbe una follia solamente tentare […] di fare il folle con i folli» (p. 1120). «Prova eccessiva e impossibile» (p. 1129) la follia, in quanto amentia o dementia, diviene quindi piuttosto l’oggetto di un forte distanziamento oggettivante, di tipo giuridico o medico; ed è solo al prezzo di numerose «derivazioni rispetto al testo di Descartes», dice Fou- cault, (p. 1133) – si intenda: solo al prezzo di numerose alterazioni del suo senso – che la meditazione cartesiana può essere presentata come uno scontro diretto con la follia.

b) Nella Prima Meditazione non c’è «alternanza di voci» (p. 1130), per esempio tra un filosofo debuttante ed uno più sperimentato. Il «ma cosa dico? sono dei folli» non dipende affatto in tutto e per tutto dal- l’esclamazione spontanea [naïve] del non filosofo turbato dal dubbio che gli viene proposto: è invece il segno di un rifiuto effettivo, da parte di un soggetto che è da subito pienamente padrone di sé, che «non si lascia mai sorprendere» (p. 1133) e che assume, dall’inizio alla fine della meditazio- ne, un gesto così strettamente deliberato da arrivare a produrre, in questa fase, le sue proprie finzioni (il genio maligno è una finzione deliberata, un personaggio o un’istanza che io, soggetto meditante, mi accordo il diritto di porre e immaginare, p. 1134). Impossibile, dunque, fondarsi su un’al- ternanza di voci per immaginare in questo passo il rovesciamento di un gesto di esclusione (della follia) in un gesto di inclusione (p. 1132). Cer- to, quell’esercizio del pensiero che è la meditazione implica un soggetto che reagisce al proprio pensiero, «un soggetto mobile e modificabile dal- l’effetto stesso degli eventi discorsivi che vi si producono» (p. 1125). Ma in questo caso il rigetto della follia era indispensabile e rigorosamente funzionale: «il soggetto meditante si scopre soggetto dubitante al termine di due prove che si oppongono, l’una ha costituito il soggetto in quanto ragionevole (rispetto al folle che è stato estromesso); l’altra ha costituito il soggetto in quanto dubitante (nella non distinzione del sonno e della ve- glia)» (p. 1129).

Al termine di questo primo esame della querelle, l’approccio dell’ope- razione cartesiana appare dunque molto contrastato. Mentre il Descartes di Foucault pone sin da subito la follia a distanza dalla propria impresa, quello di Derrida assume invece una certa prossimità, o addirittura una certa coincidenza, tra il dubbio metafisico e una forma suprema di “stra-

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vaganza”. Mentre Foucault situa l’operazione cartesiana all’interno di un’accadimen- to storico di cui essa è testi- mone, ma che la oltrepassa, Derrida concepisce l’opera- zione filosofica di Descartes, con tutto ciò che di radicale vi è in essa, come un’opera- zione che deborda attiva- mente e dall’alto ogni strut- tura, ogni forma e ogni de- terminazione storica facil- mente riconoscibile. È pe- raltro sul modo in cui pen- sare la relazione tra il pen- siero filosofico e le strutture storiche che la discussione diventerà più aspra, special- mente con alcune formule molto severe impiegate da Foucault nella sua risposta:

Derrida, rifiutando di rap- portare la decisione cartesia- na a una struttura storica che la trascende, perpetua nello stesso tempo, scrive Foucault, una «ben lontana tradizione» e una «piccola pedagogia» molto francese:

tradizione, e pedagogia, che riservano al discorso filoso- fico stesso una “sovranità senza limiti», che fanno come se il filosofo fosse l’unico produttore dei suoi propri enunciati, e che situano così a priori il discorso filosofico al di fuori di ogni spontaneità (naturalezza). «In che

H. Bosch, Nave dei folli, 1494 ca, Louvre, Paris

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modo», scrive Foucault in una prima versione della sua risposta, pubbli- cata nello stesso anno in una rivista giapponese5,

in che modo una filosofia così preoccupata di rimanere all’interno della filosofia potrebbe riconoscere questo evento esterno, questo evento limite, questa disso- ciazione (partage) primaria attraverso la quale la risoluzione di essere filosofo e di raggiungere la verità esclude la follia?6.

