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La qualità in un'azienda produttrice di Lardo di Colonnata: adesione al marchio IGP e sistemi di controllo.

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Academic year: 2021

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AGISTRALE

:

“La qualità in un’azienda produttrice di Lardo di Colonnata: adesione al

marchio IGP e sistemi di controllo”

C

ANDIDATA

:

Dott.ssa Francesca Manzini

R

ELATORE

:

Dott.ssa Roberta Nuvoloni

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1 A mia mamma, la donna più importante

della mia vita, nel mio cuore in ogni istante.

(3)

2

INDICE

RIASSUNTO: ... 4

INTRODUZIONE ... 5

1 L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI QUALITA’ ... 8

2 LE CERTIFICAZIONI VOLONTARIE ... 10 2.1 LE CERTIFICAZIONI DI PRODOTTO ...11 DOP ... 12 IGP ... 14 STG ... 15 BIOLOGICO ... 17

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI... 19

2.2 LA CERTIFICAZIONE DI PROCESSO ...19

HACCP ... 20

FILIERA CONTROLLATA ... 20

SISTEMA DI QUALITA’ NAZIONALE DI PRODUZIONE INTEGRATA (SNQPI) ... 22

LE NORME ISO 9001 ... 22

BRC ... 23

IFS ... 25

3 IL LARDO DI COLONNATA IGP ... 27

3.1 STORIA DEL LARDO: IMMAGINAZIONE E LEGGENDE...27

3.1.1 DAL MITO ALLA STORIA ... 27

3.1.2 DIVERGENZE RELIGIOSE ... 28

3.1.3 IN COSTANTE EVOLUZIONE ... 29

3.1.4 L’ECCEZIONALITA’ SUPERA LA STORIA ... 33

3.2 TRADIZIONE STORICA, MICROCLIMA E MARMO DEI CANALONI ...34

3.2.1 IL PAESE DI COLONNATA ... 34

3.2.2 MICROCLIMA SECONDO IL REG. (CE) n. 1856/2004 ... 35

3.2.3 IL MARMO DEI CANALONI ... 37

(4)

3

3.3 LE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO ...41

3.3.1 IL PROFILO ORGANOLETTICO-NUTRIZIONALE ... 43

3.3.2 IL PROFILO IGIENICO-SANITARIO ... 43

4 PARTE SPERIMENTALE ... 45

4.1 INTRODUZIONE ...45

4.2 MATERIALI E METODI ...45

4.2.1 IL DISCIPLINARE DI PRODUZIONE DEL LARDO DI COLONNATA IGP ... 46

4.2.2 L’ ENTE DI CERTIFICAZIONE: AGROQUALITA’ ... 49

4.2.3 LA BOTTEGA DI ADO’: STORIA E DESCRIZIONE DELL’AZIENDA ... 50

4.2.4 TECNOLOGIA DI PRODUZIONE ... 56

4.2.4.1 LA MATERIA PRIMA ... 58

4.2.4.2 IL PROCESSO PRODUTTIVO ... 59

4.2.4.3 ETICHETTATURA ... 61

4.2.5 VERSO IL MARCHIO IGP ... 62

4.2.5.1 ADESIONE AL SISTEMA DEI CONTROLLI ... 62

4.2.5.2 I SOGGETTI COINVOLTI ... 68

4.2.5.3 IL MANTENIMENTO NEL SISTEMA ... 88

4.2.5.4 I REQUISITI DI CONFORMITA’ ... 88

4.2.5.5 I CONTROLLI DI CONFORMITA’ ... 89

4.2.5.6 APPOSIZIONE DEI SIGILLI ... 98

4.2.5.7 GESTIONE DELLE NON CONFORMITÀ ... 101

4.2.5.8 CAMPIONAMENTO ... 102

4.2.6 CONTROLLI UFFICIALI ... 105

4.2.6.1 ANALISI DEL RISCHIO ... 109

4.2.6.2 CONTROLLI SULLA SANIFICAZIONE ... 126

4.2.6.3 VERIFICA E VALUTAZIONE DELL’HACCP ... 128

RISULTATI E CONCLUSIONI ... 132

BIBLIOGRAFIA ... 137

SITOGRAFIA ... 145

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4

RIASSUNTO:

Negli ultimi anni il Mercato Europeo è stato contraddistinto dall’introduzione e dallo sviluppo delle certificazioni di qualità, rappresentate principalmente da: DOP, IGP e STG. In questa tesi, nella parte generale, è stato preso in esame il concetto di qualità connesso ai marchi a tutela, con particolare riferimento all’Indicazione Geografica Protetta e nello specifico al Lardo di Colonnata. Tale IGP ha ottenuto il riconoscimento europeo nel 2004 e fino ad oggi la sua artigianalità è stata rivalutata ed apprezzata. Nella parte sperimentale è stato riportato l’iter seguito da un’azienda produttrice di “Lardo di Colonnata” per aderire al Consorzio di Tutela e quindi ottenere il marchio IGP. A tal fine, in affiancamento al Responsabile igiene e qualità dell’azienda, sono stati raccolti i dati relativi alla produzione del lardo; questi sono stati poi revisionati e completati confrontandoli con il Disciplinare di Produzione e con quanto previsto dal controllo ufficiale. A tale scopo sono stati analizzati i controlli e le procedure documentali previsti sia da parte dell’Ente di certificazione, sia da parte dell’Autorità Competente. Lo svolgimento dell’iter di certificazione, che ha portato all’ottenimento del marchio IGP al lardo prodotto in questa azienda, ha messo in luce la dicotomia tra il carattere volontario per la tutela e la promozione della qualità e quello obbligatorio per la garanzia della sicurezza, ma ha anche evidenziato che essi operano fianco a fianco, sebbene con importanti variazioni nelle loro forme e nei diversi gradi di interrelazione. Gli standard dell’Ente di certificazione e quelli cogenti, derivanti dalla normativa comunitaria e sottoposti al controllo ufficiale da parte del Servizio Veterinario della ASL competente, non sono quindi entità diverse, ma tendono a comuni obiettivi di sicurezza e qualità, contribuendo ad una maggiore efficienza dell’azienda e ad una conseguente implementazione nella gestione della sicurezza alimentare.

(6)

5

INTRODUZIONE

Quando si parla di made in Italy, la prima cosa che salta alla mente è la bontà dei prodotti italiani, che è indubbia e conosciuta in tutto il mondo. Più difficile, forse, è far capire ed apprezzare la congerie di storia, cultura e tradizione dei tanti piccoli borghi e paesini nei quali queste specialità nascono e ancora oggi sono realizzate, frutto di un passaparola che si trasmette da generazioni inalterato e che rappresenta il vero patrimonio del nostro Paese (Del Principe et al., 2012).

Il settore agroalimentare è uno dei più importanti comparti dell’economia del nostro Paese, un patrimonio che spesso ha radici lontane nel tempo e che si avvale di tecniche di produzione piuttosto antiche. Molti sono gli esempi di produzioni italiane qualitativamente ragguardevoli e, non a caso, anche la dieta mediterranea è stata recentemente introdotta nel patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO (Arfini, 2010).

In questa realtà si ritrovano arti e mestieri antichi, produzioni agricole di qualità e lavorazioni tradizionali inalterate da secoli, che possono essere riscoperte, per dare così un forte contributo allo sviluppo rurale, recuperare la tradizione e la cultura locale, innestandola in circuiti moderni di valorizzazione economica (D’Alonzo, 2003).

I modelli di consumo attuali stanno progressivamente portando ad una riduzione della segmentazione spaziale dei prodotti agroalimentari, a causa di una forte spinta di omogeneizzazione delle basi produttive e sociali locali. L’effetto della globalizzazione sulle varie imprese produttrici del settore agroalimentare nazionale è stato quello di spingerle a ricercare sempre più spesso vantaggi competitivi per conservare i consumatori locali, ma anche ad avvicinare il consumatore estero; in tal modo l’elemento di differenziazione delle produzioni diventa proprio la qualità.

D’altro canto i cittadini dell’Unione europea chiedono sempre più la sicurezza dei prodotti a tutela della salute e qualità, aspetto, quest’ultimo, che da sempre caratterizza il cosiddetto Italian sounding agroalimentare. Tale esigenza determina la domanda di prodotti agricoli o alimentari con caratteristiche specifiche riconoscibili.

