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Il knowledge management come strumento di ottimizzazione dei processi: il caso di una multinazionale italiana

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Indice

Introduzione...p. 6

1. Organizzazione: una realtà in continuo mutamento...p. 11

1.1 Il primo, grande cambiamento: la rivoluzione industriale...p. 11

1.2 Alle origini dell'organizzazione del lavoro: taylorismo e fordismo...p. 12

1.3 La crisi del fordismo: fattori endogeni e fattori esogeni...p. 15

1.3.1 Mayo e Maslow: Human Relations e questione motivazionale...p. 16

1.3.2 Una realtà nuova in fabbrica...p. 18

1.3.3 Seconda metà del '900: gli anni '60 e '70...p. 19

1.3.4 Gli anni '80: il cambiamento arriva dal Giappone...p. 20

1.3.5 Gli anni '90 e il sorgere dei nuovi mercati...p. 27

2. La realtà attuale: l'organizzazione nella new

economy...p. 30

2.1 Un mondo che va di corsa: scenari e prospettive...p.30

2.2 L'organizzazione: struttura e tipologie...p. 31

2.3 I nuovi assetti organizzativi e l'importanza del fattore umano...p. 36

2.3.1 Decentramento, esternalizzazione, outsourcing...p. 40

(2)

2.4 La figura chiave: il leader...p. 44

2.4.1 Il ruolo del leader nel mondo che cambia...p. 44

2.4.2 La leadership al servizio della conoscenza e del cambiamento...p. 47

2.4.3 Il leader verso la conoscenza: comunicatore e costruttore di cultura aziendale...p. 48

2.5 Verso l'azienda etica: essere buoni conviene...p. 51

2.6 Il nuovo ruolo del management...p. 54

3. La conoscenza: un asset strategico immateriale...p. 56

3.1 La società dell'informazione...p. 56

3.2 Dati, informazioni, conoscenza...p. 58

3.2.1 I dati...p. 58

3.2.2 Le informazioni...p. 59

3.2.3 La conoscenza...p. 61

3.3 I mercati della conoscenza...p. 63

3.3.1 Reciprocità, reputazione, altruismo: condividere la conoscenza...p. 64

3.3.2 Inefficienze e patologie del mercato della conoscenza nelle organizzazioni...p. 65

3.3.3 Sviluppo e valore dei mercati della conoscenza...p. 67

3.4 I diversi tipi di conoscenza...p. 69

3.4.1 Conoscenze tacite e conoscenze esplicite...p. 70

3.5 La conoscenza come fonte di vantaggio competitivo...p. 73

(3)

4. L'utilizzo della conoscenza all'interno

dell'organizzazione...p. 79

4.1 La generazione della conoscenza...p. 79

4.2 Rendere la conoscenza un patrimonio aziendale: l'esplicitazione della conoscenza...p. 84

4.2.1 Il knowledge management...p. 90

4.3 La conoscenza come patrimonio collettivo: la comunità di pratica...p. 94

4.3.1 La comunità di pratica come creatrice di valore e di nuove conoscenze...p. 96

4.3.2 Istituzionalizzare la comunità di pratica...p. 98

4.3.3 Struttura e dinamica della comunità di pratica...p. 100

4.3.4 Il ciclo di vita della comunità di pratica...p. 101

4.3.5 Obiettivi, ruoli e membri...p. 103

4.4 L'organizzazione che apprende: learning organization e

knowledge-creating company...p. 105

4.5 Conoscenza e formazione...p. 109

4.5.1 Formazione “in pillole” e knowledge reuse...p. 111

5. Tecnologie di supporto al knowledge management...p. 115

5.1 La comunità di pratica online...p. 116

5.2 MyOpen e ShareNet: esempi di network di comunicazione e condivisione...p. 119

(4)

5.3.1 Intranet aziendali e diffusione della conoscenza...p. 124

5.4 La condivisione attraverso la dematerializzazione: cloud e

paperless office...p. 126

5.5 Comunicare per condividere: sistemi di videocomunicazione e videocollaborazione...p. 128

5.6 Formazione e collaborazione attraverso le tecnologie web: il

webinar...p. 129

6. Un caso pratico: il knowledge management

nell'esperienza di una multinazionale italiana...p. 133

6.1 Un progetto per la patrimonializzazione dell'esperienza...p. 163

6.2 Lo sviluppo del sistema di knowledge management...p. 134

6.3 Realizzare un sistema di knowledge management efficace: un'operazione complessa...p. 137

6.4 Una testimonianza diretta: sfide e risultati nella gestione

degli strumenti di knowledge management...p. 139

6.4.1 Una sfida prima di tutto culturale...p. 139

6.4.2 Il knowledge management come strumento per la qualità...p. 142

6.4.3 L'operatività del sistema di knowledge management...p. 144

6.4.4 Strumenti e tecnologie utilizzati...p. 145

6.4.5 Benefici, ostacoli e prospettive: un bilancio globale...p. 146

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Introduzione

Conoscenze, esperienze, abilità e competenze in un contesto produttivo non sono nulla se non vengono patrimonializzate e condivise: il knowledge management è lo strumento che meglio di ogni altro permette alle realtà aziendali di avvalersi delle tecniche necessarie a rendere efficace ed efficiente il flusso di informazioni e conoscenza che si sviluppa al loro interno.

L'attuale realtà ambientale è caratterizzata da standard di competitività elevati e da sfide che si presentano continuamente a livello globale a ciascun attore. In un contesto simile, le impostazioni scaturite dalle prime due rivoluzioni industriali – taylorismo e fordismo – risultano obsolete, incapaci di dotare le organizzazioni produttive degli strumenti necessari a renderle competitive sui mercati globalizzati: se ieri si perseguivano one best way e organizzazione scientifica del lavoro, oggi è necessario un approccio orientato al risultato, alla flessibilità e all'osmosi con l'ambiente esterno. L'azienda diventa modulare ed integrata, si avvale di strumenti come l'esternalizzazione e la comakership, si dota di mezzi per valorizzare al massimo il proprio capitale intangibile, costituito dall'insieme di best practice, esperienze, conoscenze, informazioni e

know-how che si possiede.

Una domanda di mercato sempre più critica, elastica e segmentata richiede la capacità di differenziare il proprio prodotto, inserendolo nella giusta fascia di mercato e rivestendolo di valore anche immateriale: questo approccio è perseguibile attraverso una efficace e ponderata strategia di marketing – basata soprattutto sulla raccolta e interpretazione di dati e informazioni provenienti dall'ambiente esterno – e uno sviluppo dei servizi di assistenza e consulenza abbinati al prodotto finale. In quest'ottica il knowledge

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management si configura come uno strumento essenziale per

perseguire, raggiungere ed ampliare il proprio vantaggio competitivo sulla concorrenza: la modalità di gestione dell'informazione come

asset strategico può decretare il successo o il fallimento di

un'azienda.

Al fine di comprendere pienamente la portata del valore degli strumenti di gestione della conoscenza nelle organizzazioni produttive, è necessario ripercorrere quella che è stata, nei decenni, l'evoluzione degli assetti organizzativi a livello industriale che si sono succeduti. Per questo il punto di partenza è la rivoluzione industriale, con i suoi fattori scatenanti ma, soprattutto, con le sue conseguenze sociali ed economiche: tra XVIII e XIX secolo il “vecchio mondo” deflagra, lasciando spazio ad una lunga era di sviluppo industriale che porterà ad una crescente esigenza di cambiamento all'interno delle aziende. Le tesi di Frederick Winslow Taylor e di Henry Ford avranno un impatto molto forte sulla realtà di allora, non solo dai punti di vista produttivo ed economico, ma anche sociale e politico. Taylorismo e fordismo cambieranno il profilo delle grandi organizzazioni in tutto il mondo, costituendo un esempio da seguire in termini di organizzazione della produzione e del lavoro in fabbrica per decenni.

