Alla mia famiglia.
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Indice:
Introduzione p. 3
Capitolo 1: Il pubblico ministero.
1.1 Cenni storici. p. 6
1.2 Garanzie e responsabilità del pubblico ministero. p. 17
1.3 Il rapporto tra mezzi d’informazione ed il pubblico ministero. p. 25
Capitolo 2: Il pubblico ministero come parte imparziale del processo.
2.1 Il pubblico ministero come parte imparziale nel processo
penale. p. 30
2.2 Astensione e responsabilità disciplinare del p.m. p. 35
2.3 Ruolo e potere del procuratore generale. p. 38
Capitolo 3: La riorganizzazione degli uffici del pubblico ministero.
3.1 L’evoluzione dell’ufficio del pubblico ministero. p. 45
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3.3 Il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura dopo la riforma
dell’ordinamento penale. p. 58
Capitolo 4: La separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e
requirenti.
4.1 Introduzione al tema della separazione delle carriere. p. 67
4.2 Dalla bicamerale del 1997 alla legge n. 150/2005. p. 70
4.3 Elementi a favore e contrari alla separazione delle carriere. p. 77
Bibliografia p. 85
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Introduzione:
L’idea per l’elaborazione di questa tesi è scaturita dalla lettura di un saggio di Luca Poniz, intitolato, “Il pubblico ministero come parte imparziale: ossimoro o valore?”, all’interno del quale vi è un’analisi del pubblico ministero e dei suoi doveri e delle sue responsabilità nello
svolgimento della funzione giurisdizionale. L’obiettivo che mi sono
posto è stato quello di elaborare un quadro della figura del pubblico
ministero, sia sul piano ordinamentale che processuale, cominciando
dalle origini dell’istituto fino ad arrivare ai giorni nostri e soffermandomi su una delle riforme radicali dell’ordinamento giuridico, il d.lgs. n. 106/2006.
Il primo capitolo affronta l’istituto dalle sue origini storiche, dalla nascita in Francia e proseguendo nella storia del nostro Paese,
passando dal fascismo, con l’emanazione del codice di procedura penale del 1930, per poi continuare con il periodo Repubblicano, la nostra
Costituzione e la riforma del codice del 1989, concentrandomi
principalmente sugli aspetti ordinamentali legati alle garanzie ed alle
responsabilità di questa importante figura ordinamentale. Per ultimo si
tratta anche di un tema importante, che sarà poi ripreso anche all’interno del terzo capitolo sui rapporti con i mezzi d’informazione in seguito alla
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Nel secondo capitolo analizzo la figura del pubblico ministero
nel suo ruolo all’interno del processo penale, nella particolarità delle funzioni che egli ricopre, al contempo parte del processo ed organo di
giustizia che rappresenta la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di
chi ha violato la legge, puntualizzando l’imparzialità che questo magistrato deve tenere nello svolgimento del proprio compito.
Successivamente uno sguardo viene dato anche agli strumenti correttivi
e sanzionatori nei confronti del p.m., posti dall’ordinamento, come l’istituto dell’astensione o dell’avocazione oltre che le possibili conseguenze disciplinari in cui può incorrere il pubblico ministero. Per
ultimo viene anche analizzata la figura del Procuratore generale, con
particolare attenzione, per il ruolo e le funzioni che questi ricopre presso
la Corte d’appello e la Corte di Cassazione.
Nel terzo capitolo si tratta un nodo cruciale nell’organizzazione
degli uffici di procura ed i rapporti tra i magistrati che ne fanno parte,
trattando prima l’evoluzione degli uffici di procura, arrivando poi ad uno dei passaggi fondamentali che riguardano l’organizzazione ed i rapporti interni all’ufficio, cioè la riforma attuata dalla legge n. 150/2005 ed il
successivo decreto legislativo n 106/2006, con il conseguente
accentramento delle responsabilità e della gestione in mano al
procuratore della Repubblica. Infine si tratta del ruolo del Consiglio
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magistratura abbia provato a resistere agli stravolgimenti attuati dalla
riforma appena citata.
Nel quarto capitolo, provo ad analizzare una questione che da
anni è al centro di vari dibattiti sulla magistratura, cioè la separazione
delle carriere dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati
requirenti. Ho preso in considerazione la questione dalla sua origine
storica, che può farsi risalire alla fine degli anni ottanta, con la serie di
referendum, per la maggior parte non producenti modifiche non
raggiungendo il quorum, per poi arrivare alle varie proposte legislative,
come quelle avanzate dalla Commissione Bicamerale del 1997, con la
c.d. “Bozza Boato”, o alla riforma Alfano del 2003, con tentativi di limitare il passaggio dei magistrati da una funzione all’altra. Per ultimo ho cercato di effettuare un’analisi obiettiva delle ragioni che stanno alla base della separazione, come ad esempio la necessità di tale modifica
per permettere un’effettiva terzietà del giudice nel processo, sia di quelle
contrarie a questa modifica, come ad esempio chi ritiene che sia solo
uno strumento per riportare il pubblico ministero sotto il controllo del
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Capitolo 1: Il pubblico ministero.
Sommario: 1.1 Cenni storici; 1.2 Garanzie e responsabilità del pubblico ministero; 1.3 Il rapporto tra mezzi d’informazione ed il pubblico ministero.
1.1 Cenni storici. a) In Francia.
La prima forma dell’istituto del pubblico ministero ha origine in
Francia, con il compito principale di curare il patrimonio del sovrano.
Questa figura viene menzionata per la prima volta in un’ordinanza di
Filippo il Bello, all’interno di una riforma del regno nel 1302, la quale imponeva al procuratore del re di prestare giuramento, come i giudici, e
di non svolgere servizio ad altre persone se non al sovrano e suoi parenti.
In seguito alla separazione tra i possedimenti del re ed il demanio
della corona, il procuratore cominciò a svolgere di propria iniziativa,
funzioni pubbliche nell’interesse del regno, fino a ricoprire il ruolo di accusa nel processo penale. Al procuratore generale, spettava anche il
compito di vigilare sulle corti giudiziarie e fare in modo che queste
rispettassero le direttive impartite del sovrano.
In un primo momento la nomina dei procuratori era effettuata
da parte del re, successivamente si passò all’elezione effettuata dal
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non divenne possibile acquistare le cariche dietro un corrispettivo in
denaro a partire dal XVI secolo.
L’ordinanza di Blois, emanata da Luigi XII nel 1498, ebbe un ruolo importante nello sviluppo e nella statuizione della procedura
penale, delineando quelli che, già nella prassi, erano le procedure
ordinarie e straordinarie del processo penale, con caratteri propri del rito
inquisitorio. Questo tipo di processo era caratterizzato da elementi che
limitavano fortemente la possibilità di difesa dell’imputato che poteva
scoprire l’esistenza del procedimento a suo sfavore solo nel momento in cui si presentava dinanzi al giudice; le fasi del processo erano
contraddistinte dalla forma scritta e segreta, che non permetteva
all’accusato di contestarne la veridicità, oltre a permettere l’utilizzo della tortura per estrapolare confessioni forzate.
Nel 1539 un’ordinanza sulla giustizia di Francesco I, dava la possibilità al procuratore di decidere, alla fine delle indagini se
archiviare o procedere all’apertura del procedimento, in modo ordinario per i fatti meno gravi, o con procedura straordinaria per le ipotesi di
delitto.
