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Abstract tratto da Alibi di Fabio Giallombardo - Dario Flaccovio Editore - Tutti i diritti sono riservati

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Academic year: 2022

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A Paolo Borsellino e a tutti quegli italiani che si ostinano ad amare il proprio paese senza cedere alla tentazione di cercare alibi, anche quando le istituzioni li hanno abbandonati.

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Fabio Giallombardo

Alibi

L’altrove in cui ci rifugiamo è spesso un bluff per mascherare la nostra paura di vivere il presente

Prefazione di Fiammetta Borsellino

DARIO FLACCOVIO EDITORE

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Il comandante delle truppe d’occupazione disse al sindaco del paese di montagna: «Siamo sicuri che state nascondendo un traditore nel vostro paese. Se lei non ce lo consegna, tormenteremo lei e la sua gente con ogni possibile mezzo».

Il paese nascondeva davvero un uomo che sembrava buono e innocente ed era amato da tutti. Ma cosa poteva fare il sindaco ora che era minacciato il benessere dell’intero paese? Giornate di discussione al consiglio comunale non portarono ad alcuna conclusione. Così, alla fine, il sindaco affrontò la questione con il prete del paese. Il prete e il sindaco passarono tutta la notte a esaminare le Scritture e alla fine trovarono la soluzione: «È meglio che un uomo muoia e la nazione sia salva».

Così il sindaco consegnò l’innocente alle forze dell’ordine, pregando di perdonarlo. L’uomo disse che non c’era niente da perdonare. Non voleva che il paese corresse rischi per causa sua. Egli fu torturato crudelmente finché le sue grida non risuonarono per tutto il paese e infine giustiziato.

Vent’anni dopo un profeta passò per quel paese, andò dritto dal sindaco e gli disse: «Cosa avete fatto? Quell’uomo era stato mandato da Dio come salvatore di questo paese. E voi l’avete consegnato perché fosse torturato ed ucciso». «Cosa potevo fare?» si scusò il sindaco «Il prete e io abbiamo guardato le Scritture e abbiamo agito di conseguenza».

«Questo è stato il vostro errore», disse il profeta «avete guardato le scritture. Ma avreste anche dovuto guardare nei suoi occhi».

Anthony De Mello

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Il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Franco Battiato

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Prefazione

Un “alibi” può essere una scusa innocente nata solo per mascherare una paura che ci attanaglia; ma può anche diventare una menzogna che raccontiamo agli altri, o peggio a noi stessi, per camuffare una verità scomoda e indicibile.

Però, via via che il lettore percorre le pagine di questo romanzo appassionato, scopre il più profondo significato del titolo: la parola “alibi” secondo la sua etimologia latina, rimanda a una dimensione che ci conduce in un altrove, al di là dell’apparente realtà, mai così semplice come sembra.

Il percorso che Fabio Giallombardo compie qui, con l’ausilio di quanto offerto dagli archetipi del mito e dalla cultura letteraria classica, è un viaggio sofferto, privato e pubblico insieme.

Sul piano personale, ci offre lo spaccato di un uomo – con le sue tensioni ideali, affettive, emozionali – attraverso dina- miche familiari che lo coinvolgono profondamente e a tratti drammaticamente come individuo, padre, marito, amante e anche come professore. E lo portano a trovare una sintesi non facile, tra crisi, drammi e colpi di scena che danno al racconto un ritmo coinvolgente.

Sul piano pubblico e sociale, invece, ci permette di svelare tanti aspetti della Sicilia, dalla natura alla storia millenaria che l’ha forgiata, fino alla sua antropologia, spesso così indecifrabile

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a causa della coesistenza di bene e male, di coraggio e paura, di prona rassegnazione e di indomabile voglia di riscatto. In quest’isola, sempre terra di conquista, si nascondono gli aspetti migliori e peggiori dell’uomo.

L’autore trae ispirazione dal barbaro eccidio di Via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino, mio padre, insieme agli agenti della scorta: la vita dei quattro protagonisti del romanzo viene stravolta dalla scoperta del più intricato depistaggio della nostra storia repubblicana, dalla tragica consapevolezza che un uomo giusto è stato ucciso due volte, prima dalla mafia col tritolo e poi da uomini delle istituzioni che hanno deviato le indagini per nascondere e proteggere i veri esecutori e i veri mandanti della strage. Da queste sconcertanti scoperte i personaggi intraprendono un viaggio che ha come faro l’affermazione del diritto alla verità sui tanti misteri irrisolti che hanno segnato la storia del nostro paese impedendone sistematicamente una reale crescita. Un paese che ha avuto sempre molto da nascondere, principalmente a se stesso.

Il coraggio è l’altro elemento fondamentale che emerge da questo romanzo, il cui l’autore non si tira indietro nel momento in cui diventa necessario evidenziare il connubio stato/criminalità organizzata/poteri forti. Questo connubio genera una pericolosissima zona grigia, un’acqua torbida dove l’immondo pesce della mafia sguazza, come diceva mio padre. E ciò costituisce una delle principali cause frenanti dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata.

Ho avuto la fortuna di incontrare l’autore di questo romanzo lungo il mio percorso di vita e di poter apprezzare l’impegno civile che emerge dalla sua scrittura, ma ancor più dalla passione con la quale svolge la sua professione di insegnante. Fabio Giallombardo ha la capacità di instaurare un rapporto di empatia con i ragazzi con cui entra in relazione ed è proprio questa sintonia a far crescere in questi ultimi i valori di legalità e giustizia.