Nel corso degli anni '50, '60 e '70 – man mano che nei Paesi occidentali andavano formandosi i mercati di massa – questo modello si diffuse di pari passo alle crescenti automazione ed automatizzazione dei processi produttivi: dal lavoro manuale in catena di montaggio di un tempo si era passati ad un minor coinvolgimento fisico dell'impegno umano nelle diverse fasi produttive, ma i principi generali di fordismo e taylorismo permanevano quasi immutati. Dagli anni '80 però si assiste ai primi cambiamenti significativi, portati da novità sorte nell'immediato

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secondo dopoguerra in estremo Oriente: il modello giapponese – detto lean production o toyotismo, in quanto sviluppatosi in seno alla nota azienda automobilistica nipponica – si stava rapidamente affermando e diffondendo in virtù delle nuove capacità di interpretazione circa la domanda di mercato e ad una filosofia rivoluzionaria in termini di organizzazione del lavoro nelle fabbriche. Alcuni esempi del funzionamento del modello giapponese sono riscontrabili nel just-in-time e nel total quality management, che ancora oggi sono parte integrante della filosofia produttiva di numerose realtà aziendali di successo.

Nel ventennio a cavallo tra '900 e duemila si assisterà, parallelamente, ad un'inarrestabile globalizzazione dei mercati e della concorrenza: si afferma il concetto di mercato mondiale, e per le aziende si fa sempre più necessario saper competere tra le numerose insidie e sfide poste dalla forte concorrenza presente, perseguendo anche – come detto – lo sviluppo e la valorizzazione di asset intangibili. Da qui l'esigenza di svilupparsi come learning organization e come knowledge creating organization, organizzazioni capaci di apprendere e di generare nuove conoscenze attraverso la messa in comune di competenze e informazioni da parte di tutti i collaboratori: lo scopo è quello di creare un circolo virtuoso di conoscenza ed esperienza che, una volta patrimonializzato e condiviso anche mediante strumenti informatici, sarà in grado di generare nuove competenze e di produrre valore per l'intera azienda. Questo flusso di risorse intangibili necessita, per svilupparsi efficacemente, di una situazione ambientale che incentivi i singoli alla collaborazione e alla cooperazione tra di loro, che li incoraggi a scambiarsi informazioni ed esperienze e a sviluppare un approccio proattivo e di problem-solving di fronte alle difficoltà. La figura del leader, con le sue capacità comunicative e di generazione di cultura aziendale, rappresenta un

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fattore fondamentale nell'esito positivo di questa metodologia organizzativa.

Con riferimento al nuovo contesto si parla quindi di new

economy, espressione del “mondo che va di corsa” e che non

ammette sconti verso chi si fa trovare impreparato al cospetto delle nuove sfide poste. Il secondo capitolo ne analizza i tratti principali, attribuendo particolare rilievo alle nuove strutture organizzative, più snelle e modulari, alla nuova figura del leader, all'”azienda etica” e ad una interpretazione rinnovata del ruolo del management.

Procedendo, nei capitoli 3 e 4 si affrontano più direttamente le questioni inerenti la conoscenza, la sua natura ed il suo utilizzo strategico in ambito aziendale: viviamo nella società dell'informazione, dove le aziende necessitano di raccogliere ed interpretare al meglio Big Data ed esperienze intangibili al fine di tramutarle in valore. Vengono quindi presi in esame i mercati della conoscenza, la natura di dati, informazioni e conoscenze, ed i processi che permettono di esplicitare la conoscenza tacita, rendendola archiviabile e fruibile. Di seguito, viene analizzata una particolare forma di lavoro in squadra, mirante a mettere in comune esperienze, informazioni e conoscenze in un gruppo più o meno chiuso, formato da persone in contatto tra loro online o offline: la comunità di pratica. Questo strumento è ritenuto tra i più efficaci nell'agevolare un compiuto flusso di conoscenze all'interno delle aziende, creando vere e proprie community in cui possono essere coinvolti anche soggetti esterni all'organizzazione e nelle quali tutti contribuiscono all'accrescimento collettivo del gruppo in termini di know-how e best

practice.

Passando al quinto capitolo l'obiettivo si sposta sulle tecnologie utilizzate nei sistemi di knowledge management, tra cui le

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cosiddette ICT – information and communication technologies – che mettono a disposizione, spesso a costi contenuti, possibilità infinite per le organizzazioni, non solo da un punto di vista gestionale – si pensi a cloud e reti intranet – ma anche formativo e di coaching. Si fanno riferimenti alla dematerializzazione di documenti e dati, a favore di forme digitali più facilmente modificabili, trasferibili e condivisibili; vengono inoltre presi in esame alcuni casi aziendali riguardanti strumenti sviluppati per facilitare la gestione di dati e conoscenze, attraverso network di condivisione e comunicazione.

Al termine, viene preso in esame un caso concreto e molto esplicativo di quanto finora esposto che vede coinvolta una nota multinazionale italiana la quale, a partire da una decina di anni fa, ha implementato degli strumenti di knowledge management volti a facilitare la patrimonializzazione delle esperienze come soluzione ai problemi, migliorare il controllo della sede centrale sulle attività svolte nei vari cantieri dislocati dentro e fuori l'Europa e garantire un più efficace monitoraggio degli standard qualitativi prefissati. Al fine di effettuare un'analisi che vertesse il più possibile sull'esperienza concreta è stata intervistata la dirigente responsabile conoscenza del sistema di knowledge management, che ha evidenziato risultati e difficoltà inerenti la sua attività, delineando un interessante quadro della realtà aziendale, con particolari riferimenti alla cultura e alla predisposizione dei singoli nei confronti di questo strumento.

(11)

1.

Organizzazione: una realtà in continuo

mutamento

1.1 Il primo, grande cambiamento: la rivoluzione

industriale

La rivoluzione industriale rappresenta un punto di svolta cruciale nella storia degli ultimi secoli: attraverso diverse innovazioni tecnologiche e scientifiche, si assistette al passaggio da un sistema prevalentemente basato sull'agricoltura e l'artigianato ad uno caratterizzato dall'introduzione di macchine sempre più automatizzate nel sistema produttivo e dallo sfruttamento di nuove risorse energetiche, come il carbone.

Il mondo non sarà mai più come prima: la rivoluzione industriale tra il XVIII e XIX secolo muterà radicalmente quelli che erano gli assetti della vecchia realtà – non solo dal punto di vista economico e produttivo, ma anche sociale, politico, demografico e organizzativo – creandone di nuovi, più sfaccettati e differenziati, ma anche più imprevedibili e ibridi. Le ripercussioni saranno enormi, incommensurabili, e porranno le basi per lo sviluppo del mondo moderno, così come oggi lo conosciamo.

Lo sviluppo del nuovo assetto toccherà in modo particolarmente decisivo l'organizzazione stessa del lavoro: il cambiamento avvenuto aveva creato un diverso panorama sociale e organizzativo, dentro e fuori le fabbriche. L'Inghilterra del XVIII-XIX secolo andava popolandosi di ampie zone industriali, interi quartieri delle città assumevano il profilo di dormitori per i lavoratori, le stesse

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industriali e le alte ciminiere fumanti delle fabbriche. In questa dimensione, gli interrogativi che si ponevano erano molteplici: nelle fabbriche urgeva rispondere a quesiti nuovi dal punto di vista organizzativo, capaci di interpretare in modo efficiente ed efficace la nuova realtà del momento.

I vecchi canoni organizzativi del lavoro non erano più in grado di governare i grandi assembramenti produttivi, dotati ora di macchine e forza lavoro in quantità, né di rispondere ai quesiti posti dall'obsolescenza strutturale del comando organizzativo in fabbrica; tutto era cambiato radicalmente: da un'impostazione prevalentemente artigianale, auto-organizzativa e individuale, dove il singolo era responsabile dell'intero processo produttivo del bene e deteneva tutte le conoscenze necessarie a portarlo a termine, si stava passando ad una dimensione etero-organizzata, parcellizzata e

collettiva del lavoro e della produzione.1 Nasceva la produzione di

massa, e con essa la grande distribuzione verso un mercato dagli spazi sconfinati. Nuove interpretazioni organizzative erano quanto mai necessarie.