Momento fondamentale nell’evoluzione dell’istituto del
pubblico ministero, fu l’emanazione dell’ordonnance criminelle, nel
1670, con la quale, si impartiva al procuratore il dovere di esercitare
l’azione penale per quelle ipotesi di reato sanzionate con la pena capitale o con pena afflittiva, andando a limitare l’arbitrarietà dell’esercizio
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Il quadro appena descritto resta stabile fino agli inizi della
Rivoluzione francese, che porterà all’emanazione della prima
Costituzione di Francia del 3-14 settembre 1791, a cui segue il decreto
16-29 del settembre dello stesso anno, con il quale si modificò tutto
l’assetto del sistema penale. Secondo questo nuovo assetto venivano istituite una serie di giurie con il compito di giudicare sul fatto, sul diritto
e anche sull’ammissibilità dell’accusa, inoltre veniva creata la figura dell’accusatore pubblico, eletto dal popolo che agiva davanti al Tribunale del dipartimento. L’aspetto più interessante del decreto 16-29
del settembre del 1791 era forse la distribuzione delle funzioni del
pubblico ministero a due soggetti: l’accusatore pubblico e il
commissario del re (che aveva il compito di chiedere l’esecuzione e di
presentare ricorso in Cassazione). Altro aspetto interessante del decreto
citato era quello di andare ad attribuire a soggetti diversi le fasi del
procedimento: al direttore del giurì la fase istruttoria, al commissario del
re e all’accusatore pubblico le fasi d’accusa del resto del processo. Con l’ascesa al potere di Napoleone nel 1799, ci furono molti cambiamenti, tra cui l’unione del potere giudiziario con il potere
esecutivo, e la soppressione dell’istituto del pubblico accusatore. Il code d’instruction criminelle del 1808 delineava un sistema
misto, prevedendo una fase istruttoria segreta e scritta, ed un’altra
dibattimentale orale e pubblica, ampliando i poteri del pubblico
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giudiziaria1. Nel 1810 si portò a compimento la riforma napoleonica,
che riorganizzava gli uffici del pubblico ministero in modo gerarchico
sotto il controllo dell’esecutivo, ed inoltre non esistendo un obbligo di esercizio dell’azione penale, dava al procuratore il potere di archiviare la notizia di reato se considerata di scarsa rilevanza, infondata o non
lesiva dell’ordine pubblico. Si presentava una piramide gerarchica in cui
il pubblico ministero (chiamato procuratore imperiale) rispondeva del
suo operato al procuratore generale presso la corte d’appello, che a sua volta, veniva sorvegliato dal procuratore presso la corte di cassazione e
dal Ministro della giustizia, che poteva destituire o nominare i membri
del pubblico ministero.
b) In Italia.
In Italia durante il regno Sabaudo
il pubblico ministero era organizzato in tre distinti uffici: uno per la difesa della società e la repressione dei reati (Avvocato Fiscale Generale), uno per la tutela dei diritti patrimoniali dello Stato (Procuratore generale nel continente ed Avvocato Fiscale Generale in Sardegna), ed un altro per il controllo sulla corretta osservanza della legge e per la difesa dei corpi morali e dei poveri (Avvocato Generale) 2.
Fino al 1847 il pubblico ministero aveva il compito di curare il
patrimonio del re, in seguito gli venne affidato anche il compito di
vigilare sull’osservanza delle leggi nel regno.
1 In altri termini, G. Monaco, Pubblico ministero ed obbligatorietà dell’azione penale,
Giuffrè editore, Milano, 2003, p. 25.
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Un ruolo molto importante fu ricoperto dallo Statuto Albertino
che segnò il passaggio da una monarchia assoluta, ad una costituzionale
e poi parlamentare.
Lo Statuto prevedeva la separazione tra il potere esecutivo e
legislativo, ma identificava come ordine quello giudiziario,
determinando una sottoposizione di quest’ultimo ai primi due. Dopo l’emanazione dello stesso, si discusse della necessità di garantire una distinzione più netta tra il potere i poteri dello Stato, poiché essendo
ormai una monarchia costituzionale, la giustizia era affidata ai giudici
dalla legge e non più dal re, rafforzando l’idea che non si trattasse di un mero ordine ma bensì di un vero potere giudiziario, il quale doveva
tutelarsi dalle eventuali interferenze degli altri poteri. Ma per garantire
il corretto svolgimento dell’attività giuridica e l’indipendenza ai giudici dai partiti politici e dal governo, venne introdotta l’inamovibilità dei giudici, dopo tre anni di esercizio delle funzioni giudicanti. La l. n.
1186/1851(c.d. legge Siccardi) affermava che, per richiedere il
trasferimento dei giudici fosse necessaria un’espressa previsione di legge, e che ne decidesse la Corte di cassazione. Ovviamente questa
legge ebbe vita breve infatti, con il d.lgs. n.3781/1859(decreto Rattazzi),
venne abrogata, e sostituita con il R.D. n 2626/1865, che regolava il
nuovo ordinamento giudiziario, e prevedeva all’art. 199, il trasferimento
dei giudici senza il loro consenso per “utilità di servizio”. Altra modifica importante fu inoltre la possibilità di destituire o rimuovere un
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legge o dai regolamenti, eliminando quindi la possibilità da parte dei
magistrati di opporsi agli atti del potere esecutivo. Queste modifiche
fecero insorgere gran parte del parlamento che chiesero a gran voce un
provvedimento che frenasse le interferenze del governo sull’operato della magistratura. In un primo momento fu emanato il decreto n.1595
del 3 ottobre 1873, stabilendo che le nomine o gli spostamenti dei
magistrati dovevano essere preceduti dal parare di una commissione
presso la corte d’appello della circoscrizione in cui esercitava il magistrato. Questa disposizione ebbe vita breve, infatti pochi anni dopo,
il decreto n. 4686 del 5 gennaio 1879, reintrodusse un forte potere
direttivo del governo sulla magistratura.
Soltanto con le leggi 14 luglio 1907 n. 511 e 24 luglio 1908 n.438
(c.d. riforma Orlando), venne ristabilita l’inamovibilità della sede dei giudici, e si trasformò la vecchia Commissione Consultiva Centrale
(istituita con R.D. 4 gennaio 1880 n. 5230), nell’odierno Consiglio Superiore della Magistratura, istituito con legge e non con decreto,
anche se pur sempre con funzioni consultive e con membri nominati dal
governo.
Già con il decreto Rattazzi del 1859, il pubblico ministero era
posto sotto la direzione del ministro della giustizia, come rappresentante
del governo presso l’autorità giudiziaria. Tutti gli uffici del p.m. nei tribunali, erano guidati da un procuratore del re, mentre gli uffici presso
la Corte di Cassazione o d’appello erano guidati da un procuratore generale. Entrambe le figure avevano il compito di vigilare e ammonire
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gli ufficiali del distretto in cui operavano. Questo potere di sorveglianza
serviva a rafforzare il principio di unità dell’ufficio del p.m., stabilendo quindi una linea d’azione che era possibile far risalire dal pubblico ministero, fino al ministro della giustizia.
Il p.m. aveva il compito di vigilare sull’osservanza delle leggi, sull’amministrazione della giustizia, la tutela dei diritti dello Stato oltre ad avere la direzione e la sorveglianza della polizia giudiziaria. Il
pubblico ministero era inoltre incaricato di promuovere l’azione disciplinare nei confronti della magistratura giudicante, informando in
seguito il ministro delle decisioni prese.
c) Durante il periodo fascista.
Durante il periodo fascista si è provveduto a ribadire il ruolo del
p.m. come «il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità
giudiziaria […] posto sotto la direzione del Ministro della giustizia»3,
investito di molteplici compiti che gli permettevano anche il ricorso alla
forza armata. Si sottolineava ancora un potere di tipo amministrativo
come espressione del potere statale nel mantenimento dell’ordine pubblico.