Come si vede, questo celebre dibattito ci lascia in eredità un gran nu- mero di questioni: un numero troppo grande, e di questioni troppo vaste, perché io possa esaminarle tutte. Trattandosi in primo luogo del testo stesso di Descartes, sarebbe utile reperirvi tutti gli elementi significativi, e cercare in che modo ognuno dei due autori ne ha tenuto conto o vi ha fatto riferimento. Ma è disponibile, a questo proposito, uno studio di Je- an-Marie Beyssade, pubblicato nel 1973 (un anno dopo la risposta di Foucault a Derrida) nella Revue de Métaphysique et de Morale, con il tito- lo: «Mais quoi! ce sont des fous» (Ma cosa dico? Sono dei folli)7. Da parte mia, mi limiterò a sottolineare due o tre punti, in primo luogo sul testo stesso di Descartes, in seguito sui rapporti tra filosofia e follia, così come Foucault e Derrida li hanno esaminati; infine mi chiederò in quale misu- ra possiamo aspettarci che un testo come quello di Descartes risponda al- le nostre proprie domande.

II

Veniamo alla prima osservazione: se il testo cartesiano ha potuto pre- starsi a interpretazioni tanto divergenti, ciò è dovuto al fatto che il modo con il quale fa riferimento alla follia non ammette nessuna definizione sem- plice. E per cominciare, c’è un fatto testuale fortemente accentuato da Derrida e che Foucault non ha potuto disconoscere, ovvero l’esistenza nel testo cartesiano di una certa struttura di opposizione di una frase all’altra.

Ho detto: «di una frase all’altra»: bisognerebbe dire, come ha fatto Derri-

5 Réponse à Derrida, apparsa lo stesso anno nella rivista giapponese Paideia, n° 11; cfr. Dits et écrits, pp. 1149-63.

6 Ibid., p. 1163.

7 Revue de Métaphysique et de Morale, 1973-3, pp. 273-94. Ripreso recentemente nel volume Descartes au fil de l’ordre, Paris, PUF, 2001, pp. 13-48.

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da, «di un capoverso all’altro», se il testo latino delle Meditazioni, pubbli- cato nel 1641, fosse andato a capo come accade nel testo francese del 1647; ma questo testo latino si presenta senza capoversi sin verso la fine della Quinta Meditazione, cosa che Foucault rimprovera malignamente a Derrida di avere ignorato. Tuttavia, capoverso o meno, l’opposizione è ben accentuata tra il momento indi- cato dalla lettera (A) nello hand-out e quello indicato con la lettera (B). In (A), Descartes, o almeno il soggetto della meditazione, esclama: «comun- que non mi spingerò a dubitare di co- se che sono tanto chiare! Dovrei esse- re folle per farlo!»; ma in (B), rico- mincia: «eppure, devo tener conto del fatto che tutte le notti sogno cose che sono più folli di quelle che i pazzi af- fermano quando sono svegli».

Esiste, quindi, tra (A) e (B), qual- cosa come un cambio di posizione o di disposizione, sia rispetto al dubbio portato sull’evidenza sensibile, sia ri- spetto alla follia. La questione è capi- re quale portata convenga attribuire a questo cambiamento. Se il «ma cosa dico? sono dei folli!» costituiva, in (A), un gesto di vigorosa ricusazione, che stabiliva tra il soggetto meditante e il folle una grande distanza antro- pologica, si deve pensare che l’inizio di (B) («tuttavia, devo considera- re…», praeclare sane, tanquam non sim…) significhi un fare marcia indie- tro e l’annullamento di questa stessa distanza? Derrida sembra proprio pensare di sì; Foucault mantiene il suo no. E senza dubbio non si può de- cidere nulla senza prima esaminare più da vicino la logica del testo carte- siano. Ma allora ci si imbatte in quest’altra questione: che cosa intende dire esattamente Descartes quando scrive, in (A): «non posso dubitare di queste cose, se non, forse, paragonandomi a quei folli (insani), etc.…»; e anche quando scrive, subito dopo: «non sarei meno irragionevole (de-

Charles Le Brun, Des Passions, 1727, l’Effroi

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mens), se mi regolassi sul loro esempio (si quod ab iis exemplum ad me transferrem: se prendessi esempio da loro per applicarlo a me stesso, se spostassi da loro verso di me qualche esempio)»?

