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I C a r d u c c i g i o va ne ( 1 8 3 5 - 1 8 6 0)

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I

Carducci giovane

(1835-1860)

«e sto co‟ vecchi» (1857)1.

1. Gli anni dell’infanzia

La prima formazione di Carducci dipende dalla dedizione e dai gusti letterari di sua madre, Ildegonda Celli, e di suo padre Michele, medico e carbonaro2. È ragionevole supporre che Carducci abbia imparato a leggere e scrivere a Bolgheri, una frazione di Castagneto, nella Maremma pisana. Lì la sua famiglia era approdata nell‟ottobre del 1838 al termine di una difficile peregrinazione attraverso il Granducato: da Valdicastello di Pietrasanta, nell‟entroterra versiliese, dove Giosuè era nato il 27 luglio del 1835, i Carducci si erano spostati prima a Seravezza, alla fine del 1836, poi a Fornetto, nei pressi di Stazzema, nell‟ottobre del 1837, per stabilirsi, appena un anno più tardi, a Bolgheri. Rimangono in questo borgo fino al giugno del 1848, quando, spinti dagli attriti politici del dottor Michele con la popolazione e le autorità locali3, si trasferiscono prima a Castagneto, poi a Lajatico, nel volterrano, e infine, nel maggio del 1849, a Firenze, in via Romana4. Qui Carducci è iscritto dal

1 GIOSUE CARDUCCI, Prefazione alle Rime, in CARDUCCI, Opere, V, p. 205.

2 Un ruolo nella primissima educazione di Carducci è da riconoscere anche alla nonna paterna, Lucia Galleni (1772-1842), che prima di morire di tisi nel novembre 1842 aveva accudito i nipoti e raccontato loro molte favole, come scrive lo stesso Carducci a Lidia in una lettera datata 10 ottobre 1874: «quella donna […] mi teneva su le ginocchia, […] mi raccontava le lunghe e belle fantastiche novelle, […] mi dava ragione e mi consolava delle ingiustizie materne e delle paterne crudeltà», in CARDUCCI, Lettere, IX, p. 218. Si veda anche Davanti San Guido, vv. 73-108, in Rime nuove, V, LXXII. L‟istruzione elementare di Carducci è solo in minima parte determinata dalla frequenza delle scuole di don Giovanni Bertinelli (nato a Sassetta nel 1805, assassinato a Pontedoro, tra Castagneto e Sassetta, il 18 settembre 1875; sacerdote di Bolgheri dal 1839 al 1845); per i dissidi tra don Bertinelli e Michele Carducci si rimanda a LUCIANO BEZZINI, Sparate al Carducci! Biografia di Michele Carducci, padre, medico,

rivoluzionario, Pontedera, Bandecchi & Vivaldi Editori, 1999, pp. 93-9.

3 Sui pessimi rapporti che intercorsero tra Michele Carducci e don Giovanni Bertinelli, don Giuseppe Busotti (Sassetta, 1788 – Bolgheri, 1863; pievano di Bolgheri dal ‟21 fino alla morte), il fattore Angiolo Mariani (1805-1856) e il suo sottoposto Giuseppe Zazzeri (1823-1890) e sugli attentati che la famiglia Carducci subì a Bolgheri (nella notte tra il 21 e il 22 e in quella tra il 22 e il 23 maggio 1848 la loro casa venne presa a fucilate) si rimanda a BEZZINI, Sparate al Carducci!, cit., pp. 127-33.

Della militanza carbonara di Michele Carducci trattano VITTORIO CIAN, Il Dottor Michele Carducci

Cospiratore, «Nuova Antologia», marzo 1908, pp. 80-102 e a EDGARDO GAMERRA, Il dottor Michele

Carducci nei movimenti della Toscana nel 1848, estratto dalla «Nuova Antologia», Roma, Stab.

Gromo-Lito-Tipogr. Armani & Stein, 1915.

4 Dopo essere stati ospitati per alcuni giorni dai Menicucci. Rimasto vedovo della prima moglie, Francesco Menicucci aveva sposato in seconde nozze Adele Celli, sorella della madre di Carducci. Risale a questi giorni il primo incontro di Carducci con Elvira, figlia di primo letto del Menicucci. I due si sarebbero sposati nel 1859, dopo un decennio, non sempre idilliaco, di fidanzamento.

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padre alla classe di Umanità delle Scuole Pie di San Giovannino5. Il giudizio con il quale padre Michele Benetti lo ammette al corso ad anno quasi concluso è lusinghiero: «molto bene istruito dal padre»6. Altrettanto buono sarà quello di corredo alla promozione, quattro mesi più tardi, al primo anno di Retorica.

1.1. La documentazione autobiografica

Dell‟infanzia e della prima adolescenza maremmana Carducci parla, oltre che in poesia, in una serie disorganica di abbozzi diaristici, in un paio di lettere memoriali e in alcune divagazioni autobiografiche inserite in articoli e prose critiche. Gli abbozzi risalgono agli anni Cinquanta, le rievocazioni più estese agli anni Settanta, mentre poche altre note, per lo più brevissimi schizzi, agli anni Novanta7.

La scansione temporale di queste memorie dimostra che per Carducci ricostruire e fissare attraverso l‟autobiografia le proprie radici – personali e letterarie – è un‟esigenza precoce, che negli anni della maturità si fa pressante e si salda a esigenze di carattere culturale e ideologico, per poi rarefarsi e ridursi a malinconia nella vecchiaia.

Nelle pagine di diario risalenti al 1850 Carducci dichiara anzitutto data e luogo di nascita e riferisce sinteticamente del trasferimento dalla Versilia a Bolgheri: «A tre

5 I fratelli minori di Giosuè, Dante (Serravezza, 14 marzo 1837 – Santa Maria a Monte, 4 novembre 1857) e Valfredo (Bolgheri, 4 settembre 1839 – Piazza Armerina, Enna, 1919), sono iscritti al corso di Grammatica presso le Scuole Pie degli Scolopi di San Carlo. Presso le Scuole Pie di Pietrasanta si era, invece, formato Michele Carducci. Per notizie più dettagliate si rimanda a PASQUALE

VANNUCCI, Carducci e gli Scolopi, Roma, Angelo Signorelli Editore, 1936.

6 VANNUCCI, Carducci e gli Scolopi, cit., p. 17 e BIAGINI,Il poeta della Terza Italia, cit., pp. 21-2. Padre Michele Benetti nasce nel 1810 e muore nel 1895. A riprova dei sui suoi orientamenti di classicista e per altre notizie biografiche si possono leggere i suoi Discorsi sacri morali ed accademici, Firenze, Tipografia Calasanziana, 1867.

7 Gli abbozzi diaristici dei primi anni Cinquanta si leggono in (e si citano da) CARDUCCI, Primizie e

reliquie, cit., pp. 45-7 [1850] e pp. 163-5 [1853]; successivamente in ID., Opere, XXX, pp. 3-24. Carducci rievoca la propria infanzia Maremmana in un paio di passi del Goffredo Mameli (1872), nel primo capitoletto dell‟articolo A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni (1873), nella lettera del 14 gennaio 1877 ad Angelo De Gubernatis, poi pubblicata sull‟«Illustrazione italiana» (ID., Lettere, XI, pp. 9-14), in alcuni brani del Decennale della morte di Giuseppe Mazzini (1882) e del Veggente in solitudine di

Gabriele Rossetti (1884), in Ricordo d’infanzia (1885), in Pensiero Nostalgico (1892) e nella lettera del 26

ottobre 1894 ad Annie Vivanti (in ID., Lettere, XIX, p. 38). Di carattere autobiografico, ma incentrate

su altri periodi, sono Al lettore, prefazione a GIOSUE CARDUCCI, Poesie, Firenze, Barbèra, 1871, pp.

V-XXIII (poi edita col titolo Raccoglimenti in ID., Confessioni e battaglie, serie prima, Roma, Sommaruga, 1882, pp. 41-56; ora in CARDUCCI, Opere, XXIV, pp. 49-62), le prefazioni a Juvenilia (Bologna, Nicola Zanichelli, 1880, pp. I-XX), Levia Gravia (Bologna, Nicola Zanichelli, 1881, pp. I-XXXIX), Giambi ed

epodi (Bologna, Nicola Zanichelli, 1882, pp. I-XLVII) e al Libro delle prefazioni (Città di Castello, Lapi,

1888, pp. I-XIII; ora si leggono rispettivamente in ID., Opere, XXIV, pp. 63-83, pp. 117-43, pp. 145-73

e pp. 39-48), Eterno femminino regale (1882; «Cronaca Bizantina», anno II, 1, 1° gennaio 1882, contemporaneamente in edizione di lusso per Roma, A. Sommaruga e C., 1882; successivamente, senza sottotitolo, in Confessioni e battaglie, serie terza, Roma, A. Sommaruga, 1884, pp. 105-37; ID., Opere,

XXIV, pp. 319-43), Le “risorse” di San Miniato al Tedesco e la prima pubblicazione delle mie rime (1883; ID.,

Opere, XXIV, pp. 13-37), Primavera cinese (ID., Opere, XVII, pp. 318-9). Del Carducci memorialista ha trattato RICCARDO BRUSCAGLI, Carducci: le forme della prosa, in Carducci poeta, Atti del Convegno di Pietrasanta e Pisa, 26-28 settembre 1985, a c. di Umberto Carpi, Pisa, Giardini Editori e Stampatori, 1987, pp. 391-462.