1.2 Alle origini dell'organizzazione del lavoro: taylorismo e

fordismo

Frederick Winslow Taylor nacque in Pennsylvania, negli Stati Uniti, il 20 marzo 1856. Fin da giovane lavorò come apprendista operaio e in seguito si laureò in ingegneria meccanica. A lui si deve, in buona parte, la consistente evoluzione che l'organizzazione del lavoro ebbe a cavallo tra '800 e '900. Gerarchia decisionale, addestramento al compito della forza lavoro, trasmissione top-down delle direttive, eliminazione di tempi morti, sprechi e movimenti

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inutili, parcellizzazione delle competenze e dei compiti, rigida definizione dei ruoli e delle mansioni, raggiungimento e conservazione del one best way – la soluzione ottimale in termini di efficienza ed efficacia produttive, individuazione dell'uomo giusto al posto giusto: questi erano i capisaldi della sua teoria, che andranno concretizzandosi nella realtà organizzativa e produttiva grazie ad un altro ingegnere: Henry Ford (1863-1947).

“Ogni cliente può avere un'auto colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero.” (Henry Ford)

Nell'applicazione fordista il lavoro viene rigidamente distinto tra componente esecutiva e componente direttiva: le due dimensioni sono, rispettivamente, definite nella forza lavoro e nel management. Da questa impostazione è possibile derivare come l'azione materiale all'interno del ciclo produttivo subisca una netta separazione dalla conoscenza, che resta esclusivo appannaggio della direzione; si assiste in questo senso alla scomposizione delle capacità dell'individuo e del suo bagaglio professionale in funzione di un

meccanismo etero-organizzato, a cui il lavoratore viene subordinato.2

Appare evidente come, in un contesto che vedeva privilegiati gli aspetti meccanici e direttamente riferiti alla produttività del lavoro, ci fosse ben poco spazio per l'accrescimento della risorsa umana come oggi siamo abituati a considerarla; anzi, già all'epoca si sviluppò un dibattito trasversale, tra diversi studiosi, sugli effetti psicosociali – ma anche produttivi – dell'applicazione nel lungo periodo di un simile modello.

2 Sbrana M., Torre T. (1996), Conoscenza e gestione del capitale umano: la learning organization, Milano, FrancoAngeli.

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Di fatto, l'apprendimento da parte della manodopera nelle imprese era considerato come scarsamente importante: ognuno doveva limitarsi ad apprendere esclusivamente la propria mansione,

tra l'altro parcellizzata e codificata per facilitarne l'esecuzione.3

Il sistema d'insieme delle conoscenze era fortemente centralizzato, nessun decentramento era previsto all'interno dei vari contesti applicativi: questo infatti – a livello di gestione della conoscenza così come a livello decisionale – secondo la logica fordista aumentava il rischio di dispersione delle informazioni e di confusione tra i ruoli, causando quindi inefficienze lesive del buon andamento della produzione; in virtù di questo, fondamentale era considerata la necessità di conservare l'unitarietà e l'esclusività di gestione delle conoscenze, funzione svolta a livello dirigenziale.

La metodologia organizzativa fordista si basava sull'attribuzione al singolo lavoratore del minor numero di funzioni possibile, fino a raggiungerne una sola, portando agli estremi l'idea di

divisione del lavoro4; l'ufficio di programmazione era il vero centro

decisionale a livello operativo dell'organizzazione, in quanto dalle sue direttive dipendevano lo studio dei tempi di lavoro, il bilancio dei costi del materiale, il costo degli articoli fabbricati, l'analisi delle spese, la standardizzazione, la direzione dell'ufficio del personale e dell'ufficio

paga, il miglioramento di metodi e impianti.5

Anche il ruolo del top management era fondamentale all'interno della strutturazione aziendale di tipo fordista, soprattutto se analizzato in una prospettiva gerarchica – come è appunto quella in esame – che vedeva nella trasmissione verticale, da monte a valle, delle direttive e delle decisioni il suo caposaldo principale. Le leve

3 Ivi, p. 31.

4 Jones D. T., Womack J. P., Ross D. (1993), La macchina che ha cambiato il mondo, Milano, Rizzoli, p. 34.

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dell'esercizio del potere direttivo in azienda avevano carattere prevalentemente autoritario, ed erano esercitate in virtù di una superiorità gerarchica nei confronti dei sottoposti, con particolare riferimento anche al controllo ex-ante sulle procedure e sulle modalità

di esecuzione dei compiti.6

L'autorità decisionale fordista, se da un lato pensata in funzione di un miglioramento tecnico a livello produttivo e organizzativo, dall'altro porterà al sorgere di una conflittualità tra direzione aziendale e manodopera che contribuirà all'evoluzione – e al superamento – di tale assetto basato sull'organizzazione scientifica

del lavoro.7

Nei fatti Taylor tentò, parallelamente, di garantire alcune migliorie alle condizioni in cui gli operai si trovavano negli ambienti industriali, anche attraverso l'elargizione di una serie di emolumenti di natura economica. Tuttavia, era proprio la natura eminentemente economica degli incentivi previsti a inficiare il miglioramento della condizione lavorativa: se infatti la molla che doveva spingere i soggetti verso un più razionale impiego delle proprie capacità aveva natura esclusivamente economica, le istanze umanitarie che avevano accompagnato il pensiero taylorista venivano inevitabilmente a

mancare.8

1.3 La crisi del fordismo: fattori endogeni e fattori esogeni

La crisi e il conseguente parziale superamento del sistema produttivo fordista ha origine, fondamentalmente, da due macrofattori: il primo consiste nella crescita di movimenti sociali e

6 Sbrana M., Torre T. (1996), Conoscenza e gestione del capitale umano: la learning organization, Milano, FrancoAngeli, p. 39.

7 Semenza R. (2014), Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Milano, FrancoAngeli. 8 Gabassi P. G. (2006), Psicologia del lavoro nelle organizzazioni, Milano, FrancoAngeli, p. 28.

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culturali che denunciavano le storture di questo modello, tramite l'attività sindacale così come quella di ricerca sociale; il secondo è dovuto al grande successo avuto dal modello di produzione snella sviluppatosi in Giappone nella seconda metà del '900, la lean

production.

Non meno importanza hanno comunque rivestito la sempre più serrata concorrenza internazionale scaturita dalla globalizzazione e un diverso approccio al consumo da parte degli individui,

maggiormente orientati alla qualità e alla varietà dei prodotti.9

Il mondo fordista prevedeva una rigida distinzione tra componente esecutiva e componente direttiva nell'organizzazione del lavoro; l'azione era mantenuta separata dalla conoscenza, le capacità dell'individuo scomposte in funzione di un meccanismo a cui il lavoratore era subordinato. La nuova realtà – detta post-fordista prima e post-industriale in seguito – vedrà lo svilupparsi di nuove definizioni e interpretazioni del lavoro, meno strumentali e manuali, più cerebrali. Il contenuto principale del lavoro diverrà la conoscenza di principi teorici, degli obiettivi cui il lavoro è indirizzato e della

sintesi delle informazioni su un problema produttivo.10

1.3.1 Mayo e Maslow: Human Relations e questione

motivazionale

A porre le fondamenta della crisi del modello fordista contribuirono diversi fattori e concause tra loro collegati, alcuni contingenti, altri originati dalle storture del modello stesso. Lo studioso di scienze sociali Elton Mayo (1880-1949), sociologo e

9 Semenza R. (2014), Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Milano, FrancoAngeli. 10 Sbrana M., Torre T. (1996), Conoscenza e gestione del capitale umano: la learning organization,

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psicologo australiano, è considerato il fondatore dello Human

relations movement, un movimento di pensiero che privilegiava, pur

sempre all'interno di un contesto organizzativo e gestionale di tipo fordista, un approccio maggiormente orientato al cosiddetto fattore umano, considerato come variabile essenziale dei meccanismi del lavoro. Attraverso diversi studi frutto di anni di lavoro – su tutti quelli svolti a cavallo degli anni '20 e '30 presso gli stabilimenti Hawthorne della Wastern Electric Company di Chicago e un'azienda tessile di Philadelphia – Mayo pose in evidenza come le dinamiche umane e sociali, prima di quelle economiche, avessero un ruolo decisivo all'interno delle dinamiche lavorative ed organizzative. In particolare, il ruolo delle persone nel contesto della fabbrica veniva interpretato come un elemento fondamentale per la realizzazione di soluzioni organizzative più efficaci ed efficienti: il morale e le interazioni sociali dei lavoratori assumevano un'importanza strategica nelle dinamiche interne all'organizzazione, in un funzione di un miglior clima interno e conseguentemente di una maggior produttività.

