• Non ci sono risultati.

I Fondi Paritetici Interprofessionali quindici anni dopo. Lo stato dell'arte.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "I Fondi Paritetici Interprofessionali quindici anni dopo. Lo stato dell'arte."

Copied!
119
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Comunicazione d’Impresa e Politica delle Risorse Umane

TESI DI LAUREA

I FONDI PARITETICI INTERPROFESSIONALI QUINDICI ANNI DOPO:

LO STATO DELL’ARTE

RELATORE

Prof. Giancamillo PALMERINI

CANDIDATA

Carlotta VALSEGA

(2)

A Francesco e Ginevra per il Tempo loro rubato.

(3)

1

INDICE

INTRODUZIONE pag. 3

CAPITOLO 1 – LA FORMAZIONE CONTINUA 7

1.1. Definizione di formazione continua 7

1.2. Gli effetti dei mutamenti sociali ed economici sulla formazione 10 1.3. Le politiche per la formazione in ambito comunitario: dalla CEE all’Unione Europea 14 1.4. La formazione (professionale) continua in Italia: evoluzione del quadro normativo 22

1.4.1. La Repubblica, garante dello sviluppo umano 23

1.4.2. La formazione professionale nella Legge Quadro del 1978 23 1.4.3. La nascita del sistema nazionale di formazione continua: gli anni Novanta

e la legge n. 236/1993 25

1.4.4. Legge n. 196/1997 33

1.4.5. L’esperienza del “Patto di Natale” nell'art. 118 della legge n. 388/2000 34 1.4.6. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001: riflessi in materia

di formazione professionale 36

1.4.7. L’accordo del 12 febbraio del 2009 e le “Linee guida per la formazione

professionale nel 2010” 37

1.4.8. Il sistema della formazione continua alla luce del “Jobs Act” 40

CAPITOLO 2 – I FONDI INTERPROFESSIONALI PER LA FORMAZIONE CONTINUA:

I QUINDICI ANNI DI UN ITER LEGISLATIVO 45

2.1. I Fondi Interprofessionali: dall’atto di nascita alla fase di decollo 45

2.1.1. Articolo 118 della Legge finanziaria del 2001 45

2.1.2. Articolo 48 della Legge Finanziaria del 2003 47

2.1.3. Circolare INPS n. 71/2003 49

2.1.4. Decreto interministeriale del 23 aprile 2003 50

2.1.5. Decreto direttoriale n. 148/2003 51

2.1.6. Circolare ministeriale n. 36/2003 53

(4)

2

2.2. I Fondi Interprofessionali: strumenti per il contrasto alla crisi pag. 57 2.2.1. La Legge n. 2/2009 e la Legge finanziaria del 2010 57 2.2.2. Il ruolo dei Fondi Paritetici Interprofessionali nelle “Linee Guida

per la formazione 2010” 58

2.2.3. Le potenzialità (negative) contenute nella riforma Fornero 61

2.3. I Fondi Interprofessionali nel decreto 150/2015 63

CAPITOLO 3 – I FONDI INTERPROFESSIONALI: FUNZIONAMENTO

E STRATEGIE DI AZIONE 70

3.1. Modello di “governance” 70

3.2. Organi e strutture 77

3.3. Modalità di funzionamento 82

3.4. Strategie di azione dei Fondi Interprofessionali: quindici anni di attività 86 3.4.1. I Fondi Interprofessionali fino al 2006: le risorse, i primi POA

e l’Avviso 2004 88

3.4.2. L’impatto della crisi sui Fondi Interprofessionali 95 3.4.3. I Fondi Interprofessionali oggi: lo stato dell’arte nel Rapporto

Isfol 2014-2015 101

CONCLUSIONE 110

(5)

INTRODUZIONE

Da alcuni decenni ormai e da più parti la formazione continua viene riconosciuta, a livello nazionale ed internazionale, come un elemento strategico nell'odierno scenario sociale ed economico, caratterizzato da una sempre maggiore competitività e da una crescente accelerazione del cambiamento, per le imprese e per i lavoratori.

A ribadire l'importanza dell'apprendimento permanente interviene un recente report redatto da Manpower1, che riporta i risultati di un sondaggio condotto sui cosiddetti

millennial, ossia coloro che, nati tra il 1982 e il 2000, ad oggi rappresentano quella parte

di forza lavoro già presente in azienda, ma all'inizio della loro carriera, indagandone la cosiddetta learning proposition.

La ricerca esplora le esigenze formative di un segmento particolare della forza lavoro, che, come mostrano le ricerche condotte sulle “generazioni” nei luoghi di lavoro, presenta peculiari caratteristiche socio-relazionali, che impongono mirati e diversi interventi di formazione continua rispetto a quelli già rivolti agli adulti. Il sondaggio, condotto su 19000 lavoratori millennial di 25 diversi paesi, conferma la rilevanza attribuita da questi lavoratori agli investimenti in formazione. Il 93% dei rispondenti ritiene essenziale per la carriera un costante sviluppo di competenze; l'80% considera l'opportunità di apprendere nuove competenze un fattore centrale nella ricerca di una occupazione; il 93% ambisce al lifelong learning e desidera investire il proprio tempo e le proprie risorse in formazione.

Desiderosi di sviluppare ed adattare il loro bagaglio di competenze in modo veloce e flessibile, i millennial sono i principali portatori delle nuove esigenze formative, a cui i sistemi nazionali di formazione continua dovrebbero iniziare a guardare in quanto essi non solo esprimono esigenze in quanto lavoratori oggi, ma soprattutto anticipano le esigenze e aspirazioni dei lavoratori di domani.

In Italia, la partecipazione degli adulti ad attività di istruzione e formazione, come attestato dall'ultimo Rapporto Isfol, ha registrato un leggero miglioramento nel corso del 2014 portando il Paese a raggiungere un tasso pari all'otto percento grazie soprattutto al

1

I percorsi di carriera dei millennial: visioni per il 2020. Fatti, cifre e consigli pratici degli esperti del mondo del lavoro, ManpowerGroup, 2016.

(6)

coinvolgimento degli occupati e all'arresto della caduta dell'investimento formativo da parte delle imprese. Tuttavia, la distanza rispetto agli altri Paesi europei rimane consistente, registrando uno scarso investimento formativo a causa per lo più di caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano e di una scarsa attitudine delle imprese a considerare la formazione un investimento.

Prendendo ancora a riferimento i dati offerti dallo stesso Rapporto, vediamo che, nel nostro Paese, a partecipare ad attività di istruzione e formazione è soprattutto la fascia di popolazione con un'età tra i 25-34 anni (14,9%), che supera di gran lunga le altre fasce (35-44 con il 7,5%; 45-54 con il 6,4%; 55-64 con il 4,5%). Tale situazione mostra come sia urgente adeguare il sistema di formazione continua a rispondere ai bisogni formativi di questa fascia di popolazione, che ne rappresenta la maggiore fruitrice.

Guardando al sistema italiano della formazione continua, occorre ricordare che nel corso degli ultimi anni, a partire dalla crisi economica, si è assistito ad una progressiva erosione delle risorse ad esso dedicate, le quali, sulla base di disposizioni legislative, sono state utilizzate per sostenere misure di politica passiva. In tale direzione sono andate le strategie di intervento dei due principali soggetti promotori di interventi di formazione continua, Regioni e Fondi Paritetici Interprofessionali, sia in termini di tipologia di interventi sia di utilizzo di risorse.

In particolare, i Fondi Paritetici Interprofessionali sono stati oggetto di una consistente perdita di risorse, da ricondursi a prelievi di importi diversi, che via via sono stati attuati per il contrasto alla crisi e il sostegno agli ammortizzatori sociali. Ciononostante, essi assumono nel panorama attuale della formazione continua una posizione di sempre maggior rilievo, gestendo la parte più consistente del gettito destinato ad interventi di formazione continua.

Guardando alle finalità dei piani finanziati e alle tematiche affrontate in essi, possiamo notare come queste non siano cambiate rispetto al passato, continuando a privilegiare la formazione per il mantenimento/aggiornamento delle competenze e la formazione obbligatoria. Tendenze simili si ravvisano anche a proposito delle tematiche, con la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro in posizione preminente, seguita dallo sviluppo di abilità personali e di gestione aziendale.

(7)

La possibilità, allora, che i Fondi possano diventare strumenti in grado di offrire una formazione in linea con i cambiamenti, che stanno investendo il mercato del lavoro in senso lato e specificatamente il modo di lavorare delle nuove generazioni, sembra essere elusa dalla forte presenza di formazione ex lege o trasversale standard.