Bisogna convenirne, il testo di Descartes presenta qui una struttura tra le più ellittiche, e, nel suo carattere ellittico, ammetterà difatti due in- terpretazioni diverse, che sono state distinte nel 1974, in una breve nota su questa querelle, da uno dei più grandi commentatori francesi di De- scartes, Ferdinand Alquié – più anziano di Foucault e di Derrida e mae- stro di Jean-Marie Beyssade.

L’ambiguità segnalata da Alquié si articola attraverso la distinzione possibile tra due forme di follia. Di due cose l’una, scrive Alquié: o i folli di cui è qui questione sono degli allucinati, soggetti a pure visioni che s’impongono loro in modo assoluto; oppure sono dei deliranti, che si mettono a negare certe cose che nondimeno essi percepiscono (la loro nudità, la loro povertà, eccetera). Ora, a seconda che si pensi agli uni o agli altri, cambierà la pertinenza del paragone. Se bisogna paragonare qualcuno all’allucinato, sarà l’uomo comune, quello ordinario, che nella sua ingenuità cade nella trappola delle apparenze, e che crede ciecamente alle evidenze sensibili le quali, metafisicamente parlando, potrebbero be- nissimo essere ingannevoli. E al contrario, chi dovrà essere accostato al delirante, cioè al folle che nega il proprio vissuto? Ebbene, il filosofo stes- so, in quanto si ostina a rimettere in questione cose che gli altri uomini giudicano del tutto note.

Alquié riteneva che tra queste due figure della follia, solo una si ritro- vava nel presente testo, e forniva la chiave della sua interpretazione perti- nente. La sua scelta cadeva sulla seconda figura, con l’idea che se vi è un senso per il filosofo a paragonarsi al folle, è forse solamente a quei folli che amano ragionare. E difatti, scriveva, «nessuno diverrebbe filosofo se non fosse già prima un po’ folle, intendo dire se non fosse spinto, da qualche sentimento di irrealtà provato nei confronti delle cose, a porsi delle questioni che la gente ragionevole non si pone». Così, invece di ri- fiutare la follia, la filosofia cartesiana sarebbe quella che «la sovrasta e la guarisce, e ciò dal suo interno»8. Ciò dava largamente ragione a Derrida,

8 Op. cit., p. 115.

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a dispetto del fatto che Derrida non aveva colto con precisione, né ben de- finito, il tipo di follia qui implicato.

Questa conclusione era forse acquisita un po’ pre- cipitosamente. E soprat- tutto, anche tenendo con- to di altri testi cartesiani citati da Alquié, è discuti- bile che si possa riscontra- re in Descartes una netta distinzione tra due forme di follia, di cui una consi- sterebbe in un puro squi- librio dell’immaginazione, cioè del cervello, e l’altra in una sorta di malattia della mente o del giudi- zio. Nei rari testi cartesia- ni sulla follia, non sembra che una mente soggetta a immaginazioni disordina- te (turbata phantasmata)9 sia libera di giudicarne co-

9 Cfr. op. cit., p. 109. Inventariando le origini d’errore su ciò che si presenta alla mente, la Règle XII evoca la troppo grande fiducia riservata all’immaginazione, di cui si giudica a torto che essa «rapporte avec fidélité les objets des sens». «Ainsi lorsque, sous l’effet d’une maladie de l’imagi- nation, ce qui arrive aux mélancoliques (laesa imaginatione, ut melancholicis accidit), nous croyons (arbitremur) que les images désordonnées qui s’y forment (turbata ejus phantasmata) représentent des choses véritables (res veras repraesentare): AT X, 423, 12-13. On peut également citer la Diop- trique, VI, AT VI, 141, 9-15: «…de là vient que les frénétiques, et ceux qui dorment, voient sou- vent, ou pensent voir, divers objets qui ne sont point pour cela devant leurs yeux: à savoir, quand quelques vapeurs, remuant leur cerveau, disposent celles de ses parties qui ont coutume de servir à la vision, en même façon que feraient ces objets, s’ils étaient présents».