Il sistema fordista iniziava quindi ad essere messo in discussione, se non altro in virtù di un suo perfezionamento dal punto di vista della gestione delle risorse umane: l'organizzazione in gruppi dei lavoratori, l'incentivo alla spontanea auto-organizzazione, l'allentamento del rigido regime di controllo sulla manodopera, la possibilità del raggiungimento di un obiettivo realisticamente

perseguibile, un maggior coinvolgimento umano del management11

rappresentavano nuove proposte mediante le quali perfezionare – e

non necessariamente superare, come sottolineeranno i critici12 – le

modalità gestionali fordiste, anche in un'ottica di contenimento della spinta sindacale e di ricomposizione del conflitto interno alle

11 Gabassi P. G. (2006), Psicologia del lavoro nelle organizzazioni, Milano, FrancoAngeli.

12 Manciulli M., Potestà L., Ruggeri F. (1986), Il dilemma organizzativo: l'inosservanza funzionale delle

norme come approccio critico allo studio dei fenomeni organizzativi e tecnologici, Milano,

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fabbriche.

Lo psicologo statunitense Abraham Maslow (1908-1970) approfondì ulteriormente le dinamiche psicosociali che l'uomo sviluppa nell'ambiente in cui agisce – la fabbrica, nel nostro caso – elaborando la cosiddetta piramide dei bisogni, espressione del legame presente tra questi e le motivazioni, articolata in cinque livelli principali: bisogni riferiti alle sfere della fisiologia, della sicurezza, dell'appartenenza, della stima e dell'autorealizzazione. Maslow sosteneva che saper rispondere ai bisogni dell'individuo favorisse un approccio più orientato favorevolmente verso il fattore umano, anche nelle organizzazioni; era quindi necessario affrontare anche i problemi motivazionali, in quanto è proprio la motivazione ad avere origine dalla necessità di soddisfare determinati bisogni, che sono appunto quelli rappresentati nella piramide. Dai suoi studi emerse come i principi tayloristici fossero in aperto contrasto con le esigenze di crescita e di maturazione dei soggetti, in quanto l'organizzazione deve essere strutturata in modo tale da favorire le esigenze degli individui

che operano al suo interno.13

1.3.2 Una realtà nuova in fabbrica

Non furono solo gli studi e le proposte di importanti interpreti delle dinamiche psicosociali a porre interrogativi al metodo dell'organizzazione scientifica del lavoro: le dinamiche interne alle organizzazioni stavano cambiando, e nel XX secolo una serie di fattori sociali e demografici contribuì a forzare il processo di evoluzione.

Cambiamenti nei soggetti che operano all'interno dell'organizzazione, come il maggior grado di scolarizzazione e la

13 Giannini M., Turini V. (2010), La sicurezza sul lavoro. Aspetti gestionali e organizzativi, Milano, FrancoAngeli.

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crescita delle aspirazioni personali della forza lavoro; i problemi connessi a una visione troppo meccanicistica dell'organizzazione del lavoro, causa di ripetitività, alienazione, disturbi psichici e sociali; le novità in campo tecnologico, che introdussero nuovi processi di automazione e sviluppo; una nuova e diversa concezione del prodotto, da standardizzato a sempre più differenziato, e della qualità, in virtù di un maggiore approccio critico del consumatore nei confronti del bene; i cambiamenti, anche legislativi, avvenuti nel mercato del lavoro e l'accresciuto livello di sindacalizzazione; l'evoluzione del mercato, che portò ad una variazione nel rapporto tra domanda e offerta, ad un diverso tipo di richieste dei consumatori e

all'ampliamento mercati.14 All'interno delle fabbriche il conflitto

raggiunse gradualmente livelli elevati, quando ormai in Europa le trattative sindacali vertevano unicamente sulla riduzione dell'orario di

lavoro.15

Tutto ciò concorse a decretare la necessità di aggiornare modelli gestionali che erano stati concepiti decenni prima per una realtà che ormai apparteneva al passato.

1.3.3 Seconda metà del '900: gli anni '60 e '70

Le nuove teorie sulle relazioni umane avevano portato una ventata d'aria fresca all'intero della rigida interpretazione dello

scientific management fordista, ma non ne cambiarono radicalmente

gli assetti: erano necessarie altre turbolenze, stavolta di natura prettamente esogena, affinché il modello apparisse definitivamente come ormai obsoleto. Le diverse metodologie organizzative all'interno della seconda metà del secolo scorso sono suddivisibili

14 Semenza R. (2014), Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Milano, FrancoAngeli. 15 Jones D. T., Womack J. P., Ross D. (1993), La macchina che ha cambiato il mondo, Milano, Rizzoli.

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temporalmente, in un lasso di tempo che va dagli anni '60 agli anni '90.16

Tra gli anni '60 e '70 il modello fordista risultava ancora essere nettamente il più applicato: durante gli anni '60 – si pensi al

boom economico italiano – le grandi masse accedevano per la prima

volta ai mercati da consumatori, e rispetto alla quantità offerta dai produttori la domanda di mercato era quindi molto alta; ciò permetteva alle aziende industriali di produrre grandi quantità di beni a prezzi via via decrescenti grazie alle economie di scala, attraverso

l'uso di sistemi di produzione molto rigidi.17 Beni perlopiù

standardizzati, con una scarsa attenzione in termini di qualità e differenziazione nei segmenti di mercato: si pensi che fino agli anni '60 Ford, General Motors e Chrysler da sole coprivano il 95% delle vendite di automobili negli Stati Uniti, e che sei differenti modelli

costituivano l'80% delle automobili vendute.18

Gli anni '70 si connotarono invece per le innovazioni tecnologiche che favorirono implementazioni di macchine e sistemi di produzioni più efficienti, sempre in un'ottica di integrazione verticale, vale a dire di gestione in azienda dell'intera filiera produttiva, da monte a valle. La produzione continuava a “spingere” la domanda, secondo i canoni del cosiddetto sistema push.

1.3.4 Gli anni '80: il cambiamento arriva dal Giappone

Gli anni '80 videro l'affermazione a livello globale di una metodologia organizzativa e produttiva che può essere definita come

16 Giannini M., Turini V. (2013), L'azienda industriale. La fabbrica, l'apparato, l'organizzazione, Milano, FrancoAngeli.

17 Ivi, p. 172.

18 Jones D. T., Womack J. P., Ross D. (1993), La macchina che ha cambiato il mondo, Milano, Rizzoli, pp. 48-49.

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rivoluzionaria: la lean production, il cosiddetto modello giapponese della produzione snella. La storia di questo modello, dalla sua nascita ai suoi sviluppi fino alla sua esportazione globale, è ripercorribile

cronologicamente19: tutto nasce nell'immediato secondo dopoguerra,

in un Giappone in piena crisi economica post-bellica che stentava a ripartire. In particolare, la casa automobilistica Toyota attraversava un periodo di forte difficoltà: scarsità di materiali, pochi fornitori, spazi ridotti, organico ridimensionato. Il manager di allora era Taiichi Ōno (1912-1990), un ingegnere specializzato in meccanica che seppe trasformare i problemi strutturali cui l'azienda era soggetta in opportunità di cambiamento: le ristrettezze in cui la Toyota era costretta ad operare divennero un punto di forza dell'azienda giapponese, che implementò un sistema snello – lean – di produzione alternativo a quello fordista.