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anni lasciai la patria, e fui sotterrato nelle maremme pisane»8. Scrive, poi, d‟aver iniziato lo studio del latino all‟età di otto anni sotto la guida del padre e riconosce che l‟«applicazione assidua» alla quale questi lo «costringeva» gli aveva consentito dopo quattro anni di leggere e commentare Virgilio e di conoscere a memoria i primi due libri delle Metamorfosi. Oltre che studente di latino, Carducci si ricorda lettore giovanissimo ed esaltato dell‟Iliade nella traduzione di Monti e dell‟Eneide nella traduzione di Annibal Caro: a tredici anni le ha lette entrambe almeno quattro volte e con «un fervore – precisa – con cui non ho mai letto romanzi»9. Aggiunge che non amava Ariosto («da bambino non potetti mai leggerlo», taglia corto) e che aveva invece divorato con una «rabbia» che gli risulta ancora «inesplicabile» Omero, Virgilio e Tasso, quest‟ultimo letto «tre volte» prima dei tredici anni10. Durante i giorni delle febbri malariche, è Tasso l‟autore che su tutti aveva preferito: «Fin quando la febbre mi ardeva tutto, io volevo il Tasso: e i miei delirj eran sempre di battaglie»11. A undici anni aveva letto Dante. In un solo giorno, «(e mi ricordo era una domenica d‟estate)», precisa, aveva finito l‟Inferno: «Intesi poco, ma quella dura e muscolosa espression di verso mi rapiva. Il Purgatorio e il Paradiso però non li lessi»12. Ricorda d‟aver letto con maggiore «avidità» alcuni libri di storia e, in particolare, la «prediletta» Storia universale di Cesare Cantù, che «ora – confessa – leggo tanto mal volentieri»13. Rievoca, poi, la

8 GIOSUE CARDUCCI, Appunti autobiografici [1850], inID., Primizie e reliquie, cit., pp. 45-7: 45. 9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ibidem. Anche Una sera di San Pietro (Odi barbare, II, XXXI), scritta nel luglio del 1880, è incentrata su un ricordo allucinato della «febbre / maremmana» (vv. 6-7), cioè malarica, che lo aveva colpito, bambino, nel 1845.

12 CARDUCCI, Primizie e reliquie, cit., p. 46 (corsivi miei).

13 La malavoglia con la quale nel 1850 Carducci rilegge la Storia universale (1838-‟46) di Cesare Cantù (Brivio, 1804 – Milano 1895) è probabilmente dettata dalla conversione, proprio attorno agli anni Cinquanta, di Cantù al neoguelfismo reazionario e di Carducci agli ideali classicisti. In una lettera del settembre 1853 a Giuseppe Torquato Gargani, Carducci definisce Cantù «ciarlatano e sfacciato» e afferma: «Di Cantù non mi degno di parlare», CARDUCCI, Lettere, I, pp. 60-1. Sono gli anni in cui si accende la polemica antiromantica e Cantù, agli occhi di Carducci, non può che fare il paio con Manzoni; si veda anche Giunta alla derrata. Il giudizio di Carducci sarebbe mutato con il tempo: «Mio Signore e maestro […] cominciai a leggere, ragazzo di dieci anni, in un paesetto della Maremma toscana, dove mio padre era medico condotto, la Storia universale; e debbo di certo a quella lettura, che per molti volumi fu ripresa più volte, se sursi non del tutto impreparato a intendere e comprendere uomini e tempi, cose e questioni diverse. […] Avrò dovuto qualche volta dissentire da Lei; qualche volta, nell‟età quando più l‟uom vaneggia, avrò espresso vivamente qualche mio dissenso. Ma l‟ammirazione non mi è venuta mai meno e anche la gratitudine pe ‟l tanto che ho imparato e imparo da Lei», lettera del 21 dicembre 1884 a Cantù, in CARDUCCI, Lettere, XV, p. 75; si cita però da ALBERTO BRAMBILLA, Il “superstite” e il “grande poeta”: appunti sul carteggio Cantù-Carducci, «Italianistica», 1989, 18, n. 2/3, pp. 409-20: 413, che, oltre a correggere sulla base degli autografi i testi frequentemente inesatti dell‟edizione nazionale delle lettere, ricostruisce tutta la storia del rapporto di Carducci con Cantù. Per la riconoscenza di Carducci a Cantù si veda anche la lettera del 31 maggio 1891, in CARDUCCI, Lettere, XVII, p. 293. Pubbliche espressioni di stima si leggono in Parini

principiante, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1886 («A me giova confessare che dal Cantù ho imparato

sempre e imparo ancora assai; salvo, s‟intende, quello che io debbo salvare», in CARDUCCI, Opere, XVI, pp. 3-51: 15) e sul «Secolo» del 12 maggio 1892, che pubblica la lettera del 6 maggio di Carducci a Cantù, lettera nella quale il poeta si definisce riconoscente e devoto a Cantù, in ID., Opere, XXVIII, p. 282.

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lettura dei romanzi di Rosini, Grossi, Manzoni e d‟Azeglio e delle poesie di Berchet, che sapeva «tutte a mente a 11 anni»14.

Queste sono le letture che avevano animato l‟immaginario infantile di Carducci e ne avevano indirizzano i giochi con i fratelli minori e con gli altri bambini del paese: «combattevamo spesso con sassi e bastoni, gli uni Romani Galli ed Africani gli altri, gli uni Ghibellini gli altri Guelfi; ed io volevo esser sempre Romano o Guelfo»15. Le convinzioni mostrate nei giochi conoscono una prima, vera riprova con i moti insurrezionali del 1848: «io, sempre più infervorato dalla lettura della rivoluzione francese, non sognavo che repubbliche, e fui ritrosissimo ad applaudire Principi e fui il primo a maledirli»16.

Precisata la matrice letteraria e ideologica dei suoi giochi infantili e dopo aver sottolineato l‟eccezionalità della sua partecipazione emotiva al 1848, Carducci ricorda la sua prima prova di poeta: «un canto – che data al 1846 – in morte di una civetta di un giovane castagnetano; e l‟elegia finiva così: “O voi che a questo…”»17. Con questo accenno il diario si interrompe.

In altre pagine scritte a Celle nel luglio del 1853 e in parte riprese e corrette a Firenze nel 1858, Carducci torna a parlare della propria nascita e, più distesamente, delle ragioni che avevano indotto i suoi genitori a battezzarlo Giosuè Alessandro Giuseppe: «Giuseppe nome dell‟avo paterno, Alessandro del padre mi mia madre, Giosuè di un amico di mio padre»18. Proprio a queste spiegazioni si salda un‟invettiva

14 CARDUCCI, Primizie e reliquie, cit., p. 46 (corsivi miei). La biblioteca di Casa Carducci conserva due edizioni della Monaca di Monza (GIOVANNI ROSINI, La Monaca di Monza. Storia del secolo XVII,

25esima edizione, Milano, Volpato, 1853 e ID., La monaca di Monza: storia del secolo XVII, premessovi

l‟elogio dell‟autore scritto dal Prof. Michele Ferrucci, Firenze, Felice Le Monnier, 1857) e una del Conte

Ugolino (ID., Il conte Ugolino della Gherardesca e i Ghibellini di Pisa. Romanzo storico, seconda edizione,

Milano, Società Tipografica de‟ Classici Italiani, 1843). Quasi quarant‟anni dopo, assecondando un‟impressione di Barbier e pubblicizzando en passant le Conversazioni dell‟amico Felice Tribolati (per la biografia, si veda cap. I, nota 242), Carducci avrebbe definito Rosini una «macchietta letteraria», sottoscrivendo così la descrizione fattane da Barbier: il Rosini di Barbier è «tal e quale […] nelle

Conversazioni pubblicate a questi ultimi giorni dal Tribolati: idee piccole, giudizi storti, notizie inesatte e

arretrate e d‟impressione: frutto serotino di quella serra noiosa che fu in Italia il secolo decimottavo», GIOSUE CARDUCCI, Augusto Barbier in Italia [1889], in ID., Opere, XXIII, pp. 395-437: 426. Carducci fa

riferimento a FELICE TRIBOLATI, Conversazioni di Giovanni Rosini, Pisa, Enrico Spoerri, 1889. A Casa

Carducci sono presenti la prima edizione dell’Ettore Fieramosca, o La disfida di Barletta, Milano, per i Tipi di Vincenzo Ferrario, 1833 e, insieme ad altre successive, del Marco Visconti: storia del Trecento, Milano, Vincenzo Ferrario, 1834, e numerose edizioni dei Promessi sposi; la più antica è I promessi sposi: storia

milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni; Storia della colonna infame, inedita, ed.

riveduta dall'autore, Milano, Tip. Guglielmini e Redaelli, 1840. Per un‟introduzione all‟Ettore Fieramosca si veda la prefazione di Prisco a MASSIMO D‟AZEGLIO, Ettore Fieramosca, ossia La disfida di Barletta.