Veniva mantenuta una struttura prettamente gerarchica con a
capo il Ministro di giustizia che manteneva l’unitarietà dell’esercizio
degli uffici inquirenti-requirenti, seguito a livello distrettuale dal
3 R. D., n. 2786/1923, art.77.
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procuratore generale presso la corte di appello, che aveva il compito di
vigilare sugli uffici del pubblico ministero e sulla polizia giudiziaria, che
garantiva già una forte presa del governo sull’amministrazione della giustizia.
Nel 1925, si decise di uniformare i magistrati a tutti gli altri
pubblici impiegati, andando nella pratica ad eliminare la separazione dei
poteri ed accentrare tutto nelle mani del governo.
Con l’emanazione del codice di procedura penale del 1930, vennero potenziati notevolmente i poteri d’azione del p.m., passando ad
un modello processuale misto, dove l’istituto ottenne poteri quasi
illimitati nello svolgimento della fase istruttoria. Libero dal vaglio del
giudice istruttore nella formazione di prove che risultavano pienamente
acquisibili nella fase dibattimentale, e non più obbligato a richiedere
l’archiviazione al giudice istruttore, per quelle notizie di reato, ritenute manifestatamente infondate. Veniva anche introdotta la qualifica di
parte per il pubblico ministero, all’interno del processo penale, anche se pur sempre “parte speciale”, poichè mossa non da un proprio interesse, ma nell’interesse dello Stato.
L’unico tipo di controllo a cui era sottoposto il pubblico ministero, era di tipo gerarchico, che lo obbligava ad informare il capo
dell’ufficio superiore. Rimaneva dunque intatto quella forte presa gerarchica che permetteva al ministro della giustizia, in casi eccezionali,
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di dare specifiche direttive sull’esercizio dell’azione penale o il suo non procedere, per determinati casi di ordine politico o sociale.
Nel 1941 venne emanato il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, con il
quale venne riformato l’ordine giudiziario, elaborata dal guardasigilli Grandi, che ispirato dalla visione totalitaria del fascismo, non poteva che
prevedere un ordinamento unitario, dove non esistevano poteri
indipendenti dal centro dello stato, che era appunto il duce. La riforma
operò principalmente su due versanti; da un lato si accentuò la
sottomissione della magistratura al partito fascista, prevedendo
l’iscrizione al partito come requisito fondamentale per l’accesso all’ordine giudiziario, e la militanza come titolo preferenziale per le promozioni. Dall’altro lato si andò a rafforzare la posizione gerarchica del ministro della giustizia come dominus di tutta l’amministrazione della giustizia4.
d) Dalla costituzione ad oggi.
Nel 1946 avvenne un cambiamento molto importante, almeno
dal punto di vista formale, infatti con il r.d. 31 maggio 1946, n.511,
all’art. 39 venne sostituita la parola “direzione” con “vigilanza”. Ovviamente questa sostituzione era di scarso valore pratico, poiché il
Ministro di giustizia poteva comunque impartire direttive al procuratore
4 Quasi letteralmente, A. Gustapane, Il pubblico ministero nel regime fascista,
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generale della Repubblica che grazie alla sua posizione,
gerarchicamente superiore, dirigeva i singoli uffici delle procure. Tale
cambiamento però rappresenta comunque un primo passo che aprì la
strada ad un percorso che porterà la figura del pubblico ministero ad
allontanarsi dal potere esecutivo fino ad arrivare, grazie all’emanazione
della Carta Costituzionale e a vari interventi della Corte Costituzionale,
all’indipendenza da ogni altro potere ordinamentale, riconoscendolo come «Magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato come
tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro
potere»5.
Il pubblico ministero diventa quindi dal punto di vista
ordinamentale, un magistrato sciolto dai legami con il potere esecutivo
e più vicino allo status della magistratura giudicante, ed essendo posto
all’interno del titolo IV, appunto “della magistratura”, gode delle stesse garanzie per l’indipendenza esterna di tutti gli altri magistrati. Comincia molto lentamente la riduzione dell’influenza del ministro della giustizia sugli ufficiali della magistratura requirente, ridimensionando il potere
che questi poteva esercitare. Permane in capo al Ministro la possibilità
di azionare il procedimento disciplinare, che però dovrà poi essere
considerato dal CSM, come unico organo con la facoltà di giudicare sui
magistrati.
5 Corte Cost. sentenza, n. 190/1970.
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La disciplina resta quasi del tutto immutata fino alla riforma del
codice di rito avvenuta nel 1989, con il passaggio dal sistema
inquisitorio ad uno di tipo misto, con un incremento dei poteri
d’investigazione e direzione nell’ambito delle indagini preliminari e nell’ausilio della polizia giudiziaria. Il p.m. ricopre la posizione di titolare esclusivo dell’azione penale oltre a quella di parte pubblica
all’interno del processo penale, in cui difende gli interessi oggettivi della legge e dell’ordinamento giuridico all’interno del processo.
. Questa imparzialità del pubblico ministero viene ribadita grazie
alla carta costituzionale, che all’art.112 espone il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che svolge un doppio compito: da un lato ribadisce l’indipendenza del p.m. nell’esercizio del proprio ufficio, dall’altro comporta l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale come ribadisce anche la Corte Costituzionale nella sentenza 28
gennaio-15 febbraio 1991, n. 88, che afferma:
Realizzare la legalità nell'eguaglianza non è, però, concretamente possibile se l'organo cui l'azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l'indipendenza del pubblico ministero. Questi è infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e si qualifica come "un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere", che "non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentenze nn. 190 del 1970 e 96 del 1975).
Il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo6
Ovviamente questo non comporta che il pubblico ministero
debba esercitare l’azione penale ogni volta che riceve una notitia
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criminis, ma al fine di evitare l’instaurazione di processi superflui è necessario un’analisi, alla fine delle indagini preliminari, degli elementi raccolti anche a favore della persona sottoposta ad indagini che potrebbe
comportare la richiesta di archiviazione, al giudice delle indagini
preliminari, per manifesta infondatezza della notizia di reato.
La manifesta infondatezza della notizia di reato è un parametro
che serve ad evitare che l’archiviazione di una notitia criminis, si
trasformi in una valutazione di convenienza da parte del pubblico
ministero, eludendo cosi il principio di obbligatorietà dell’azione
penale, e per questo è richiesto il vaglio del Giudice per le indagini
preliminari, che effettua un controllo sull’eventuale sostenibilità in giudizio.
1.2 Garanzie e responsabilità del pubblico ministero.
L’istituto del pubblico ministero fa parte dell’ordinamento
giudiziario e per tanto rientra nella disciplina generale del Titolo IV,
Sezione I, della Costituzione.
Parlando di garanzie dell’ordinamento giudiziario è d’obbligo
iniziare dall’indipendenza di status. Questo tipo di garanzia tutela dalle ingerenze, interne ed o di qualsiasi altro potere, tanto l’ordinamento
giuridico in sé quanto i singoli magistrati che lo compongono, trovando
espressione all’interno della Carta Costituzionale all’articolo 104. Possiamo distinguere l’indipendenza in due tipi: l’indipendenza
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poteri dello Stato, e l’indipendenza interna che tutela l’ordinamento
giudiziario da un’eventuale ingerenza derivante da un’organizzazione di tipo gerarchico.
