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L'INCIDENZA DELLE PROTESI SULLA VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE

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L'INCIDENZA DELLE PROTESI SULLA VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE

di

Maurizio Govoni* Luigi Mastroroberto**

Una delle caratteristiche fondamentali della Scienza Medica è il suo continuo evolvere, a volte con ritmi addirittura frenetici, in funzione non solo e non tanto dell'accrescersi della conoscenza dei meccanismi anatomo bio-patologici, ma anche e forse soprattutto, delle acquisizioni in campo terapeutico.

E' noto a tutti come, principalmente negli ultimi decenni, la Medicina è riuscita a debellare malattie fino ad allora responsabili di epidemie ad alta incidenza di mortalità, a mutare radicalmente la prognosi di altre, sia quod Vitam, sia quoad valetudinem, tanto da ridare vita, validità ed efficienza a pazienti che in passato erano inesorabilmente condannati a morte o a condizioni altamente inabilitanti.

Non sempre però la Medicina-Legale, vuoi anche per limiti oggettivi, intrinseci alla sua stessa natura dottrinaria, riesce a tenere il passo con questo continuo evolvere delle conoscenze, specie in quella sua specifica branca che si occupa della valutazione degli effetti di condizioni morbose.

Tali limiti emergono poi in maniera del tutto particolare proprio nei confronti dell'argomento che oggi dovremo affrontare, quello cioè riguardante il modo in cui l'utilizzo di un presidio artificiale, modificando in misura più o meno rilevante le conseguenze funzionali di una data menomazione, debba o, quanto meno possa, influenzare alla fine il giudizio valutativo medico-legale della stessa menomazione.

Come meglio vedremo in seguito, vi sono in tal senso dei limiti oggettivi, non certo imputabili alla Medicina Legale, rappresentati da vincoli a volte tassativi, che relegano il ruolo del medico valutatore a quello di semplice (in alcuni casi semplicistica ) applicazione di parametri evidentemente predefiniti per legge o per contratto, parametri evidentemente modificabili solo operando sulla legge o sul contratto che li definisce.

In altri ambiti ambiti invece, laddove questi vincoli sono meno tassativi o addirittura assenti, bisogna prendere atto di come sia anche l'evoluzione del pensiero dottrinario a muoversi con dei ritmi inadeguati rispetto a quelli delle continue acquisizioni medico-scientifiche e tecnologiche.

Ciò in particolare, come si diceva sopra, nello specifico campo di cui oggi ci occupiamo, quello cioè dell'approccio metodologico valutativo di soggetti riabilitati mediante protesi.

Il discorso andrebbe allargato anche alle cosiddette protesi interne, che pure negli ultimi anni hanno subito evoluzioni tecnologiche ragguardevoli, modificando sensibilmente la prognosi di menomazioni altrimenti altamente invalidanti.

Elemento essenziale per comprendere fino a che punto una riabilitazione protesica possa modificare una altrimenti inevitabile condizione altamente menomativa, è la conoscenza delle problematiche e delle possibilità che sono collegate, subordinate e successive alla realizzazione di un progetto riabilitativo-protesico, così come questo viene oggi comunemente reso operativo nei Centri italiani. Tale conoscenza, per la specifica esperienza lavorativa del Dr.

Govoni, è stata approfondita nel settore delle neuromotulesioni e in particolare negli amputati,

* Primario medico-legale Inail Bologna

** Consulente Centrale Unipol Bologna

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attraverso un'indagine che ha evidenziato in particolare gli aspetti psicologici e sociali che si accompagnano e conseguono ad un evento traumatizzante grave, quale quello della perdita di uno o più arti.

Il fine di tale ricerca (illustrata al VII Simposio Alpino-Adriatico di Garmisch- Partenkirchen-Murnau, 1991) è stato quello di raggiungere la massima conoscenza possibile dei problemi delle persone colpite da una condizione di disabilità fisica, per poi compiere opera di prevenzione ed evitare il più possibile le frustrazioni derivanti o da un mancato adattamento alla condizione di disabilità o da risposte inadeguate dell'ambiente sociale.

Lo studio, condotto su 80 soggetti amputati, protesizzati da almeno 5 anni, è consistito in un'indagine accurata che ha esplorato le seguenti aree tematiche:

-l'autonomia raggiunta -i rapporti individuo-famiglia -i rapporti di coppia

-i rapporti individuo-scuola -i rapporti individuo-lavoro -le abitudini di vita

-i rapporti individuo-società

-il vissuto personale rispetto all'amputazione ed alla protesi, -atteggiamento verso la vita e le aspettative nei riguardi del futuro -i rapporti individuo-operatori.