A fronte di tutto ciò la Comunità Europea ha emanato una normativa per la protezione e la valorizzazione dei prodotti alimentari a cui viene riconosciuta la qualità legata all’origine geografica (legame con il territorio), alla tradizione della lavorazione (tradizionalità del processo produttivo e talento dell’uomo) e all’impiego di pratiche ecocompatibili rispettose dell’ambiente e della salute dell’uomo (Porter, 1982).

Con questa finalità sono stati introdotti il Reg. CEE/2081/1992 e il Reg. CEE/2082/1992, sostituiti poi dal Reg. CE/509/2006, relativo alle Specialità Tradizionali Garantite dei prodotti agricoli e alimentari (STG), e dal Reg. CE/510/2006 relativo alla protezione delle Indicazioni Geografiche e delle Denominazioni di Origine dei prodotti agricoli e alimentari (IGP e DOP).

(7)

6 L’Italia ha, nell’ambito delle produzioni tutelate, una consolidata posizione di leadership e di prestigio agroalimentare: sebbene il settore del vino e dell’olio extravergine di oliva siano i cavalli di battaglia nazionali, negli ultimi anni anche altre produzioni agroalimentari stanno assumendo un ruolo sempre più importante quali testimonial di un territorio e di una tradizione.

Nella presente tesi è stato preso in esame uno tra i molteplici prodotti italiani a tutela, il Lardo di Colonnata IGP: una preparazione a base di carne suina caratteristica di una località, Colonnata, sita nel comune di Carrara in Toscana.

Generalmente il marchio indica una denominazione unica, irripetibile che viene riconosciuta ad un prodotto per attestarne le caratteristiche produttive e qualitative. Il marchio esplica quindi la qualità di tipo commerciale, poiché garantisce al consumatore che un prodotto ha delle specifiche caratteristiche qualitative standardizzate nel tempo e nello spazio.

La garanzia istituzionale della qualità, realizzata tramite il marchio e la certificazione, ha un impatto diretto sugli aspetti economici della filiera e sul potere di mercato degli attori della stessa, offrendo una garanzia supplementare di affidabilità. Essa consegue l’obiettivo di ridurre l’asimmetria informativa, il che significa permettere al consumatore di accertare le differenze qualitative dei prodotti e, di conseguenza, consentirgli di disporre di un sistema di riferimento qualità-prezzo che gli permetta scelte coerenti con le sue esigenze. In altre parole, gli strumenti di garanzia delle qualità rappresentano uno strumento con cui il produttore riesce a segmentare il mercato alimentare e a differenziare i prodotti legati ad una specifica origine geografica da quelli di massa indifferenziati (Porter, 1982).

Le esigenze che la qualità è chiamata a soddisfare non devono però oscurare un concetto chiave: la sicurezza alimentare. Questa, per essere garantita, deve coinvolgere tutte le figure che gravitano nel contesto degli alimenti di origine animale. Ogni singolo attore partecipa alla filiera di un prodotto, ovvero alle diverse fasi che vanno dalla produzione al consumo finale, “from farm to table”.

Per garantire di pari passo questi due aspetti, la qualità e la sicurezza, sono quindi chiamate ad intervenire numerose figure professionali, tra le quali il protagonista principale è, secondo le attuali normative europee, l’Operatore del Settore Alimentare (OSA).

Gli OSA infatti sono oggi chiamati a rispondere della sicurezza di ciò che producono e commercializzano, mettendo in atto e documentando specifiche procedure e controlli.

Un ruolo altrettanto importante è quello svolto dall’Autorità Competente; essa infatti deve legiferare in materia di sicurezza alimentare e verificare il rispetto degli obblighi attribuiti agli OSA, oltre ad effettuare i controlli per esaminare la corrispondenza ai requisiti previsti dalle normative europee.

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7 In questo contesto si inserisce la figura professionale del Veterinario Ispettore che opera presso gli organi competenti: il Ministero della Salute, le Regioni e le Province Autonome e le ASL (Azienda Sanitaria Locale).

Il controllo veterinario, incaricato dalla ASL territoriale, interessa tutte le fasi della filiera alimentare, dalle materie prime fino alla commercializzazione del prodotto finito. Le verifiche sono molteplici e consistono in numerosi compiti fra i quali ispezioni ed audit: controlli igienici sanitari delle strutture e del personale, esami della documentazione, prelievo di campioni.

Il Servizio Veterinario contribuisce quindi in modo significativo alla sicurezza del prodotto e alla tutela del consumatore.

Oltre alla figura ufficiale del Veterinario, nell’ambito del settore alimentare, sta crescendo l’immagine dell’Ente di certificazione privato, che attraverso i requisiti dettati nei Disciplinari di produzione, permette una standardizzazione delle caratteristiche produttive e una valorizzazione dei caratteri distintivi dei prodotti di pregio. Il concetto di qualità, che comprende diversi aspetti, quali salubrità degli alimenti, valore nutrizionale, processo produttivo, caratteristiche organolettiche, fattori culturali ed etico-sociali, diventa quindi l’obiettivo principale da perseguire.

Stimolati dall’evoluzione del rapporto tra sicurezza alimentare e qualità del prodotto, nella presente tesi abbiamo ritenuto interessante effettuare un’analisi delle relazioni tra i requisiti di sicurezza ed il controllo ufficiale da un lato e i requisiti di qualità previsti dall’ente di certificazione nel Lardo di Colonnata IGP dall’altro.

Il presente lavoro di tesi è organizzato nel modo seguente:

• nella parte generale è riportata una trattazione sul concetto di qualità e sulle certificazioni volontarie di prodotto e di processo, con particolare riferimento all’Indicazione Geografica Protetta e nello specifico al Lardo di Colonnata IGP;

• nella parte sperimentale, è stata illustrata la storia di un’azienda produttrice di lardo di Colonnata IGP, “La Bottega di Adò S.r.l.”, sono stati analizzati il processo produttivo, l’iter e i controlli da parte dell’Ente di Certificazione Agroqualità, che l’azienda segue per mantenere la certificazione IGP, e le ispezioni e gli audit relativi al controllo ufficiale, mettendo a confronto i requisiti richiesti nei due diversi ambiti di controllo.

(9)

8

1 L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI QUALITA’

La qualità è definita come “l’insieme delle proprietà e caratteristiche che conferiscono ad un prodotto o servizio la capacità di soddisfare le esigenze espresse o implicite dell’utilizzatore” (UNI EN ISO 8402).

La pluralità sia di attributi che di obiettivi potenzialmente rilevanti ai fini dell’identificazione e della valutazione, nonché la soggettività presente nei diversi stakeholders chiamati ad emettere il giudizio sulla rispondenza, fa sì che la definizione della qualità dei prodotti sia sottoposta ad una elevata variabilità. All’interno del sistema agro-alimentare il tema della qualità ha assunto un peso sempre più rilevante nel condizionare le decisioni strategiche ed organizzative delle imprese e degli altri operatori coinvolti nei processi produttivi, così come nelle decisioni del consumatore finale, portando ad una costante evoluzione del concetto stesso di qualità (Marescotti, 2000).

Negli anni il concetto di qualità ha assunto una crescente importanza all’interno del sistema economico ed agro-alimentare, sia per le imprese, alla continua ricerca di prodotti in grado di soddisfare le richieste dettate dall’evoluzione del mercato e dalla ottimizzazione dei processi produttivi, sia per gli stessi consumatori, utenti sempre più attivi e propositivi, la cui domanda si manifesta sempre più diversificata ed esigente, che infine per l’operatore pubblico nelle sue varie articolazioni territoriali e settoriali, il cui intervento è finalizzato a garantire la regolarità e l’efficienza delle transazioni di mercato riducendo la possibilità di messa in opera di comportamenti scorretti (Marescotti, 2000).

I fattori che contribuiscono a determinare la qualità totale di un alimento sono svariati, tanto è vero che è possibile individuare una:

• Qualità igienico-sanitaria • Qualità nutrizionale • Qualità d’origine • Qualità organolettica • Qualità legale

La qualità igienico-sanitaria di un alimento è data dalla rispondenza a requisiti d’igiene minimi, stabiliti per legge, relativi al “contenuto” in sostanze di natura chimica, fisica e biologica (Colavita, 2008). Secondo il Reg. CE/852/2004 per “igiene degli alimenti” s’intendono tutte le misure e le condizioni necessarie per controllare i pericoli e garantire l’idoneità al consumo umano di un prodotto alimentare tenendo conto delle destinazioni d’uso.