L'offerta formativa dovrebbe rispecchiare i mutamenti in atto caratterizzati soprattutto da un'incessante evoluzione tecnologica, la quale a sua volta impone, da un lato, la necessità per i lavoratori di possedere una consolidata capacità di adattamento, l'investimento in competenze chiave quali il problem solving, l'esercizio del senso critico, la creatività, la capacità di lavorare in gruppo e la disponibilità ad innovare, dall'altro il bisogno di apprendere competenze tecnologiche hard.

In concomitanza con il rinnovamento degli interventi formativi dedicati al personale, il sistema di formazione continua dovrebbe guardare ai nuovi modelli organizzativi, utilizzando la formazione del personale come risorsa potenziale attraverso cui rispondere alle “nuove realtà” del mercato del lavoro e migliorare, così, la propria capacità di adattamento alle turbolenze dei mercati e alla diversificazione dei percorsi di carriera. Investire in workplace innovation significa dotarsi di nuovi modelli e strutture di business, di gestione delle risorse umane, di relazioni con l'esterno e in particolare di un ambiente di lavoro dinamico.

Tuttavia, gli sforzi fatti, nel suddetto ambito, da parte delle imprese italiane, seppur sostenuti da recenti politiche comunitarie, risultano ancora insufficienti: i dati quantitativi, ottenuti dalla ricerca Isfol Intangible Assets Survey del 2015, rivelano che solo un quinto del totale delle imprese è impegnata in attività volte all'innovazione di pratiche organizzative. Le difficoltà ad investire in tale direzione rappresenta un'occasione persa, non solo di rendere migliore la qualità dei posti di lavoro, ma soprattutto di accrescere le performance delle imprese e valorizzare le giovani generazioni di lavoratori che rappresentano il futuro di queste imprese.

Al sistema della formazione continua, oggi e in futuro, sarà sempre più affidata la responsabilità di modellare, e rimodellare, costantemente la propria struttura ed offerta formativa secondo le eterogenee esigenze dei lavoratori e dei mercati. Per riuscire in tale intento, è necessario che l'offerta formativa subisca un cambio di passo e si trasformi da supply-oriented a demand-oriented, ossia da un'offerta diretta dall'alto ad

(8)

un'offerta calibrata sui fabbisogni formativi, approccio ancora poco diffuso nel nostro Paese.

Mentre il tradizionale apparato della offerta di formazione continua arranca, nuovi modelli si affermano nel tentativo di ovviare all'inefficacia delle politiche per l’incontro tra la domanda e l’offerta di competenze. Ne sono un esempio il fenomeno Makers, nel loro ruolo di innovatori; le esperienza di reti territoriali che costituite da esperti scelti dal “basso” hanno lo scopo di sviluppare e accrescere opportunità occupazionali in linea con le peculiarità locali e le risorse presenti; i Fab Lab, i quali, nati come laboratori di produzione digitale, si sono trasformati nel tempo in centri di condivisione di saperi sia formali sia informali attorno ai quali si originano comunità legate al territorio ed alle sue esigenze; il mondo delle start-up, espressione di autonomia imprenditoriale e creatività.

É chiaro, allora, che il lavoro, in un futuro non troppo distante, sarà costellato da fenomeni del tutto nuovi sulla scia delle esperienze appena descritte. Il rischio a cui il sistema della formazione continua sembra andare incontro, è l'incapacità di intercettare, accogliere e sfruttare queste potenzialità, a causa di persistenti rigidità che impediscono al sistema di compiere quel salto di qualità atteso e giustificato dal proclamato riconoscimento dell'importanza della formazione.

La presente ricerca ed elaborazione nasce, allora, dalla volontà non solo di trattare un argomento, quello della formazione continua scarsamente oggetto di analisi, ma soprattutto di riordinare la letteratura riguardante i Fondi Paritetici Interprofessionali, quale strumento strategico di cui i lavoratori e le imprese dispongono a livello nazionale, per sottolineare il loro valore strutturale ed operativo.

(9)

CAPITOLO 1

LA FORMAZIONE CONTINUA

1.1. Definizione di formazione continua

Una delle più consistenti difficoltà che si riscontrano approcciandosi allo studio della formazione continua è rappresentata dal tentativo di circoscrivere il campo di sua appartenenza. La diffusa tendenza a non demarcarne i confini deriva probabilmente dalla stessa ambiguità operata dalle istituzioni dell'Unione europea, le quali si sono spesso mostrate restie a fornire una definizione precisa del termine, anche a causa dell'eterogeneità che caratterizzava le politiche per la formazione di ciascun Paese membro, almeno fino all'adozione del “metodo del coordinamento aperto”.

La formazione continua, di conseguenza, è stata da sempre accompagnata da una forte controversia terminologica, dovuta alle molteplici tipologie di attività formative rivolte al segmento adulto della popolazione e che spesso vengono confuse tra loro.

Nonostante appaia difficile delimitarne i confini semantici, difficoltà dovuta ad effettive intersezioni ed interferenze, risulta doveroso, ai fini di una maggiore chiarezza, offrire una definizione della nozione di formazione continua che sia il più possibile precisa e che assuma il compito di guidarci nella stesura del presente lavoro. Per riuscire nell'intento, occorre, a mio avviso, partire dal concetto di lifelong learnig, inteso nella sua accezione di principio guida del più generale sistema di istruzione e formazione. Interessante sembra la sintesi fornita da Bolis, per la quale esso verrebbe definito in molti documenti sia italiani sia comunitari come

“un’idea forte, una prospettiva, un modello di rifondazione sistemica e complessa di tutte le opportunità di istruzione e formazione (formale, non formale, informale; pubblica e privata) e (nelle sue accezioni più vaste) anche di fruizione e sviluppo culturale a favore di tutta la popolazione (dall'infanzia alla terza età), in ogni luogo-territorio e in ogni condizione sociale e culturale”2.

2

CORTELLAZZI S. (a cura di), La formazione continua. Cultura norme organizzazione, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 46.

(10)

In tal senso, una volta chiarito il principio di lifelong learning, si comprende la necessità di orientare ed inserire qualsiasi occasione educativa e formativa in questa prospettiva.

Come detto precedentemente, il dibattito terminologico circa la formazione continua è stato caratterizzato nel corso del tempo da momenti di incertezza, che hanno contribuito ad offuscare la sua definizione; in particolare, accade che l'ambito della formazione continua sia affiancato, se non sovrapposto e confuso, a quelli dell'educazione degli adulti (Eda) e dell'educazione-formazione-apprendimento permanente.

Sembra opportuno, allora, al fine del nostro intento, procedere per gradi, individuando, anzitutto, la differenza che intercorre tra educazione degli adulti e formazione continua. Spesso si ritiene erroneamente che i due termini possano essere utilizzati come sinonimi, ma in realtà, ad un'analisi più approfondita e a dispetto dello stretto rapporto esistente, essi indicano possibilità ed ambiti educativi propri. L'educazione degli adulti permette alla persona di sviluppare competenze in aree di suo interesse o di acquisire competenze di base e che più in generale riguardano l'area della cittadinanza attiva, in situazioni non lavorative o di tipo formale o di tipo non formale; di conseguenza, essa non comprende esclusivamente l'area professionale. Inoltre, i percorsi di educazione degli adulti hanno lo scopo di colmare gap costituitisi durante gli anni della formazione iniziale e/o di permettergli di acquisire un titolo di studio formale. In tal senso, il maggior contatto, se non compenetrazione, tra l'educazione degli adulti e la formazione continua è relativo a due aspetti: in primo luogo, la buona riuscita della formazione continua dipende dalla buona gestione dell'educazione degli adulti; in secondo luogo, la formazione continua viene spesso e, purtroppo, chiamata a svolgere il lavoro dell'educazione degli adulti quando ci si trova di fronte a deficienze conoscitive.

Per ciò che riguarda, invece, l'area dell'educazione-formazione-apprendimento permanente, vediamo che questi termini vengono per lo più utilizzati in maniera indifferenziata. Prendendo, allora, a riferimento il termine di educazione permanente, che esprime dal punto di vista pratico-operativo il concetto di lifelong learning, si può affermare che esso indica la somma di tutti gli apprendimenti che si realizzano nel corso della vita di una persona. Ciò ci porta a ravvisare, anche in questo caso, l'impossibilità

(11)

di una sovrapposizione tra l'educazione permanente e la formazione continua, mentre appare chiara la possibilità di considerare la prima come una macro categoria in cui inserire sia la formazione continua sia l'educazione degli adulti.