Il modello, noto anche come toyotismo, ha permesso il superamento delle rigidità tipiche del modello fordista, cercando di combinare due modalità di produzione apparentemente antitetiche: la

produzione artigianale di qualità e quella di massa a basso costo.20

Proprio le ristrettezze economiche in cui giaceva Toyota imposero una rivisitazione dei volumi di spesa: questo contribuì alla formazione di un assetto organizzativo basato sull'ottimizzazione e il massimo sfruttamento delle risorse disponibili. Per questo si parla, con riferimento al toyotismo, di magazzino minimo ed eliminazione delle scorte inutilizzate, in un'ottica che si interseca anche con la filosofia orientale tendendo all'eliminazione del muda, il superfluo: attese, movimentazione non necessarie, difetti, scorte, processi e lavorazioni non necessarie, sovraccarichi di lavoro, sovrapproduzione

19 Bonazzi G. (2001), Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale, Milano, FrancoAngeli. 20 Giannini M., Turini V. (2013), L'azienda industriale. La fabbrica, l'apparato, l'organizzazione,

(22)

non necessaria di beni21. Caratteristica del modello giapponese è

infatti la minor necessità di scorte e spazi fisici, unite alla diminuzione dei tempi di allestimenti dei macchinari e del numero degli addetti; parallelamente, le tecnologie presenti in azienda si rivelavano di natura più frugale, facili da utilizzare e riparabili senza la necessità di

una costosa assistenza esterna.22

Anche ai dipendenti veniva chiesto qualcosa di diverso rispetto a quanto si era abituati a vedere nell'ambito del fordismo, dove la divisione burocratica del lavoro marcava confini ben precisi tra le mansioni, presumendo che gli addetti di linea non avessero competenze sufficienti per eseguire compiti che esulassero dalle mansioni strettamente assegnate. Un sistema che scoraggiava, inevitabilmente, l'apprendimento di nuove abilità e l'assunzione di responsabilità che non fossero espressamente e formalmente

previste.23

E' evidente come nel sistema lean invece il management agisca verso una maggiore sollecitazione alla partecipazione della forza lavoro al fine di creare una polivalenza di capacità professionali nel singolo, stimolare il lavoro di squadra, rendere meno netti i confini tra una mansione e l'altra, promuovere l'intercambiabilità dei ruoli e la flessibilità delle squadre di lavoro a seconda dell'entità dei compiti e del flusso produttivo.

Il principio di autonomazione – in giapponese jidoka – concretizza il coinvolgimento dei dipendenti, attraverso il loro diritto-dovere di interrompere il flusso produttivo ogni volta che si ravvisassero anomalie o difetti, segnalandolo attraverso particolari indicatori luminosi – gli andon – e permettendo così una correzione

21 Ibid.

22 Bonazzi G. (2001), Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale, Milano, FrancoAngeli, p. 168.

(23)

immediata che garantiva un rendimento del 100% della linea di

assemblaggio, la quale praticamente non si fermava mai.24

Si sviluppa quindi un'interpretazione nuova del fattore umano all'interno del sistema produttivo: se il fordismo richiedeva lo svolgimento di un compito il più possibile semplice e ripetitivo, il modello giapponese richiede alla singola risorsa di attivarsi intellettualmente per collaborare con i colleghi e controllare il prodotto in itinere. L'obiettivo da raggiungere, attraverso l'automiglioramento continuo – kaizen – tipico della cultura zen, era quello della qualità totale.

Se, da un lato, lo one best way taylorista imponeva gerarchicamente una soluzione scientifica e tendenzialmente definitiva, dall'altro il kaizen della filosofia giapponese presuppone soluzioni mai definitive e continuamente migliorabili; anche il lavoro dei dipendenti stessi diviene oggetto di kaizen, in quanto chiamati a collaborare il più possibile nell'eliminazione delle imperfezioni di

processo e di prodotto.25 Proprio in virtù di questo, una delle

caratteristiche principali del modello nipponico è l'utilizzo del lavoro ii

team, sulla base dell'idea che l'apprendimento e il miglioramento

della performance aziendale saranno massimizzati in un sistema basato su compiti specializzati ed una rilevante disciplina

nell'esecuzione.26

La lean production si concretizzò come una modalità organizzativa basata su flessibilità, sincronizzazione, essenzialità, ergonomia, frugalità, efficienza e qualità, che andava coinvolgere a

24 Jones D. T., Womack J. P., Ross D. (1993), La macchina che ha cambiato il mondo, Milano, Rizzoli, p. 65.

25 Bonazzi G. (2001), Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale, Milano, FrancoAngeli, p. 170.

26 Sbrana M., Torre T. (1996), Conoscenza e gestione del capitale umano: la learning organization, Milano, FrancoAngeli.

(24)

360° l'azienda, in tutte le sue parti: a tal proposito si parla di lean

thinking, la filosofia gestionale originata dall'intuizione di Toyota. Gli

obiettivi da perseguire erano chiari: nuove modalità di gestione dello sviluppo di nuovi prodotti, eliminare la necessità di tenere scorte inutilizzate, produrre gamme di prodotti in piccola serie senza perdere i vantaggi della produzione in grande serie, eliminare i difetti del prodotto finito, ricerca del miglioramento continuo coinvolgendo l'intera struttura aziendale.

Tutto ciò portò allo studio e allo sviluppo di una serie di metodologie di gestione della produzione come il just in time, volte a calibrare strettamente il flusso degli input – componenti e materie prime – in base alle necessità della produzione, e il visual control, consistente in un controllo immediato sulle anomalie: uno strumento che consente ai responsabili della produzione di seguire direttamente

lo svolgersi delle operazioni e le performance nei reparti.27

La ristrutturazione organizzativa investì anche i rapporti tra impresa e fornitori, così come quelli tra impresa e clienti: al fine, infatti, di ottimizzare i livelli di produzione in base alle immediate richieste del mercato, era necessario fare sì che l'azienda fosse in continuo possesso di informazioni affidabili sull'entità della domanda e mantenesse un rapporto molto stretto con alcuni fornitori strategici, sia in termini di sviluppo dei prodotti che di condivisione delle conoscenze.

Contrariamente a quanto previsto nella produzione di massa, basato sulle economie di scala garantite dalla fabbricazione di grandi quantità di prodotto programmate con largo anticipo basandosi su calcoli probabilistici in merito alle richieste del mercato, il just in

time rende possibile una produzione di prodotti differenziati, in serie

27 Giannini M., Turini V. (2013), L'azienda industriale. La fabbrica, l'apparato, l'organizzazione, Milano, FrancoAngeli, p. 204.

(25)

brevi e con aggiustamenti continui, sia in termini di qualità che di quantità. Queste due modalità produttive sono rispettivamente definite sistema push, in cui la produzione “spinge” la domanda di mercato, e sistema pull, in cui la produzione è “tirata” dalla

domanda.28

Al fine di mantenere funzionante il complesso insieme di ingranaggi concatenati, era necessario che l'azienda assorbisse in tempo reale gli stimoli provenienti dal mercato: un rapporto basato sull'osmosi con l'ambiente esterno, esattamente il contrario di quanto previsto dal one best way di Taylor e Ford, soluzione produttiva ottimale, scientifica e immutabile che era necessario proteggere dalle influenze esterne.