Illustrazioni dell’autore, con una prefazione di Michele Prisco, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992,

pp. IX-XIII e GIULIANO PROCACCI, La disfida di Barletta. Tra storia e romanzo, Milano, Bruno

Mondadori, 2001.

15 CARDUCCI, Primizie e reliquie, cit., p. 46. 16 Ivi,pp. 46-7.

17 Ivi, p. 47.

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contro l‟esterofilia, una moda contro la quale all‟altezza dei primi anni Cinquanta Carducci si scaglia frequentemente:

ho da ringraziare Iddio che la matta vanità di farsi romanzeschi fin ne‟ nomi non mettesse ne‟ parenti miei il bel pensiero di appiccicarmi un qualche nome settentrionale; per esempio, Enrico, Alfredo, Arminio, o che so io. E in vero che questa Italia non contenta di non avere di suo né meno i vizii non vuole avere di suo né meno i nomi de‟ figliuoli suoi: tanta e sì stolta e sì infame è la furia di inforiestierarsi. E, nostra vergogna, andiamo a cercare i barbari nomi fra quelle genti a punto di dove ci sono venuti più guai19.

Il presente della scrittura – un presente di impegni classicisti e patriottici – s‟insinua nella prosa memoriale e affianca i ricordi come un coprotagonista; così, anche la descrizione di Fornetto offre lo spunto per criticare la poesia contemporanea: «Mi ricordo della nostra casa piccola e bella e del giardino che era in mezzo a‟ viali verdi e malinconici. Né questi sono epiteti poetici: che io odio di cuore la bastarda prosa poetica, né poetico può essere il racconto della mia vita»20.

A distanza di tre anni la scrittura autobiografica risulta più complessa e più permeabile a polemiche e riletture attualizzanti, che uniscono il passato dell‟infanzia al presente delle prime contese antiromantiche e al futuro delle grandi ambizioni personali.

Dopo il diario del 1850 e del 1853, Carducci torna a raccontare la propria infanzia negli anni Settanta, in alcuni saggi letterari. Gli scopi di questa nuova modalità di scrittura autobiografica sono diversi dalle scarne confessioni del ragazzino e dalle prime, incerte rivendicazioni del diciottenne.

Nel Goffredo Mameli (1872)21 la scrittura di sé è dosata con parsimonia e vincolata a obiettivi politici e letterari precisi, che per Carducci in quel momento – all‟indomani di una deludente presa di Roma e di una già avviata rimozione collettiva dell‟eroico periodo risorgimentale – hanno priorità assoluta. Così, per commentare entusiasticamente Fratelli d’Italia, si abbandona a un rapidissimo e suggestivo flashback autobiografico: Fratelli d‟Italia, L‟Italia s‟è desta: Dell‟elmo di Scipio S‟è cinta la testa. 19 Ivi, p. 164. 20 Ivi, p. 165.

21 Esce nell‟agosto del 1872 sulla «Nuova Antologia»; successivamente è riprodotto con alcune modifiche in Bozzetti letterari e discorsi critici di Giosuè Carducci, Livorno, Vigo, 1876, pp. 221-64; poi, con ulteriori correzioni, in ID., Opere, Bologna, Zanichelli 1889, vol. III, Bozzetti e scherme, pp. 43-97. Edizione di riferimento: CARDUCCI, Opere, XVIII, pp. 357-411.

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Io ero ancora fanciullo ma queste magiche parole, anche senza la musica, mi mettevano i brividi per tutte le ossa; e anche oggi ripetendole mi si inumidiscono gli occhi22.

L‟inciso dà poi adito a una sferzata polemica contro il gusto dei contemporanei, che giudicano di maniera il riferimento all‟elmo di Scipione: «oggi l‟età è scettica e positiva; e a più d‟uno darà per avventura molestia quell‟„elmo di Scipio‟, mito da panche di scuola»23. Procede in modo simile anche il commento dell‟Inno militare: dopo averne citata la parte centrale, Carducci propone un ricordo della propria infanzia di patriota in erba:

Rileggendo cotesti versi, mi ripassano dinnanzi agli occhi gli uomini della legione lombarda e della legione del generale Garibaldi, come gli vidi fanciullo in Livorno, con le lunghe capigliature, con le fantastiche divise, co ‟l piglio risoluto tra cruccioso e malinconico; alcuni, giovanetti ancora imberbi; altri, già dai capelli brinati; ardenti negli occhi di un cupo entusiasmo24.

In questo modo Carducci compie tre diverse operazioni: anzitutto scrive di sé, rivendicando il ruolo di testimone oculare di fatti grandiosi; poi afferma il valore ineguagliabile dell‟«eroica gioventù democratica del ‟48 e del ‟49»25 e della poesia di uno di quella straordinaria generazione, Mameli; infine difende la linea civile della recente poesia italiana e legittima, al contempo, la propria poesia e il ruolo di poeta

engagé che, all‟altezza del 1872, aveva più volte rivendicato.

Conferma e precisa il quadro di un‟infanzia di letture e di prematuri «furori» ideologici il primo capitolo di A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni. Nell‟articolo, che esce a puntate sulla «Voce del popolo» tra il giugno e il luglio del 1873, all‟indomani della morte di Manzoni (22 maggio 1873), Carducci ricorda suo padre, «manzoniano fervente», e i libri da lui posseduti: «tra questi bellissime le opere del Manzoni, con i giudizi del Goethe, le analisi critiche del Fauriel, i commenti del Tommaseo»26. Ancora ricorda – e in questo si attiene al diario del 1850 – la lettura appassionata dei Promessi sposi, lo studio del latino, la lettura reiterata ed entusiasmante dell‟Iliade, dell‟Eneide, della Gerusalemme liberata, della «storia romana» di Rollin e della «storia della rivoluzione francese» di Thiers: «i poemi con ineffabile rapimento, le storie con un serio oblio di tutto il resto»27.

22 CARDUCCI, Goffredo Mameli, in ID., Opere, XVIII, pp. 357-411: 397.

23 Ibidem. Su questo passo e sulla “buona retorica” carducciana si veda EMILIO PASQUINI, Passione

e magnanimità di Carducci, in ID., Ottocento letterario: dalla periferia al centro, Roma, Carrocci, 2001, pp. 135-46.

24 CARDUCCI, Goffredo Mameli, cit., p. 405. Dell‟Inno militare Carducci cita i vv. 14-39; si rimanda a GOFFREDO MAMELI, Poesie, con note e prefazione di Paolo Bardazzi, Milano, Società Editrice

Sonzogno, 1920, pp. 64-5.

25 CARDUCCI, Goffredo Mameli, cit., p. 405. 26 Ivi,p. 299.

27 CARDUCCI, A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, cit., pp. 299-300. A differenza del diario, qui Carducci non specifica in quale traduzione leggesse l‟Iliade e l‟Eneide; non c‟è ragione alcuna per ipotizzare che non fossero quelle di Vincenzo Monti e di Annibal Caro. La «storia romana» di

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«Invasato […] di ardore epico e di furore repubblicano e rivoluzionario», il ragazzino riversava nei giochi i fatti della storia romana e della rivoluzione francese, impersonando tirannicidi, repubblicani e rivoluzionari, senza ossequio alcuno – ironizza Carducci – per «quegli eccessi pedanteschi che sogliono guastare o raffreddare l‟effetto vivo drammatico»28. Appunto giocando, prendeva a «sassate» i nemici e subiva «oneste ferite» che non commuovevano, però, il suo «manzoniano padre», che anzi lo puniva relegandolo in casa («mi condannava pur troppo a lunghe prigionie»29). Aggravava la condizione del giovane “prigioniero” l‟inflizione della pena di studiare latino e di leggere la Morale cattolica di Manzoni, I doveri dell’uomo di Pellico e la Vita di San Giuseppe Calasanzio di don Urbano Tosetti30.

La rigida didassi paterna fa sì che le letture del ragazzino inizino a correre su un doppio binario: obbligato alla morale manzoniana, si rivolge ad altri libri e finisce con il preferirli. Altre – ricorda Carducci – diventavano in quegli anni le letture che lo affascinavano e altri i personaggi nei quali si immedesimava:

Trovavo uno sfogo ad affacciarmi alla finestra, declamando la parte di Guglielmo de‟ Pazzi:

Soffrire, ognor soffrire? Altro consiglio Darmi, o padre, non sai? Ti sei tu fatto Schiavo or così, che del mediceo giogo Non senti il peso e i gravi oltraggi e l‟onte?31.