L’ indipendenza esterna trova il suo fondamento nel principio fondamentale della separazione dei poteri. Lo scopo di questa tutela è di
impedire interferenze da parte di qualsiasi ente esterno alla magistratura,
che possa influenzare le capacità di scelta o giudizio dei magistrati. È la
stessa Costituzione che pone le regole basilari per garantire
l’indipendenza dei magistrati, come ad esempio l’inamovibilità del magistrato espressa all’art 107, comma 1, Cost., che proibisce il trasferimento d’ufficio, utilizzato dai poteri politici per poter controllare la magistratura, ora attribuito invece al Consiglio Superiore della
Magistratura, nei casi previsti dalla legge e con procedure che
permettono la tutela del magistrato; altro elemento importante è
l’accesso alla magistratura tramite concorso ex art 106, comma 1, Cost, che permette di far valere le proprie competenze senza dover essere
grato a nessuno, o ancora il divieto di aderire ad associazioni segrete o
ad organizzazioni con vincoli interni forti o forte impronta gerarchica.
L’indipendenza interna viene espressa all’art 107, 3 comma della Costituzione, che recita «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per
diversità di funzioni». Questo implica che possono esserci solo
distinzioni per funzioni esercitate, ma non per status di magistrato.
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delle distinzioni secondo l’importanza dei ruoli che questi svolgono all’interno del processo.
Altro elemento fondamentale per garantire l’indipendenza
funzionale del p.m. è l’art.112 Cost. che esprimendo l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, impedisce che il magistrato del pubblico ministero riceva direttive o istruzioni su quali casi procedere o
meno.
Lo strumento di cui dispone il p.m. per difendere la sua
indipendenza è il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. In questo
caso la legittimazione a stare in giudizio spetterà ad ogni ufficio di
Procura, in quanto titolare esclusivo dell’azione penale, e non essendoci
una struttura gerarchica tra i vari uffici, ciascuno potrà stare in giudizio
per conflitto.
Di certo però le garanzie poste in essere per tutelare l’opera dell’ordinamento giudiziario non comportano un potere senza limiti o controlli. Come la stessa Corte costituzionale ha precisato: «l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e del giudice ovviamente non pongono l’una al di là dello Stato, quasi legibus soluta, né l’altro fuori dall’organizzazione statale»7.
Si è esclusa la possibilità di far attivare forme di responsabilità
politica nei confronti dei magistrati, grazie ai molteplici articoli della
7 Corte Cost., sentenza 2/1968.
20
Costituzione su citati, ma per quanto riguarda altri tipi di responsabilità
il discorso cambia.
La meno controversa è ovviamente la responsabilità penale, a cui
il magistrato è sottoposto come del resto tutti i cittadini.
Per quanto riguarda invece la responsabilità civile dei magistrati
questa trova fondamento all’art. 28 Cost., che statuisce la responsabilità civile di tutti i funzionari pubblici, disciplina che necessita di un
adattamento per quanto riguarda i magistrati in modo tale da non entrare
in contrasto con le garanzie di indipendenza di cui si è scritto sopra.
La responsabilità civile del pubblico magistrato veniva regolata
dall’art. 74 c.p.c., che la individuava nei casi in cui, nei procedimenti civili, gli venissero imputati dolo, frode o concussione. Questa
disciplina è stata modificata con la riforma della legge 13 aprile 1988,
n. 117 che ne ha ampliato maggiormente i profili di responsabilità civile
del magistrato nei casi di dolo o colpa grave. Infatti gli artt.2 e 7 della
suddetta legge danno la possibilità, a colui che sia stato ingiustamente
danneggiato, di esperire l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato, che ha successivamente il potere di rivalsa nei confronti del magistrato.
Responsabilità diversa è quella invece individuata con la legge
n. 89 del 2001(c.d. Legge Pinto), che tutela la non ragionevole durata
dei procedimenti giudiziari.
Entrambe le leggi presentano una casistica ben precisa per poter
evitare che le eventuali richieste di risarcimento potessero essere usate
21
evitare questo meccanismo è stato previsto un giudizio di ammissibilità
preventivo da parte del tribunale per tutelare l’indipendenza e
l’autonomia dei magistrati. Questo filtro non è applicabile invece per quelle richieste di risarcimento proposte contro lo Stato, proprio per la
funzione specifica affidata a questo meccanismo, come dichiarato dalla
Cassazione con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21618, dove si afferma
che:
Il danno è risarcibile in quanto sia conseguenza dell’atto o del comportamento del magistrato. Difetta tale condizione quando il danno derivi solo indirettamente dalla condotta oggetto di lagnanza, e non abbia carattere patrimoniale8.
Come si è già detto la condotta del magistrato che ha prodotto il
danno, deve essere caratterizzata da colpa grave o dolo.
I casi che costituiscono colpa grave sono elencati all’art. 1,
comma 3 della suddetta legge, dove viene prevista anche l’ipotesi in cui questa rientri nella «negligenza inescusabile»9, cioè quando si presenti
«“non spiegabile” e, cioè, senza agganci con le particolarità della vicenda idonee a rendere comprensibile anche se non giustificato
l’errore del magistrato»10.
Il dolo, invece, non si stabilisce solo con riferimento alla
volontarietà dell’azione dannosa, ma richiede «la diretta consapevolezza di compiere un atto giudiziario formalmente e sostanzialmente
8 V. Pacileo, Pubblico ministero. Ruolo e funzioni nel processo penale, Utet giuridica,
Torino, 2011, p. 434.
9 Ivi, p. 439.
22
illegittimo con il deliberato proposito di nuocere ingiustamente ad altri
e, segnatamente un processo penale, di ledere i diritti dell’impugnato»11. Altra caso che può far sorgere responsabilità in capo al
magistrato è il diniego di giustizia, descritto all’art. 3 della l. 13 aprile
1988, n. 117 che lo descrive come:
il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria.12
Se il danno causato è il risultato di una condotta che costituisce
reato, l’azione può essere esercitata direttamente nei confronti del magistrato e non sarà applicabile il giudizio di ammissibilità del
tribunale.
Da aggiungere alla responsabilità civile, vi è la c.d.
responsabilità amministrativa. Quest’ultima regolata dalla l. 14 gennaio 1994, n. 20 si occupa del corretto utilizzo delle risorse pubbliche da parte
della magistratura. Il magistrato potrebbe incorrere in questo tipo di
responsabilità qualora omettesse il vaglio amministrativo nella
liquidazione delle spese di giustizia o nell’uso indebito dell’autovettura
di servizio.
La responsabilità disciplinare è fatta valere generalmente da un
soggetto in posizione gerarchicamente superiore rispetto ad un
sottoposto ed ha lo scopo, oltre che reprimere un comportamento
scorretto, di indirizzarne l’operato, prevedendo particolari condotte da
11 Cass. Sentenza n. 24370/2006. 12 Legge 117/1988, art. 3.
23
tenere, inerenti all’esercizio del proprio ufficio. Per quanto riguarda i magistrati, come abbiamo già detto, pur essendo funzionari statali sono
sottratti dal controllo dello Stato e affidati al C.S.M. preposto a garanzia
dell’autonomia dell’ordine giudiziario secondo l’art 105 Cost.. D’altro canto, sempre secondo la nostra Costituzione, il Ministro della Giustizia
ha la facoltà di promuovere l’azione disciplinare ex art 107, comma 2, Cost. intesa come un’azione disciplinare esercitabile verso tutto
l’ordinamento statale. Inoltre è sempre lo Stato che predetermina, attraverso le leggi, i comportamenti disciplinarmente rilevanti, ma per
preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura il giudizio sarà sempre riservato al CSM.