Il fornitore, che nella concezione fordista occupava un ruolo di secondo piano e col quale era meglio evitare stabili e strette collaborazioni al fine di evitare di divenirne dipendenti, assume nel modello giapponese un'importanza strategica di primo piano. La Toyota aveva pochi fornitori, tutti localizzati nell'immediatezza dei propri stabilimenti e soprattutto accuratamente selezionati: di quello che poteva apparire un limite, l'azienda asiatica seppe fare un vero punto di forza, attraverso il coinvolgimento dei fornitori strategici anche nella produzione, e instaurando rapporti integrati con pochi fornitori qualificati geograficamente vicini, responsabilizzati sulla qualità e sfruttati in termini di potenziale conoscitivo e know-how. Anche al fornitore viene quindi permesso di introdurre innovazioni, anzi, la collaborazione era finalizzata proprio a questo, al punto da essere incentivata anche tra i fornitori stessi, attraverso il loro raggruppamento in gruppi di sub-fornitori al fine di facilitare l'interscambio di aiuti e informazioni sia tra di loro che con l'azienda,

28 Bonazzi G. (2001), Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale, Milano, FrancoAngeli, p. 167.

(26)

sulle basi di un rapporto improntato alla trasparenza e alla reciproca fiducia.

Nei rapporti con i fornitori sussistono diversi fattori chiave29:

l'integrazione organizzativa, in termini di sviluppo e ricerca comuni; l'integrazione informatica, sviluppata attraverso reti di collegamento informatico per lo scambio e la continua condivisione di dati, informazioni, e conoscenze; l'integrazione culturale, mediante la diffusione di elementi di natura culturale come la formazione, la consulenza e il trasferimento di conoscenza, dall'azienda ai fornitori, selezionati in base ad un sistema di valutazione su potenzialità, prestazioni e affidabilità nel tempo. L'ubicazione geografica stessa dei fornitori ricopriva un'importanza strategica, specialmente nell'ottica del sistema just in time: questi dovevano infatti essere localizzati nelle immediate vicinanze dell'azienda madre, per garantire una

comunicazione immediata e un rapito deposito delle consegne.30

Secondo diversi studiosi, il segreto del successo del modello giapponese risiedeva nell'altissima capacità intellettuale degli operai, capaci di muoversi disciplinatamente all'interno dei meccanismi produttivi e portatori di competenze non limitate alla destrezza nell'esecuzione delle singole operazioni, ma estese alla soluzione di

problemi concettualmente nuovi posti dalle innovazioni tecnologiche.31

Il modello giapponese superò la rigida impostazione gerarchica del fordismo, attraverso la cosiddetta orizzontalizzazione organizzativa, consistente nell'appiattimento dei vincoli formali e dei ruoli gerarchici in favore di una più compiuta cooperazione collettiva in azienda. La nuova frontiera a cui la filosofia lean intende portare consiste nella creazione di una perfetta simmetria tra le informazioni

29 Giannini M., Turini V. (2013), L'azienda industriale. La fabbrica, l'apparato, l'organizzazione, Milano, FrancoAngeli.

30 Ivi, p. 172. 31 Ivi, p. 170.

(27)

in ingresso, provenienti dai mercati, e i volumi di produzione in uscita, attraverso l'implementazione di un sistema flessibile, efficiente e sempre connesso con la realtà esterna.

In questa metodologia così innovativa rappresentata dalla

lean production, che porterà alla concezione di paradigmi come quello

della fabbrica integrata, non mancheranno comunque gli interrogativi, legati specialmente all'esportabilità di tale modello e alla sua capacità di continuare a generare risorse in grado di soddisfare con efficienza le richieste del mercato.

Una realtà insomma complessa, all'interno della quale è necessario tenere in considerazione il mix di elementi frutto della continua interazione dell'organizzazione con l'ambiente di riferimento: si pensi ai cambiamenti che hanno caratterizzato i mercati di sbocco, il mercato del lavoro, il settore delle tecnologie. Un insieme di fattori che, con ogni probabilità, chiedono una rivisitazione dell'approccio

lean, anche in termini di possibilità di creare forme di cooperazione

tra imprese utilizzando modelli di interdipendenza e selezione adattati alle realtà economiche e culturali dei vari Paesi interessati.

1.3.5 Gli anni '90 e il sorgere dei nuovi mercati

L'ultimo decennio del '900 vide l'affermarsi di una visione globale dei mercati e della concorrenza, con i suoi aspetti positivi e negativi in termini di opportunità e di rischi. L'integrazione verticale non era più praticata dalla stragrande maggioranza delle aziende, che si avvalevano adesso di processi di esternalizzazione di alcune fasi produttive mediante lo sviluppo di rapporti di outsourcing: vengono a crearsi rapporti di integrazione progettuale tra aziende diverse,

(28)

mediante l'esternalizzazione non solo di fasi o processi produttivi, ma anche di servizi via via più complessi, originando vere e proprie

partnership.

Il rapido sviluppo delle ICT (information and communication

technology) contribuì alla trasformazione della realtà con cui le

aziende erano chiamate a confrontarsi, fornendo risposte sia in termini di innovazione che di differenziazione dei prodotti, di fronte ad una domanda di mercato sempre più variegata ed esigente. A questo fine è andata sviluppandosi sempre più l'offerta di servizi vincolati e connessi ai prodotti, in modo tale da differenziare l'offerta e soddisfare un cliente sempre più difficile da fidelizzare; in proposito si parla di creazione di valore immateriale connaturato nel prodotto o servizio, con lo scopo di renderlo unico e di conseguenza maggiormente appetibile sul mercato.

Il panorama produttivo e organizzativo muta definitivamente forma, attraverso la semplificazione organizzativa, la riduzione dei tempi di produzione e di ogni tipo di spreco, la ricerca di una maggiore flessibilità per rispondere agli stimoli del mercato, il perseguimento della qualità totale mediante il total quality

management applicato dal modello giapponese, la focalizzazione sul

miglioramento continuo, sulla prevenzione, sull'apprendimento, sulla responsabilizzazione e lo sviluppo di alleanze strategiche e rapporti di

comakership con i fornitori.

A questo si aggiunge una diversa interpretazione del mercato, visto adesso non più come una massa unitaria di consumatori, ma come una realtà differenziata ed eterogenea di settori di mercato da aggiudicarsi. A questa nuova chiave di lettura

corrispondono tre distinte modalità di marketing: quello

(29)

particolare, negli ultimi due casi le decisioni di segmentazione stanno

alla base delle politiche di mercato.32

Marketing indifferenziato: in questo caso l'azienda considera il mercato come un insieme omogeneo, tendendo ad orientare le sue politiche di mercato verso un “consumatore tipo” e offrendo di conseguenza un prodotto che possa soddisfare la domanda ritenuta prevalentemente rappresentativa del mercato.

Marketing differenziato: dopo aver effettuato uno studio sulla realtà di mercato in cui si opera, l'azienda identifica i diversi segmenti in cui esso è suddiviso; conseguentemente, l'azienda opererà in ogni segmento proponendo una tipologia di prodotto appositamente studiata per quel target di domanda.

Marketing concentrato: in quest'ultimo caso l'azienda sceglie di concentrarsi unicamente in un segmento del mercato.

Al fine di ottenere quindi un'efficace segmentazione è necessario offrire prodotti differenziati o, più in generale, politiche di

marketing differenziate per ogni segmento di mercato. Si apre così la

strada all'interpretazione strategica di dati, informazioni e conoscenze all'interno delle organizzazioni.

(30)

2.

La realtà attuale: l'organizzazione nella new

economy

2.1 Un mondo che va di corsa: scenari e prospettive

Globalizzazione, progresso tecnologico e approccio critico al consumo rappresentano le maggiori sfide che le imprese di oggi sono chiamate a fronteggiare: nell'era della personalizzazione e della condivisione, della concorrenza globale e dell'innovazione, per le imprese sarà fondamentale essere in grado di adattare le proprie strutture e modalità gestionali alla realtà che le circonda. In un certo senso, per restare fermi sarà necessario correre; diversamente, la sopravvivenza dell'organizzazione, in un panorama così competitivo, sarà messa a serio repentaglio.

Quando si parla di new economy, ci si riferisce all'era

contemporanea dell'economia e della moneta digitale33, protagonista

di un profondo passaggio: quello dalla società industriale dell'informazione unidirezionale dei mass media alla società postindustriale della conoscenza interattiva.

Sono in particolare i caratteri immateriali, capaci di accrescere in modo difficilmente replicabile per i concorrenti il valore di un prodotto, ad assumere valore strategico: conoscenze, assistenza e personalizzazione sono solo alcuni dei valori aggiunti che possono essere attribuiti ad un bene, garantendo un importante vantaggio competitivo per il produttore.