È poi il biennio della prima guerra d‟indipendenza ad averlo distolto definitivamente da Manzoni e a definire una volta per tutte le sue preferenze letterarie e il suo orientamento ideologico: racconta che l‟Arnaldo da Brescia di Niccolini, le poesie di Berchet e l‟Assedio di Firenze di Guerrazzi lo avevano conquistato perché preparavano e profetizzavano i rivolgimenti politici del Quarantotto:

Charles Rollin al quale Carducci si riferisce è la Storia antica e romana di Carlo Rollin. Prima edizione italiana

corredata delle osservazioni e degli schiarimenti storici del sig. Letronne, Firenze, presso Giuseppe Galletti,

1828-1832; la «storia della rivoluzione francese» di Thiers è ADOLPHE THIERS, Storia della Rivoluzione francese; prima traduzione italiana dell‟edizione di Parigi del 1834 di Ermenegildo Potenti; adorna di 30 ritratti, Firenze, a spese del traduttore, 1835-1839.

28 CARDUCCI, A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, cit., p. 300. 29 Ivi, p. 301.

30 Ivi, pp. 300-1. Le indicazioni di Carducci portano al libro di padre URBANO TOSETTI, Vita di S. Giuseppe Calasanzio della madre di Dio fondatore de‟ cc. rr. delle scuole pie scritta da Urbano Tosetti sacerdote dello stess‟ordine, Siena, da‟ torchi Pazzini Carli, 1787. Il titolo esatto del trattato di Pellico è Dei doveri degli uomini (ed. di rif.: SILVIO PELLICO DA SALUZZO, Dei doveri degli uomini: discorso ad un giovane, Capolago, Libreria Elvetica, 1834); Carducci fa confusione con Dei doveri dell‟uomo di Mazzini (risalente al 1841-42; edito in volume nel 1860), che, per ovvie ragioni cronologiche, non poteva essergli dato in lettura dal padre.

31 CARDUCCI, A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, cit., p. 302. Carducci declama i primi versi della tragedia alfieriana La congiura de’ Pazzi, che appunto inizia con questa battuta rivolta dal protagonista, Raimondo de‟ Pazzi, al padre Guglielmo. Nel testo di Alfieri si legge «il danno» e non, come invece riporta Carducci, «l‟onte», si veda VITTORIO ALFIERI, La congiura de’ Pazzi, Atto primo, Scena prima, v. 4, in ID., Opere, introduzione e scelta di Mario Fubini, a. c. di Arnaldo Di Benedetto, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1977, tomo I, p. 927.

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L‟ode «Soffermàti su l’arida sponda» passò come un lampo, annegato nel folgoreggiare di un gran temporale: il cardinal Borromeo scappò per sempre nella carrozza dell‟ambasciatrice di Baviera con Pio IX che avea benedetto l‟Italia, padre Cristoforo si fece un po‟ mondanetto, ma morì bene; morì con Ugo Bassi. In quella vece, Arnaldo da Brescia ebbe ragione, le strofe del Berchet rivissero tutte negli avvenimenti, l‟assedio di Firenze divenne un fatto vivo a Venezia ed a Roma32.

I punti di contatto tra il diario del 1850 e A proposito di alcuni giudizi su Alessandro

Manzoni sono molti, ma altrettante sono le divergenze e particolarmente significative

quelle relative ai contenuti: se, da un lato, Carducci ricorda in entrambi I promessi sposi, l‟Iliade, l‟Eneide, la Gerusalemme e gli amati volumi di storia romana e francese, dall‟altro, nell‟articolo del 1873 non cita più né Rosini, né Grossi, né d‟Azeglio. Nella memoria di Carducci i romanzi perdono terreno mentre ne acquista la poesia patriottica d‟inizio Ottocento e, in particolar modo, Berchet. Del resto, proprio a Berchet, nominato soltanto en passant nel diario, nell‟articolo si lega un cammeo paesaggistico-familiare destinato a costituire la scena primaria di Sogno d’estate (luglio 1880)33: dopo aver argomentato l‟insufficienza retorica e ideologica della poesia civile manzoniana, Carducci esemplifica attraverso una lunga citazione delle Fantasie le proprietà della vera poesia di battaglia:

Su! nell‟irto increscioso Alemanno, Su, Lombardi, puntate la spada: Fate vostra la vostra contrada, Questa bella che il ciel vi sortí… […]

Versi benedetti: anche oggi ripetendoli, mi bisogna balzare in piedi e ruggirli, come la prima volta che gl‟intesi. E gli intesi da una voce di donna, dalla voce di mia madre! Era il lunedì di pasqua del 1847; e un superbo sole di primavera rideva nel cielo turchinissimo, e cinque paranzelle filavano su ‟l mare lontano rapide agili e bianche come ninfe antiche, e su i colli tra il folto verde smeraldino delle biade e degli alberi parevano meno annoiate sin le vecchie torri ruinose del medio evo; e da per tutto era un subisso di fiori, fiori nelle piante, fiori tra l‟erba, fiori per cielo e per terra, del più bel giallo, del più largo rosso, del più amabile incarnatino. Come son belli i fior di pèschi a primavera! E

32 Ibidem. Carducci cita Marzo 1821, v. 1 (ed. di rif.: ALESSANDRO MANZONI, Tutte le poesie

(1797-1872), a c. di Gilberto Lonardi, commento e note di Paola Azzolini, Venezia, Marsilio Editore, 1992,

p. 197) e allude ad alcuni dei maggiori fatti storici del biennio 1848-1849: tra questi, la fuga, la sera del 24 novembre 1848, di papa Pio IX a Gaeta, fuga nell‟ideazione e realizzazione della quale giocò un ruolo di primissimo piano la Contessa di Spauer, moglie dell‟ambasciatore di Baviera (cfr. LUIGI

GAZZANEO, Il pontificato di Pio IX nella cultura dell’Ottocento e nello scenario del risorgimento, Cosenza, Luigi

Pellegrini Editore, 2000, pp. 29-31) e la morte di Ugo Bassi, il patriota fucilato dagli austriaci a Bologna, nei pressi della Certosa, l‟8 agosto 1849.

33 Si legge in Odi barbare, II, XLV; si rimanda a MARCO SANTAGATA, Il sogno del professore (Giosue

Carducci, «Odi barbare» II, 45), in ID., La letteratura nel secolo delle innovazioni, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 96-107.

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pure, dopo sentiti cotesti versi, non vidi più nulla; o meglio, vidi tutto nero: avevo una voglia feroce di ammazzare i tedeschi34.

Tramite la rievocazione di Berchet, l‟epopea del Quarantotto si lega al tempo ormai mitico dell‟infanzia e la primavera della patria si salda con l‟adolescenza del Vate. Si delinea così un importante capitolo dell‟autobiografia carducciana, un capitolo nel quale si intrecciano mitografia personale e mitografia nazionale. Tre ne sono gli obiettivi principali: la svalutazione di Manzoni e la difesa di un‟idea di letteratura alternativa al manzonismo e in linea con i recenti trascorsi di «Vate dell‟avvenire»35; la tutela della storia e della poesia risorgimentali; la proposta di un paradigma etico da lasciare in eredità ai più giovani. Nel corso di un ventennio la scrittura autobiografica ha cambiato forma, si è arricchita di nuove valenze e si è allontanata dalla mera documentazione; progressivamente, dalla modalità del resoconto per sé Carducci è passato alla costruzione pubblica di sé.

È in linea con i saggi d‟inizio anni Settanta la lettera – un vero e proprio «servizio autobiografico» – che il 14 gennaio 1877 Carducci invia, seppur di malavoglia, ad Angelo De Gubernatis36. Carducci inizia declinando le proprie generalità e descrivendo suo nonno paterno, «strano e cattivo uomo, codino, […] che sciupò tutto», e suo padre, medico, carbonaro, che pur di campare la famiglia ebbe il coraggio di trascinarla in Maremma («fu del tutto riputato pazzo») e che «dové far vita del medico condotto, sciupando negli stenti, negli strapazzi, nell‟oscurità, e anche nelle soverchie bibite […] l‟ingegno moltissimo che aveva, la cultura non comune, la scienza e attitudine […] specialmente per la chirurgia»37.

34 CARDUCCI, A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, cit., pp. 336-7. Carducci cita alcune strofe delle Fantasie, parte I, vv. 89-92, vv. 97-100, vv. 105-112; edizione di riferimento: GIOVANNI

BERCHET, Poesie, a c. di Egidio Bellorini, Bari, G. Laterza, 19412, pp. 51-97: 75-6.

35 Per Eduardo Corazzini morto delle ferite ricevute nella campagna romana del MDCCCLXVII, v. 172. Il testo risale al gennaio del 1868; edito prima in opuscolo, poi nella sezione Decennali delle Poesie del 1871, si legge nell‟edizione definitiva in Giambi ed epodi, I, 3.