Per garantire la qualità igienico/sanitaria degli alimenti, un ruolo fondamentale è rivestito dall’operatore del settore alimentare, sia esso produttore, che distributore, che venditore: “La sicurezza degli alimenti va garantita lungo tutta la catena alimentare, a cominciare dalla produzione

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9 primaria” (Reg. CE/852/2004). Un altro regolamento comunitario afferma che “per garantire la sicurezza degli alimenti occorre considerare tutti gli aspetti della catena di produzione alimentare come un unico processo, a partire dalla produzione primaria, passando per la produzione di mangimi fino alla vendita o erogazione di alimenti al consumatore inclusa, in quanto ciascun elemento di essa presenta un potenziale impatto sulla sicurezza alimentare” (Reg. CE/178/2002).

La qualità nutrizionale di un alimento è data dalla sua capacità nutritiva, determinata dal contenuto in macronutrienti. Essa può intendersi sotto l’aspetto quantitativo, dato dalla quantità di energia chimica che l’alimento apporta, e sotto quello qualitativo, dato dalla combinazione degli elementi nutritivi in esso contenuti. La scelta delle materie prime e delle tecnologie di trasformazione risultano di primaria importanza e devono essere pertanto garantite ad ogni livello del processo produttivo (Cappelli et al., 2008).

La qualità d’origine è connessa all’istituzione, nel 1992, da parte della Comunità Europea, di alcuni sistemi di denominazione di vendita protetti, finalizzati alla promozione e alla tutela dei prodotti agroalimentari. Tali marchi tutelano ulteriormente il consumatore, garantendo che “un prodotto agricolo o alimentare che beneficia di uno dei tipi di riferimento (DOP, IGP) summenzionati dovrebbe soddisfare determinate condizioni elencate in un disciplinare” (Reg. CE/510/2006).

La qualità organolettica di un alimento è determinata dalla valutazione di alcune caratteristiche dell’alimento stesso, quali l’aspetto, l’aroma e la consistenza, percepite attraverso gli organi di senso (qualità sensoriale). Si tratta di valutazioni soggettive che sono notevolmente influenzate da fattori psicologici, sociali e culturali (Petrini, 2003).

La qualità legale è quella garantita dall’insieme di norme che interessano il settore alimentare: per essere definito “di qualità” un alimento deve rispondere a determinati requisiti minimi di legge poiché la legislazione tutela, attraverso le leggi, la salute del cittadino.

A questo proposito, è stato ideato uno strumento di autocontrollo, il sistema HACCP (Hazard Analysis Critical Control Points), che mira all’analisi dei rischi e dei punti critici di controllo delle varie fasi del processo produttivo: per ogni alimento sono individuati e valutati i pericoli specifici, che mirano all’igiene e alla sanità e sono stabilite le misure atte a prevenire tali rischi (Reg. CE/852/2004). L’autocontrollo costituisce il più innovativo approccio del legislatore relativamente all’igiene, perché solo un sistema nel quale il controllo sia affidato a chi produce, commercializza e somministra alimenti, consente di raggiungere un’efficacia e una continuità nell’esercizio del controllo, superando i limiti dell’approccio tradizionale che invece si basava solo sul controllo esterno e che riguardava solo una parte limitata del prodotto messo in commercio. Il passaggio da un approccio basato sul controllo dei prodotti finiti con una lettura retrospettiva ad uno preventivo, senza

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10 esclusione dei controlli ufficiali, costituisce una meta di ritrovata efficacia, per cui la produzione di alimenti è sostanzialmente affidata al titolare dell’azienda (Toti, 2016).

2 LE CERTIFICAZIONI VOLONTARIE

La certificazione volontaria può essere definita come: “atto mediante il quale una terza parte indipendente dalle parti interessate (enti di certificazione, laboratori di prova, centri di certificazione e centri di taratura) attesta con sufficiente livello di fiducia che un determinato prodotto, servizio o processo è conforme ad una data norma o regola tecnica” (Gervasoni, 2004).

Le certificazioni volontarie regolamentate sono quindi attestati facoltativi disciplinati da rigide normative emanate da enti pubblici (https://www.tuv.it/it-it/settori/prodotti-di-consumo-e-retail/alimentare-salute-bellezza/certificazione-volontaria-di-prodotto).

Qualora un’azienda voglia conformarsi ad una di queste, sarà responsabilità dell’azienda stessa rispettare i requisiti emanati dai rispettivi regolamenti (nazionali o comunitari) (https://www.tuv.it/it-

it/settori/prodotti-di-consumo-e-retail/alimentare-salute-bellezza/certificazione-volontaria-di-prodotto).

La certificazione è una garanzia di qualità per i clienti che utilizzano un prodotto o un servizio, e diventa, quindi, un efficiente metodo di comunicazione utilizzato dalle imprese per illustrare i requisiti a cui queste si sottopongono (Toti, 2016).

Nel panorama contemporaneo del settore alimentare esistono numerose certificazioni, spesso con lo stesso obiettivo, ma con requisiti differenti fra loro.

Si possono infatti identificare:

• La certificazione di prodotto, che tende alla valorizzazione ed alla differenziazione di determinate qualità di un prodotto alimentare, siano queste organolettico-sensoriali, igienico-sanitarie, nutrizionali, tecnologiche, ecc.

• La certificazione di processo, che ha come oggetto specifico le fasi produttive che effettuano le trasformazioni di prodotti o servizi (https://www.tuv.it/it-it/settori/prodotti-di-consumo-e-retail/alimentare-salute-bellezza/certificazione-volontaria-di-prodotto). La certificazione di prodotto garantisce che un prodotto risulti conforme a quanto dichiarato dal produttore ed assicuri il rispetto di requisiti, quali le caratteristiche di qualità, le modalità di ottenimento o la provenienza, prefissati e descritti da un documento normativo di riferimento

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11 La certificazione, quindi, basata su disciplinari tecnici, costituisce uno strumento qualificante per valorizzare le peculiarità delle produzioni agroalimentari e darne comunicazione al mercato (Toti, 2016).

L’approccio della certificazione di processo è basato, invece, sulla valutazione della capacità dei processi produttivi di fornire prodotti conformi ai requisiti applicabili e di attenersi a determinate

specifiche tecniche che garantiscano la qualità

(http://www.accredia.it/UploadDocs/201_404RelQAlim1105.pdf).

2.1 LE CERTIFICAZIONI DI PRODOTTO

Le certificazioni di prodotto sono certificazioni volontarie per cui un Ente pubblico ha stilato una serie di standard tecnici, attraverso regolamenti comunitari, ed ai quali le imprese devono attenersi al fine di ottenere l’attestato (https://www.tuv.it/it-it/settori/prodotti-di-consumo-e-retail/alimentare-salute-bellezza/certificazione-volontaria-di-prodotto).

L’idea alla base delle certificazioni, più precisamente delle denominazioni d’origine, è un’idea innovativa. Il prodotto agroalimentare tipico può essere definito come un prodotto che presenta alcuni attributi di qualità unici, che sono espressione delle specificità di un particolare contesto territoriale in cui il processo produttivo si realizza (Belletti et al., 2006). Il prodotto tipico deriva quindi la propria unicità dall’essere intimamente legato ad un territorio nella complessità dei suoi connotati tanto fisici quanto antropici. Dunque alcuni degli attributi di qualità del prodotto, di natura materiale e/o immateriale, sono da considerarsi unici, in quanto irriproducibili al di fuori del particolare contesto economico, ambientale, sociale e culturale in cui il prodotto è realizzato, che può essere indicato, secondo la terminologia francese, con il concetto di terroir (Delfosse, 1996; Casabianca et al., 2005). Per terroir si intende “uno spazio geografico delimitato dove una comunità umana ha costruito nel corso della storia un sapere intellettuale collettivo di produzione, fondato su un sistema di interazioni tra un ambiente fisico e biologico ed un insieme di fattori umani, dietro al quale gli itinerari socio-tecnici messi in gioco rivelano un’originalità, conferiscono una tipicità e generano una reputazione, per un prodotto originario di quel terroir” (Del Principe et al., 2012).