Una nuova dimensione della concorrenza, dunque, che

33 Azzariti F., Mazzon P. (2005), Il valore della conoscenza. Teoria e pratica del knowledge

(31)

assume tratti di difficile interpretazione e che sta contribuendo – anche in forza della rapida e imprevedibile innovazione tecnologica – a mutare profondamente la realtà dei mercati e del consumo.

Le nuove tecnologie dell'informazione interattiva stanno cambiando il modo di lavorare, di imparare e di comunicare a livello mondiale e ciò ha un notevole impatto sull'economia e sulla società; anche la stessa azienda assume un ruolo diverso nella nuova realtà, non più centrale e statica, ma integrata e dinamica. Il suo successo dipenderà dalle sua capacità interpretative circa le nuove opportunità offerte dal contesto, in termini di miglioramento del prodotto, efficientamento dei processi, comunicazione interna ed esterna, fidelizzazione del cliente, gestione strategica di dati, informazioni e conoscenze.

In questa società in rapido sviluppo, la fabbrica non è più il centro esclusivo dell'integrazione produttiva tra conoscenze e lavoro: il lavoro manuale ed intellettuale di tipo ripetitivo non è più in grado di garantire lo sviluppo futuro dell'azienda, e contemporaneamente le conoscenze più avanzate si espandono attraverso la net economy. In questo contesto diventa sempre più prioritario, per ogni azienda che vuole essere competitiva in un mercato globale, saper gestire la fonte

di ricchezza primaria: la conoscenza.34

2.2 L'organizzazione: struttura e tipologie

Le organizzazioni producono beni o forniscono servizi, scandiscono le tappe principali della nostra vita, vi interagiamo continuamente e spesso inconsapevolmente. Rispetto a quelle anche di soli vent'anni fa, oggi le organizzazioni presentano un nuovo volto:

(32)

appaiono evolute, essendosi adattate ai tempi attraverso la capacità di cambiare e alla capacità di fornirsi chiavi di lettura dei contesti in cui operano.

Esistono svariate tipologie di organizzazione: alcune sono grandi società multinazionali, altre piccoli negozi a conduzione familiare, altre ancora organizzazioni no-profit, che dipendono da donazioni e sovvenzioni pubbliche piuttosto che dalla vendita di beni o servizi, e infine le agenzie governative.

Al fine di garantirsi stabilità e funzionalità, le organizzazioni si dotano di una struttura organizzativa: questa indica e definisce i rapporti di dipendenza formale, compresi il numero di livelli gerarchici e lo span of control di manager e supervisori; identifica il raggruppamento di individui in unità organizzative e di unità organizzative nella totalità dell'organizzazione; comprende la progettazione di sistemi che assicurino una comunicazione e un coordinamento efficaci e l'integrazione degli sforzi fra le unità organizzative.

La struttura organizzativa è rappresentata nell'organigramma, consistente in una rappresentazione formale che indica principalmente le modalità in cui è suddiviso il lavoro, in modo tale da fornire un quadro – solitamente piuttosto semplice e intuitivo dal punto di vista grafico – direttamente riferibile alle varie funzionalità interne.

Di fondamentale e strategica importanza per qualsiasi organizzazione è il flusso di informazioni che si forma al suo interno: nella nuova realtà dinamica, imprevedibile e mutevole, dati, informazioni e conoscenze assumono il profilo di veri e propri asset strategici, fondamentali per la sopravvivenza e lo sviluppo

(33)

dell'organizzazione. A riguardo è possibile evidenziare come l'organizzazione debba essere progettata e strutturata in modo tale da garantire un flusso ottimale di informazioni sia in senso orizzontale – vale a dire, ad esempio, tra colleghi e funzioni di pari livello – che

verticale – ovvero salendo o scendendo la scala gerarchica dei ruoli.35

Diversamente, l'efficacia organizzativa ne risentirà in termini di tempo impiegato a decifrare e selezionare le informazioni esistenti: le informazioni devono infatti arrivare con precisione all'uomo giusto nel

momento giusto.36

Efficienza e controllo, apprendimento e adattamento: sono due degli assetti principali che segnano il futuro di un'impresa, divisi dallo spartiacque del cambiamento avvenuto in termini di gestione aziendale tra gli anni '80 e '90. Compiti specializzati, autorità gerarchica, regole, sistemi formali di reporting, scarso utilizzo del lavoro in team o task force e accentramento del processo decisionale sono associati ad una maggiore enfasi su efficienza e controllo: questo significa che i problemi e le decisioni sono trasmesse ai livelli superiori della gerarchia per trovare una soluzione. Diversamente, compiti condivisi, una gerarchia più blanda e caratterizzata da meno regole, una comunicazione più diretta, la presenza di molti team o

task force e un processo decisionale informale e decentrato sono

associati ad un enfasi sull'apprendimento e sull'adattamento all'ambiente; un processo decisionale decentrato consiste nella distribuzione a livelli inferiori dell'organizzazione di diversi margini di autorità decisionale.

Il flusso delle informazioni all'interno di un'organizzazione è direttamente legato alla struttura organizzativa e gestionale: un

35 Daft R. L. (2013), Organizzazione aziendale. Quinta edizione, Dogana (Repubblica di San Marino), Apogeo Education.

36 Bellandi G. (2009), La conoscenza partecipata. Condividere efficacemente conoscenze ed esperienze

(34)

assetto impostato verticalmente favorirà il fluire informativo

top-down, vale a dire dal vertice (il management) alla base (le risorse

umane) passando per tutti i livelli intermedi, al fine di facilitare la comunicazione tra dipendenti e unità, necessaria per portare a termine i compiti generali dell'organizzazione. Il management è chiamato a creare collegamenti per facilitare la comunicazione e il

coordinamento tra i diversi elementi organizzativi.37 I collegamenti

verticali hanno la funzione di coordinare le attività tra il vertice e la base di un'organizzazione e sono progettati principalmente ai fini del controllo dell'organizzazione: i dipendenti dei livelli inferiori devono svolgere attività coerenti con gli obiettivi dei livelli superiori; parimenti, gli alti dirigenti devono essere a conoscenza delle attività e dei risultati relativi ai livelli inferiori.

Le metodologie utilizzate per ottenere meccanismi verticali sono diverse: la gerarchia, che rappresenta il principale meccanismo verticale, detto anche catena del comando, la quale permette che un problema nato a valle sia esaminato dai livelli superiori e risolto; le regole e i piani, concretizzati attraverso procedure per risolvere problemi ripetitivi con decisioni standardizzate, attraverso la reazione dei dipendenti e senza il coinvolgimento dei livelli superiori; i sistemi informativi formali, volti ad incrementare l'ampiezza del flusso verticale dell'informazione attraverso report periodici, comunicazioni interne e informazioni condivise dai manager.

L'assetto o coordinamento orizzontale è una metodologia alternativa per la condivisione delle informazioni all'interno dell'organizzazione, volta a superare le barriere tra unità organizzative e a facilitare il coordinamento tra i dipendenti finalizzato al raggiungimento di unità di intenti e di obiettivi precisi.