H. Bosch, L’estrazione della pietra della follia, 1494 ca, Prado, Madrid

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sì o altrimenti; e, in modo inverso, per affermare sinceramente qualcosa di interamente contrario al dato percettivo più immediato, bisogna essere impressionati [affecté ] da un’immaginazione contraria a questo dato. La distinzione tra due forme di follia sarà senza dubbio legittima da un pun- to di vista clinico, ma la sua realtà propriamente cartesiana resta proble- matica; e di fatto, se la stessa Prima Meditazione designa i folli con tre termini diversi (insani, amentes, demens), non sembra perciò che essa vo- glia distinguere tre categorie di folli.

Invece, nella misura in cui la follia in Descartes comporta sempre, nello stesso tempo, un aspetto fisico (con lo squilibrio degli umori e dei movimenti del cervello) e un aspetto intellettuale (con lo squilibrio del giudizio e del discorso), il fatto è che si potrà sempre mettere l’accento ora più sull’uno, ora più sull’altro dei due aspetti. Ed è proprio questa al- ternanza dei punti di vista che sembra caratterizzare il presente testo: in effetti, la follia che è in questione in (A) si definisce in primo luogo me- diante la negazione delle apparenze sensibili più accertate (o mediante l’affermazione delle cose contrarie a queste apparenze); laddove la follia che è in questione in (B), quella che il sogno supera, si definisce in virtù della semplice sottomissione a percezioni di tipo allucinatorio. Ciò che le distinzioni proposte da Alquié aiuteranno a comprendere è, dunque, che, da un momento del testo cartesiano ad un altro, il riferimento alla follia cambia di senso: nel primo momento (A), essa corrisponde all’evocazione di una stravaganza del dubbio («sarei folle, se dubitassi»); nel momento (B), invece, non si tratta più della follia di dubitare, ma di una possibile follia ordinaria, ovvero della possibilità iperbolica, metafisica, che l’intera evidenza sensibile non sia altro che un’allucinazione. E ciascuno di questi due sensi o usi del riferimento alla follia è presente nei testi cartesiani. Il primo, nel Discorso sul metodo – non già all’inizio della Quarta parte (la parte metafisica), che recensisce rapidamente le ragioni di dubitare, ma senza evocare nessuna follia; ma verso la fine di questa Quarta parte, quando Descartes ritorna sul tema della sicurezza ordinaria che noi ab- biamo delle cose materiali. È qui che si legge:

Benché si abbia una tale sicurezza morale di queste cose che sembra che a meno di essere stravagante, non se ne possa dubitare, tuttavia […], quando si tratta di una certezza metafisica, non si può negare che non sia un argomento sufficiente,

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per esserne interamente sicuri, l’aver riposto l’attenzione sul fatto che si possa, allo stesso modo, immaginarsi, mentre si dorme, che si ha un altro corpo…10.

Il secondo uso del riferimento alla follia interveniva in quel dialogo incompiuto e dall’incerta datazione (ma molto probabilmente anteriore alle Meditazioni) che è La Ricerca della Verità. Qui il riferimento interve- niva subito dopo le obiezioni fatte all’argomento dei sensi ingannatori:

(Eudosso): Poiché non basta dirvi che i sensi ci ingannano in certe occasioni, in cui ve ne accorgete, per farvi temere che non lo facciano anche in altre, senza che voi ve ne rendiate conto, io voglio andare oltre, e sapere se voi non avete mai visto qualcuno di quei malinconici che pensano di essere dei vasi o di avere qualche parte del corpo di una grandezza enorme; essi giureranno di vedere e di toccare ciò che immaginano. È vero che sarebbe offendere un uomo di buon senso dirgli che non può avere più ragione di loro per assicurare la sua credenza, poiché egli si relaziona come loro a ciò che i sensi e la sua immaginazione gli rappresentano. Ma voi non sapreste trovare impertinente che io vi domandi se voi non siate soggetti al sonno…11.