Fra le premesse di tale studio si è infatti constatato che le problematiche e le possibilità per l'amputato già sottoposto a riabilitazione protesica sono strettamente connesse ad un corretto modo di affrontare tutte le tematiche di interesse per l'uomo, nella convinzione che un attributo fisico può diventare handicappante non perché solo fisicamente limitante, ma perché colpisce negativamente la psiche della persona e i suoi rapporti sociali.

Esaminando nei dettagli i risultati dell'indagine si è constatato che malgrado il percorso fatto, accanto a dati positivi, a nostro avviso estremamente incoraggianti, dimostrativi di come si possa e si debba raggiungere un rilevante grado di recupero del soggetto amputato, stanno di contro elementi di riscontro negativi, che innescano meccanismi psico-involutivi e rinunciatari gravi nella persona affetta da disabilità, fino in alcuni casi, ad un senso di fallimento totale.

In particolare è emerso che la protesi viene usata per l'intera giornata dalla grandissima maggioranza degli intervistati che con essa hanno raggiunto una autonomia tale da consentire loro di: uscire di casa, usare l'auto ed altri mezzi di trasporto, trascorrere in sicurezza anche tutta la giornata fuori casa, frequentare la scuola, impegnarsi in attività lavorative le più diverse, in rapporto all'adattamento nel mercato del lavoro e infine, dato da non sottovalutare, impegnarsi anche in attività sportive. La condizione disabilitante in questi casi, non ha inoltre impedito il realizzarsi di una vita affettiva piena e soddisfacente, come il formarsi una famiglia, avere figli, sentirsi parte attiva in famiglia, incontrare amici, avere impegni sociali, non provare senso di inferiorità, continuare ad avere cura del proprio corpo e del proprio aspetto, con il risultato in definitiva di ottenere una "accettazione serena della vita" ed una "visione ottimistica del domani".

Come si diceva prima però, in questo quadro sostanzialmente positivo si deve tenere in debito conto che, in funzione delle caratteristiche somato-psicologiche del soggetto e del contesto culturale di appartenenza, possono verificarsi condizioni tali da interferire o ostacolare un corretto e completo approccio e quindi una soluzione ottimale dei problemi di queste persone.

Dallo studio emerge infatti anche una certa percentuale, numericamente non trascurabile, di soggetti che hanno avuto difficoltà di adattamento, non hanno frequentato corsi di

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qualificazione e riqualificazione professionale, sono divenuti disoccupati o hanno potuto lavorare solo per coincidenze aziendali favorevoli.

Ciò è risultato anche nel contesto familiare e sociale, per quei soggetti che, vuoi anche per una certa povertà dell'intervento pubblico, incontrano ostacoli ad uscire di casa, avvertono di essere osservati dagli "altri" e si sentono inferiori anche con sentimenti di forte travaglio interiore, con il risultato di vivere il presente e pensare al domani con rassegnazione, depressione, ansia, preoccupazione, fino ad una visione drammatica e ad un senso di fallimento totale.

Tutto ciò dimostra che in casi del genere, pur a fronte di menomazioni così rilevanti, è possibile giungere ad un più che soddisfacente reinserimento attivo del soggetto nella società sotto ogni titolo, ma solo a patto che si segua un percorso riabilitativo funzionale a tutte le arie tematiche sopra indicate, unica strada per evitare o contrastare le conseguenze secondarie della riabilitazione protesica, così come oggi viene attuata nella massima parte dei casi.

Si tratta ora di capire come può essere attuato questo reinserimento e come si può ottenere il recupero della capacità lavorativa.

A questo proposito è fondamentale comprendere che questa deve essere intesa come una proiezione dell'attitudine al lavoro conseguenza di requisiti naturali ed acquistati, che ogni individuo possiede, ma che è poi inefficace se non viene convertita in concreta possibilità di lavorare.

Se deve d'altra parte considerare che, in presenza di determinati handicaps, tale conversione può non attuarsi se non vi è il supporto di un apprendimento professionale, di una scelta lavorativa adeguata e dell'adattamento dei mezzi di lavoro.

Ed uno degli assunti di cui bisogna tenere conto per raggiungere questi obiettivi è che ad ogni condizione di disabilità corrisponde quasi sempre una situazione di residue abilità, che possono essere utilizzate per una reale operatività lavorativa.