Di conseguenza, una volta operate tali precisazioni, possiamo cercare di chiarire che cosa si intende per formazione continua. Essa, secondo una definizione fornita da Occhiocupo, “rappresenta un segmento del lifelong learning, che inerisce al mondo del lavoro e, più in particolare, alla formazione dei lavoratori”3. Infatti, anche sulla base delle definizioni fornite nel corso del tempo da parte della normativa italiana e dei principali Accordi4, che nel quadro normativo e contrattuale nazionale hanno toccato questo argomento, emerge che la formazione continua è costituita da interventi, che investono l'ambito professionale, finalizzati allo sviluppo e all'aggiornamento di competenze tecnico-professionali e/o trasversali, destinati a lavoratori (occupati o disoccupati) e realizzati sul posto di lavoro o in strutture dedicate. La formazione continua, inoltre, può essere scelta autonomamente dal lavoratore o dall'impresa, purché riguardi la sfera lavorativa.

Specificatamente, in relazione alle categorie dei destinatari, si è registrata un'evoluzione normativa che ha portato ad indicare con una sempre maggiore precisione le fasce di lavoratori che ne beneficiano, anche a causa delle difficoltà economiche ed occupazionali, che hanno colpito e che tutt'ora interessano il tessuto sociale italiano. In sintesi, dalla circolare attuativa n. 174/1996 della legge n. 236/1993 ad oggi, la definizione di formazione continua presente nella normativa nazionale italiana ha subito ripetute modificazioni e specificazioni, adeguandosi ai cambiamenti in atto, ma mantenendo comunque il suo carattere distintivo di formazione rivolta ai lavoratori adulti.

3

OCCHIOCUPO G., Il sistema della formazione continua e la rete nazionale del lavoro: un quadro d'insieme, in Working papers, Fondazione Giacomo Brodolini, Roma, Aprile 2016, p. 6.

4

Per un maggiore approfondimento si veda CORTELLAZZI S. (a cura di), La formazione continua. Cultura norme organizzazione, Franco Angeli, Milano, 2007, pp. 30-51.

(12)

1.2. Gli effetti dei mutamenti sociali ed economici sulla formazione

Prima di focalizzare l'attenzione sulle modalità con cui la formazione continua è stata accolta sia a livello comunitario sia a livello nazionale, pare opportuno chiarire il contesto socio-economico in cui il fenomeno di nostro interesse si inserisce.

Con l'avvento della società post-industriale si registra la necessità di cambiamenti sistemici, che vanno ad investire anche i sistemi di istruzione e formazione professionale. In particolare, con la globalizzazione dei mercati, che si attesta a partire dagli anni Novanta, ci si rende conto dell'urgenza di investire in addestramento professionale e in formazione al fine di mantenere una posizione concorrenziale nel mercato allargato. Il nuovo scenario economico, caratterizzato da una crescente accelerazione del cambiamento, in senso lato, e da una sempre maggiore competitività, spinge le economie più avanzate a trasformarsi in knowledge based economy; nel panorama di generale incertezza, infatti, la conoscenza diviene l'unica fonte stabile e sicura per fronteggiare il cambiamento sociale e l'uomo riacquista una rinnovata centralità. Di conseguenza, essendo la conoscenza l'elemento distintivo dell'odierno contesto economico, ci troviamo di fronte, e totalmente immersi, in quella fase economica, che viene denominata dagli esperti capitalismo intellettuale5, in cui i fattori produttivi classici, capitale e lavoro, hanno perso la loro (quasi indiscussa) supremazia, lasciando il passo alla conoscenza.

Ciò non significa che questa in precedenza fosse assente e che non avesse valore ai fini produttivi, essa piuttosto assumeva una posizione differente. La trasformazione che ha interessato la conoscenza può essere collocata nel passaggio dal fordismo al post-fordismo ed, in tal senso, possiamo dire che i cambiamenti verificatisi nel contesto economico hanno influenzato e determinato i cambiamenti propri dell'apparato produttivo, con conseguenze a livello sociale attraverso l'avvento della Knowledge

Society. Nel fordismo vigeva una netta separazione tra la macchina, se non perfetta, il

più possibile perfettibile, e la mansione, eseguibile con poco sforzo intellettivo da chiunque e senza discrezionalità. L'azione tendeva ad essere separata dalla conoscenza ed in ciò le capacità dell'individuo e le sue esperienze professionali venivano scomposte

5

(13)

per far funzionare un meccanismo. Nell'era industriale la conoscenza si presentava incorporata nella tecnologia, sotto forma di strumenti, progetti e procedure, applicata esclusivamente al lavoro e finalizzata al mero aumento della produttività: quanta più conoscenza l'organizzazione possedeva, maggiore era la quantità di prodotto che essa era in grado di produrre. Solamente nel momento in cui l'inefficacia di tali dinamiche è divenuta evidente, è emerso il fondamentale contributo che le capacità e le competenze delle persone potevano offrire.

Quando la conoscenza comincia a circolare come fattore scorporato dalla macchina, è allora che l'intelligenza e la discrezionalità del lavoro umano possono conferirle specifici valori d'uso.

La separazione tra conoscenze e capitale fisico, che interviene nel post-fordismo, è figlia del progresso tecnologico, ossia del passaggio, per riprendere l'immagine e l'elaborazione teorica fornita da alcuni autori, dall'hardware al software6. Mentre, nel più avanzato industrialismo, lo sviluppo tecnico veniva inteso come miglioramento continuo nell'uso delle macchine, da un certo momento in poi esso è sempre più basato sul software in senso lato. Viene meno il suo carattere deterministico e l'uomo può così far valere la propria discrezionalità, adattando attraverso il software la macchina alle istanze d'uso dei vari contesti. Le conoscenze sono in parte codificate in programmi software e routine organizzative e in parte incorporate negli uomini.

La dematerializzazione delle conoscenze e la loro separazione dalle macchine significa soprattutto che la tecnologia e le conoscenze diventano un potenziale. Quindi, non più un fattore produttivo in sé, ma un potenziale produttivo, attivabile ed utilizzabile, con obiettivi specifici diversi, dai soggetti (sia individui sia organizzazioni) che se ne avvalgono per fini produttivi. Nell'era del post-fordismo, caratterizzata da cambiamenti tecnologici (e non solo) che hanno determinato sistemi produttivi di tipo automatico-cibernetico, anche il lavoro si configura diversamente, in quanto la mano viene sostituita dalla mente. Calzante sembra il riferimento al neologismo “mentedopera”7: l'attività lavorativa è guidata dalla testa di chi agisce e l'utilizzo della mano non è più disgiunto dalle funzioni cognitive.

6

SBRANA M., TORRE T. (a cura di), Conoscenza e gestione del capitale umano: la learning organization, Franco Angeli, Milano, 1996, pp. 64-66.

7

(14)

Come detto precedentemente, la conoscenza è sempre stata una risorsa importante del sistema economico: lo era nell'economia industriale, così come nell'economia dell'informazione e, ancor più, nell'attuale economia della conoscenza. Nonostante essa avesse assunto già nella seconda fase un ruolo preminente, la trasformazione significativa si ha nel passaggio dall'informazione alla conoscenza, ossia da un'economia in cui si elaborano semplici dati/codici/informazioni ad una in cui si formulano pensieri e si impiegano capacità intellettive per comprendere la complessità dello scenario di riferimento.

L'evoluzione degli scenari competitivi ed, in particolare, il passaggio dall'era industriale (capital intensive) a quella post-industriale (capital and knowledge intensive) hanno contribuito a modificare i contenuti e le modalità della formazione. Sarebbe, in realtà, meglio parlare di apprendimento, poiché tra le sue forme, in questo passaggio, viene preferita la formazione, la quale rispetto all'istruzione ed all'addestramento (tipicamente taylor-fordista) risponde maggiormente alle esigenze che si vanno a delineare nel nuovo contesto. Soprattutto, quello che si chiede è un'offerta formativa che vada oltre i percorsi tradizionali, inadeguati a far fronte alla situazione economica e sociale, e che coniughi i tempi dell'apprendimento con i tempi del lavorare.

Inizia a delinearsi e a farsi sentire, con gli anni Novanta, l'esigenza non solo di riformare le politiche della formazione, in senso lato, ma di indirizzare, nello specifico, l'attenzione verso la formazione continua, ovvero la formazione per i lavoratori e per le imprese. In questo sistema, l'apprendimento si presenta come continuo e multidirezionale, andando ad irrompere con la tradizione taylor-fordista. Infatti, la formazione, inerente il segmento lavorativo, oggi, non si configura più come tecnica, quanto piuttosto peculiarmente incentrata sul soggetto, il quale rappresenta, come più volte sottolineato, la sola risorsa stabile cui fare riferimento per rispondere ai mutamenti socio-economici.

Nella società industriale, l'apprendimento da parte degli uomini era poco importante: a ciascuno veniva chiesto di apprendere esclusivamente la propria mansione, in quanto la conoscenza si trovava già nel capitale fisico. Il mancato bisogno della discrezionalità e flessibilità proprie dell'agire lavorativo, ottenibile solo attraverso il potenziamento del capitale umano, faceva sì che con apprendimento, nella forma di

(15)

learning by doing, si intendesse l'esperienza cumulata con l'utilizzo di determinati

sistemi tecnici o con il perseguimento di determinate attività.