Questa definizione chiarisce l’obiettivo che l’Unione Europea intendeva raggiungere nel 1992 quando ha emanato il Reg CEE/2081/1992, successivamente abrogato dal vigente Reg. CE/510/2006. Lo scopo è, infatti, quello di disciplinare la materia della protezione dei prodotti agricoli di qualità, migliorandone la conoscenza e la riconoscibilità e consentendo lo sviluppo economico e sociale delle aree rurali e la salvaguardia dell’ambiente e dei paesaggi, mantenendo attività sostenibili sul territorio (Ismea, 2006; Del Principe et al., 2012).

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12 La legislazione comunitaria istituisce così i marchi DOP (denominazioni d’origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta), dei quali possono fregiarsi prodotti agricoli o alimentari, la cui qualità è da intendersi strettamente connessa al territorio di origine (Del Principe et al., 2012).

DOP

Ai fini del Reg. CE/510/2006 si intende per: «denominazione d'origine», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata.

La Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.) è un marchio di tutela giuridica che viene assegnato dall’ Unione Europea ai prodotti agroalimentari, le cui peculiari caratteristiche qualitative dipendono essenzialmente o esclusivamente dall’ambiente geografico in cui sono prodotti. Essa impone norme più rigide rispetto agli altri marchi di qualità, offrendo di conseguenza una maggior garanzia al consumatore (Reg. CE/510/2006).

Il requisito essenziale, che consente di ottenere un prodotto inimitabile, è quello dello stretto legame tra il prodotto e il territorio di una ben determinata area geografica, dove per ambiente geografico si considera sia quello relativo ai fattori naturali, quali il clima e le caratteristiche ambientali, sia i fattori umani, come le tecniche di produzione tramandate nel tempo, l’artigianalità e il savoir-faire. Affinché un prodotto sia definito DOP, tutte le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono avvenire nello stesso territorio (Arfini et al., 2010).

I produttori che decidono di aderire ad una certificazione DOP, sono obbligati ad attenersi alle rigide regole stabilite dal disciplinare di produzione, nel quale vengono precisati i principi generali e le schede tecniche per la produzione, verificate dagli appositi organismi di controllo competenti ed indipendenti, autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Fittante et al., 2010).

Nell’Art. 4 del Reg. CE/510/2006 è previsto che una DOP deve essere conforme ad un Disciplinare di Produzione, che comprende almeno i seguenti elementi:

1. Il nome del prodotto agricolo o alimentare che comprende la denominazione d’origine;

Figura 1 Logo europeo della DOP

(http://www.poliedra.it/IMP/i mages/progetti/materiali/svil uppo2.pdf)

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13 2. La descrizione del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle materie prime, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche o organolettiche del prodotto agricolo o alimentare;

3. La delimitazione della zona geografica;

4. Gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della zona geografica delimitata;

5. La descrizione del metodo di ottenimento del prodotto agricolo o alimentare e, se del caso, i metodi locali, leali e costanti;

6. Gli elementi che giustificano il legame fra la qualità o le caratteristiche del prodotto agricolo o alimentare e l’ambiente geografico e il legame fra una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica del prodotto agricolo o alimentare e l’origine geografica;

7. Il nome e l’indirizzo delle autorità o degli organismi che verificano il rispetto delle disposizioni del disciplinare, e i relativi compiti specifici;

8. Qualsiasi regola specifica per l’etichettatura del prodotto agricolo o alimentare; 9. Gli eventuali requisiti da rispettare in virtù di disposizioni comunitarie o nazionali.

Solitamente tutti i prodotti DOP fanno parte di un consorzio di tutela, cioè di un organismo formato da produttore e/o trasformatore che si prefigge come scopo la tutela, la promozione e la valorizzazione del prodotto stesso. Tali enti svolgono anche la funzione di informare il consumatore e di vigilare sulle produzioni. La salvaguardia del prodotto da abusi, atti di concorrenza sleale e di contraffazione e da un uso improprio della denominazione del prodotto da parte di chi non ne ha i requisiti, rappresenta uno dei compiti fondamentali, che vengono svolti dagli Enti di certificazione (Fittante et al., 2010).

L’Art. 5 del Reg. CE/510/2006 dispone che i prodotti DOP siano riconosciuti ed ammessi ad uno speciale elenco di prodotti tutelati dalla Comunità Europea, al termine di una procedura di valutazione operata da appositi uffici, che termina con l’approvazione del Disciplinare di Produzione, proposto dalle aziende interessate e la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea.

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IGP

La definizione di IGP dal Regolamento CE/510/2006 è: “il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione

e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata”.

La Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.) è un marchio di origine che viene attribuito a quei prodotti agricoli alimentari per i quali una determinata qualità, reputazione o altra caratteristica dipende dall’origine geografica e la cui produzione, trasformazione e/o elaborazione avviene in un’area geografica determinata (Fittante et al., 2010). Anche la IGP individua dei prodotti legati al territorio e, per ottenere il riconoscimento come IGP è necessario che almeno una fase del processo produttivo avvenga nell’area geografica indicata. Il collegamento con il territorio per questa forma di protezione risulta meno stretto o di natura diversa rispetto a quello che caratterizza la DOP. Per la IGP si richiede infatti, che il prodotto sia originario di una determinata zona geografica di cui porta il nome, ed è quindi sufficiente che anche solo una delle fasi dell’intero ciclo produttivo avvenga all’interno della zona delimitata.

Anche i produttori di alimenti IGP sono tenuti a seguire le rigide regole sulle modalità di produzione, sulle caratteristiche del prodotto e del territorio necessarie per conferire al prodotto la sua specificità, che sono stabilite dal Disciplinare di Produzione (analogo a quello della DOP), e il rispetto di tali regole è garantito da uno specifico organismo di certificazione di prodotti, indicato nell’ Art. 11 del Reg. CE/510/2006 (Fittante et al., 2010).

Anche i prodotti IGP sono riconosciuti ed ammessi in uno speciale elenco di prodotti tutelati dall’Unione Europea, dopo opportuna valutazione di appositi uffici che approvano e predispongono la pubblicazione del Disciplinare di Produzione nella Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea. La differenza sostanziale tra denominazione d’origine protetta e indicazione geografica protetta sta nell’intensità del legame tra prodotto e territorio. Nel primo caso, infatti, è stabilito che le caratteristiche del prodotto siano legate “essenzialmente o esclusivamente” all’ambiente geografico, inteso sia come suolo, clima, esposizione al sole, vegetazione, ma anche come fattori umani ovvero manualità, professionalità specifiche ed esperienza. Tutte le fasi del processo produttivo non a caso devono svolgersi nel contesto territoriale definito. Nel secondo caso, invece, è sufficiente che una delle caratteristiche del prodotto o anche la sua reputazione siano dovute all’origine. Anche una sola

Figura 2 Logo europeo delle IGP (http://www.poliedra.it/IMP/im ages/progetti/materiali/svilupp o2.pdf)

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15 delle fasi del processo produttivo è svolta nel contesto territoriale individuato (Del Principe et al., 2012).

STG

La Specialità Tradizionale Garantita (STG), istituita dal Reg. CEE/2082/1992, successivamente abrogato dal Reg. CE/509/2006, rappresenta un marchio di origine introdotto dall’Unione Europea, volto a tutelare le produzioni che siano caratterizzate da composizioni o metodi di produzione tradizionali.

Affinché un prodotto agricolo o alimentare possa fregiarsi della menzione di specialità tradizionale garantita, secondo quanto recita il Reg. CE/509/2006, deve essere ottenuto utilizzando materie prime tradizionali, oppure deve essere caratterizzato da una componente tradizionale o aver subito un metodo di produzione e/o trasformazione che rispecchia un tipo tradizionale di produzione e/o di trasformazione. Dalla presente definizione è facile desumere come l’attenzione si sposti dal legame con il territorio al metodo produttivo (Del Principe et al.,2012).