A tal proposito sono nati negli ultimi anni dei sistemi di aiuto per l'inserimento lavorativo della persona disabile che si prefiggono di valutare da un lato le abilità del soggetto che si offre sul mercato di lavoro, dall'altro i requisiti che una determinata mansione richiede per poter essere esercitata correttamente.

Uno di tali metodi (l'E.A.M., Ertomi Assesment Method), che raccoglie i criteri valutativi individuati in comune da Americani e Tedeschi è utilizzato in molti paesi oltre che evidentemente in Germania e Usa.

Si basa sul rilievo del profilo delle abilità che descrive con chiarezza quali sono ed in quale misura si sono conservate le abilità di base ancora disponibili e sul profilo dei requisit" di un determinato posto di lavoro.

I due profili sono facilmente comparabili perché basati sugli stessi criteri classificatori e parametrici. Con ciò è possibile, per buona parte delle persone handicappate in età lavorativa, essere collocati adeguatamente nel posto di lavoro più adatto con un rendimento lavorativo analogo a quello del soggetto non disabile, anche se a volte può essere necessario, come si diceva, fare adattamenti al posto di lavoro o modificare gli strumenti di lavoro.

E da tutto ciò emerge che il recupero deve essere necessariamente mirato, per una capacità lavorativa specifica, in modo da tener conto della efficienza globale dell'individuo in rapporto ad una sua concreta occupabilità ed in base a condizioni in cui essa possa di fatto realizzarsi, perseguendo in ultima analisi l'autonomia a pieno campo del soggetto.

Sin qui dunque abbiamo visto come e fino a che punto una corretta riabilitazione protesica dell'amputato può conseguendo tutti i suoi obiettivi consentire il recupero del soggetto permettendogli di riacquistare una soddisfacente autonomia di vita ed una altrettanto soddisfacente ricollocazione nel mondo del lavoro attivo, fino addirittura al totale recupero della precedente condizione lavorativa-lucrativa.

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Tornando al tema della relazione, mi pare si possa dunque innanzitutto formulare una considerazione forse elementare, ma che a nostro avviso rappresenta il punto cardinale del tema in discussione: a fronte di una analoga menomazione vi può essere, a seconda del grado di riabilitazione raggiunto, una enorme diversità nel risultato finale di quel risultato che in teoria, dovrebbe essere l'oggetto della valutazione medico-legale.

Ne consegue una seconda considerazione altrettanto elementare, indispensabile premessa ad un teorico corretto approccio valutativo, ossia che è concettualmente improponibile porre sullo stesso livello valutativo soggetti amputati riabilitati protesicamente in maniera ottimale e soggetti portatori della stessa mutilazione, ma che per i motivi che abbiamo appena visto, non riescono a conseguire gli stessi risultati, ovvero soggetti che, per motivi diversi dalla amputazione (quali ad esempio le lesioni neurologiche) hanno di fatto una analoga perdita della specifica funzione presa in esame in nessun modo terapeuticamente migliorabile.

Come però si diceva all'inizio, nonostante la semplicità e la evidenza di queste constatazioni, in buona parte dei campi applicativi della Medicina Legale il parametro "riabilitazione"

dell'amputato assume una importanza del tutto marginale, essendo poco o nulla rilevante ai fini del giudizio valutativo finale e ciò soprattutto per quei vincoli legislativi e contrattuali di cui sopra si diceva.

In campo penalistico, ad esempio, la questione della protesizzazione di un arto amputato si pone in relazione alle aggravanti sotto il profilo biologico; il delitto di lesione personale nelle due ipotesi, quella della perdita di un arto e quella della mutilazione che rende l'arto inservibile, circostanze che rendono gravissima la lesione personale.

Ed in questo caso dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'affermare che, tutelando la legge penale la incolumità personale e le funzioni naturali, la presenza di una protesi, anche se ben tollerata ed efficiente e, a maggior ragione, la sola possibilità di applicare l'artefatto, sono circostanze del tutto ininfluenti ai fini della non emergenza delle aggravanti di cui sopra. La stessa dottrina è però anche concorde nel ritenere che tali circostanze debbano essere comunque accertate, potendo esse essere prese in considerazione dal Magistrato, nell'ambito della discrezionalità che gli compete nel fissare la pena in relazione alle maggiori o minori condizioni oggettive di danno.