36 La lettera costituisce un vero e proprio «servizio autobiografico» che Carducci aveva da tempo promesso a De Gubernatis, che intendeva pubblicarlo sull‟«Illustrazione italiana»; si veda CARDUCCI,

Lettere, XI, p. 8. Studioso orientalista, letterato, giornalista attento alle problematiche sociali con

particolare riferimento alla condizione femminile, Angelo De Gubernatis nasce a Torino nel 1840. Qui consegue la laurea in Lettere. Nel 1863 ottiene la cattedra di Sanscrito e di Glottologia comparata all‟Università di Firenze, dopo essersi specializzato a Berlino, collaborando con Friedrich Weber. Rimane a Firenze fino al 1890, poi passa all‟Università di Roma, dove insegna Sanscrito e Letteratura italiana fino al 1908. Grande viaggiatore, oggi i suoi cimeli sono raccolti nel Museo Indiano di Montughi, da lui fondato e nel 1915 inglobato dal Museo Nazionale di Antropologia e Etnologia, sempre a Firenze, mentre i suoi manoscritti sono conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Collaboratore di giornali, fondatore di riviste tra cui «Rivista europea», «Rivista orientale» e «Bollettino degli studi orientali», De Gubernatis ha lasciato una produzione letteraria molto vasta ed eterogenea; si ricordano la Piccola enciclopedia indiana (1867); la Storia comparata degli usi natalizi, nuziali e muliebri in Italia e

presso gli altri popoli indo-europei (1867) e la Storia universale della letteratura in 18 volumi, edita tra il 1883 e il

1885. Da ricordare anche i suoi studi su Manzoni, una biografia su Petrarca e diversi drammi ispirati alle leggende indiane, tra cui Savitri, idillio drammatico indiano in due atti, Firenze, Le Monnier, 1878 e

Buddha, dramma in cinque atti in versi, Roma, Tip. Cooperativa Sociale, 1902. Muore a Roma nel 1913.

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Con un aneddoto e qualche scampolo di ricordo archivia i primissimi anni dell‟infanzia («non ricordo se non la scoperta […] di un bellissimo rospo nel giardino […] e la salita, che facevo con mia madre, le domeniche, di primavera e d‟estate, alla Madonna di Stazzema»38). Si dedica, poi, più distesamente alla Maremma: «Ma le mie ricordanze – attacca solenne –, tristi e pur care, ma tutto il mio ideale di fanciullo, ma tutto il mio amore è per la Maremma». E continua, con tono evocativo:

Quel tratto della Maremma che va da Cecina a San Vincenzo è il cerchio della mia fanciullezza e della prima adolescenza. Ivi vissi, o, per dir meglio, errai dal 1838 all‟aprile del 1849. Mia madre, donna di molto ingegno e di molto carattere, m‟insegnò leggere, e mi insegnava a mente le poesie del Berchet: Mi ricordo ancora quando imparavo… «Ma Clarina al suo diletto cinse il brando tricolor…», «Ha bianco il vestito, ha il mirto al cimiero» ecc.39.

Qui Carducci ripropone il binomio madre-Berchet, che già aveva presentato cinque anni prima in A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, e di nuovo lo oppone al binomio formato da suo padre e Manzoni: mentre, infatti, il ricordo della madre è tutt‟uno con la poesia di Berchet, quello del padre si tira dietro anzitutto Manzoni, dai Promessi sposi al Carmagnola: «Mio padre m‟insegnava i cori del Manzoni: io intesi solamente quel del Carmagnola: […] “Chi son essi? Alle belle contrade… ecc. – D‟una terra son tutti” e, […] “Un corriero è salito in arcioni” ecc.»40. Al solito, al padre è legato anche il ricordo dello studio del latino («A otto anni, […] mi diè in mano la Grammatica latina delle scuole pie»); da qui, l‟affermazione di non aver mai scritto un verso in latino e una battuta sulle ambizioni poetiche di suo padre: «Egli ne faceva [di versi]… Bruttini, per quel che ricordo…»41.

Segue, poi, la descrizione delle letture di piacere: sono confermati Manzoni, Rollin, Thiers, Omero, Virgilio, Tasso, Dante, l‟Arnaldo da Brescia di Niccolini e

L’assedio di Firenze di Guerrazzi. Al catalogo si aggiungono Sismondi, Machiavelli,

Guicciardini, Monti e La battaglia di Benevento (1827) di Guerrazzi. Dell‟Iliade ricorda che fu la sua prima lettura e che la visse «con indicibile entusiasmo, con l‟interesse col quale si leggerebbe un romanzo»42, e dell‟Arnaldo, che lo sottraeva «dallo scrittoio […] di suo padre, quand‟egli era a letto» per leggerlo con entusiasmo, pur non capendolo; solo delle storie della repubblica romana, di quelle sulla rivoluzione francese, di

38 Ivi, p. 9. 39 Ibidem.

40 CARDUCCI, Lettere, XI, p. 10. Carducci cita Il conte di Carmagnola, atto secondo, scena sesta, coro, vv. 13, 17 e 77; si può leggere in ALESSANDRO MANZONI, Il conte di Carmagnola, a c. di Gilberto

Lonardi, commento e note di Paola Azzolini, Venezia, Marsilio, 20052, pp. 125 e 127. Occorre ricordare, a proposito della madre di Carducci, che nella prefazione alle Poesie del 1871 il poeta l‟aveva associata all‟Alfieri: «o madre mia veneranda, che m‟insegnasti a leggere sull‟Alfieri e non m‟inculcasti la superstizione!», in CARDUCCI, A lettore, in ID., Poesie, cit., p. XIII; edizione definitiva in CARDUCCI,

Opere, XXIV, p. 56.

41 CARDUCCI, Lettere, XI, p. 11. 42 Ivi,pp. 11-2.

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Omero e, più tardi, di Virgilio e Tasso capiva qualcosa; «Mi provai a leggere Dante – aggiunge –: non capii nulla. Mi provai a vedere cosa fosse il Petrarca: mi parve un libretto d‟aritmetica»43. Particolare è invece il rapporto con le poesie di Giusti, che aveva letto prima manoscritte, poi nell‟edizione di Bastia, e che si era divertito a declamare a Castagneto, dove aveva trascorso la convalescenza dalla febbre malarica: «Là su ruppi ogni ritegno. Andavo per le botteghe dei calzolai, dei sarti, chiamato, a leggere il Giusti; che credevo d‟intendere»44.

Proprio in quel giro d‟anni inizia a scrivere poesia:

nel ‟47, co‟ bagliori della primavera del risorgimento, cominciai a far versi anch‟io: In morte d’una civetta, ottave, nella quale non ricordo più come entrasse la granduchessa Maria Antonietta – La presa del castello di Bolgheri, fatta da Ladislao di Napoli nel 144… […], racconto, prima in prosa, poi in ottave, poi in terzine – Bruto che uccide Cesare, terzine – Il 10 agosto, non so più in che metro; probabilmente in tutti quei versi che sapevo fare45.

È un esordio da poeta romantico, segnato dalla polimetria e da componimenti lirico-narrativi d‟argomento storico.

Segue il racconto delle sue monellerie di bambino «repubblicano»: le fughe dai castighi paterni, le declamazioni dei Profughi di Parga46, la passione per gli animali selvatici, un «falchetto» e un «lupacchiottino», entrambi poi toltigli dal padre, il primo «strozzato», il secondo dato via. «Eravamo a questo – chiude Carducci – quando venne il ‟48 […]. Ma per oggi basta – scrive a De Gubernatis – un‟altra volta il resto. De‟ miei studi posteriori mi spiccerò; ma quando vengo a discorrere della mia fanciullezza e della mia Maremma, che non ho più riveduta altro che andando a Roma di passaggio in vapore, non finirei più»47.

Sulla linea dei saggi su Mameli e Manzoni e della lettera a De Gubernatis sono un paio di articoli che Carducci pubblica nella prima metà degli anni Ottanta: il Decennale

della morte di Giuseppe Mazzini, uscito sulla «Cronaca bizantina» il 1° marzo 1882 con il

sottotitolo Dalle mie memorie, e Il veggente in solitudine di Gabriele Rossetti, edito sulla «Tribuna» di Roma il 26 novembre 1884. Di nuovo, in entrambi l‟autobiografia è al

43 Ivi, p. 13.

44 Ibidem. Carducci fa riferimento è GIUSEPPE GIUSTI, Nuovi versi, Bastia, [s. n.], 1848. 45 Ibidem.

46 «Un‟altra mia gran contentezza era d‟alzarmi la mattina avanti al sole per menare a bere i cavalli […]. E quando spuntava il sole, io solevo salutarlo coi versi di Berchet… “Ecco il sol che fra i bellici stenti Rallegrava agli Elleni il coraggio Quando in petto alle libere genti Della Patria ferveva l‟amor…”», in CARDUCCI, Lettere, XI, p. 14. I versi dei Profughi di Parga citati da Carducci presentano

alcune variazioni rispetto al testo berchettiano, che recita: «Egli è il sol che fra i bellici eventi / rallegrava agli Elleni il coraggio / quando in petto alle libere genti / della patria fremeva l‟amor» (da GIOVANNI BERCHET, I profughi di Parga, parte III, L’Abbominazione, vv. 363-366, in ID., Poesie, pp. 3-27: 18). Quindi, «Egli è il sol» e non «Ecco il sol»; «eventi» e non «stenti»; «fremeva» e non «ferveva» (è probabile il verso «Ecco il sol che fra i bellici stenti» derivi dalla sovrapposizione di due versi dei

Profughi: «Ecco il sol che la bella costiera», v. 359, e «Egli è il sol che fra i bellici stenti», v. 363).