Questa certificazione, relativa alle STG, diversamente dagli altri marchi a tutela, si rivolge a prodotti agricoli e alimentari che abbiano una “specificità” legata alla modalità di produzione o alla composizione connessa alla tradizione di una determinata zona, ma senza vincolo alcuno di origine della materia prima agricola, né di localizzazione delle attività di trasformazione (Ismea, 2006). Il Reg. CE/509/2006 precisa le definizioni di “specificità” e di “tradizionale”:

«specificità» è l’elemento o l’insieme di elementi che distinguono nettamente un prodotto agricolo o alimentare da altri prodotti o alimenti analoghi appartenenti alla stessa categoria;

«tradizionale» è un uso sul mercato comunitario, attestato da un periodo di tempo che denoti un passaggio generazionale; questo periodo di tempo dovrebbe essere quello generalmente attribuito ad una generazione umana, cioè almeno 25 anni.

Per tutelare queste specialità, l’Unione Europea ha creato un meccanismo di registrazione: chiunque, in qualsiasi parte del territorio dell’Unione Europea produca una data specialità nel rispetto del disciplinare che viene approvato al momento della registrazione, può utilizzare il nome registrato (Ismea, 2006).

La Commissione tiene un registro aggiornato delle Specialità Tradizionali Garantite riconosciute a livello comunitario a norma del Reg. CE/509/2006.

L’Italia si conferma il primo Paese per numero di riconoscimenti DOP, IGP, STG, assegnati dall’Unione Europea (Figura 4). In base ai dati ISTAT stilati il 15 dicembre 2016, i prodotti

Figura 3 Logo europeo delle STG (http://www.poliedra.it/IMP/im ages/progetti/materiali/svilupp o2.pdf)

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16 agroalimentari di qualità al 31 dicembre 2015 sono 278, tra questi, quelli attivi sono 266. Tra il 2005 e il 2015, le specialità DOP, IGP e STG con certificazione UE sono passate da 154 a 278 (https://www.istat.it/it/files/2016/12/Report_DOPIGP_2015.pdf?title=Prodotti+agroalimentari+di+ qualit%C3%A0+-+15%2Fdic%2F2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf).

Figura 4 Prodotti agroalimentari di qualità DOP, IGP e STG per settore e stato di attività. Al 31 dicembre 2014 e 2015. (https://www.istat.it/it/files/2016/12/Report_DOPIGP_2015.pdf?title=Prodotti+agroalimentari+di+qualit%C3%A0+-+15%2Fdic%2F2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf)

Sicuramente lo strumento delle denominazioni geografiche ha avuto il pregio e la funzione di “risvegliare” i sistemi produttivi di molti prodotti tipici, offrendo loro una prospettiva di valorizzazione sul mercato. Non si deve però dimenticare che tali marchi sono anche segno di qualità, e che l’intero “sistema di denominazioni” possiede una reputazione che è allo stesso tempo effetto e causa della reputazione delle singole denominazioni delle aziende che producono il prodotto protetto. Il valore aggiunto dei prodotti certificati deriva dall’immagine di qualità che i singoli prodotti che hanno ottenuto il riconoscimento sono in grado di comunicare e dalla capacità di trasmettere valori, quali: il rispetto della tradizione ed il forte legame con il territorio; che rappresentano aspetti importanti della qualità (Arfini et al., 2010).

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17

BIOLOGICO

Un’ulteriore opportunità offerta al consumatore, quando ricerca una produzione di qualità, è la scelta del biologico.

Nel 1991 la Comunità Europea ha emanato il Reg. CEE/2092/1991 sull’agricoltura biologica e sulla relativa etichettatura dei prodotti agricoli ed alimentari, un intervento normativo che, per la prima volta nella storia dell’agricoltura, disciplina un metodo di produzione.

Il grande interesse mostrato nei confronti dei prodotti da agricoltura biologica, oltre a comportare una rapida e consistente crescita del settore, ha reso necessari continui aggiornamenti al regolamento: dal 1991 ad oggi son ben 23 le modifiche e le integrazioni effettuate al testo originale.

Nel 1999 è stato emanato il Reg. CE/1804/1999 che integra il Reg. CEE/2092/1991 per quanto riguarda le produzioni biologiche di origine animale. Entrambi i regolamenti stabiliscono le norme tecniche di produzione con il metodo biologico e gli allegati definiscono le caratteristiche dei prodotti di cui è ammessa l’utilizzazione per la concimazione e protezione delle piante e l’alimentazione animale.

Dal 1° gennaio 2009 sono entrate in vigore le nuove direttive UE relative alla produzione, al controllo e all’etichettatura dei prodotti biologici:

• Reg. del Consiglio CE/834/2007 del 28 giugno 2007 relativo alla produzione biologica e alle modalità di etichettatura dei prodotti biologici e che abroga il Reg. CEE/2092/91;

• Reg. della Commissione CE/889/2008 del 5 settembre 2008 che riporta le norme dettagliate di produzione, etichettatura e controllo incluso il suo primo emendamento alle norme di produzione per il lievito biologico;

• Reg. della Commissione CE/1235/2008 dell’8 dicembre 2008 che riporta norme dettagliate in materia di importazione di prodotti biologici provenienti da Paesi Terzi.

Da luglio 2010 tutti i prodotti alimentari biologici preconfezionati nell’Unione Europea devono recare obbligatoriamente il logo biologico dell’UE. L’Eurofoglia, il cui uso è disciplinato dal Reg. CE/271/2010, può essere usata su base volontaria nel caso di prodotti bio non confezionati o altri prodotti bio importati da paesi Terzi. Per i prodotti trasformati, almeno il 95% degli ingredienti in esso presenti deve essere biologico.

Il quadro normativo attuale si prefigge di avviare un nuovo piano di orientamento per un continuo e sempre più implementato sviluppo della produzione biologica al fine di ottenere sistemi colturali sostenibili ed un’ampia varietà di prodotti di alta qualità

(https://ec.europa.eu/agriculture/organic/index_it).

Figura 5 Eurofoglia: Logo europeo del biologico

(http://www.poliedra.it/IMP/im ages/progetti/materiali/svilupp o2.pdf)

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18 Lo scenario, che questo processo si prefigge di avviare, è appunto quello di assicurare l’integrità degli habitat naturali e seminaturali e, più in generale, della biodiversità, prerequisito dei servizi ecosistemici, sui quali si fonda il benessere delle comunità

(http://www.isprambiente.gov.it/files/biodiversita/8Agricolturabiologica.pdf).

L’agricoltura biologica è un’agricoltura alternativa rispetto a quella “convenzionale” per gli aspetti che riguardano sia la gestione dell’azienda agricola, sia la produzione agricola stessa. L’agricoltura biologica o <bio>, per usare l’epiteto con cui è nota in Italia, ha come obiettivo principale non il raggiungimento di elevati livelli di produzione, ma il mantenimento e l’aumento dei livelli di sostanza organica nei suoli, riducendo o eliminando del tutto l’apporto di fertilizzanti di sintesi, di erbicidi e di fitofarmaci. Sono ammesse per il controllo delle infestanti solo misure manuali, meccaniche e termiche.

Il metodo di produzione biologico esplica pertanto una duplice funzione: rispondere alla domanda del consumatore, che richiede un alimento sicuro e salubre e allo stesso tempo fornire beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale (http://www.isprambiente.gov.it/files/biodiversita/8Agricolturabiologica.pdf).

Anche gli allevamenti biologici, come la produzione agricola, seguono criteri normativi definiti dall’UE, attraverso il Reg. CE/1804/1999 e, a livello nazionale, con il D.M. n. 91436 del 4 agosto 2000.

L’art. 11 del Reg. CE/1804/1999 riporta che:

• riguardo all’origine degli animali, gli animali biologici nascono e sono allevati in aziende biologiche;

• riguardo alle pratiche zootecniche e alle condizioni di stabulazione, gli addetti alla cura degli animali possiedono le necessarie conoscenze e competenze di base in materia di salute e benessere degli animali;

• riguardo alla riproduzione, la riproduzione avviene con metodi naturali, ma è ammessa l’inseminazione artificiale;

• riguardo all’alimentazione, l’alimentazione deve essere costituita da mangimi per gli animali dall’azienda in cui sono tenuti o da altre aziende biologiche della stessa regione;

• riguardo alla prevenzione delle malattie e alle cure veterinarie, la prevenzione delle malattie è realizzata mediante la selezione delle razze e dei ceppi; i medicinali veterinari allopatici di sintesi chimica, compresi gli antibiotici, possono essere utilizzati in caso di necessità e a condizioni rigorose, ove risultino inappropriati i prodotti omeopatici, fitoterapici e altri prodotti.