È chiaro che il testo della Prima Meditazione riunisce in sé i due usi, e li coordina in qualche sorta, in un modo che è certamente ellittico ma anche del tutto intelligibile. Lo possiamo riassumere così:

(A) Può sembrare che vi sia un quid di stravaganza nel dubitare di certe evidenze sensibili.

(B) Tuttavia, appartiene al filosofo di preoccuparsi della possibilità, alla radice stessa di queste evidenze, di un’illusione di natura allucinatoria.

Del resto, il passaggio citato del Discours, se lo si legge nella sua inte- rezza, conteneva già questo stesso movimento intellettuale, realizzando un mirabile equilibrio tra essere stravagante ed essere irragionevole:

Benché si abbia una tale sicurezza morale di queste cose che sembra che a meno di essere stravagante, non se ne possa dubitare, ma anche a meno di essere irragione- vole, quando si tratta di una certezza metafisica, non si può negare che non sia un argomento sufficiente, per esserne interamente sicuri, l’aver riposto l’atten-

10 AT VI, 37, 30-38, 7 (il corsivo è nostro); cfr. art. cit., p. 110.

11 AT X, 511, 1-16.

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zione sul fatto che si possa, allo stesso modo, immaginarsi, mentre si dorme…

(il corsivo è nostro).

Ma con questa formulazione molto complicata, quasi troppo calcola- ta, siamo ancora lontani da ciò che fa la forza del presente passaggio delle Meditazioni, vale a dire un rovesciamento vissuto nella percezione di ciò che deve essere considerato ragionevole. In qualche riga, la Prima Medita- zione parte dalla più grande reticenza – e dalla più classica12– che si possa esprimere nei confronti della radicalità del dubbio, e conduce all’enuncia- to del più grande turbamento («ne sono tutto pieno di stupore» obstupe- sco) dinanzi al carattere virtualmente allucinatorio di ogni coscienza sensi- bile. In qualche riga, essa stabilisce che la ragionevolezza non si trova do- ve, di primo acchito, si immagina che sia, e che il dubbio più radicale go- de di piena legittimità.

III

Se queste osservazioni sono fondate, basteranno a produrre una specie di arbitraggio nella querelle di cui ci occupiamo? Da un certo punto di vi- sta, sì, nella misura in cui l’interpretazione fornitaci da (B) darà piuttosto ragione a Foucault che non a Derrida. In effetti, se sembra filosoficamen- te irragionevole accontentarsi della fiducia comune nella testimonianza dei sensi, e che ogni evidenza sensibile possa avere un carattere allucina- torio, allora è chiaro che il folle, per finire, non sarà il filosofo, ma l’uomo ordinario, colui che non immagina che forse sta sognando. In questa mi- sura, non è vero che il soggetto di questa Meditazione avrà in primo luo- go timore di paragonarsi a un folle, per accettare in seguito questo para- gone: avrà piuttosto deviato l’imputazione di stravaganza da se stesso ver- so l’uomo ordinario, che è colui che non accetta il dubbio. E così, come Foucault ha sostenuto vigorosamente, questo soggetto meditante sarà ri- masto costantemente padrone di sé stesso.

12 Cfr. Lucullo negli Academica Priora di Cicerone (brano riportato da J.-M. Beyssade, art.

cit., p. 29): «Si telle est la situation, qu’il n’y ait pas de différence à faire entre ce qui apparaît à un homme sain d’esprit et à un dément, qui pourra être assuré de la santé de son esprit? vouloir nous mettre en pareille condition n’est pas le fait d’une médiocre folie (quod velle efficere non mediocris insaniae est)» (II, XVII, 54; trad. Appuhn modificata).

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Se considerassimo, tuttavia, di avere interamente risolto la querelle, peccheremmo di precipitazione. Le poste in gioco e le complicazioni pre- senti in questa querelle debordano questa semplice ricostruzione. Sono tali complicazioni e poste in gioco che vorrei evocare per concludere.