I comportamenti disciplinarmente rilevanti erano contenuti
all’art.18 del r.d.lgs. 511 del 1946, ora abrogato, dove si riteneva commettesse illecito disciplinare
il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario.13
Rileggendo si noterà che manca alcuna tipizzazione di illeciti
disciplinari e che tutto ruota intorno alla salvaguardia della nozione di
“prestigio dell’ordine giudiziario”. La dottrina ha sempre precisato la necessità di procedere ad una trattazione più precisa degli illeciti
disciplinari per impedire, all’organo che è chiamato ad esercitare l’iniziativa e soprattutto ad applicare la sanzione, di utilizzare questa prerogativa in modo arbitrario.
13 r.d.lgs. 31 maggio 511/1946, art. 18.
24
In quanto parte dell’ordinamento statale, spetta al legislatore il compito di regolare l’aspetto disciplinare dell’attività dei magistrati, poiché l’applicazione imparziale e indipendente della legge non riguarda soltanto l’ordine giudiziario ma si rivolge principalmente alla generalità dei soggetti. Il compito del legislatore sarà dunque di
predeterminare gli illeciti disciplinari e le sanzioni, mentre al C.S.M.
spetteranno i provvedimenti conseguenti.
Con l’emanazione della legge delega 150 del 2005 e tramite il
d.lgs. 109 del 2006, attuativo della delega, è stato abrogato l’art. 18 del
r.d.lgs. 511 del 1946, e sono stati individuati più nello specifico i doveri
del magistrato. All’art. 2 dello stesso decreto legislativo vengono
elencate le varie ipotesi di illeciti disciplinari, individuati basandosi su
principi cardine sui quali si fonda l’attività del magistrato, come ad
esempio all’imparzialità, identificando come illecito disciplinare
«l’omissione della comunicazione al C.S.M. della sussistenza delle situazioni di incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità
con soggetti esercenti la professione forense o con magistrati o ufficiali
o agenti di polizia giudiziaria»14.
L’art.105 Cost. stabilisce che l’organo a cui spettano i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, è il C.S.M.,
funzione che è stata attribuita ad una Sezione del consiglio composta in
proporzione sia da laici che togati.
14, D.lgs. 109/2006, art. 2, comma 1, lett. b
25
Sono stati sollevati varie questioni da parte della dottrina per
questa attribuzione, cominciando dalla legittimità dell’assegnazione ordinaria ad una Sezione a composizione ristretta, anziché al plenum,
del C.S.M., contrasto risolto in seguito ad un’analisi più approfondita dell’art. 105 Cost. che non fa alcun riferimento alla composizione necessaria dell’organo disciplinare, ma soltanto alle proporzioni tra giudici ordinari e laici che lo compongono, come fissato dall’art. 104 Cost.
1.3 Il rapporto tra mezzi d’informazione ed il pubblico ministero.
Uno degli aspetti più controversi della figura del pubblico
ministero è il rapporto con i mezzi d’informazione. Su questo terreno si
scontrano, da un lato la necessità di evitare eventuali interferenze esterne
nell’ambito delle indagini e nel processo, e dall’altro «l’ineludibile diritto-dovere di informare l’opinione pubblica intorno a fatti di
interesse socio-politico»15.
All’interno del codice di procedura penale troviamo pochi articoli, alle volte non proprio chiari, che trattano il problema, come il
114 c.p.p. che espone il divieto di pubblicazione di atti e di immagini, o
l’art. 329 c.p.p. che spiega l’obbligo al segreto. Questi due articoli si
15 Cfr. V. Pacileo, op. cit., pag. 350.
26
occupano principalmente di garantire il giusto svolgimento del processo
e l’acquisizione di prove, ma d’altro canto l’art.147 disp. att. c.p.p., garantisce invece il diritto di cronaca tramite la possibilità di riprese
telematiche dell’udienza, andando a valorizzare il diritto di
informazione di cui gode la cittadinanza tutta.
In questo quadro confuso, è intervenuta la Corte costituzionale
per cercare di indicare quale fosse la giusta strada da seguire per ottenere
un bilanciamento fra le due posizioni. Con la sentenza 7 maggio-8
giugno 1981, n.100, la Corte si è espressa affermando:
Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero, sta, come del resto finiscono per riconoscere le ordinanze di rimessione, il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze egualmente garantite dall’ordinamento costituzionale16.
Seguendo questa pronuncia, il CSM ha spiegato inoltre, che la
libertà di manifestazione del pensiero incontra dei limiti, dovuti alla
funzione che i magistrati svolgono all’interno del sistema, raccomandando l’astensione da parte del magistrato dal rilasciare dichiarazioni.
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta su questo tema andando a ribadire la necessità di garantire il diritto di
informare da parte dei magistrati sulle indagini in corso, senza però
ledere i diritti delle persone sottoposte ad indagini o nel processo.
16 Corte Cost. sentenza n. 100/1987.
27
Oltre ai casi appena citati, altro problema è la possibilità che
dalle esternazioni dei magistrati possano sorgere conflitti con altri
organi dello Stato. Più volte la Cassazione è intervenuta17 per contrasti
sorti a causa di dichiarazioni effettuate da parte di magistrati, nei
confronti del governo o alcuni parlamentari, andando a statuire a favore
del diritto alla libertà di espressione dei magistrati. Altri orientamenti
hanno altri autori che invece preferirebbero una libertà più ristretta per
evitare che
La manifestazione pubblica, in forma “associata” o individuale, di opinioni e giudizi su temi generali – direttamente o indirettamente collegati all’esercizio delle funzioni – è da riprovare, perché contribuisce a collocare indebitamente il singolo magistrato del p.m. o – peggio – l’intera magistratura inquirente sul terreno politico.18
O ancora.
È stato osservato che nessuna norma della Costituzione vieta ai magistrati di esporre loro suggerimenti, proposte e opinioni. Tuttavia l’armonia dell’agire delle istituzioni della Repubblica riposa anche su regole di correttezza costituzionale […] l’iniziativa di un diretto appello alla pubblica opinione è stata assunta con modalità tali da attribuirle il massimo peso politico […] I magistrati che sono ora intervenuti […] nel luglio precedente avevano diramato in televisione una dichiarazione, che aveva mobilitato la reazione e l’indignazione popolare e aveva costretto il Governo a ritirare un decreto legge sulla custodia cautelare […]. Non sembra che la vicenda giustifichi solo un certo disagio […]. Si è infatti di fronte a una situazione in cui v’è il rischio di perdere la dovuta consapevolezza del ruolo.19
Allo stato delle cose, giocò un ruolo molto importante
l’emanazione del codice etico, adottato dall’ Associazione nazionale magistrati, ai sensi dell’art. 58 bis, D.lg. 29/1993, modificato poi il 13 novembre 2010. Questo codice contiene dei principi ai quali si
17 Elencandone alcune, Cass., Sez. U., 18 gennaio 2001, n.5, CPe, 2001,72; Cass., Sez.
U., 12 aprile 2005, n. 7443.