Da un tipo di apprendimento, quasi esclusivamente by doing, incentrato sullo sviluppo di capacità professionali e l'acquisizione di conoscenze, si giunge ad un apprendimento, che si configura come formazione e che incide su una dimensione del tutto particolare, ossia quella del “saper essere” e non più solo su quelle del “sapere” e del “saper fare”. La formazione, allora, si configura come acquisizione di competenze, che sul piano individuale si traducono nell'auto-imprenditorialità, cioè nella capacità di progettare le proprie azioni in contesti applicativi differenti: infatti, la consapevolezza del proprio sapere che il soggetto assume nel processo formativo gli consente di metterlo in pratica senza averne prima fatto esperienza; questo aspetto sottolinea ancor più la limitatezza e inadeguatezza dei canonici percorsi di istruzione e dell'addestramento, i quali rispettivamente corrispondono ad un sapere troppo generico e troppo specialistico.

Formare non significa solo dotare la prestazione lavorativa di specifiche competenze, ma mettere il capitale umano nella condizione di poter esprime il proprio potenziale e virtù; in questo modo, emerge una capacità che è fatta sì di “sapere” e “saper fare”, ma soprattutto di disponibilità a comprendere e misurarsi con i mutamenti, ossia di “saper essere”.

Le trasformazioni in atto spingono a considerare la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano necessaria in vista dell'obiettivo di conseguire sia innovazioni adeguate alle istanze dei differenti contesti sia capacità competitiva in grado di misurarsi con gli sviluppi di un'economia sempre più globalizzata. Si afferma il bisogno di dare alle persone la possibilità di apprendere, di assumere su di sé la capacità di adattarsi ai cambiamenti che intervengono e che, ovviamente, sono frutto della complessità, della turbolenza e volatilità dello scenario economico e sociale.

(16)

1.3. Le politiche per la formazione in ambito comunitario: dalla CEE all’Unione Europea

Sembra opportuno, prima di focalizzare l'attenzione sul il sistema nazionale della formazione continua, rendere noto come si sia configurato, a livello comunitario, l'impegno in tal senso, illustrando i principali fattori ed elementi di carattere giuridico-istituzionale, sociale ed economico, appartenenti alla dimensione comunitaria, che hanno influenzato lo sviluppo della cultura e degli interventi di formazione continua nel nostro Paese.

Il contributo fornito dall'Unione europea in modo più o meno diretto a seconda dello strumento decisionale adottato si è dimostrato fondamentale soprattutto per quei paesi come l'Italia, sprovvisti di una matura consapevolezza riguardo il valore della formazione, intesa come strumento fondamentale per lo sviluppo delle competenze di chi lavora e per le opportunità occupazionali dei lavoratori. L'Unione Europea, fin dalla sua costituzione ed ancor prima nella veste di Comunità economica europea, ha mostrato interesse per i temi dell'istruzione e della formazione, configurando le proprie politiche in materia sulla base dei mutamenti a livello sociale ed economico. Da istituzione distante, garante della cooperazione politica tra gli Stati membri, ha assunto sempre più un ruolo chiave, dando ai Paesi che ne fanno parte l'opportunità di crescere e svilupparsi attraverso un costante confronto, senza esclusione del campo della formazione.

Tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del nuovo millennio, ossia all'apice della fase globale e concorrenziale della nuova economia, il bisogno di ristrutturare le politiche per la formazione irrompe nel panorama comunitario, suscitando la consapevolezza di un doveroso intervento.

Ciononostante, già a partire dagli anni sessanta e settanta, gli Stati della Comunità europea percepiscono l'esigenza di riformare il sistema educativo e formativo ormai troppo slegato dal mercato del lavoro, interessato dalle conseguenze dell'industrializzazione cibernetica che sposta l'attenzione, a livello economico, su un nuovo modo di ottenere vantaggio competitivo: è la risorsa umana con le sue competenze e peculiarità a garantire posizioni di successo e a generare nuove risorse.

(17)

Tale cambiamento prospettico contribuisce alla diffusione ed, allo stesso tempo, all'introduzione, di un concetto a noi caro, ossia quello di “formazione continua”, il quale comincia ad essere utilizzato in modo paradigmatico sia per riferirsi ai cambiamenti intervenuti nel campo educativo sia per ripensare e riformulare, secondo una nuova ottica, il problema della formazione e le sue politiche, non più solo esclusivamente orientate ad assicurare a tutti l'accesso alle opportunità educative.

Come spesso sottolineato, è nel momento in cui la globalizzazione sconvolge gli assetti esistenti che la necessità di realizzare una vera politica comunitaria, riguardante anche la formazione, si attesta sancendo nel 1992 la nascita dell'Unione europea. Con il

Trattato di Maastricht, che rappresenta il trattato costitutivo dell'Unione europea, si

afferma la volontà di integrare la dimensione economica, l'unica contemplata sino ad allora, con quella culturale, educativa e formativa. Mentre l'articolo 149 del Trattato di

Roma, il quale diede vita nel 1957 alla Comunità economica europea (CEE), faceva

riferimento solamente alla formazione professionale come ambito di azione comunitaria, gli articoli 3 e 127 del Trattato dell'Unione europea, ma in generale la nuova politica comunitaria, esprimono la consapevolezza dei Paesi membri del bisogno di una maggiore collaborazione nei campi dell'istruzione e della formazione, fondamentali nel processo di mutamento industriale, sociale ed economico. Per poter sostenere la crescita e la competitività a livello internazionale, l'Unione europea comprende di dover adottare un'ottica sistemica, in cui alla formazione continua si riconosce il ruolo chiave per affrontare i cambiamenti in atto. In un sistema economico di questo tipo, il tema della formazione, nella sua accezione di formazione professionale e continua, ricopre appunto un aspetto sempre più centrale delle politiche pubbliche a livello europeo, ma anche nazionale.

Il primo documento a riconoscere tale ruolo strategico, e più precisamente ad introdurre una logica di formazione continua, è il Libro Bianco su Crescita,

Competitività ed Occupazione del 1993 di Jacques Delors, che, oltre a definire la

formazione professionale e continua “cardine per la strategia di incremento per l'occupazione che a sua volta è la chiave per la crescita economica”, nella premessa generale afferma:

(18)

“le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo sono quelle che portano alla promozione di uno sviluppo sostenibile. In tale itinerario le economie europee hanno una carta preziosa che devono saper sfruttare: lo sviluppo del capitale non materiale, ovvero cultura, istruzione, competenze ed attitudine all'innovazione”8.

Ciononostante, l'intervento del 1993 si inserisce ancora in un ottica nazionale, poiché, secondo le disposizioni contenute nel trattato costitutivo della CEE, i singoli Stati membri hanno piena responsabilità della gestione e del coordinamento dei propri sistemi di istruzione e formazione, sulla base del “principio di sussidiarietà”, mentre alla Comunità europea con la propria azione integrativa è riconosciuto il compito di supportare lo sviluppo di un sistema di formazione di qualità senza però intervenire sul contenuto e l'organizzazione della formazione professionale. Tale aspetto ci spinge a considerare quanto il cammino europeo verso la consapevolezza dell'importanza della formazione, soprattutto quella dedicata al lavoro e alla qualificazione dei lavoratori, abbia avuto uno sviluppo lento e graduale, in quanto almeno inizialmente molti Stati membri non condividevano l'opportunità da parte della Commissione di legiferare su versanti, in particolare l'istruzione, considerati principi fondanti della storia e della cultura di un paese.

La svolta più profonda nelle politiche europee per la formazione si verifica con il Consiglio di Lisbona del marzo del 2000 nell'ambito del quale si decide di adottare una nuova policy, ossia quella del cosiddetto “metodo del coordinamento aperto”, in cui si prevede un'azione più consistente da parte dell'Unione volta all'individuazione di obiettivi comuni a tutti gli Stati membri e al monitoraggio dell'avanzamento dello stato dei lavori. Attraverso questo metodo, essa non si limita a fornire indicazioni generiche e a sostenere buoni rapporti tra gli Stati, ma predispone un quadro d'azione e di cooperazione più chiaro, in modo tale da far convergere le politiche nazionali per realizzare obiettivi condivisi da tutti. La volontà di partecipare in modo attivo rappresenta l'attenzione posta a livello comunitario ai mutamenti dovuti alla globalizzazione.

8

COMMISSIONE EUROPEA, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, Lussemburgo, 1993.

(19)

L'obiettivo strategico delineato dal Consiglio del 2000 per l'Europa del 2010 è quello di “diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”; di conseguenza, la Strategia di Lisbona, proponendosi di costruire un'Europa che avesse la conoscenza e la sua diffusione come leva fondamentale per il nuovo sviluppo, ha esaltato il valore dell'istruzione e della formazione, compresa quella continua.