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PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI

Accanto a questi prodotti che si fregiano del riconoscimento ufficiale europeo, ogni regione italiana vanta una vasta gamma di prodotti che possono essere inclusi tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT).

Vengono definiti “prodotti agroalimentari tradizionali” quei prodotti i cui metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura sono praticati in un certo territorio in maniera omogenea e secondo regole tradizionali e protratte nel tempo, per un periodo non inferiore a 25 anni (art.8 del D. Lsg. n. 173 del 30 aprile 1998; D. Lgs. n. 350 dell’8 settembre 1999).

I PAT sono caratterizzati da una produzione limitata in termini quantitativi, indissolubilmente legata ai valori culturali tipici del territorio, spesso relativi ad aree territoriali molto ristrette.

Tali prodotti di nicchia sono inclusi in un apposito elenco, predisposto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali con la collaborazione delle Regioni. Con il D.M. 350/1999 lo stesso Ministero, di concerto con le Regioni, ha attivato gli strumenti necessari a salvaguardare questi alimenti conservandone le metodiche tradizionali di produzione, ricchezza della cultura italiana, e assicurando nel contempo ai consumatori le necessarie condizioni di igiene e sicurezza alimentare (Orban et al., 2013).

2.2 LA CERTIFICAZIONE DI PROCESSO

Per “Certificazione di Processo” si intende la certificazione del sistema di gestione del processo produttivo e delle relative risorse, che assicura la conformità alle norme prescrittive e ai regolamenti europei.

L’Industria alimentare applica in modo esteso le certificazioni di processo a garanzia della sicurezza e della qualità del processo produttivo.

A differenza delle certificazioni di prodotto viste in precedenza, gli attestati che valorizzano una o più fasi della catena produttiva sono spesso relative al tema della sicurezza alimentare. L’ obiettivo di tali certificazioni è quello di garantire l’ottenimento dei requisiti e degli obiettivi specificati, ai fini di assicurare al consumatore la rispondenza dell’insieme delle attività correlate all’ottenimento di risultati qualitativi predeterminati.

Si spazia quindi dalla prevenzione, come l’attuazione di metodi di autocontrollo standard rilasciati dalla CE, alla cura, come l’adozione di sistemi di tracciabilità che permettano di ricostruire a valle e a monte della filiera il percorso di un alimento, qualora ve ne sia necessità. Queste tipologie di certificazioni hanno lo scopo di unificare e standardizzare i requisiti minimi per la tutela della salute pubblica, focalizzandosi sulla sostenibilità, la responsabilità sociale e la gestione della qualità

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20 (http://www.federalimentare.it/Documenti/PosizioniFEDERALIMENTARE/Normazione%20e%20 Certificazione%20nell%27Industria%20Alimentare.pdf).

HACCP

Tra le disposizioni rese operative dall’Unione Europea, l’introduzione del sistema di autocontrollo secondo il sistema HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point), risalente al 1993, rappresenta certamente lo strumento più efficace in materia di garanzia della sicurezza alimentare, sempre più pretesa dai consumatori.

A seguito delle Direttive Comunitarie CEE 43/1993 e 3/1996 è stato emanato in Italia il 26 maggio 1997 il D. Lsg. 155/1997, oggi abrogato, che all’art. 3 “prevede che il responsabile dell'azienda alimentare debba garantire che la preparazione, la trasformazione, la fabbricazione, il confezionamento, il deposito, il trasporto, la distribuzione, la manipolazione, la vendita o la fornitura, compresa la somministrazione dei prodotti alimentari, siano effettuati in modo igienico e sicuro” ; a questo sono seguite ulteriori disposizioni legislative e circolari esplicative, relative all’obbligo dell’implementazione delle norme di autocontrollo e di corretta prassi igienica nelle imprese operanti nel settore agro-alimentare.

La normativa di riferimento è attualmente costituita dal Reg. CE/178/2002 e dal Reg. CE/852/2004. Data l’ampia gamma di imprese alimentari prese in considerazione dal Reg. CE/852/2004 e la grande varietà di prodotti alimentari e di procedure di produzione applicate agli alimenti, sono state redatte dalla Commissione Europea delle Linee Guida generali sullo sviluppo e sull’applicazione delle procedure basate sui principi del sistema HACCP come documento diretto ad aiutare tutti coloro che intervengono nella catena della produzione alimentare.

L’obiettivo principale è istituire un sistema documentato con cui l’impresa sia in grado di dimostrare di aver operato in modo da minimizzare i rischi per il consumatore (http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/sviluppo2.pdf).

FILIERA CONTROLLATA

Questa certificazione di processo, rilasciata da enti terzi privati ed autonomi, oltre a garantire la rintracciabilità lungo la filiera, assicura l’utilizzo di validi piani di prevenzione HACCP da parte di tutte le imprese appartenenti alla filiera stessa.

Figura 6 Logo Certificazione HACCP

(http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/svilupp o2.pdf)

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21 Ha infatti lo scopo di implementare le normative europee e di fornire un’ulteriore garanzia di sicurezza per il consumatore finale.

Questa certificazione si basa su 2 concetti chiave: • Filiera

• Rintracciabilità

La certificazione di Filiera controllata, secondo il DTP 035 (Disciplinare Tecnico di Produzione relativo all’Ente di certificazione), attesta che, con ragionevole attendibilità, viene garantita e documentata lungo tutta la filiera la rintracciabilità del prodotto e che sono gestiti in tutte le fasi i requisiti igienico-sanitari, secondo i criteri dell'HACCP.

Ai fini della certificazione è indispensabile che:

• le Organizzazioni della filiera siano tra loro correlate da vincoli contrattuali (per la condivisione degli obiettivi comuni) e coordinate dall'Organizzazione che richiede la certificazione e si assume la responsabilità della conformità del prodotto rispetto alle norme di riferimento.

• L'Organizzazione predisponga un documento (il Disciplinare Tecnico) condiviso da tutti i soggetti della filiera.

Il Disciplinare dovrà contenere:

▪ la descrizione della filiera stessa,

▪ l'indicazione degli accordi contrattuali tra le parti, ▪ le specifiche responsabilità

▪ le modalità di gestione e verifica del sistema di rintracciabilità e degli aspetti di igiene e sicurezza

(https://www.csqa.it/CSQA/Norme/Sicurezza-Alimentare/Filiera-controllata).

La tracciabilità viene definita come la “possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione”. Lo scopo è quello di far sì che tutto ciò che entra nella catena alimentare conservi traccia della propria storia, seguendone il percorso, che va dalle materie prime fino alla distribuzione al consumatore finale. La tracciabilità consiste nell’utilizzare le “impronte”, ovvero la documentazione raccolta dai vari operatori coinvolti nel processo di produzione, per isolare un lotto produttivo in caso di emergenza, e consentire al produttore e agli organi di controllo, che hanno il dovere di vigilare sulla sicurezza alimentare del consumatore, di gestire e controllare eventuali situazioni di pericolo attraverso la conoscenza dei vari flussi produttivi (http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/sviluppo2.pdf).

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22

SISTEMA DI QUALITA’ NAZIONALE DI PRODUZIONE INTEGRATA (SQNPI)

La Legge n. 4 del 3 febbraio 2011 "Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari" istituisce il Sistema di qualità nazionale di produzione integrata (SNQPI) e prevede un processo di certificazione volto a garantire l'applicazione delle norme tecniche previste nei disciplinari di produzione integrata regionali nel processo di produzione e gestione della produzione primaria e dei relativi trasformati. Le suddette verifiche verranno svolte da Organismi di Controllo sulla base dei piani di controllo regionali redatti conformemente alle presenti Linee guida nazionali per la redazione dei piani di controllo della produzione integrata (di seguito LGNPC).

Le LGNPC riportano l'insieme dei controlli che i piani di controllo regionali devono prevedere affinché possa essere rilasciata la certificazione in merito alla conformità del processo produttivo e del prodotto alle norme tecniche previste nel disciplinare. I prodotti conformi al Sistema possono essere contraddistinti con lo specifico segno distintivo del SQNPI appositamente registrato (http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/sviluppo2.pdf).

LE NORME ISO 9001

Le normative per la certificazione nascono alla fine degli anni settanta in Gran Bretagna mediante l’introduzione di una norma, la BS 5750, che sotto il controllo del British Standard Institution, permetteva di certificare la qualità in numerosi settori merceologici, attraverso l’adozione volontaria di una serie di standard aziendali predefiniti.