18 N. Zanon, op. cit., pp. 257-258. 19 V. Pacileo, op. cit., p. 360.
28
dovrebbero conformarsi tutti i magistrati. Pur non essendo delle vere e
proprie norme, la giurisprudenza ha affermato che in alcuni casi la
violazione del suddetto codice può essere punita con sanzioni
disciplinari. La casistica elencata all’interno della legge 269/2006. Negli ultimi anni è aumentata, esponenzialmente, l’esposizione mediatica dei pubblici ministeri, rendendo necessario un intervento del
Capo dello Stato che, durante una seduta plenaria del CSM, affermò che
potrebbe «risultare altamente dannoso per la figura del Pubblico
Ministero qualunque comportamento impropriamente protagonistico o
chiaramente strumentale ad altri fini»20. Per questo motivo tramite la
legge di riforma dell’ordinamento giudiziario 150/2005 e il D.lg. 106/2006, tra le varie modifiche all’ordinamento, ha modificato la
disciplina dei rapporti tra l’ordinamento giudiziario ed i mezzi di
informazione. Questa legge ha attribuito, per quanto riguarda l’ufficio
del p.m., un ruolo principale al procuratore della Repubblica, capo
dell’ufficio, nella gestione dei flussi informativi che devono essere gestiti personalmente dallo stesso. Questa decisione è stata criticata per
l’eccessiva impostazione gerarchica che andava a delineare, ma lo stesso CSM in una sua delibera affermò che si trattava di una «valorizzazione
del potere di sorveglianza da parte del dirigente dell’ufficio in ordine
20 Intervento del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, seduta del CSM, Roma, 2009.
29
alle dichiarazioni rese dai sostituti in ordine a fatti attinenti ai
procedimenti pendenti presso l’ufficio»21.
In seguito a problematiche sull’attuazione pratica di tale
disciplina, che imporrebbe al procuratore capo di informarsi presso tutti
i sostituti nei propri uffici, si è ammessa la possibilità di delegare il
compito ad un magistrato del proprio ufficio, ed inoltre è stato stabilito
all’ art.5, 2°comma, D.lg. 106/2006 che: «Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita
attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento»22, in modo tale
da evitare protagonismi da parte dei magistrati e valorizzare la nuova
organizzazione dell’ufficio e la rappresentatività del procuratore capo.
21 Deliberazione CSM 22 maggio 2003, QCSM, 2006, 151, 171. 22 D.lgs. 106/2006, art.5, 2 comma.
30
Capitolo 2: Il pubblico ministero come parte imparziale del processo.
Sommario: 2.1 Il pubblico ministero come parte imparziale nel processo penale; 2.2 Astensione e responsabilità disciplinare del p.m.; 2.3 Ruolo e potere del procuratore generale.
2.1 Il pubblico ministero come parte imparziale del processo penale.
Da tempo le questioni che riguardano l’inquadramento del pubblico ministero nel nostro ordinamento hanno acquisito molto rilievo
per l’importanza del ruolo che questi ricopre all’interno dello Stato. Dal punto di vista processuale, ci si è chiesti se il p.m. dovesse
essere classificato come organo dello Stato-persona, quindi legato da
vincoli burocratici al potere esecutivo e operante, come portatore della
pretesa punitiva all’interno del processo penale alla pari delle altre parti private, oppure come espressione dello Stato-comunità, cioè privo di
legami con gli altri poteri dello Stato, svolgendo il suo compito
nell’interesse della legge, come organo di giustizia all’interno del processo, esercitando l’azione penale in modo imparziale23.
23 Quasi letteralmente,N.ZANON, Pubblico ministero e costituzione, Padova, Cedam,
31
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale gioca un ruolo
fondamentale per far chiarezza su questo argomento. Tale principio
fungendo sia da garanzia d’indipendenza del pubblico ministero da qualsiasi altro potere ordinamentale, andando a prevedere dei controlli
giurisdizionali sulle eventuali omissioni del magistrato, sia come
garanzia dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, non permettendo scelte arbitrarie sull’esercizio dell’azione penale, garantendo l’applicazione obiettiva della legge. Così facendo, questo
principio giustifica il monopolio pubblico della funzione di accusa ed
elimina, per quanto possibile, la discrezionalità nell’azione del
magistrato. Come afferma Carlo Guarnieri: «La presenza di regole certe
– le norme giuridiche- come le uniche determinanti dell’azione della pubblica accusa rappresenta per il cittadino innanzitutto la garanzia di
non essere sottoposto a procedimenti penali ingiusti e vessatori»24. Non
mancano ovviamente tesi contrarie a questa totale indipendenza del
pubblico ministero, che potrebbe portare ad una attenzione specifica a
quei soli casi che possano dare rilievo mediato al magistrato, con la
conseguenza che i reati minoritari resterebbero senza nessuna tutela.25
Tale principio non è sufficiente però ad eliminare le ambiguità
che vengono attribuite a tale magistrato, a complicare maggiormente la
situazione è il riconoscimento al pubblico ministero della qualifica di
“parte” all’interno del processo penale, che suscita vari problemi sulla
24 C. Guarnieri, Pubblico ministero e sistema politico, Cedam, Padova, 1984, p. 135. 25 In questo senso, G. Monaco, op. cit., p. 296.
32
parità delle parti all’interno del processo e quindi nel contraddittorio, dove la parte privata potrebbe trovarsi in una situazione di svantaggio
generata, appunto, dall’appartenenza all’ordine giuridiziario della controparte. Per questo motivo venne preferita la tesi secondo la quale
il pubblico ministero fosse un’espressione dello Stato-comunità, cioè libero da legami burocratici, da considerare, non semplicemente parte
nel processo, ma organo di giustizia, che persegue gli interessi della
legge26, come ribadito più volte dalla corte costituzionale27.
Con il passaggio al nuovo codice di procedura penale del 1988,
da un processo inquisitorio ad una procedura più marcatamente
accusatoria, non sono state apportate modifiche di rilievo al ruolo e ai
compiti del p.m. nello svolgimento del processo. La parte del
procedimento che è stata modificata maggiormente è la fase delle
indagini preliminari, eliminando la figura del giudice istruttore e
puntualizzando il principio di formazione delle prove nel
contraddittorio, delineando maggiormente il ruolo di parte per il
pubblico ministero, che agisce con l’unico interesse di applicare la legge e trovare la verità.
Detto ciò è facile pensare che l’imparzialità del p.m. non si
possa distinguere da quella del giudice, poiché entrambi perseguono lo
26 Quasi letteralmente, N. Zanon, op. cit., p.89
27 Si veda a proposito Corte Cost. sentenza n.190 del 1970, la Corte afferma che il p.m.
agisce solo a tutela dell’interesse generale e all’osservanza della legge; Corte Cost. sentenza n. 123 del 1971 e ancora, Corte Cost. sentenza n. 63 del 1972 dove si rimarca la funzione pubblica e super partes del pubblico ministero.
33
stesso fine, cioè l’attuazione dell’ordinamento giuridico; ma non è così poiché l’imparzialità del giudice deriva dal suo essere terzo, cioè
estraneo agli interessi delle parti in causa e di conseguenza anche agli
interessi del p.m.-parte nel processo28. L’imparzialità del giudice riguarda il caso concreto che gli viene presentato, mentre l’imparzialità
del pubblico ministero è rivolta nei confronti dell’imputato. Infatti pur impersonando l’accusa, il pubblico ministero deve agire in modo obiettivo, e quindi senza un interesse sanzionatorio, ma principalmente
dedicato alla ricerca della verità. Questo aspetto evidenzia la vera
funzione del pubblico ministero come rappresentante dello Stato, poiché
è proprio lo Stato ad avanzare la pretesa punitiva necessaria in seguito
alla violazione contestata.