L'idea, veicolata dall'appuntamento di Lisbona, per cui l'apprendimento per tutto l'arco della vita sia il mezzo non solo per competitività e occupazione, ma anche per inclusione sociale, cittadinanza attiva e sviluppo del potenziale individuale, contribuisce ad affermare il concetto di lifelong learning. Infatti, nelle società industriali, le quali ormai da tempo stanno affrontando la transizione verso la cosiddetta Knowledge

Society, si attesta con un nuovo significato la nozione di apprendimento per tutto l'arco

della vita, inteso come progetto politico.

Il concetto di lifelong learning, introdotto dall'UNESCO alla fine degli anni Sessanta come concetto cardine e principio guida per il rinnovamento dell'istruzione, ricompare, dopo essere stato al centro di dibattiti per un breve periodo, a metà degli anni Settanta con l'imporsi di nuove esigenze, assumendo da lì in poi diversi significati, che possono essere sintetizzati in due paradigmi.

Il primo, presente dall'inizio degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, inserisce il concetto di lifelong learning all'interno di una tradizione prettamente umanistica, poiché concepito come strumento sia per accedere a migliori condizioni sociali e di vita sia per adattarsi ai cambiamenti. Tale paradigma emerge nel momento in cui le aspettative riguardo la possibilità che le disuguaglianze economiche, sociali e culturali potessero essere superate attraverso l'istruzione, vengono deluse. Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, infatti, le attività e i programmi politici, essendo rivolti soprattutto alla ricostruzione economica e politica, impediscono di dedicarsi in maniera organica e approfondita ai temi educativi. Tuttavia, proprio a partire dalla seconda metà del Novecento, organismi internazionali concentreranno molta attenzione sulle problematiche educative inerenti gli adulti. Per rinnovare le attese che caratterizzarono il periodo post-bellico, in seguito al Rapporto Faure del 1972, dal titolo Learning to be, l'Istituto per l'Educazione dell'UNESCO inizia a realizzare

(20)

politiche e ricerche per l'educazione permanente.

Nonostante il concetto nella sua accezione umanistica ebbe una portata rivoluzionaria per la società civile, esso si colloca al polo opposto rispetto all'ondata neo-liberale che invase il mondo occidentale. Negli anni a venire le idee di uguaglianza, democratizzazione e società civile non avrebbero fatto parte dei dibatti sull'educazione, in quanto il secondo e nuovo paradigma, presente dalla fine degli anni Ottanta fino all'avvento del nuovo millennio, sarebbe stato animato da diversi obiettivi e aspirazioni.

Il secondo paradigma si attesta inseguito alla pubblicazione del rapporto OCSE,

Education and the economy in a changing society del 1989, che inquadra il lifelong learning in una visione prettamente economicistica. Ci troviamo in una situazione in cui

l'economia dell'OCSE viene travolta dall'incertezza e dal cambiamento e in cui l'istruzione inizia ad essere vista non solo come fonte di investimento ma anche come fattore di produzione. Ciò che si chiede è che l'educazione sia in grado di sviluppare capacità di innovazione e adattamento alle nuove tecnologie ed è in tal senso che la capacità dell'individuo di affrontare i cambiamenti e di trasformarli in vantaggi futuri viene riconosciuto come fattore chiave per lo sviluppo economico.

Nonostante il grande rilievo assunto dal secondo paradigma, sul finire del Novecento, tuttavia, si giunge ad un'elaborazione decisamente più matura dello stesso, in cui si abbandona la visione ristretta che lo aveva caratterizzato negli anni precedenti. Infatti, per quanto le esigenze di una maggiore produttività e di un miglioramento delle condizioni di vita fossero pregnanti, la New Economy poneva nuove sfide per la società, l'industria e gli individui, che se non soddisfatte avrebbero causato un inasprimento delle differenze socio-economiche. Le azioni politiche si concentrarono nell'elaborazione di una prospettiva economica più moderata, che aprì la strada ad una rinnovata veste del concetto del lifelong learning come progetto politico, di cui è espressione il documento di lavoro della Commissione europea del 30 ottobre 2000, A

Memorandum on Lifelong Learning. Riflettendo sulle conclusioni del Consiglio

europeo di Lisbona, secondo le quali il passaggio ad una economia e società basate sulla conoscenza deve essere accompagnato da un orientamento verso l'istruzione e la formazione permanente, esso parte dal presupposto che cambiamenti sociali ed economici contemporanei siano interconnessi e sottolinea due finalità ugualmente

(21)

importanti per il lifelong learning, ossia promuovere la cittadinanza e l'occupabilità. Allo stesso modo, la Comunicazione della Commissione europea, Making a European

area of lifelong learning a reality, redatta nel 2001, esprime con forza quanto finora

sostenuto.

Di conseguenza, a partire dal nuovo millennio, la Commissione europea sarà impegnata nel creare sistemi educativi tali da consentire un apprendimento continuo durante tutto l'arco della vita. Ciononostante, la strategia di Lisbona, elaborata nell'ambito del Consiglio europeo del 2000, che molta enfasi diede al tema dell'istruzione e della formazione (senza esclusione di quella continua), ha incontrato resistenze e difficoltà nella sua realizzazione, come testimoniano molteplici momenti di confronto.

Con lo scadere della data fissata al 2010 per il raggiungimento dei principali obiettivi, le indagini al riguardo hanno sottolineato un risultato deludente, che per la maggior parte è stato attribuito alla crisi economica e finanziaria in cui l'Europa è stata coinvolta negli anni 2008-2010.

La crisi infatti ha impedito il conseguimento degli obiettivi e delle finalità previsti nell'ambito della Strategia, poiché ha determinato difficoltà di natura economica, pressione anche riguardo l'evoluzione della coesione sociale e l'avvio di processi di trasformazione sociale.

In diversi ambiti essa ha conosciuto esiti non all'altezza delle aspettative e parziali fallimenti, come è successo per la formazione. A riguardo, si sono registrati livelli di impegno eterogenei da Paese a Paese, che hanno ovviamente inciso ed influito sulla complessiva riuscita degli interventi ed hanno ostacolato il processo di convergenza tra i diversi sistemi nazionali, come auspicato dalla stessa strategia. Inoltre, un altro aspetto critico evidenziato concerne la separazione del tema della formazione dalle politiche territoriali, industriali e dei servizi, a cui invece dovrebbe essere connesso al fine di garantire sviluppo e crescita dei sistemi in questione.

Il fallimento della Strategia di Lisbona ha contribuito a sottolineare la necessità per l'Europa di attuare una migliore collaborazione per uscire dalla crisi e rilanciare la crescita, obiettivo che potrà essere raggiunto trasformando l'Unione europea in “un'economia intelligente, sostenibile ed inclusiva caratterizzata da alti livelli di

(22)

occupazione, produttività e coesione sociale”.

Chiamando gli Stati membri a porre in atto azioni ed interventi, sempre in una logica comunitaria delle politiche, la nuova strategia, proposta dalla Commissione europea il 3 marzo 2010 ed adottata dall'Unione in occasione degli ultimi vertici dei Capi di Stato e di Governo del 17 giugno e del 25 e 26 marzo 2010, prende il nome di

Europa 2020, il cui obiettivo, come dichiarato da Barroso, è quello di ottenere “più

posti di lavoro ed una vita migliore”.

L'agenda programmatica che caratterizza la strategia si compone di tre priorità, cinque obiettivi e sette iniziative intimamente collegati e destinati a consolidarsi vicendevolmente.

Anzitutto, si sceglie di sostenere tre priorità economiche:

• crescita intelligente, vale a dire lo sviluppo di un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione;

• crescita sostenibile, per cui si intende la promozione di un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva;

• crescita inclusiva, ossia la realizzazione di un'economia che abbia un alto tasso di occupazione e che favorisca la coesione sociale e territoriale.

La strategia chiede agli Stati membri di realizzare cinque obiettivi o parametri, attraverso i quali sostenere le priorità sopra delineate e che dovranno essere raggiunti entro il 2020:

1) Occupazione: si auspica che il 75% delle persone con un'età compresa tra i 20 e i 64 anni abbia un lavoro.

2) Ricerca e innovazione: secondo tale obiettivo il 3% del PIL dell'Unione europea dovrebbe essere investito nell'area R&S, ossia ricerca e sviluppo.

3) Cambiamento climatico ed energia: i traguardi previsti da questo obiettivo, e che sono particolarmente ambiziosi, vengono indicati con la dicitura 20/20/20, in quanto ci si impegna entro il 2020 a ridurre i gas ad effetto serra e i consumi energetici del 20% e soddisfare il 20% del fabbisogno energetico mediante

(23)

l'utilizzo di risorse rinnovabili.