37 Daft R. L. (2013), Organizzazione aziendale. Quinta edizione, Dogana (Repubblica di San Marino), Apogeo Education.

(35)

Le principali metodologie volte alla realizzazione e al mantenimento dei collegamenti orizzontali – particolarmente utili nelle organizzazioni più grandi, che non godono degli elevati livelli di interazione tra membri, tipici di quelle piccole e medie – sono le seguenti: l'implementazione di sistemi informativi interfunzionali, che permettono ai dirigenti e al personale di front-line di scambiarsi costantemente informazioni su problemi, opportunità, attività o decisioni; la funzionalità dei ruoli di collegamento, volti alla promozione del contatto diretto tra manager e dipendenti interessati ad un problema, spesso tra le funzioni di progettazione e di produzione e comunque tra due diverse unità; la task force, che unisce più unità formando un comitato temporaneo composto da rappresentanti di ogni unità interessata al problema, con lo scopo di risolvere specifici problemi e ricondurre il carico informativo all'interno della gerarchia verticale; l'integratore full-time, collocato al di fuori delle diverse unità e delle quali gestisce il coordinamento, può essere responsabile di un progetto di innovazione o cambiamento, come un progetto o un finanziamento; i team, che rappresentano il più forte meccanismo di collegamento orizzontale assumendo il profilo di task

force permanenti, utilizzate congiuntamente ad un integratore full-time, finalizzati alla gestione di passaggi importanti, innovazioni,

necessari quando le unità organizzative richiedono forte

coordinamento per lunghi periodi di tempo.38

La nuova complessità iper-veloce39, se da un lato

rappresenta un enigma uno scenario in continuo mutamento cui l'azienda deve essere in grado di fornire soluzioni adatte ed efficaci, è dall'altro sicura garanzia di opportunità nuove e dal potenziale impatto rivoluzionario.

38 Ibid.

39 Bellandi G. (2009), La conoscenza partecipata. Condividere efficacemente conoscenze ed esperienze

(36)

I punti chiave a cui l'organizzazione deve fare riferimento per risolvere l'enigma della nuova complessità, sfruttandone gli aspetti più produttivi in termini di nuove opportunità, sono diversi e investono a 360° la struttura organizzativa: tramite la valorizzazione delle risorse umane sarà possibile tramutare la forza lavoro da mera voce di costo a fattore strategico per la flessibilità e l'accrescimento di conoscenze e competenze aziendali; tramite la riduzione delle linee gerarchiche di comando, ridimensionando ad esempio il volume del

middle-management, sarà possibile favorire un dialogo più fluente e

diretto tra le varie componenti aziendali e incoraggiare alla cooperazione; attribuendo maggior rilievo al gruppo piuttosto che al singolo si potrà potenziare lo scambio virtuoso di informazioni e competenze a tutti i livelli; mediante l'implementazione di strutture dinamiche di intervento formativo si coinvolgerà la dimensione umana del lavoratore, al fine di esaltarne creatività, proattività e collaborazione attiva, favorendo un costruttivo confronto con nuove idee ed esperienze, fattore chiave di una crescita professionale

integrale.40

2.3 I nuovi assetti organizzativi e l'importanza del fattore

umano

La realtà attuale, in continua evoluzione e cambiamento, ha richiesto alle imprese di essere all'altezza dei nuovi scenari, sviluppando la capacità di adattarsi alle esigenze della modernità in modo dinamico e flessibile. La vecchia impresa verticale, che svolgeva rigorosamente al suo interno tutti i processi lavorativi, da monte a valle, nella maggior parte dei casi si è rivelata inadatta a garantire adattabilità ai nuovi standard. Fino agli anni '60 le imprese erano

(37)

prevalentemente orientate verso l'opzione make, consistente nello svolgimento interno di tutte le fasi del processo produttivo anche in un'ottica di economie di scala; successivamente si è venuta sviluppando la soluzione buy, basata su un rapporto di fornitura con soggetti esterni fondato su relazioni esclusivamente contrattuali.

Le esigenze di flessibilità cui le imprese hanno dovuto far fronte hanno portato a un cambiamento significativo nelle metodologie di produzione, nelle scelte strategiche e negli assetti organizzativi: si parla in merito di processi di disintegrazione,

modularizzazione, decentramento, outsourcing, fabbrica integrata.41

Oggi le aziende sono network e comunità della conoscenza; le abilità dell'organizzazione di creare e sviluppare conoscenze e informazioni rappresentano la chiave per un forte e duraturo vantaggio competitivo.

La direzione in cui la realtà di contesto si sta muovendo è quella che porterà al passaggio da un'epoca industriale a un'epoca della conoscenza, e che richiederà nuovi metodi per guidare e organizzare le nostre istituzioni economiche; di pari passo, andrà stemperandosi invece la visione di una società ridotta a puro mercato, a favore di una concezione che valorizza il servizio ed uno stile di vita

orientato alla crescita integrale della persona.42

Guardando alle nuove condizioni di contesto si fa riferimento all'era del cambiamento e della complessità. L'impatto del cambiamento è avvertibile soprattutto al livello del management intermedio, il cosiddetto middle-management, per due motivi strettamente connessi tra loro: da una parte lo snellimento delle organizzazioni richiesto dall'ambiente competitivo, che ha comportato

41 Giannini M., Turini V. (2013), L'azienda industriale. La fabbrica, l'apparato, l'organizzazione, Milano, FrancoAngeli.

42 Bellandi G. (2006), Il talento del leader. Crescere nella vita professionale e personale attraverso una

(38)

un ridimensionamento se non un'eliminazione dei livelli intermedi di

management, attraverso un progressivo appiattimento della piramide

organizzativa; dall'altra nuove sfide del mercato, che impongono al

management di rimettere in discussione il proprio ruolo e rivestire

funzioni di coach e leader per far emergere la qualità e facilitare il cambiamento.

Si parla di “azienda etica” come di un insieme di individui e di valori, sviluppata attraverso tre importanti leve strategiche: i valori, la formazione, il coaching, cioè la capacità del management di aiutare sia i singoli individui che i gruppi nella riuscita dei loro progetti.

Si sviluppano nuovi modelli e principi guida per le aziende, che portano all'organizzazione a rete, aventi una nuova forma di struttura di impresa, una nuova configurazione dei propri confini, una solida partnership con fornitori, clienti e concorrenti, un reciproco sostegno con istituzioni e pubblica amministrazione, persone che non solo costituiscono forza lavoro ma soprattutto professionisti ad alto livello di autonomia. L'organizzazione a rete è composta da tre livelli distinti: il livello dei processi generali, comprensivo della partecipazione di clienti, fornitori, imprese ed istituzioni, che attengono alle dimensioni dell'economia e degli equilibri istituzionali; il livello di un'impresa, che dispone di un suo sistema di decisioni e diritti, attenenti alle dimensioni della proprietà e della governance; il livello delle microstrutture, ovvero le unità organizzative intermedie, i team, le squadre, che attengono alle dimensioni del realizzare e dell'accomunarsi: il baricentro di tutti questi distinti livelli è sempre la

persona, portatrice e diffusore di conoscenza.43

Va quindi sviluppandosi una visione olistica dell'azienda, a

(39)

partire dalla metodologia organizzativa interna: se il vertice si troverà ad essere l'unico depositario di tutto il sapere, non sarà possibile ottenere risultati di alto profilo. Il capitalismo personale soppianta quello cosiddetto industriale, divenendo anche cognitivo, in quanto è la complessità dei circuiti cognitivi delle persone a creare valore direttamente spendibile.

In quest'ottica emerge con forza il valore del fattore umano, dominante in un'azienda capace di interpretare le sfide del futuro. La vera differenziazione di prodotto si pratica infatti investendo nel capitale umano, perché le tecniche produttive sono replicabili, ma non la parte intangibile che va a farne parte. Essa è integrata nella cultura aziendale e le culture non si comprano né imitano, ma si costruiscono: il fattore umano è nei fatti il vero vantaggio competitivo, e sempre di più le persone costituiranno la leva primaria del successo imprenditoriale.

Nel nuovo contesto urge respingere determinati pregiudizi, abbandonando l'idea che la professionalità sia soprattutto capacità operativa immediata e frutto esclusivo dell'esperienza. Agli individui sono richieste specifiche caratteristiche: capacità di iniziative autonome e di problem-solving, orientamento all'efficacia e all'efficienza.

Si assiste, in questo senso, allo sviluppo di nuove esigenze in termini di professionalità, legato all'interpretazione del lavoro soprattutto come occasione per il miglioramento e la crescita personali.

Uno dei principali assunti della rivoluzione industriale era quello che le persone fossero semplici e limitate, e che occorresse di conseguenza orientarle verso lo svolgimento di mansioni semplici,

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