L’inquadramento del p.m. come parte era ancora più ambiguo se si considera che secondo il vecchio codice di procedura penale, a questi
era riservata la possibilità di emettere provvedimenti restrittivi della
libertà personale. Questo elemento è venuto meno in seguito alla
modifica del codice di rito, che ora riserva al giudice per le indagini
preliminari la decisione sulle eventuali misure restrittive da applicare su
richiesta del pubblico ministero, che deve presentare gli elementi di
prova su cui si fonda la richiesta, nonché gli elementi a favore
dell’imputato ed eventuali memorie difensive già depositate. Infatti nell’art. 358 del codice di procedura penale si prevede che il magistrato
34
svolga anche accertamenti a favore dell’indagato, sottolineando quindi il duplice ruolo del p.m. come parte nella costituzione del processo, ma
anche come parte imparziale e pubblica nell’esercizio della funzione giudiziaria29. Ovviamente questo elemento non va inteso come un
dovere da parte del magistrato di sostituirsi alla difesa dell’imputato, ma bensì come un criterio di esercizio dell’azione penale in linea con i
canoni deontologici richiesti a questi magistrati, che hanno come unico
scopo quello di ricercare la verità, in modo tale da prevenire ed evitare,
eventuali processi che porterebbero ad una assoluzione, e che
costituirebbero uno spreco di tempo e risorse.
Un secondo principio che si aggancia a quanto già detto sul
pubblico ministero come parte imparziale del processo, è quello della
completezza delle indagini. Questo principio è ormai stato assimilato
all’interno dell’ordinamento, fondandosi sulla necessaria completezza del quadro probatorio sia per quanto riguarda l’eventuale rinvio a giudizio sia per l’archiviazione, spingendo da un lato il pubblico ministero ad effettuare un rafforzamento della fase delle indagini
preliminari, dall’altra presentandosi come strumento di garanzia per l’indagato che si vede riconosciuto il diritto a partecipare ad un contraddittorio basato su un quadro completo che permetta la
ricostruzione corretta dei fatti. Nella valutazione delle prove è infatti
richiesta un’analisi tale da permettere di prevedere l’eventuale
35
sostenibilità dell’accusa in giudizio, e decidere quindi se sia opportuno procedere con l’instaurazione del processo o, d’altro canto, con la richiesta di archiviazione al G.I.P., per elementi insufficienti a sostenere
l’accusa in giudizio. Sono previsti inoltre casi in cui è possibile un intervento straordinario da parte del giudice, che ritenga necessario
l’assunzione di nuovi mezzi di prova, qualora li ritenga necessari e difficilmente acquisibili nella fase dibattimentale. Questo possibilità che
viene affidata al giudice dall’art. 507 c.p.p., rischia però di essere fraintesa, e considerata come uno strumento che permette un’ingerenza del giudice sul caso, che lederebbe la sua imparzialità. L’abuso di questo
strumento scaturisce nel momento in cui il giudice diventi investigatore,
decidendo di indagare per conto suo anziché cercare di completare il
quadro probatorio, incompleto a causa dell’inerzia della parte.
2.2 Astensione e responsabilità disciplinare del PM.
Come abbiamo detto figure come il giudice ed il pubblico
ministero svolgono una funzione imparziale nel processo, ma un
distacco totale dai casi concreti che vengono posti all’attenzione di questi magistrati non è sempre possibile. Per garantire il corretto
svolgimento di questi ruoli, vi sono degli strumenti che tutelano la parte
privata nella possibile evenienza di un coinvolgimento del magistrato,
36
Lo strumento d’azione principale è quello dell’astensione che permette al giudice o al magistrato di richiedere d’essere sostituito nei casi in cui si presenti un incrocio di interessi tale da non permettere
l’imparziale svolgimento del proprio ufficio. Qui si può subito notare una distinzione, nel caso del giudice, l’istituto dell’astensione è obbligatorio, ovvero, il giudice è tenuto ad astenersi quando riscontri un
proprio coinvolgimento che lederebbe la propria imparzialità, mentre
nel caso del magistrato del pubblico ministero non è obbligatorio, ma
soltanto facoltativo e riguardante casi di “gravi ragioni di convenienza”. Inoltre la mancata astensione da parte del pubblico ministero non è causa
di nullità sul piano processuale, ma può avere conseguenze nei confronti
del magistrato sul piano disciplinare. Questa fattispecie di illecito
disciplinare è legata non tanto al corretto svolgimento del processo,
quanto più al decoro ed al prestigio dell’ordine giudiziario, che verrebbe macchiato da dubbi sull’imparzialità dei propri magistrati.
Questo tipo di responsabilità può essere conseguita anche
riguardo al modo in cui il magistrato svolge il proprio ruolo. Difatti la
corte di Cassazione ha ribadito più volte l’importanza, oltre che dell’agire in modo imparziale, anche dell’apparire imparziale da parte del p.m. che
svolge le funzioni di parte pubblica, tenuta ad agire esclusivamente per il perseguimento dei fini istituzionali che gli assegna l’ordinamento, […] non può ispirare la propria condotta a fini diversi da quelli propri dell’ufficio di appartenenza e
37
perseguire, o anche soltanto dare l’impressione di voler perseguire, obbiettivi e scopi personali.30
Questo aspetto acquista valore soprattutto se si considera il ruolo
che il pubblico ministero svolge all’interno del processo, dove rappresenta l’interesse di giustizia vantato dello Stato e per far ciò non può soltanto essere imparziale ma, deve anche mostrarsi tale, essendo la
figura con più esposizione mediatica.31
La giurisprudenza ha inoltre delineato una fattispecie, di
rilevanza penale, in cui la facoltatività dell’astensione si trasforma in un
obbligo per il magistrato. All’art. 323 c.p. si trova delineato il reato di abuso d’ufficio, che prevede un vero obbligo di astensione per il pubblico ufficiale che nello svolgimento del proprio compito riscontri
un interesse proprio o di un prossimo congiunto, sostituendosi cosi
all’art. 52 c.p.p. che prevedeva una mera facoltà per il magistrato di astenersi.
L’istituto dell’astensione serve quindi a tutelare il dovere d’imparzialità che i magistrati sono tenuti ad avere nello svolgimento del proprio ufficio, mentre l’istituto della ricusazione, ha il compito di difendere il diritto all’imparzialità della parte privata.32 Il nostro ordinamento però non prevede la possibilità, per la parte privata, di
ricusare il pubblico ministero. Questa differenza tra il giudice ed il
30 Cass., Sez. U., 26 febbraio 1999, n. 106, CED, rv. 523660;
31 L. PONIZ, Il pubblico ministero come parte imparziale: ossimoro o valore?, in Quest.
Giust., 2014, 4, p. 157.
32 E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Dott. A. Giuffrè editore, Milano,
38
magistrato del pubblico ministero è dovuta alla differenza del ruolo che
questi svolgono all’interno del processo. L’istituto della ricusazione è uno strumento che serve per rimuovere una causa di incompatibilità che
determinerebbe comunque un obbligo d’astensione da parte della persona tenuta ad esercitare la funzione giurisdizionale, e nel caso del
giudice, terzo ed imparziale, questo non crea alcun problema
interpretativo, ma per la figura del pubblico ministero il discorso
cambia.
I motivi su questa diversità di trattamento sono molteplici,
principalmente perché il pubblico ministero oltre che svolgere una
funzione giurisdizionale nell’iter del procedimento penale, riveste al contempo il ruolo di parte pubblica nel processo, e quindi questa
particolare posizione rende impossibile la ricusazione del p.m., poiché è
inconcepibile che una parte possa rifiutare l’altra, ed inoltre perché a differenza del giudice, che svolge un ruolo in cui è necessaria una totale
imparzialità, al pubblico ministero sono affidate funzioni di accusa che
comunque permettono un coinvolgimento dello stesso.