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servizio dell‟epos risorgimentale e dell‟esaltazione dei suoi protagonisti politici, nel caso di Mazzini, e letterari, nel caso di Rossetti.

Nell‟attacco del Decennale Carducci ricorda in che modo avesse vissuto, nel marzo del 1849, la notizia dell‟arrivo di Mazzini a Roma:

Ricordo, come ieri, il giorno, marzo 1849, che a Castagneto, in Maremma pisana, si lesse nei giornali l‟arrivo di Giuseppe Mazzini a Roma. Tra le forre dei monti della Gherardesca urlava, come suole di marzo, il vento polveroso e furioso; e si udiva lontano da basso il mugghio spasimante del Tirreno che si contorceva bianco nella maretta. E io mi compiaceva a levare la voce su i venti urlando anch‟io fra gli uliveti selvaggi e scoscesi i due versi dell‟Arnaldo:

O repubblica santa, il tuo vessillo

Sul castel di Crescenzio all‟aure ondeggia;

perocché nella mia testa di tredici anni mi ero persuaso, che, fermo in Roma Mazzini, la repubblica sarebbe per essere eterna48.

La rivoluzione repubblicana, il paesaggio maremmano, la poesia di battaglia: sono questi gli elementi che tornano, seppur differentemente miscelati, nelle prose autobiografiche della maturità carducciana. E li si ritrovano, infatti, anche nella parte iniziale del Veggente49, parte in cui Carducci si ricorda «fanciullo», nel 1846, quando aveva adocchiato per la prima volta Il veggente in solitudine che suo padre aveva ricevuto clandestinamente e che leggeva «sur una sua scrivania, quando il vento batteva i magri oliveti della collina e giù basso il mare mugghiava biancastro»; più oltre, ricorda d‟averlo letto «nel ‟51 o nel ‟52» grazie a «un padre delle Scuole Pie, Geremia Barsottini», che gliene diede una copia, «se pur – precisa – non glie lo tolsi io di nascosto»50.

Sono gli anni Ottanta. Carducci ha cinquant‟anni: ciò che invece gli preme è collocare la propria storia nella storia del Risorgimento e far sì che queste – storia personale e storia italiana – si saldino del tutto. Intende anche individuare nei suoi anni maremmani la matrice e la prefigurazione di un‟intera vita spesa battagliando con furore e coerenza per i propri ideali.

48 Carducci cita due versi del personaggio di Ostasio dall‟atto V, scena XVI, dell‟Arnaldo da Brescia di Niccolini; si legge in GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI, Arnaldo da Brescia: tragedia, [s.l.], [s.n.] a spese

dell‟editore, 1843, p. 292. Più oltre, sempre attraverso i propri ricordi personali, ricorda la difesa della Repubblica romana, in CARDUCCI, Decennale della morte di Giuseppe Mazzini, in ID., Opere, XIX, pp. 3-13:

9-10.

49 Esce sulla «Tribuna» di Roma il 26 novembre 1884, poi in CARDUCCI, Opere, XVIII, pp. 241-2. Già aveva curato l‟edizione delle Poesie rossettiane per Berbèra nel 1879, poi in ID., Opere, XVIII, pp. 187-238.

50 CARDUCCI, Il veggente in solitudine di Gabriele Rossetti, in ID., Opere, XVIII, pp. 241-2. Come scrive Carducci, la prima edizione del Veggente esce nel 1846, senza editore, con luogo di edizione «Italia».

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Che nella sua infanzia fosse già leggibile un destino di lotte e di gloria è la tesi che esprime senza mezzi termini nell‟articoletto Ricordo d’infanzia (1885)51, dove usa il suo primo ricordo di sé – ricordo, per altro, già presentato, ma in tono minore, nella lettera a De Gubernatis52 – per dimostrare di che pasta era ed è fatto:

Il mio più antico ricordo mi pone subito, ahimè, in relazione con un essere dell‟altro sesso, come si direbbe con la lingua d‟un certo uso, che, secondo i manzoniani, dovrebbe essere la lingua del buon gusto. Mi trovo in un luogo né bello né brutto – forse un giardinetto presso la casa ove nacqui –, a una giornata, né di primavera né d‟inverno, né d‟estate né d‟autunno. Mi pare che tutto, cielo e terra, sopra, sotto e d‟intorno, fosse umido, grigio, basso, ristretto, indeterminato, penoso. Io con una bambina dell‟età mia, della quale non so chi sia o chi sia stata, dondolavamo, tenendola per i due capi, una fune; e mi pare che così dicevamo o credevamo di fare i serpente. Quando a un tratto ci si scoperse tra i piedi una bella bòdda: è il nome, nel dialetto della Versilia, d‟un che di simile al rospo. Grandi ammirazione ed esclamazioni di noi due creature nuove su quell‟antica creatura. Le esclamazioni pare fossero un po‟ rumorose. Perché un grave signore, con gran barba nera e con un libro in mano, si fece in su l‟uscio a sgridarci, o, meglio, a sgridarmi. Non era mio padre: era, seppi molto tempo dopo, un marito putativo d‟una moglie altrui alloggiata per certo caso ivi presso. Io, brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via, brutto, te! D‟allora in poi, ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome della morale. Ma veramente morale, per bambini, questa storia non è. Che vuole ci faccia io, signora? È storia. E ho ubbidito53.

La tesi del racconto è chiara: il bambino è l‟adulto in nuce e ne prefigura alla perfezione il piglio, le caratteristiche, l‟animosità contro i prepotenti e i moralisti. Tuttavia la destinazione e la forma del ricordo – una breve lettera, richiesta da una cara «signora»54 per un giornalino pedagogico –, l‟usuale stoccata contro le teorie linguistiche dei manzoniani e quel filo d‟ironia che l‟attraversa di cima in fondo trasfigurano il ricordo in aneddoto e ne riducono lo spessore emotivo.

Nel corso degli anni Novanta il ricordo dell‟infanzia si appiattisce sulle descrizioni della Maremma che fu. La malinconia è la misura di Pensiero Nostalgico (1892), nel quale Carducci contrappone la Maremma della sua puerizia – una Maremma «selvaggia»: «mari spumanti di tempesta nel marzo», «monti torvi di quercie [sic] di torri e di fantasmi», «lande nebbiose e fumanti», popolate di bestie selvatiche – alla

51 Pubblicato in Ritorniamo piccini!, libro allegato al «Giornale per i bambini» di Roma, fondato da Ferdinando Martini nel 1881. Senza modifiche, è ripubblicato in GIOSUE CARDUCCI, Confessioni e

battaglie, serie prima, Bologna, Nicola Zanichelli, 1890, pp. 1-4, poi nel IV volume delle Opere [1889]

zanichelliane. Si cita da CARDUCCI, Opere, XXIV, pp. 1-4. 52 CARDUCCI, Lettere, XI, p. 9.

53CARDUCCI, Ricordo d’infanzia, cit., pp. 3-4. 54 Ivi, p. 3.

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Maremma attuale, ormai incivilita e quasi sbiadita : «Ora non ci son più bufali al piano, né quasi più cignali ai monti», e persino «i colli non son più neri come prima»; anche «la torre del conte Ugolino», che riguarda in una fotografia, gli «pare annoiata»; vorrebbe allora tornare nella sua Maremma, «lassù tra i falchi», per chiamare «i lupi d‟una volta che mi conoscevano», per rivivere i giorni in cui, «a‟ piè di quella torre leggeva Dante e Shakespeare» e il mare gli «pareva piccolo»55.

1.1.1. Il bambino che prefigurava il Vate

Fatta la tara alle memorie di Carducci eliminando le sofisticazioni d‟autore, ciò che rimane è la storia di un bambino cresciuto in una campagna arretrata e isolata – la Maremma di metà Ottocento –, istruito dalla madre e, soprattutto, dal padre; un bambino fanatico della storia di Roma e della Rivoluzione francese, dei poemi epici e della letteratura patriottica contemporanea56. Queste letture gettano le basi della sua ideologia e orientano le sue predilezioni letterarie.