4) Istruzione: entro la data prevista si dovrebbe abbassare il tasso di abbandono scolastico al 10% ed alzare al 40% la percentuale dei giovani aventi una laurea. 5) Lotta contro la povertà: lo scopo è quello di togliere 20 milioni di persone dal

rischio povertà.

Per ciò che riguarda specificatamente il tema di nostro interesse, notiamo che la nuova strategia Europa 2020 non pone tra i suoi cinque obiettivi la formazione continua.

Tuttavia, pur non essendoci un esplicito riferimento e dovendo considerare gli obiettivi come interconnessi, sono soprattutto il primo ed il quarto a stabilire un collegamento con essa. In realtà, come accennato in precedenza, all'interno della strategia sono le cosiddette iniziative faro a delineare potenzialità più ampie per la formazione continua. In particolare tra queste ultime, che si configurano come sette aree di interventi concreti a sostegno degli obiettivi, troviamo la numero sei, denominata

Agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro. L'iniziativa è volta a porre le basi

per la modernizzazione dei mercati occupazionali, aumentando i livelli di occupazione e garantendo la sostenibilità dei modelli sociali nazionali man mano che i figli del baby boom raggiungeranno l'età pensionabile. Il cuore della sesta iniziativa è però rappresentato dall'attenzione posta sulle competenze, che vengono riconosciute come principale drivers per partecipare al mercato del lavoro e conciliare meglio l'offerta e la domanda di manodopera anche tramite la mobilità dei lavoratori, dando così la possibilità alle persone di migliorarle per tutto l'arco della vita.

Inoltre, essa punta a rendere più efficace l'analisi dei fabbisogni di competenze, a rivedere i sistemi di validazione delle competenze formali, non formali ed informali ed a rendere più flessibili i percorsi scuola/ formazione/ lavoro.

In sintesi, è chiaro come la nuova strategia, pur non facendone esplicito riferimento, chiami la formazione continua a svolgere un ruolo primario, nel momento in cui offre linee di indirizzo per le quali la crescita economica, lo sviluppo e la creazione di nuovi posti di lavoro passa attraverso le competenze esistenti, nuove e da acquisire. La valorizzazione della formazione continua si rende necessaria quando appaiono evidenti

(24)

le sue potenzialità: essa può consentire di cambiare agevolmente occupazione, evitare la disoccupazione di lungo periodo e di contrastare la perdita di capitale umano.

Per ciò che concerne l'aspetto operativo, ogni Stato membro dovrà adattare gli obiettivi generali a livello nazionale e dovrà redarre annualmente un testo, in cui inserire i traguardi che intende raggiungere rispetto ai cinque principali parametri di

Europa 2020.

La differenza sostanziale, che intercorre tra la nuova strategia e quella di Lisbona, è la maggiore considerazione delle peculiarità proprie di ciascun paese e dei risultati raggiunti. Infatti, al fine di incentivare un livello superiore di leadership e di responsabilità, si introducono misure volte a premiare gli Stati più virtuosi con incentivi sul fronte dell'accesso ai fondi europei e a riprendere attraverso raccomandazioni, se non sanzioni da parte l'Unione europea, quelli inadempienti.

Di conseguenza, nonostante la varietà e la complessità delle linee di indirizzo e degli strumenti operativi presenti a livello comunitario, si richiede, anche sulla base dell'esperienza passata, un impegno che sia continuativo e congiunto, così da realizzare quella crescita economica tanto agognata ed inseguita.

1.4. La formazione (professionale) continua in Italia: evoluzione del quadro normativo

L'evoluzione del quadro normativo italiano riguardante la formazione continua può essere indicata metaforicamente come un percorso tortuoso, difficile e complesso, fatto sì di ostacoli, ma anche di mete raggiunte. Quello che ha caratterizzato, ma che tutt'ora caratterizza, seppur con nuovi significati questo lungo percorso (non ancora concluso), è stata ed è senza dubbio la consapevolezza del valore strategico dello sviluppo culturale, ma soprattutto professionale, del cittadino lavoratore. In un mondo del lavoro fortemente globalizzato in continuo e rapido cambiamento, ciò che si attesta è la necessità di acquisire sempre nuove competenze al fine di rimanere competitivi dal punto di vista occupazionale. Il legislatore, allora, facendo proprie esigenze individuali e aziendali, ha cercato progressivamente di realizzare un sistema di formazione continua con la partecipazione dei vari attori sociali.

(25)

1.4.1. La Repubblica, garante dello sviluppo umano

I riferimenti legislativi fondamentali, per quanto attiene alla regolamentazione della formazione continua, prendono avvio sin dalle pagine della Costituzione.

La Repubblica, rispettivamente negli articoli 3, 35 e 117, attribuisce alla formazione il ruolo di strumento per “il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; si impegna a curare la “formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori” e attribuisce alle Regioni competenza in materia di formazione professionale9.

1.4.2. La formazione professionale nella Legge Quadro del 1978

Il primo intervento legislativo a favore della formazione professionale è la legge n. 845/1978, ossia Legge-quadro in materia di Formazione Professionale, la quale suggerisce un'impronta rispetto a ciò che sarà l'evoluzione normativa di interesse.

A seguito del decentramento realizzato nel 197210 inizia a diffondersi la consapevolezza che alle Regioni si dovesse riconoscere un ruolo centrale nel panorama della formazione professionale, alla quale veniva affidato il compito sia di recuperare i giovani, che decidevano di abbandonare la scuola o che non conseguivano neppure la terza media, sia di rendere più stabile il biennio di formazione professionale. Si pensava che essa avrebbe dato, in primo luogo, accesso al mondo del lavoro e che, una volta acquisita una veste professionale, alla persona sarebbe stata data la possibilità di aggiornarsi o ristrutturasi a seconda delle esigenze e situazioni. Tali considerazioni, supportate dall'intensa crisi economica e dalla conseguente necessità di riconversione dell'apparato produttivo propria degli anni Settanta, determinarono l'emergere nel Paese di un consistente dibattito, che portò all'elaborazione e all'approvazione della Legge quadro del 1978: la necessità di una riforma del settore venne recepita da tutte le rappresentanze del Paese, tanto che si decise di sospendere i lavori parlamentari e di

9

POSO V. A. (a cura di), Costituzione della Repubblica Italiana, Edizioni ETS, Pisa, 2001.

10

(26)

dare vita ad una Commissione Interpartitica, con la partecipazione di esperti.

Specificatamente, prendendo a riferimento il testo della norma, essa ribadisce, con richiamo alla Costituzione, che lo Stato ha il compito di “rendere effettivo il diritto al lavoro e alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l'acquisizione di una cultura professionale” (art. 1). Come accennato in precedenza, la legge esprime una fondamentale consapevolezza, maturata in quel periodo, ovvero il fatto che alla formazione professionale spettasse il ruolo di strumento di politica attiva del lavoro, strumento che “si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e (che) tende a favorire l'occupazione, la produzione e l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico” (art. 1). Viene, inoltre, sottolineato con forza l'aspetto continuativo della formazione, ed in tal caso di quella professionale, la quale non deve essere intesa in modo superficiale come un momento antecedente l'entrata nel mondo del lavoro, quanto piuttosto come occasione volta “alla riqualificazione, alla specializzazione, all'aggiornamento ed al perfezionamento dei lavoratori in un quadro (appunto) di formazione permanente” (art. 2).

Disposizioni salienti sono anche quelle esplicitate negli articoli successivi, che si preoccupano: di regolare al meglio i confini fra le competenze di stato e regione, conferendo, con ulteriore cenno alla Costituzione, potestà legislativa alle Regioni riguardo l'orientamento e la formazione professionale (artt. 3 e 4); di impartire disposizioni generali sull'organizzazione delle attività e sulla loro tipologia (art. 5 e art. 8); di regolare i diritti degli studenti; di definire gli ambiti della formazione, coordinando quella (di base) statale, quella regionale e quella autonoma del sistema delle imprese, dando spazio anche a convenzioni tra privati.

Non solo, attraverso l'articolo 25, che risulta così di primaria importanza, si sancisce la creazione del Fondo di Rotazione, finanziato con i due terzi delle maggiori entrate derivante dall'aliquota dello 0,30% delle retribuzioni soggette all'obbligo contributivo. Il nuovo Fondo viene istituito successivamente alla soppressione del Fondo addestramento professionale lavoratori (art. 23) e rappresenta la possibilità di accedere al Fondo Sociale Europeo, in quanto stabilisce chiaramente quale sia la fonte di cofinanziamento dei progetti formativi.