In altri ambiti la valutazione medico-legale delle amputazioni degli arti rappresenta, addirittura una pura formalità, trattandosi di menomazioni tabellarmente codificate, nei confronti delle quali il giudizio del medico valutatore è finalizzato esclusivamente ad accertare il livello di amputazione, senza per nulla tener conto delle possibilità di recupero della funzione perduta mediante protesi (come nel caso della Infortunistica Privata) o dando un valore del tutto marginale a questa riabilitazione.

E' il caso ad esempio di quanto previsto dalla pensionistica privilegiata o dalla nuova tabella per le invalidità di cui al Decreto Ministeriale del 5/2/92, che fa unico riferimento alla emendabilità mediante protesi di lesioni amputanti, fissando al 46% il valore da assegnare per la "amputazione di gamba terzo medio protesizzabile", evidentemente quindi, in maniera del tutto svincolata dal conseguimento o meno, dopo la protesizzazione dell'arto, anche di un accettabile grado di riabilitazione.

Continuando con gli esempi anche il T.U. delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni propone una metodologia valutativa del tutto analoga, prevedendo peraltro uno strumento normativo che, di tutto rilievo sul piano concettuale, accentua forse le contraddizioni insite in questo criterio di indennizzo delle lesioni amputanti.

Da un lato infatti l'INAIL si pone l'obbligo di provvedere, fino a qualche tempo fa addirittura in tutte le sue fasi, alla riabilitazione protesica dell'amputato con lo scopo evidentemente di ridurre il grado di inabilità, dall'altro invece prospetta dei valore tabellari vincolanti del quantum di indennizzo da riconoscere, prevedendo solo in due casi delle

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valutazioni modificabili in funzione della protesizzazione: 80% e 65% per le amputazioni rispettivamente di coscia e di gamba, valore che scendono al 70% ed al 55% in caso di amputazioni che, agli stessi livelli, consentano la applicabilità della protesi.

L'unico settore dove, mancando dei limiti normativi, il medico-legale ha almeno in teoria la possibilità di effettuare realmente una valutazione che tenga conto fino in fondo di tutto quanto sopra si è detto, per giungere alla fine ad una valutazione che risponda realmente al grado di menomazione che residua, resta quello della valutazione del danno in responsabilità civile.

Ferme restando ovviamente le dovute distinzioni che necessariamente bisogna mantenere fra quantificazione del danno alla salute del leso e parametri utili alla determinazione di un suo eventuale danno patrimoniale da lucro cessante è nostra opinione che in questo ambito valutativo sia oggi possibile e forse opportuno affrontare l'approccio metodologico in maniera diversa da come viene affrontato non solo negli ambiti sopra menzionati, ma, come è purtroppo osservazione frequente, ancora troppo spesso anche nella stessa Responsabilità Civile, nonostante non vi sia in questo caso alcun vincolo legislativo, contrattuale o di altro genere, salvo ovviamente quelli derivanti da una prassi difficilmente eradicabile.

Ed a tal proposito va innanzitutto rilevato la insufficienza dei parametri tabellari cui nella prassi comune si fa abitualmente riferimento, venendo a questo punto legittima la perplessità sulla opportunità reale di fornire indicazioni riferite ad amputazioni, basate quasi esclusivamente sul livello dell'arto dove si è realizzata la mutilazione.

Esaminando la letteratura straniera rileviamo a questo proposito che ad esempio in un paese a noi vicino non solo geograficamente, ma anche per criteriologia e metodologia della valutazione del danno a persona in Responsabilità Civile, la Francia, le indicazioni date dal

"Barème Fonctionnel" appaiono in qualche modo più esaurienti. Questo barème infatti, facendo riferimento per gli arti superiori alla "perdita totale per amputazione o paralisi", fissa valore decrescenti a seconda che si tratti del braccio, dell'avambraccio o della mano, aggiungendo però che, alla fine, "...la possibilità di applicare una protesi funzionale efficace può giustificare una diminuzione di un quarto circa dei valori assegnati.”

Maggiore risalto viene dato alla efficacia della protesizzazione nel caso la amputazione riguardi l'arto inferiore. Secondo i barème infatti, i vari valori previsti per le amputazioni ( i livelli considerati sono l'anca, la coscia, il ginocchio, la gamba, la caviglia e la tarso- metatarsica) possono essere ridotti ...da 1/3 a 1/2 in caso di protesi ben tollerata, in grado di fornire il risultato funzionale soddisfacente".