Un primo, rapido, punto: qui non si deve decidere tra due letture, perché ci si trova in presenza di più di due letture. Vi è una lettura di De- scartes operata da Derrida, ma vi sono due letture di Descartes proposte da Foucault, quella del 1961 e quella del 1972. Lo stesso Foucault lo ha segnalato in una lettera a Jean-Marie Beyssade: tra le due date, la sua pro- spettiva «ha subito qualche cambia- mento»13. E di fatto, la sua risposta del 1972 non avviene solo alla luce di un cambiamento dei propri inte- ressi teorici (nella direzione di ciò che chiama «le modalità di inclusio- ne del soggetto nel discorso»14): il Foucault che risponde a Derrida ha riletto attentamente le Meditazioni, tanto in latino quanto in francese, e non manca di annotare un certo nu- mero di osservazioni concernenti i punti deboli di certe formulazioni troppo disinvolte della Storia della follia. La relazione tra “l’evento di- scorsivo” interno alla Meditazione cartesiana e delle trasformazioni di or- dine più generale – pratico o istituzionale – vi si trovano evocate in modo più prudente. Ecco perché il Foucault al quale si potrà ora dare ragione non è quello del 1961: è quello del 1972, la cui lettura è più ricca e sfu- mata, in parte sotto l’effetto della contraddizione.

13 Lettre à J.-M. Beyssade, 7 novembre 1972; cfr. ibid., pp. 41-2.

14 Ibid., p. 42.

Charles Le Brun, Des Passions, 1727, le Désir

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Adesso prenderò in esame un secondo punto: considerando che il sog- getto della Prima Meditazione non indietreggia davanti alla follia, e che anzi accetta una certa vicinanza con la follia, Derrida non aveva detto nulla che fosse direttamente contrario al testo cartesiano. Non aveva in nessun momento supposto ciò che per Foucault rappresenta l’impossibi- lità maggiore, cioè che il filosofo accetti a un certo momento di assumere per davvero il posto del folle. Al contrario, Derrida prendeva cura di pre- cisarlo: «Ogni filosofo o ogni soggetto dotato di parola […] dovendo evo- care la follia all’interno del pensiero» (e non solo a titolo di una certa este- riorità) «può farlo solamente nella dimensione della possibilità e nel lin- guaggio della finzione o nella finzione del linguaggio» (p. 84). Ancora pri- ma che sia raggiunta la “punta iperbolica” del Cogito, oltre la quale ragio- ne e follia devono in ogni modo separarsi (p. 91), il filosofo avrà così conservato una certa distanza, una certa sicurezza rispetto a ciò che Derri- da chiama «la follia di fatto» (p. 84). Con questa espressione, Derrida in- tende che se una specie di follia continua, almeno sino al Cogito, a assil- lare il testo cartesiano, non sarà la specie di follia che si trova nelle perso- ne che vengono rinchiuse: sarà una follia più segreta e intrinsecamente più filosofica (la sola, forse, che Montaigne e Charron, prima di Descar- tes, abbiano preso in esame).

Questa follia filosofica, che si confonde con la capacità e con il senti- mento di avventurarsi nell’inaudito e nel mai-pensato, senza dubbio è evocata da Derrida con accenti un po’ troppo romantici, soprattutto ri- spetto all’impresa cartesiana. È difatti esagerato parlare dell’argomento del sogno come di una «esasperazione iperbolica dell’ipotesi della follia».

È esagerato evocare, a proposito dell’«ipotesi del genio maligno» (peraltro indebitamente confuso con il Dio ingannatore), la «possibilità di un im- pazzimento totale». È ancora esagerato parlare, a proposito del Cogito, di un «eccesso inaudito e singolare, di un eccesso verso il non determinato, verso il Nulla o l’Infinito» (p. 87). Il coefficiente di drammatizzazione proprio a questo inizio delle Meditazioni non si spinge assolutamente mai sino a questi estremi. Ma l’immensa audacia di certe esperienze filosofi- che, il sentimento di solitudine e di vertigine che può o ha potuto accom- pagnarli, il fatto che si tratti qui di una delle dimensioni dell’impresa car- tesiana, Foucault, che come Derrida fu un grande lettore di Nietzsche e

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di Bataille, poteva seriamente contestarlo? C’è sì nelle Meditazioni una forma di “stravaganza” assunta, stravaganza molto calcolata, superior- mente armata, di cui Descartes è stato talmente cosciente da giocare con la sua rappresentazione. E questo gioco è un gioco raffinato, che in quan- to tale esclude i semplici atti di rifiuto, del tipo: «Ma cosa dico, sono dei folli!». «Ma cosa dico, sono dei folli!»: sono sì le parole delle Me- ditazioni (nella traduzione fran- cese), ma non le parole del filoso- fo, non le parole proprie di De- scartes (di cui l’espressione lati- na sed amentes sunt isti, rimane- va leggermente più neutra).