L’Organismo Internazionale di Standardizzazione (ISO) con sede a Ginevra, ha emesso tali norme a partire dal 1988; queste hanno assunto la denominazione definitiva di ISO 9000 nel 1994, diventando in seguito un punto di riferimento per tutti i paesi.

Dal duemila in poi si sono succedute una serie di revisioni. Attualmente coesistono due edizioni: ISO 9001:2008 e ISO 9001:2015.

Le aziende possono scegliere quale edizione della ISO 9001 adottare, sebbene l'edizione 2015 sia quella più aggiornata e contenga le migliori pratiche nella gestione della qualità.

La norma ISO 9001 è lo standard internazionalmente riconosciuto per il Sistema di Gestione Qualità (SGQ). Si tratta dello standard più utilizzato al mondo per i Sistemi di Gestione della Qualità, con

Figura 7 Logo Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata (http://www.poliedra.it/IMP/image s/progetti/materiali/sviluppo2.pdf)

Figura 8 Logo ISO 9001

(http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/ sviluppo2.pdf)

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23 oltre 1,1 milioni di certificati emessi ed un numero di aziende certificate in 178 Paesi. Esse costituiscono delle norme di gestione aziendale che mirano al raggiungimento di un determinato livello qualitativo del prodotto in maniera continuativa e consentono di trasferire il concetto teorico di qualità alla dinamica realtà industriale.

Il sistema prevede la razionalizzazione ed il sistematico monitoraggio dei processi aziendali. Tali azioni consentono una riduzione degli scarti, con conseguente abbattimento dei costi, offrendo al contempo un aumento della percezione di omogeneità del prodotto acquistato da parte del cliente. Il sistema qualità costituisce pertanto "quell'insieme di strutture organizzative, responsabilità, procedure, attività, capacità, risorse che garantisce che i prodotti i processi o i servizi rispondano ai requisiti di qualità" (ISO 9001).

Il sistema qualità può essere schematicamente suddiviso in quattro sotto-sistemi: di governo, di azione, di controllo e di supporto, che agiscono su distinte aree funzionali all'interno dell'impresa:

1. Sotto-sistema di “governo” riguarda l'organizzazione degli obiettivi aziendali, la predisposizione delle procedure gestionali e la redazione del manuale della qualità unitamente all'affidamento delle responsabilità e dei compiti ai dipendenti dei vari livelli;

2. Sotto-sistema “azione”, caratterizzato da aspetti meramente operativi, riguarda le fasi progettuali, di industrializzazione, i collaudi ed i rapporti con i fornitori;

3. Sotto-sistema di “controllo” racchiude tutti gli aspetti relativi alle procedure informative, preventive ed analitiche, oltre a monitorare i costi direttamente derivanti dalla politica della qualità;

4. Sotto-sistema di “supporto”, comprende l'addestramento, la formazione e tutti i possibili

risvolti connessi alle attività di supporto

(http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/sviluppo2.pdf).

BRC

Il processo progressivo della globalizzazione dei mercati ha investito in maniera massiccia anche le filiere alimentari ed ha comportato un incremento dell’interesse verso i sistemi di garanzia della qualità, da parte non solo del settore pubblico, ma anche da parte dei privati, che sono divenuti il principale motore dello sviluppo di sistemi di gestione della sicurezza alimentare in Europa (Swoffer, 2005).

Più che le agenzie governative ed intergovernative preposte alla sicurezza degli alimenti sono state le grandi compagnie distributive e le multinazionali

Figura 9 Logo Certificazione BRC

(http://www.poliedra.it/IMP/images/progett i/materiali/sviluppo2.pdf)

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24 dell’agroalimentare a favorire l’introduzione di standard di sicurezza alimentare accettati a livello globale, fino a divenire dei prerequisiti sempre più richiesti dalle catene di distribuzione internazionali (Farm Foundation, 2004).

Nell’ambito della certificazione agroalimentare si è diffusa sempre più l’adesione volontaria a standard privati, che rappresentano oggi una grande opportunità per le aziende che dimostrano impegno verso la sicurezza e la qualità dei prodotti (Henson et al., 2001).

Tra questi differenti standard di qualità introdotti rientrano certamente il British Retail Consortium (BRC) Global Standard-alimentare e la IFS (International Food Standard) che costituiscono le certificazioni maggiormente richieste dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO) (Figura 10) (BRC, 2015).

Ambedue gli standard (BRC e IFS) sono facilmente integrabili l’uno con l’altro e poggiano le loro fondamenta sul sistema di norme ISO 9001 oltre che sulle modalità di autocontrollo basate sul sistema HACCP.

Figura 10 Paesi in cui risultano diffuse le certificazioni BRC e IFS (http://www.poliedra.it/IMP/images/progetti/materiali/sviluppo2.pdf)

Sviluppatisi originariamente all’interno del Regno Unito nel 1998 per conto degli operatori della Grande distribuzione, gli standard BRC “Global Standard for Food Safety”, si sono progressivamente diffusi in tutto il mondo ed hanno trovato un’ampia applicazione nei principali paesi dell’Unione Europea, negli Stati Uniti ed in altri paesi economicamente avanzati.

(26)

25 Tali norme costituiscono dei modelli di certificazione ad adesione volontaria del settore alimentare e possono essere applicate a qualsiasi organizzazione aziendale operante nel settore della produzione, della trasformazione e del confezionamento alimentare. L’applicazione dello standard è infatti in molti casi un prerequisito necessario per esportare i prodotti verso le compagnie di distribuzione ed in particolare per le aziende del settore “food” che operano nei mercati anglosassoni.

Tale sistema di certificazione, diffuso quasi esclusivamente tra le grandi catene della distribuzione, ha stabilito una serie di norme standard basate su norme giuridiche generali che integrano le norme del sistema nazionale di certificazione del paese in cui vengono applicate (Farm Foundation, 2004). Nel corso degli ultimi tredici anni, BRC ha sviluppato il BRC Global Standard, per specificare i requisiti di distribuzione, produzione, confezionamento e stoccaggio e per garantire la sicurezza dei prodotti alimentari e di consumo.

Tali standard sono stati aggiornati più volte nel corso degli anni ed attualmente l’ultima versione del BRC vs 7 (Global Standard for Food Safety) è stata pubblicata a Gennaio 2015. Essi risultano articolati in quattro differenti tipologie: standard globale per la sicurezza alimentare; standard globale per i prodotti di consumo; standard globale per gli imballaggi; standard globale per la conservazione e la distribuzione.

IFS

Lo standard IFS (International Food Standard) costituisce uno standard internazionale ad adesione volontaria, sviluppato nel 2000 dall’Unione Federale delle Associazioni del Commercio tedesche (Hauptverband des Deutschen Einzelhandels-HDE) e dall'Organo di rappresentanza dei Retailer francesi (Fédération des Entreprises du Commerce et de la Distribution - FCD).

Questo rappresenta il corrispettivo dello standard BRC per i paesi dell'area centro - europea: Austria, Svizzera, Francia e Germania.

Lo standard, considerato un passo fondamentale per la qualifica dei fornitori da parte delle principali catene distributive europee, si è diffuso sempre più nel tempo anche in Italia, in quanto applicabile a qualsiasi azienda che opera nella Grande distribuzione nei settori della produzione, della trasformazione e del confezionamento alimentare.

Il sistema di gestione implementato dallo standard IFS è stato realizzato sulla base della metodologia di pianificazione HACCP e risulta incentrato sulla qualità e sulla sicurezza igienico-sanitaria dei prodotti. Tale certificazione permette di selezionare fornitori di prodotti alimentari da parte della

Figura 11 Logo Certificazione IFS (http://www.poliedra.it/IMP/images/pr ogetti/materiali/sviluppo2.pdf)

(27)

26 Grande Distribuzione secondo il criterio della certificata capacità di fornire prodotti sicuri, conformi alle specifiche contrattuali e ai requisiti di legge (DNV, 2015).