A nostro avviso del tutto correttamente dunque, questa impostazione metodologica crea i presupposti perché alla fine si possa in qualche modo ovviare ai rischi di incongrue valutazioni quali quelle di cui sopra di diceva, ossia di porre sullo stesso livello soggetti ottimamente riabilitati dopo amputazioni, soggetti che invece hanno ricevuto benefici solo parziali o addirittura nulli dai tentativi di recupero e, ancora, soggetti che hanno una perdita funzionale dell'arto di natura diversa dalla amputazione ed in nessun modo recuperabile né mediante protesi né mediante riabilitazione.

Provando ora a fare speculativamente un passo avanti c'è da chiedersi a questo punto anche se a fronte di esiti per lo più favorevoli, ma comunque così variabili di una riabilitazione protesica di un amputato non sia preferibile discutendosi di indicazioni tabellari, fare riferimento, in funzione del risultato finale, non solo e non tanto al livello dell'amputazione (che in definitiva ha importanza solo nel caso la protesizzazione risulti almeno accettabile), quanto prevalentemente al valore complessivo dell'arto amputato e/o della funzione che esso svolge.

Prendiamo ad esempio degli amputati di arto inferiore che, per un motivo o per un altro, vanno incontro ad un totale fallimento della riabilitazione protesica e presentano come risultato finale una analoga limitazione della funzione deambulatoria; orbene, ha realmente senso in questi

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soggetti proporre delle valutazioni diverse a seconda che la amputazione sia stata effettuata, ad esempio, al di sopra o al di sotto del ginocchio?

Al di là poi di queste riflessioni, volendosi avere alla fine per obiettivo un corretto inquadramento medico-legale della reale menomazione subita dall'amputato sia nei confronti del suo bene salute, sia nei confronti della sua capacità lavorativo-lucrativa, è a nostro avviso necessario puntualizzare soprattutto i criteri metodologici con cui razionalmente procedere. Ed è proprio il risultato dello studio che vi abbiamo presentato a tratteggiare tali criteri metodologici, fornendo precise indicazioni su quali debbono essere i parametri da considerare e , per certi versi, i tempi in cui procedere ad una valutazione corretta.

Un diagramma di flusso che basandosi sulle indicazioni dell'OMS disegni il percorso teorico della metodologia, dovrebbe a nostro avviso partire dalla individuazione della menomazione, considerare la disabilità che essa determina, e valutare quindi il grado di handicap di cui alla fine in concreto si rende responsabile.

Laddove nei confronti dell'argomento di cui discutiamo il concetto di menomazione va riferito al tipo di amputazione ed alla condizione anatomica stabilizzata del moncone, quello di disabilità alla limitazione funzionale che ne deriva e quello di handicap allo "svantaggio"

conseguente che impedisce o limita il soggetto a realizzare il proprio ruolo sociale.

E nei confronti di questo teorico diagramma di flusso se ne affianca un altro, parallelo, che delimita in certo qual modo le varie fasi e gli obiettivi del percorso terapeutico, caratterizzato da una fase iniziale di ristrutturazione del soggetto, e da una fase, che cronologicamente si embrica con quella precedente, di riadattamento del soggetto nel suo ruolo sociale, di rioccupazione professionale o di riqualificazione, quest'ultima basata sulla individuazione e sulla utilizzazione delle abilità residue.

Ed è solo al termine di questo percorso la cui efficacia è evidentemente del tutto vincolata da una parte alle capacità ed alla organizzazione del centro riabilitativo cui il soggetto viene affidato e dall'altra alla istituzione ed organizzazione di un percorso operativo che, contemporaneamente alla riabilitazione medica, si basi sulla interprofessionalità e sulla interistituzionalità, che a nostro avviso è possibile procedere ad una concreta valutazione.

E sono di rilievo anche le implicazioni pratiche, agevolmente adattabili all'ambito della valutazione del danno in Responsabilità Civile, che ci vengono dallo studio illustrato dal Dr.

Govoni, atteso che la individuazione delle varie aree tematiche considerate consente un approccio all'esame che fornisce una precisa stima di tutti quei parmetri indispensabili ad una esauriente quantificazione sia del danno alla salute del leso, fin nella eccezione più estesa che ne dà oggi la dottrina giuridica e medico-legale, sia dell'eventuale suo nocumento alla futura capacità di lavoro e di guadagno.

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