(27)

Nonostante l'innovativo spirito della legge, essa non riuscì a raggiungere i risultati sperati, forse anche a causa della molta attenzione che all'inizio degli anni Ottanta lo Stato dovette riporre nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici e nella gestione dei riflessi della cosiddetta “marcia dei quarantamila quadri FIAT” tenutasi a Torino. Il dialogo fra periferia e centro è venuto a mancare, così come i successivi provvedimenti che avrebbero dovuto realizzare azioni condivise con il coinvolgimento dell'intero territorio. La maggiore esperienza negativa si è registrata soprattutto nelle regioni del Sud, le quali non riuscirono a comprendere quanto la formazione professionale avrebbe fatto per l'occupazione dei giovani e la riconversione degli adulti11.

1.4.3. La nascita del sistema nazionale di formazione continua: gli anni Novanta

e la legge n. 236/1993

Per ciò che attiene all'insieme delle norme, tutt'ora vigenti, che concorrono a disciplinare la materia della formazione continua, esse, nonostante traggano alcuni principi chiave nella Legge quadro in materia di Formazione Professionale, sono state ratificate a partire dal 1993.

Ora, data la complessità del quadro normativo italiano, alcuni autori hanno cercato di individuare un filo conduttore, che potesse fare chiarezza rispetto alla molteplicità e varietà di interventi realizzati nel corso del tempo. Tra gli altri, risulta interessante il contributo dato da Varesi, per cui la legislazione in materia a partire dagli anni Novanta potrebbe essere ricondotta a tre principali filoni, che si intrecciano ed operano in parallelo12. Il primo fa riferimento ai finanziamenti da parte della pubblica amministrazione per interventi di formazione continua, derivanti specificatamente dal Fondo sociale europeo e dalle risorse messe a disposizione tramite uno specifico intervento normativo (art. 9 della legge n. 236/1993). Il secondo vede venir meno il ruolo della pubblica amministrazione e demanda il finanziamento delle attività di

11

VALENTINI A., L'elaborazione della riforma e la Legge Quadro 845/78, in Formazione&Lavoro, 2016, n. 1, pp. 48-51.

12

CORTELLAZZI S. (a cura di), La formazione continua. Cultura norme organizzazione, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 8.

(28)

formazione continua a fondi gestiti congiuntamente dalle Parti sociali, che, istituiti nell'ambito della Legge finanziaria del 2001, prendono il nome di Fondi paritetici interprofessionali nazionali. Il terzo filone riguarda, invece, il riconoscimento ai lavoratori, dipendenti da datori di lavoro pubblici e privati, del diritto di congedi per la formazione, disciplinati nell'ambito del provvedimento n. 53/2000.

Da un'analisi più approfondita, quest'ultimo, attuando una sorta di completamento rispetto a quanto già dispoto dalla normativa vigente, sembra svilupparsi in modo autonomo rispetto agli altri due. Nello specifico, la legge n. 53/2000, intitolata

Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città, racchiude negli articoli 5 e

6 indicazioni importanti, poiché riconosce il diritto ai lavoratori ad una formazione continua, indipendentemente dal fatto che questa rientri in piani aziendali. Viene data la possibilità a ciascun lavoratore di chiedere congedi per partecipare ad attività di formazione, qualora queste vengano considerate indispensabili per la propria crescita culturale e professionale. Di conseguenza, la norma non riguarda soltanto la formazione continua, ma si estende all'educazione permanente. A ben vedere, disposizioni simili a quelle contenute nell'articolo 5 si ritrovano già nello Statuto dei lavoratori13, per cui all'articolo 10 si attribuisce ai lavoratori inseriti in percorsi di studio il diritto “a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami” e il mancato obbligo a svolgere prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. In aggiunta a quanto stabilito dallo Statuto, il suddetto articolo riconosce al lavoratore, che abbia almeno cinque anni di anzianità di servizio presso la medesima azienda o amministrazione, il diritto ad usufruire di congedi non retribuiti volti a: completare la scuola dell'obbligo; conseguire il titolo di studio di secondo grado, il diploma universitario o di laurea; partecipare ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro. La concessione del congedo può essere

13

La legge numero 300 del 20 maggio 1970 è una delle principali normative della Repubblica Italiana in tema di diritto del lavoro, con cui si introdussero importanti e notevoli modifiche sul piano delle condizioni di lavoro, dei rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, prevedendo alcune disposizioni a tutela di questi ultimi, e delle rappresentanze sindacali. La legge, segno della grande espansione del garantismo normativo e meglio nota come Statuto dei lavoratori, giunge a maturazione sulla spinta delle lotte operaie degli anni '68/'70. In realtà, si tratta di un intervento atteso già all'indomani della Costituzione, ma che verrà fatto proprio dai primi governi di centro-sinistra dal 1962 in avanti fino al suo sviluppo in legge.

(29)

temporaneamente negata dall'azienda per comprovate necessità produttive e/o organizzative; inoltre, la sospensione del rapporto per tali congedi non potrà superare il periodo, frazionato o continuativo, di undici mesi nell'arco dell'intera vita lavorativa. Non solo, il lavoratore potrà in questo caso anche usufruire di specifiche agevolazioni sul piano previdenziale, scegliendo o di riscattare i periodi di congedo formativo ovvero a versare i relativi contributi (ovviamente calcolati secondo i criteri indicati per la prosecuzione volontaria) o di prolungare il rapporto di lavoro di un periodo pari alla durata dei congedi utilizzati, anche in deroga alle disposizioni concernenti l'età di pensionamento obbligatoria. Come emerge dall'articolo 5, occorre che l'ordinamento conferisca una particolare attenzione all'interesse del lavoratore a migliorare la propria cultura e professionalità anche non in relazione alle scelte aziendali. Ciò trova sostegno nel fatto che il suo soddisfacimento corrisponde ad un interesse della collettività sulla base del dettato costituzionale; di conseguenza, al datore di lavoro viene chiesto di concorrervi, dando la possibilità al lavoratore di assentarsi per partecipare ad attività formative e pur facendosi carico degli eventuali effetti negativi dei congedi sull'organizzazione del lavoro. Per ciò che riguarda, invece, l'articolo 6, esso disciplina i congedi per la formazione continua e ribadisce la responsabilità di Stato, Regioni e enti locali nel garantire un'offerta formativa idonea alle esigenze del territorio. Quest'ultima deve coincidere con percorsi personalizzati, che vengano certificati e riconosciuti come crediti formativi sia a livello nazionale sia a livello europeo. La volontà di partecipare a percorsi di formazione continua può essere espressa non solo dal lavoratore, ma anche specificatamente dall'azienda, attraverso piani formativi aziendali o territoriali in accordo con le Parti sociali. Inoltre, le modalità, con cui i lavoratori possono beneficiare dei congedi, dipendono dalla contrattazione collettiva.

Ciononostante, al di là degli autorevoli contributi sul tema della formazione continua presenti in letteratura, nel corrente lavoro l'evoluzione normativa verrà trattata e contestualizzata prevalentemente nel suo sviluppo cronologico. Come precedentemente accennato, è soltanto nel corso degli anni Novanta che in Italia vengono determinate linee di azione decisive per la creazione di un sistema di formazione professionale rivolta agli occupati. Molta parte in tal senso deve essere riconosciuta alla programmazione del Fondo sociale europeo riferita all'annualità

(30)

1994-1999, che tramite l'Obiettivo 4, volto a favorire l'adattamento dei lavoratori ai mutamenti industriali e all'evoluzione dei sistemi di produzione, ha dato impulso ad una fase particolarmente fruttuosa; infatti, tra gli altri paesi europei, l'Italia ha accolto con prontezza le opportunità offerte dalla programmazione del FSE, conferendole valore nell'ambito di strategie concertate.

Indipendentemente dal contributo comunitario, il sistema della formazione continua nel nostro Paese, fino al 1994, ha da sempre visto la presenza di un'offerta formativa privata molto diffusa.

Le imprese predisponevano per i dipendenti sia piani formativi ad hoc sia percorsi di apprendimento o affiancamento, che talvolta non venivano considerati come formazione da parte della medesima azienda. Solamente a partire dagli anni Novanta, allora, si sono realizzate le condizioni per la creazione di strumenti atti a cofinanziare con risorse pubbliche gli interventi formativi. Si inizia ad attestare la presenza di un'offerta formativa pubblica e, soprattutto, di un sistema della formazione continua caratterizzato dalla forza delle Parti sociali nel contrattare tanto il finanziamento quanto la gestione della formazione; le norme, in materia di formazione continua varate dal 1993 in poi, si andranno ad inserire in un momento forte della politica concertata.