I libri imposti e quelli scelti in modo autonomo, ma pur sempre all‟interno della biblioteca e quindi dell‟orizzonte culturale del padre, carbonaro irriducibile anche negli anni del ritorno all‟ordine, lo avevano convinto di trovarsi non alla periferia, bensì al centro della grande Storia. Così, nella Maremma leopoldina, tra l‟eco delle insurrezioni e il fallimento della rivoluzione, il ragazzino aveva maturato il bisogno di ribellione e lo spirito agonistico che manterrà inalterati per tutta la vita e che più volte, con orgoglio e parole nuove, sarebbe tornato a professare57.

Che il bambino prefiguri il Vate è la tesi centrale delle prose memoriali della maturità. Già nel diario del 1850 e più nitidamente negli appunti del 1853 si intuisce questa rilettura in prospettiva: già lì, infatti, è in corso un primo, ingenuo tentativo di

55 CARDUCCI, Pensiero nostalgico, in ID., Opere, XXVIII, pp. 280-1. Parole simili si leggono nella lettera del 26 ottobre 1894 ad Annie Vivanti: «Annie, che è di te? Io sono stato a lungo in Maremma. Non più né anche un lupo. Dove quei poveri animali venivano a frotte nella sera urlando, ora fioriscono le viti – ingiallite a questi giorni – e i ragazzi suonano il mandolino. Le vecchie querci secolari furono abbattute a suon di violino, or sono più anni, e da per tutto olivi, frumento e orti. Solo nell‟alto il verde cupo dei boschi; e qualche vecchio cignale, notaio del mondo, vi si ritira come Chateaubriand all‟abadia, fin qualche disoccupato non tiri a lui una fucilata. Non più bufali. Peccato! Qualcosa manca. Ma il vino è in gran copia e bonissimo», in CARDUCCI, Lettere, XIX, p. 38.

56 Degli anni Venti sonoI profughi di Parga, Le fantasie e le romanze di Berchet e La battaglia di

Benevento (1827) di Guerrazzi;degli anni Trenta, Ettore Fieramosca (1833) di d‟Azeglio, Dei doveri degli

uomini (1834) di Pellico, Marco Visconti (1834) di Grossi, L’assedio di Firenze (1836) di Guerrazzi; degli

anni Quaranta, Arnaldo da Brescia (1843) di Niccolini, Il veggente in solitudine (1846) di Rossetti, le poesie di Giusti e le poesie di Mameli.

57 «Mi sento di natura mia inclinato alla opposizione, anche in letteratura: nelle maggioranze sono un pesce fuor d‟acqua», dalla prefazione alle Poesie del 1871, edizione di riferimento: CARDUCCI, Opere, XXIV, p. 53. Stessa affermazione nella lettera del 5 novembre 1870 a Luigi Morandi: «io da natura son fatto per essere sempre dell‟opposizione; ché quando non sono all‟opposizione divengo scimunitamente convenzionale e academico», in CARDUCCI, Lettere, VI, p. 245.

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mitizzazione del recentissimo passato58. È però con gli articoli degli anni Settanta che le scapestrataggini del ragazzino vengono definiti prefigurazioni delle battaglie dell‟adulto. Da qui, almeno un paio di topoi dell‟autobiografia carducciana: i giochi infantili come “esercitazioni” per le future, grandi lotte politiche, poetiche e ideali, e il trasporto furibondo per la letteratura impegnata e, in particolare, per la poesia dei poeti engagés d‟inizio Ottocento, precursori, prima, del Carducci classicista, poi, del barricadiero e, infine, del Vate della Terza Italia.

2. Puerilia

Nelle poche paginette di diario risalenti al 1850, dopo aver ricordato il proprio entusiasmo per i moti insurrezionali del Quarantotto, Carducci annota d‟aver scritto nel 1846 la sua prima poesia: «un canto in morte di una civetta»59. Molti anni dopo, nella lettera a De Gubernatis, ricorda che aveva cominciato a fare versi nel 1847: In

morte d’una civetta, in ottave; La presa del castello di Bolgheri, «racconto, prima in prosa,

poi in ottave, poi in terzine» della presa di Bolgheri da parte di Ladislao di Napoli;

Bruto che uccide Cesare, in «terzine», e Il 10 agosto, «in tutti quei versi che sapevo fare»60. Sull‟autografo del sonetto burlesco Apollo e io si legge un appunto, privo di data, nel quale Carducci precisa che la sua «disposizione alla satira» era stata precocissima dato che i suoi primi versi, scritti a «undici anni, nel 1846» erano stati «un‟ottava burlesca in morte d‟una civetta e certe terzine satiriche contro Maria Antonietta Granduchessa»61.

Dei versi alla civetta e a Maria Antonietta e degli altri tre componimenti di stampo lirico-narrativo e d‟argomento storico – l‟assassinio di Cesare per mano di Bruto; un evento della storia maremmana d‟inizio Quattrocento; l‟assalto da parte del

58 Ne accenna FRANCESCO MATTESINI, La formazione di Giosue Carducci: dagli esordi al Poliziano

“volgare” (1848-1863), in Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano, a c. di Francesco Mattesini,

Milano, Vita e Pensiero, 1974, pp. 15-103: 20-2n. 59 CARDUCCI, Primizie e reliquie, cit., p. 47. 60 CARDUCCI, Lettere, XI, p. 13.

61CARDUCCI, Opere, I, p. 555. La granduchessa Maria Antonietta alla quale Carducci si riferisce è Maria Antonia Anna di Borbone (Palermo, 19 dicembre 1814 – Gmunden, Austria, 7 novembre 1898), principessa del Regno delle Due Sicilie e granduchessa di Toscana dal 1833 al 1859 in quanto seconda moglie di Leopoldo II. Apollo e io è un sonetto caudato incompiuto datato «1850, 24 settembre. Firenze», ivi, pp. 269-71. Altre note autobiografiche, in parte discordanti con le citate, si leggono sotto al titolo di I primi componimenti nel XXX volume delle Opere dell‟ Ed. Naz.: «In quell‟anno [1845] mi venne alla mano un librattolo di un tale Orlandini intitolato l‟Assedio di Livorno in cui fra l‟altro si narrava l‟eccidio di Bolgheri (borgo in cui stavo) fatto dalle bande di Massimiliano imperatore: a cotesto racconto (mediocrissima cosa) si destarono in me le scintille poetiche e scrissi Il Conte di

Bolgheri, poemetto in ottave. Scontento […] stesi di nuovo Il Conte di Bolgheri. Narrazione in prosa.

1846. In questo anno passai un mese a Castagneto […] scrissi una Satira a una donna in terzine e alcune innocenti ottave in morte di una civetta. Tornato a Bolgheri […] scrissi un Canto all’Italia, in terzine»; Carducci racconta poi d‟aver scritto nel 1848 Annibale al passaggio delle Alpi, Vittorie di Annibale sui romani e Annibale in Capua, in ID., Opere, XXX, pp. 6-8.

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popolo di Parigi del Palazzo delle Tuileries e, di fatto, la caduta di Luigi XVI e la fine della millenaria monarchia capetingia62 – rimangono solamente i titoli.

Il più antico componimento a noi noto è il sonetto A Dio, che risale al maggio del 1848. La prima quartina, «Da le oscure latebre de ‟l mio core / d‟induramento pieno e di follia / elevai la mia voce a te, o Signore; / non sprezzare, o Signor, la voce mia» (vv. 1-4), ricalca l‟andamento del salmo 130 (129), il De profundis: «Dall‟abisso a te grido, o Signore: / Signore, ascolta la mia voce; / siano attente le tue orecchie alla voce della mia preghiera»63. Molti anni più tardi Carducci l‟avrebbe così commentato: «Mi ride l‟anima quando ripenso che io mossi la mia poesia da Dio […] da quel Dio che io doveva poi dimenticare e anche oltraggiare ne li anni miei più belli»64.

Al sonetto A Dio seguono, in ordine cronologico, consonanti per tono e tema, i sonetti A una madre e La vita, entrambi datati 1849 e che Carducci dichiara di avere conservato a testimonianza dei «perduti quattordici anni» e di quanto lo «guastarono […] Byron, Schiller, Goethe, Victor Hugo, Sue, Guerrazzi e Prati, […] grandi ma non convenienti a la gioventù»65. In un altro appunto aggiunge di ricordare d‟aver composto, in quello stesso periodo, «una Romanza – L’orfanella – che se bene inculta e di povero stile riusciva assai affettuosa»66. Sono successivi, ma pur sempre affini,

Pastorale e Al compir de l’anno mio quindicesimo (1850). L‟ispirazione cristiana permane in

altri componimenti dei primi anni Cinquanta (Inno a Geova, A ’l cielo, Il dubbio, A Dio, alcuni versi sulla Pentecoste e Sei male o bene, o dubbia vita? del 1852; A un predicatore del 1853; Per una festa del Crocefisso del 1854); assai poco „confessionali‟ sono invece Alla

beata Diana Giuntini e Per la processione del Corpus Domini, entrambi del 1857 e pubblicati

nelle Rime: altri tempi, ormai, per la poesia carducciana, che sta facendo le sue prove di paganesimo in chiave antiromantica67.