2.3 Ruolo e poteri del Procuratore generale
Una volta delineati questi profili, è necessario analizzare la
39
Il procuratore generale presso la Corte d’Appello ha avuto da sempre forti poteri di controllo nei confronti degli uffici giudiziari del
distretto. Infatti all’interno del codice Rocco, erano presenti vari articoli, come ad esempio l’art. 234 c.p.p. abr. che consentiva di procedere egli
stesso all’istruzione sommaria delle notizie di reato ricevute, o ancora la possibilità di richiamare gli atti con provvedimento “insindacabile”, poi dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza
110/1963.33
Questo quadro delineava un’impronta di tipo gerarchico tra il procuratore generale e i vari procuratori della Repubblica all’interno dei distretti. Anche se la giurisprudenza ha negato questo tipo di struttura,
non potendo il procuratore generale impartire direttive o imporre
specifiche attività processuali ai vari p.m., questi poteva comunque
auto-sostituirsi al titolare dell’inchiesta. Si delinea così uno schema
dove il procuratore della repubblica aveva il compito di compiere atti
urgenti e di conservazione della prova, mentre spettava soltanto al
procuratore generale decidere se compiere da sé l’attività di indagine o restituire gli atti al procuratore del distretto.
La situazione cambiò con la riforma del codice di rito del 1988,
che limitò le prerogative in capo al procuratore generale, come ad
esempio il potere di avocazione che venne limitato ai casi
tassativamente elencati all’interno del codice e ricollegabili all’inerzia
40
del magistrato preposto. Dopo la riforma del codice, si presentava una
figura del procuratore generale depotenziata, ma comunque incaricata
della sorveglianza nei confronti dei magistrati e degli uffici giudiziari
del distretto.
Tra i poteri del procuratore generale, quello che più ci preme
trattare è quello di sorveglianza. Con l’art. 16, r.d.lg. 511/1946 il
procuratore generale viene incaricato di assicurare il buon andamento e
l’imparzialità nell’amministrazione della giustizia senza interferire però con le attività svolte dai p.m., focalizzandosi sull’aspetto amministrativo
della vita professionale dei magistrati.34 Per garantire maggiormente la
trasparenza di questo controllo, è stato imposto l’obbligo di motivare le proprie scelte d’azione sui procuratori della Repubblica, e nel contempo è stato eliminato il potere di direzione del Ministro di grazia e giustizia,
sostituendolo con solo un potere di vigilanza, che però gli permette di
esercitare un controllo amministrativo-disciplinare, e non di applicare
sanzioni, potere affidato esclusivamente al Consiglio Superiore della
Magistratura
Il CSM, in una sua delibera ha affermato che il controllo svolto
dal procuratore generale può avvenire o su dati formali e quantitativi,
che espongano l’andamento della procura, o analizzando i comportamenti tenuti (omessi) dal p.m., che possano farne scaturire
41
un’eventuale incompatibilità35. Nello svolgimento dell’acquisizione di informazioni, il procuratore generale può utilizzare qualsiasi mezzo che
non sia vietato, purché non interferisca con l’attività dei procuratori. Oltre questi casi è da riconoscere in capo al procuratore generale
la possibilità di coordinare le indagini, nel caso di indagini collegate, o
promuovere il collegamento ai pubblici ministeri del distretto se non lo
avessero già fatto. Ha il compito di redimere ogni contrasto, positivo o
negativo, tra i pubblici ministeri, è titolare dell’azione disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, oltre ad
essere il titolare del potere di impugnazione su tutte le sentenze emesse
dai giudici del proprio distretto.
Il procuratore generale una volta l’anno è tenuto a presentare una relazione annuale sulle condizioni della giustizia nel distretto, che funge
anche da collegamento con la società, garantendo una forma di
trasparenza che permette di rafforzare la credibilità dell’ordinamento
giuridico nei confronti della comunità.
Come abbiamo già detto, in seguito alla riforma del codice
Rocco sono stati ridimensionati i poteri di questo magistrato
alleggerendo la presa gerarchica che questi vantava nei confronti dei
pubblici ministeri del distretto di appartenenza.
42
Uno dei punti riformati maggiormente è quello riguardante il
potere di avocazione che, prima di essere riformato, permetteva al P.G.
di avocare a sé qualsiasi indagine egli ritenesse più opportuno, non
dovendo motivarne le causa. Dopo la riforma, si introdusse un elenco di
casi tassativo, la gran parte legati all’inerzia del pubblico ministero, nei quali era permesso al procuratore generale effettuare l’avocazione giustificandone il motivo, ma garantendo allo stesso tempo la facoltà per
il p.m. di far opposizione. L’avocazione diventa così uno strumento di correzione obiettivo, che protegge il sistema da eventuali inerzie o
inefficienze dei magistrati, tipizzando ormai sia il quando che il perché
dell’utilizzo di questo strumento. Il mantenimento, anche se ridotto, di questo istituto trova spiegazione nel principio di obbligatorietà
dell’azione penale, che essendo un principio cardine del nostro ordinamento, non permette lacune causate dall’inerzia del magistrato.
Il codice di rito individua due tipi di avocazione, quella
obbligatoria prevista dagli articoli 372 e 412, e quella facoltativa agli
articoli 409 e 412 comma 2. L’avocazione obbligatoria applicabile, come si è già detto, solo nei casi tassativamente elencati dalla legge, che
riguardano principalmente eventuali inerzie nella sostituzione del
pubblico ministero che si sia astenuto, o nei casi in cui siano decorsi i
termini per le indagini preliminari ed il p.m. non abbia esercitato
l’azione penale o la richiesta di archiviazione. L’avocazione facoltativa rappresenta invece uno strumento di sostegno alle valutazioni svolte dal
43
G.I.P, e può essere richiesta sia dalle persone offese che dall’indagato. Ovviamente l’avocazione facoltativa non rappresenta uno strumento che comporto obbligatoriamente l’esercizio dell’azione penale, bensì si configura come uno strumento che «garantisce l’obbligatorietà configurando un controllo sulla legittimità dell’inazione, ulteriore rispetto a quello giurisdizionale, finalizzato come quest’ultimo a porre
rimedio contro eventuali abusi o elusioni»36 Una volta emesso il decreto
di avocazione questo viene trasmesso al CSM ed ai procuratori
interessati che possono presentare reclamo al procuratore generale
presso la Corte di cassazione37. Detto questo è facile intuire un ritorno
ad uno schema piramidale, dove all’apice si trova il procuratore generale
presso la Corte d’appello, che vigila sul corretto esercizio delle funzioni di ogni procura del proprio distretto, senza però sostituirsi alle stesse,
che mantengono una propria autonomia nei compiti da svolgere.
Altra figura molto importante è quella del procuratore generale
presso la Corte di Cassazione, che pur rappresentando un punto focale
sul sistema disciplinare dei magistrati, ha compiti diversi da quelli degli
altri uffici requirenti, poiché non ha titolarità dell’azione penale e non è investito di poteri di sorveglianza diretti, svolgendo una funzione simile
36 M.L. DI BITONTO,L’avocazione facoltativa, Giappichelli editore, Torino, 2006, p.
61.
44
a quelle della Corte in cui risiede38 , ma al contempo ha l’obbligo di
esercitare l’azione disciplinare su tutti i magistrati dell’ordinamento. Il procuratore generale presso la Corte di cassazione, ha
l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati e di darne comunicazione al Ministro della giustizia e al CSM,
riportando i fatti in modo sommario. L’introduzione di questo obbligo aveva lo scopo di garantire l’uguaglianza di trattamento nei confronti dei magistrati, introducendo contemporaneamente la tassatività degli
illeciti disciplinari, anche se perdurano all’interno dell’ordinamento,
ipotesi di illeciti non ancora disciplinati, lasciando comunque un
margine di valutazione al procuratore.