In quel periodo, infatti, si registra una ripresa del confronto triangolare, a causa del mutato panorama economico. Ciò che preoccupa, rispetto al decennio precedente, e che grava sul contesto politico ed economico italiano sono sicuramente fattori quali: il risanamento del bilancio statale ed il controllo dell'inflazione, vincoli ineludibili per rispettare i parametri di Maastricht; la disoccupazione dilagante, a livello statale; il controllo dei costi di fronte ad una sempre maggiore competizione internazionale; la garanzia della cooperazione della forza lavoro, a livello imprenditoriale, esigenza questa che rilancia l'importante ruolo di mediatore dei sindacati, capaci di realizzare politiche consensuali di moderazione salariale. Il cambiamento economico comporta, di conseguenza, modificazioni negli interessi dei diversi attori delle relazioni industriali - Stato, imprese e sindacati- rendendo cruciale la trattazione di tipiche materie oggetto della concertazione triangolare, ossia le politiche dei redditi, il welfare e l'occupazione.

Dal punto di vista economico, il nuovo contesto, necessitando di maggiore stabilità e prevedibilità degli esiti, suggerisce che questi risultati possono ottenersi più

(31)

agevolmente solo mediante politiche definite con un consenso a livello nazionale. Non solo, anche in relazione alla formazione professionale, il mutato panorama contribuisce a diffondere l'idea che essa abbia, nei processi di sviluppo industriale e del lavoro, un peso sempre più rilevante. La formazione, intesa come processo continuo, diviene uno strumento strategico sia per generare nuova occupazione sia per difenderla adeguatamente attraverso l'acquisizione di competenze professionali all'altezza delle esigenze del mercato.

Alla legge n. 236/1993 fanno da sfondo gli accordi tra le Parti sociali del 1993, che hanno rappresentato le premesse dell'esperienza di sostegno effettivo alla sviluppo di un sistema di formazione continua in Italia. Conclusi tra gennaio e luglio, sono espressione della volontà delle Parti sociali di realizzare sia nuove politiche del lavoro, che prendano in considerazione l'intero ciclo di vita dell'individuo, sia un intimo legame tra gli strumenti atti a gestire le eccedenze e l'orientamento, la formazione professionale e il collocamento. Il sindacato, consapevole del proprio ruolo, si pone a sostegno di iniziative che migliorino le capacità professionali del lavoratore e conferiscano forza al suo potere contrattuale sul mercato del lavoro. Le intese bilaterali di gennaio, febbraio e maggio danno luogo ad accordi che prevedono l'istituzione e il rafforzamento degli organi per la programmazione e lo sviluppo di attività formative; le parti sociali, in tal senso, mostrano per la prima volta l'interesse ad operare congiuntamente e direttamente riguardo alle tematiche della formazione e alle politiche attive del lavoro, definendo in maniera precisa il proprio ruolo rispetto ai soggetti di governo.

A luglio, infine, si realizza l'accordo fra Organizzazioni sindacali, la Confindustria e il Governo, che affrontando uno dei temi salienti della relazioni industriali, ossia la negoziazione dei diritti generali dei lavoratori, assegna alla formazione alcuni importanti compiti. É però nel protocollo, sottoscritto il 23 luglio, che si affronta in concreto la questione del riordino del sistema formativo, e in modo prioritario il tema della formazione continua, per cui si suggerisce, tra gli interventi, la revisione della legge n. 845/1978 in materia di formazione professionale e la destinazione ad essa delle risorse finanziarie derivanti dal prelievo dello 0,30% a carico delle imprese. Ciò che è necessario sottolineare è il fatto che le parti ritengano essenziale dare avvio alla formazione continua, considerata ora elemento indispensabile alla modernizzazione,

(32)

alla riqualificazione del sistema formativo ed alla competitività sui mercati.

Frutto del suddetto scenario, dal punto di vista normativo, è la legge n. 236/1993, intitolata Interventi urgenti a sostegno dell'occupazione, attraverso cui vengono introdotti alcuni importanti elementi atti allo sviluppo di un sistema nazionale organico di formazione continua.

Nonostante sia stata concepita per gestire fenomeni di crisi e di ristrutturazione in corso e di grave entità, con essa lo Stato riconosce per la prima volta il fondamentale contributo che le imprese danno alla collettività quando operano in modo attivo nei confronti dei propri dipendenti.

Essa sancisce in maniera forte, al di là di quanto previsto dai piani cofinanziati dal Fondo sociale europeo, l'inizio del finanziamento di interventi formativi per lavoratori occupati in posizione di lavoro dipendente o appartenenti a specifiche categorie.

Peculiarmente l'articolo 9, ossia Interventi di formazione professionale, riconosce alle Regioni e Province autonome l'opportunità di stipulare convenzioni con organismi paritetici, istituiti sulla base di accordi tra le Parti sociali così da analizzare situazioni occupazionali locali e fabbisogni formativi (comma 1). Il comma 2 dello stesso articolo dispone che il Ministero del Lavoro, d'intesa con le Commissioni regionali per l'Impiego, abbia il compito di finanziare interventi di councelling e di orientamento rivolti ai lavoratori e, specialmente, a quelli inseriti in processi di mobilità, anche in ambito comunitario. I commi 3 e 3 bis risultano significativi poiché, rendendo concrete le indicazioni presenti nella Costituzione e riguardanti il diritto alla formazione del cittadino ed in particolare del lavoratore, rappresentano il luogo giuridico su cui attestare l'avvio di interventi formativi rivolti a determinate categorie di lavoratori occupati, oltre che a specifiche fasce di popolazione.

Nello specifico, le tipologie di intervento formativo per cui è previsto il finanziamento e i rispettivi destinatari sono:

• interventi di formazione continua, di aggiornamento o riqualificazione per operatori della formazione professionale;

• interventi di formazione continua a lavoratori occupati in aziende beneficiarie dell'intervento straordinario di integrazione salariale;

(33)

• interventi di riqualificazione o aggiornamento professionale per dipendenti di aziende che contribuiscano in misura non inferiore al 20% del costo delle attività;

• interventi di formazione professionale destinati ai lavoratori iscritti nelle liste di mobilità.

L'articolo 9 della suddetta legge, tramite il comma 5, ha disposto, sul piano finanziario, l'istituzione di un Fondo unico per la formazione professionale, in cui confluiscono:

• le risorse del Fondo di rotazione, creato dall'articolo 25 della legge n. 845/1978, attraverso il versamento dello 0,30% delle retribuzioni soggette all'obbligo contributivo;

• le risorse destinate a progetti formativi avviati in casi di rilevanti squilibri locali tra domanda e offerta di lavoro, secondo l'articolo 26 della legge n. 845/1978; • i fondi destinati ai centri privati di formazione professionale, previsti dalla legge

n. 48/1987;

• le risorse relative al Fondo per la mobilità della manodopera, istituito dall'articolo 26 della legge n. 675/1977.

Tale disposizione si rivela decisiva in quanto consente di operare su più fronti, dando unità all'insieme di norme che regolano i flussi finanziari, snellendo le procedure di erogazione delle risorse e rafforzando la concertazione tra Stato, Regioni e Parti sociali ai fini della definizione dei criteri di utilizzo dei finanziamenti.

Ciononostante la suddetta legge, ad eccezione di quanto previsto dal comma 7, non precisando le modalità attraverso cui programmare e realizzare gli interventi, ha impedito per lungo tempo di realizzare le potenzialità previste dai commi 3 e 3 bis. Solo alla fine del 1995 il Ministero del lavoro, sollecitato dalle pressioni sindacali, deciderà di intraprendere l'iter di definizione dei provvedimenti d'attuazione, che stanzieranno con cadenza pressoché annuale risorse per il finanziamento di varie tipologie di

Riferimenti

Documenti correlati

Resta comunque ferma per la Compagnia la facoltà di detenere una parte del patrimonio dei Fondi in disponibilità liquide coerentemente con lo scopo e le caratteristiche dei Fondi

I membri del Parlamento non possono essere destituiti dalla loro carica se non al termine della legislatura e beneficiano di determinate immunità: non rispondono dei reati di

pena sottolineare come il contributo aziendale versato a favore dei Fondi Interprofessionale inneschi un circo- lo virtuoso a favore della formazione, della qualificazio- ne e

 la descrizione del proprio sistema di gestione delle risorse assegnate dall’INPS, distinte per singola categoria di entrata e di uscita, con evidenza: delle procedure di

Il Fondo Sociale Europeo incentiva la formazione continua intesa come adeguamento dei lavoratori all'evoluzione dei sistemi produttivi e alle trasformazioni industriali, con

La dimensione online della rivista e l’open access, oltre ad averci garantito una completa indipendenza editoriale, hanno consentito la piena circolazione del materiale pub-

Quindi, sia attraverso il Conto Formazione che sulla base degli avvisi promossi dal Fondo per il Conto di Sistema , nei casi sopra citati e per i lavoratori posti in cassa

La principale attività del Fondo è quella di mettere a disposizione delle aziende e dei lavoratori risorse per il finanziamento di piani formativi aziendali, territoriali, settoriali