Il 1 luglio 2014 è entrata in vigore la versione 6 dello Standard IFS, che deriva dall’analisi del precedente standard in termini di esperienze accumulate e risultati ottenuti da tutti gli operatori coinvolti. L’ esperienza, così come le modifiche legislative e la revisione del documento guida GFSI, hanno portato all’esigenza di lavorare a una revisione della versione 5. E’ stato messo a punto un questionario dettagliato ed esaustivo, tale da consentire a tutti gli utenti di essere coinvolti

nell’ulteriore sviluppo dell’IFS Food Standard

(28)

27

3 IL LARDO DI COLONNATA IGP

3.1 STORIA DEL LARDO: IMMAGINAZIONE E LEGGENDE

Più che di storia, per il lardo di Colonnata, occorre parlare di geografia, di cronaca e di tradizione popolare.

Ricostruire una storia dettagliata di questo alimento si è infatti rivelato poco praticabile; nonostante le accurate ricerche di archivio non è stato possibile trovare documentazioni in merito, che possano far luce su questo prodotto, la sua origine, il suo peso economico, gli eventuali provvedimenti normativi e legislativi che l’abbiano, nel tempo, riguardato.

La parola lardo esiste già sia nella Grecia antica (-stèar), che a Roma (lardum), ma aveva significati differenti da quelli di oggi. E’ quindi presumibile che abbia una storia, tutta da ricostruire e che, nel corso dei secoli, abbia significato realtà diverse. La parola greca indicava semplicemente il “grasso”, come quella latina, da cui è derivata poi la nostra attuale. E, almeno fino a qualche decennio fa, questo sembrava essere il significato prevalente: grasso di origine animale da utilizzare come condimento. Il concetto di alimentazione nel corso dei secoli ha subito un’evoluzione radicale, fino a concretizzare il proprio significato negli ultimi anni. Ci si rende conto che di lardo si parla sempre come condimento e non sembra esistere nessuna documentazione, se non molto recente, su quel salume da consumarsi crudo e sotto sale, che definiamo con questa parola e quindi neanche su quello di Colonnata, mentre il maiale gode sicuramente di una larga presenza e considerazione, positiva o negativa che sia, oltre che negli studi agronomici e scientifici, anche nei documenti storici, letterari, religiosi ed archeologici (Montanari, 2010).

3.1.1 DAL MITO ALLA STORIA

Il poeta greco Omero, nel Libro XIV dell’Odissea, presenta Eumeo, fedele servitore addetto alla cura dei maiali, che offre ospitalità a Ulisse, suo padrone, trasformato in vecchio mendicante irriconoscibile e, per rifocillarlo, si dirige nel porcile e prelevati due porcelli:

“... li uccise ambedue

li strinò e spezzettò, li infilzò agli spiedi.

E arrostitili portò i pezzi e li pose accanto ad Odisseo caldi, con i loro spiedi, li cosparse di bianca farina. Mescé in una ciotola vino dolcissimo,

si sedette di fronte e invitandolo disse:

“Mangia ora, o straniero, quello che posseggono i servi,

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28 Da questi pochi versi risulta evidente le differenze tra quanto apprezzavano i greci del tempo e noi: un piccolo maiale viene considerato cibo da servi, mentre quelli grossi e particolarmente grassi, sono cibo per gli aristocratici.

Poi egli ordinò ai compagni, il chiaro mandriano: «Portate il maiale migliore, perché lo ammazzi per l’ospite venuto da fuori: ne trarremo profitto anche noi, che peniamo da sempre affannandoci per i porci dalle bianche zanne: e gli

altri divorano il nostro lavoro senza fatica». (Odissea 14, 413-417) […]

E, spartendo, divise tutto in sette porzioni: ne offrì una alle Ninfe e ad Ermete, il figlio di Mala, pregando; distribuì le altre a ciascuno; onorò Odisseo con

l’intiera schiena del porco dalle bianche zanne...” (Odissea 14, 434-438).

La sacralizzazione dell’uccisione, della cottura e della spartizione della carne del maiale, fa supporre che il consumo di questa carne avvenisse in particolari momenti, quando si sacrificava agli dei un animale. A Ulisse-mendicante viene offerta, in segno di rispetto, l’intera schiena, la parte da cui, oggi, si ricava il lardo, considerata, evidentemente, nella dieta “mediterranea” dell’epoca, la migliore, da offrire all’ospite, perché più grassa.

3.1.2 DIVERGENZE RELIGIOSE

Le diverse credenze religiose e le numerose civiltà, hanno avuto pareri discordanti sulla visione del maiale, allevato come animale domestico e poi impiegato come alimento. Tra i testi antichi, la Bibbia, nel Levitico, nella parte dedicata alle leggi relative alla purità, considera il maiale immondo e proibisce di allevarlo e di mangiarne la carne “perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo” (Lev. 11,7).

Il cristianesimo non detta tabù alimentari a differenza di altre culture religiose e non considera nessun cibo impuro, e quindi neanche il maiale, anche se non sono presenti passi, tratti dai libri sacri, dove viene detto esplicitamente (Mt. 15,17-19), ma la sua immagine conserva un significato negativo e continua ad essere utilizzata per indicare il degrado umano e morale, come nel Vangelo di Luca (15,11 sgg) dove, per misurare lo stato di abiezione del “figliol prodigo”, se ne fa un guardiano di porci. Per la religione ebraica il tabù resta invece assoluto nei confronti di questo animale, che nei tempi più antichi viveva, in Palestina allo stato brado e non era molto diverso dal cinghiale, (il salmo 80 parla della vigna devastata dal cinghiale, da intendersi, sembra, come maiale allo stato brado) (Miegge e

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29 al., 1968). I motivi della proibizione così assoluta per gli ebrei del consumo di carne di maiale, affondano le loro radici in prescrizioni risalenti sicuramente ad epoche remote e avevano probabilmente poco a che fare con ragioni igienico-sanitarie, visto che il maiale veniva allevato e mangiato. Molto più realisticamente gli autori moderni concordano sul fatto che il maiale, monogastrico e onnivoro, si deve nutrire, a differenza di vacche e buoi, quando mancano i boschi di querce, di alimenti di cui si nutre anche l’uomo.

Secondo Marvin Harris (1990), il maiale era molto diffuso, durante il Neolitico in Palestina e nel Medio Oriente in genere, come sembrano dimostrare gli scavi archeologici di Gerico, in Cisgiordania, e di Jarmo, nel Kurdistan iracheno, e quelli relativi all’età del bronzo (4000 a.C. fino al 2000 a. C.) di molti villaggi mediorientali, dove sono state reperite molte ossa di maiali, che rivelano anche il passaggio dalle specie selvatiche a quelle addomesticate.

Il fatto che il consumo di carne di un determinato animale possa venir colpito da proibizioni e tabù, non sarebbe perciò il risultato di pregiudizi irrazionali, ma risponderebbe a ragioni economiche: risultato di un calcolo costi-benefici da un punto di vista economico e ambientale e del riconoscimento del vantaggio rappresentato dai ruminanti, perché erbivori e capaci di produrre non tanto carne, ma latte e prodotti derivati, concime e forza lavoro. Questo spiegherebbe perché anche altre civiltà e altre religioni, precedenti agli ebrei, avessero tra le loro credenze, la proibizione di allevare e consumare maiali: i fenici, gli egiziani e i babilonesi. Così come, dopo gli ebrei, lo stesso tabù è stato ereditato dall’Islam (Harris, 1990).

3.1.3 IN COSTANTE EVOLUZIONE

Le citazioni di autori antichi e moderni che, a titolo diverso, hanno affrontato tematiche inerenti alla figura del maiale, del suo grasso, del suo allevamento e della conservazione delle sue carni, sono numerosissime, ma sostanzialmente tutte ricollegano l’origine di questo animale a due grandi civiltà che rappresentano i capisaldi della storia.

Si ricava infatti che il maiale, allevato o allo stato brado o del tutto selvatico era, in Grecia e successivamente a Roma, l’animale più utilizzato per l’alimentazione e che le sue carni venivano consumate solo da una piccola porzione di popolazione, probabilmente non spesso e in occasioni di feste e cerimonie religiose (Montanari, 2010).

I “barbari” di origine germanica, grandi mangiatori di carne, conquistando i territori francesi, tedeschi, italiani e del nord-Europa, impongono i loro modelli alimentari, ma, nello stesso tempo, finiscono per venir influenzati a loro volta dai tipi di alimentazione e di prodotti che vi trovano (Flandrin, 1983).

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