Del resto – e veniamo all’ul- timo punto –, nel dibattito tra Foucault e Derrida bisogna fis- sare bene l’oggetto ultimo della contestazione, che non verte sulla necessità per il pensiero fi- losofico di situare la follia a un minimo di distanza, cosa che Derrida ammette pienamente.

La contestazione verte piuttosto sul carattere storico di questa distanza segnata dal rapporto alla follia; detto altrimenti, sul fatto che questa distanza costi- tuisca un evento, e che essa si sia propriamente instaurata qui. Per Derri- da, questa ricerca di sicurezza non «appartiene a questo o a quel linguag- gio storico» (per esempio, la ricerca della “certezza” nello stile cartesiano);

essa deve essere associata «all’essenza e al progetto stesso di ogni linguag- gio in generale» (si intenda: di ogni discorso articolato e controllato).

Possiamo dargli torto? Per fare ciò occorrerebbe, per un verso, che il rigetto cartesiano della follia fosse più caratterizzato, detto altrimenti che il «Ma cosa dico, sono dei folli» portasse di più la firma di Descartes stes-

Théodore Géricault, Alienata con monomania dell’invidia (La Iena della Salpêtrière), 1820-24 ca

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so; per un altro verso, che la trattazione filosofica della follia prima di De- scartes si separasse nettamente da questo rigetto attraverso un carattere più aperto, più esteso e più dialettico. Ora, in Charron, citato in primo luogo da Foucault a sostegno di una profonda complicità pre-cartesiana della saggezza e della follia, si poteva leggere per esempio quanto segue (in un luogo diverso del Trattato della Saggezza rispetto a quello citato da Foucault):

Noi sappiamo che il dovere dell’uomo verso se stesso è triplice, proprio come l’uomo ha tre parti da regolare e condurre, la mente, il corpo e i beni. Per quan- to concerne la mente […], sappiamo che tutti i suoi movimenti si riconducono a due, pensare e desiderare, l’intelletto e la volontà […] Riguardo al primo che è l’intelletto, occorre proteggerlo da due cose che sono in una certa maniera contrarie ed estreme, ovvero la stoltezza e la follia; cioè tenerlo al riparo, per un verso, dalle cose vane e sciocche (che lo imbastardiscono e lo corrompono) […]

e, per un altro verso, (occorre) proteggerlo dalle opinioni bizzarre, assurde e stravaganti (che lo abbassano moralmente e lo incattiviscono)15.

Forse non si tratta qui di una forma estrema della follia, ma per l’ap- punto non c’è nessuna ragione che una follia più grande debba essere più prossima al buon senso. E quindi, come l’interpretazione foucauldiana dell’istituzione dei manicomi ha potuto essere vigorosamente contestata, così l’idea che l’isolamento della follia e la sua riduzione al silenzio siano cominciati con Descartes appare storicamente molto debole.

In ogni modo – e questa sarà l’ultima questione – che cosa ci si pote- va aspettare dal testo di Descartes su questa materia? Questo testo poteva seriamente essere considerato come l’espressione, o come il sintomo, di un evento a lui esterno? Poteva essere addirittura collocato direttamente all’origine di una certa situazione o di un processo storico? Si deve sentire come vi fosse in ciò qualcosa di immediatamente arbitrario e azzardato, come accadrebbe del resto ad ogni interpretazione che conferisse allo stes- so testo l’espressione di una certa esperienza interiore. In ogni modo, che sia nei confronti delle rappresentazioni e delle pratiche comuni, o nei confronti delle forme e del contenuto di un’esperienza privata, un testo

15 Cfr. per esempio III, VI, 6, op. cit., p. 632.

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