62 Il 10 agosto, appunto, del 1792. Ora, sebbene Carducci non espliciti l‟argomento del 10 agosto, non c‟è ragione che porti a pensare che non si tratti del celebre episodio della storia della Rivoluzione francese. Per quanto riguarda, invece, La presa di Bolgheri, Carducci tematizza un evento storico minore, ma di rilevanza „patriottica‟ e nazionale, dato che l‟obiettivo di Ladislao di Napoli (detto il Magnanimo, noto anche come Ladislao d'Angiò o Ladislao di Durazzo, nato a Napoli l‟11 luglio 1376 e morto a Napoli il 6 agosto1414) era quello di creare, a suon di conquiste e approfittando della cronica instabilità politica degli stati italiani, un regno d‟Italia ante litteram. Pochi anni più tardi, Carducci ne accennerà in Della Italia: qui il fine, però, è esaltare «Firenze, […] fiera eroina delle italiche libertà», che riesce a sconfiggere anche Ladislao di Napoli, in GIOSUE CARDUCCI, Della Italia, in ID., Opere, V, p. 63.

63 Salmo 130 (129), Grido del peccatore, 1-2.

64 La nota, non datata, si legge in CARDUCCI, Opere, I, p. 332. Uscito nel 1935, questo primo volume, intitolato Primi versi, raccoglie, oltre alle Rime, i componimenti della giovinezza carducciana fino ad allora inediti poiché non confluiti né nelle Rime, né in Juvenilia, né il Levia gravia.

65 CARDUCCI, Opere, I, pp. 332-3. 66 Ivi, p. 333.

67 Con questi testi «mi saltò in capo – spiegherà Carducci nelle Polemiche sataniche (1871) – di mostrare che si potea fare poesia religiosa tra pagana e cristiana e anche cristiana pura ma non manzoniana […] e che pur senza fede si potevano rifare le forme della fede del beato Trecento», in CARDUCCI, Opere, XXIV, pp. 115-6.

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Il languore e la commozione a buon mercato che caratterizzano Il montanaro (1850), A mia madre (1851) e La preghiera di una fanciulla (1852)68 esemplificano l‟interesse del giovane Carducci per gli affetti familiari (la gioia del montanaro che, dopo anni, rientra in patria dalla moglie e dal figlioletto; l‟amore simpatetico del figlio per la madre, che definisce sua „anima gemella‟) e per i moti del cuore femminile (la bontà di una bambina che, presagendo forse la propria prossima morte, affida madre, padre e sorelline alla Madonna). Anche l‟ode Il Vaticinio (febbraio 1850), sebbene d‟argomento mitologico e pur impiegando un lessico arcaicizzante, non si discosta dalle tematiche lacrimevoli: «la mesta / Cassandra», che geme «su le patrie ruine» ed è «scossa da un sacro orrore» (vv. 9-10, v. 7 e v. 5), ha il profilo di un‟eroina romantica.

Di argomento morale e tono patetico sono I mietitori, La Spigolatrice e Invito al

lavoro, scritti tra il 1850 e il 185169. Si tratta di componimenti di maniera romantica, assolutamente estranei a istanze realiste o progressiste, incentrati, più che sulla condizione sociale, sulla probità delle masse popolari. Il mondo rurale che Carducci rappresenta è oleografico e la morale, paternalista e teocentrica, è finalizzata alla conservazione dell‟ordine prestabilito.

I mietitori dell‟omonima poesia carducciana cantano la loro gioia a Dio e si paragonano alla «rondinella» (v. 14) che «co ‟l tenue canto» (v. 18) ringrazia il Padreterno per la sua benevolenza; sebbene si definiscano «miserabil plebe» (v. 21) e sappiano di essere «al duro mondo ignoti» (v. 23), essi rendono grazie al Creatore, che ha ripagato il loro «amaro / sudore» (vv. 29-30) riversando «fecondità su‟ loro campi» (v. 28). Non c‟è sofferenza, torto o ingiustizia che possa istigarli a una lotta fratricida (vv. 37-42): i mietitori rigettano qualsiasi azione violenta che possa mutare il loro status sociale:

Poveri siam: ma puro come il tuo cielo è il core: ma libero e securo

ti vola il vóto umíl del nostro core: e a te, Padre, preghiamo

ci serbi a quello stato ove noi siamo. (vv. 43-48)

Costituisce un altro appello al lavoro La spigolatrice, un idillio in endecasillabi piani a rima baciata. Qui è una giovane spigolatrice a spronare le compagne al lavoro («compagne, a l‟opra!», v. 1, v. 13, v. 15, v. 27, v. 29) e a ricordare gioiosamente che «la man de ‟l Cielo» si abbassa benevola «su chi fatica» (vv. 27-28).

Chiude il ciclo l‟«idillio» Invito a ’l lavoro. La poesia si apre con un quadro naturale: «la rondinella / vola, ritorna, canta e saltella» (vv. 1-2), le passere «ruotano in volo» (v. 4), il sole sorge e «inargenta» (v. 8) un ruscello. È l‟alba. Tutte le bestie si risvegliano;

68 Rispettivamente in CARDUCCI, Opere, I, pp. 341-2, pp. 334-5, pp. 243-4 e pp. 257-8. 69 Ivi, pp. 343-4, pp. 396-7 e pp. 407-8.

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addirittura sembra che il bove, con i suoi insistenti muggiti, chiami a sé l‟aratro. La descrizione è interrotta da un‟esclamazione gioiosa:

Su! Co‟ fecondi raggi novelli a ‟l campo, a ‟l campo, cari fratelli! A ‟l campo, a ‟l campo. Dio benedica de ‟l campagnolo l‟umil fatica. In quel che canta giuliva e snella la giovinetta contadinella,

de ‟l sudor nostro noi fecondiamo queste campagne che dimoriamo. (vv. 11-18)

La «giovinetta contadinella» (v. 16) dà voce al volere unanime dei contadini. Ritornano, qui concentrati in otto versi, i nuclei tematici e l‟ideologia dei Mietitori e della Spigolatrice; alla base di questo trittico sono, infatti, il valore del lavoro, la morale del sacrificio, la certezza che il senso dell‟esistenza sia rintracciabile nell‟amore fecondo ricevuto da Dio.

Il modello più prossimo del Carducci „rusticale‟ è il Prati dei Campagnuoli sapienti70: anche i saggi campagnuoli, così come i mietitori, le spigolatrici e i contadini, usano il canto per incitarsi reciprocamente al lavoro e per ringraziare Dio della loro vita, onesta e faticosa; ai ricchi, che «qualche volta con loro miti non sono», la «dolorosa ma non trista plebe» risponde «con l‟opra e col perdono» (vv. 21-24). «Il crin sudato è la corona nostra, / il piccone e la marra è il nostro scettro» (vv. 5-6): questo è il loro motto; «Lavoriam, lavoriam» e «noi lavoriam cantando», che aprono e chiudono tutte le strofe71, sono gli slogan alla base del loro etica: un‟etica del lavoro e del sacrificio sulla quale si regge l‟inalterabile ordine voluto da Dio.

In linea con la poetica romantica sono anche i componimenti Il lamento del

Trovatore (1850-1851), A una rondinella, Co ’l primo riso de la mattina, I crociati reduci, La serenata (1851), Amore e morte (1852) e Dante al monastero del Corvo (1853), tutti

accomunati dall‟ambientazione medievale e dal tema amoroso e patriottico.

A proposito del Lamento del trovatore, nel 1853 Carducci afferma che «fu il suo primo canto d‟amore […], e fu del maggio 1850» e aggiunge che tanto gli era piaciuto «mascherarsi da trovatore» che aveva composto molte altre poesie del genere, tra cui «il Delirio del trovatore nell‟agosto del ‟50, cosa più che pazza, e la Morte del trovatore, cosa assai affettuosa ma neglettissima e che moltissimo allora piacque ai miei amici». Tornando di nuovo al Lamento del trovatore, afferma che «fu ricorretto nel settembre del 1851»: un‟esperienza di correzione impossibile che lo spinge a distruggere molti

70 Edito in GIOVANNI PRATI, Canti lirici, Canti per il popolo e Ballate, Milano, Presso l‟Editore Andrea Ubicini, 1843; ed. di rif.: Opere edite e inedite del Cav. Giovanni Prati, Milano, Casa editrice Italiana di Maurizio Guigoni, 1865, vol. I, Canti per il popolo, XXIII, pp. 206-7.

71 Quindi, «Lavoriam, lavoriamo», v. 1, v. 10, v. 19 ev. 28, ma anche v. 3; «Noi lavoriam cantando», v. 9, v. 18, v. 27 e, con minima variazione, v. 36.

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