Da questo romanzo, pur permeato dal senso della tragedia e

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dalla drammaticità legata ai fatti da cui prende spunto, emerge anche un messaggio positivo di speranza: è un grido di denuncia, che però al contempo ci comunica chiaramente che anche dagli eventi più tragici possono nascere opportunità di crescita e di rinascita per le generazioni future.

Palermo, 13 settembre 2019

Fiammetta Borsellino

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Proemio Lezioni d’infinito

(Ulisse)

Io credo che sulla nozione d’infinito ci siano una serie di vecchi equivoci. Si pensa che l’infinito sia uno spazio vuoto in linea retta e privo di limiti, verso il quale slanciarsi in eterno. Credo che questa visione distorta sia il sottoprodotto culturale di un immaginario collettivo consumista, nato dalla inconsapevole fusione fra certe scene dei film di fantascienza degli anni ’70 – in cui le stelle si alternavano al vuoto, all’infinito, appunto – e una vulgata religiosa un po’ new age di stile fricchettone, secondo cui le frasi del guru vanno ripetute come un mantra senza sosta e senza spirito critico. Nulla di più noioso e inutile, mi pare, che un’uniforme distesa di niente su cui scivolare per sempre, senza frutto; una monotonia, che tra l’altro, per potere perdurare in eterno, presupporrebbe un’immortalità di cui noi mortali siamo privi, ed è questa una delle pochissime certezze che almeno in questa vita abbiamo.

L’infinito, invece, è per me quel brivido che ti scorre sulla schiena quando, fra le mille possibili variabili di destini casuali, ne peschi senza saperlo una e, laddove prima brancolavi nel caos, dibattendoti fra i mille ostacoli fra i quali le pareti del contingente ti costringevano, improvvisamente ti accorgi che quelle pareti sono in realtà gli argini di una strada che ti ha

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indirizzato verso un punto preciso dello spazio, anche se non sai ancora quale. Quello è l’irripetibile istante in cui l’indefinito si fa determinato. E da quell’istante sgorga misteriosamente l’emozione, sospesa a metà fra scelta personale e fatalità. Perché è concreto e insieme astratto, l’infinito, questo è il suo segreto.

Prendi me e mia moglie: abbiamo una storia che non raccontiamo più a nessuno da anni perché fraintenderebbero sicuramente la vicenda, assimilandola volgarmente alle storie dozzinali di tristissimi gruppi di incontri nati sui social nel nuovo millennio, per consentire a sfigati di svariate età di rimorchiare sfigate facendosi abbindolare da Photoshop o da palesi sostituzioni delle foto, cose che vengono smascherate al primo penosissimo incontro reale fra i due poveracci. Noi invece fummo pionieri di un’inconsapevole virtualità, di cui ancora nessuno immaginava le potenzialità. La nostra magia fu quella di coglierla quando era ancora indefinita e vaga, prima ancora che esistesse.

Ma andiamo con ordine. Nel Natale del 1999 io mi trovavo a Taormina con degli amici, insieme ai quali avrei dovuto trascorrere il “Capodanno del Millennio”. Ho sempre invidiato Taormina, famosa in tutto il mondo per l’abbacinante meraviglia di Isola Bella, che le si staglia innanzi e che secondo gli autoctoni sarebbe il masso gigantesco lanciato dal Ciclope per affondare la nave di Ulisse in fuga. Anche il paese da cui provengo io ha degli stupendi faraglioni che secondo i miei compaesani sono i veri macigni scagliati da Polifemo. Ed è questo il motivo per cui i miei genitori mi chiamarono, con gusto un po’ kitsch e con scarsa fantasia, col buffo nome di Ulisse, che presto divenne per me una condanna e che nel bene e nel male indirizzò il mio destino. Solo che di cognome non facevo Laertide o Politropo, ma Marranzano. E quel cognome, come il nome stesso del mio paese, Castellammare del Golfo,

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non sono famosi in tutto il mondo per la loro bellezza (anche se il Golfo di Castellammare non ha nulla da invidiare alla baia di Taormina): purtroppo il mio paese è conosciuto soprattutto fra gli storici e i giornalisti più informati come il piccolo villaggio di pescatori da cui emigrarono le famiglie che presero possesso del business illegale di “Nuova Yorka” negli anni ’20, dando vita a una delle più feroci faide fra gangster della storia di Cosa nostra italoamericana. I Marranzano in quella guerra ebbero la peggio e questo ha fatto sì che l’argomento fosse sempre un taboo nella mia famiglia, una specie di antichissimo lutto rimosso a forza, ma ancora sanguinante nella memoria collettiva di un paese intrappolato nel cono d’ombra della sua triste storia. Un paese, il mio, che celebra ancora la sua Madonna del Soccorso, durante la festa più importante dell’anno, cospargendo di dollari la statua della Vergine nell’afa di Agosto. La festa ricorda una vicenda di tre secoli fa, quando gli inglesi vennero messi in fuga dagli angeli che soccorsero la Madonna salvando i poveri paesani stretti intorno al Castello. Ma quei dollari con cui i loro discendenti ricoprono ogni anno Maria Vergine evidentemente ricordano un altro evento: la pioggia di denaro che il business illecito americano del primo Novecento aveva fatto piovere sulla povera città.

I miei genitori trascorsero la loro vita cercando di farsi notare dal mondo il meno possibile e campando con un piccolo bar pasticceria che faceva le cassatelle con la ricotta più succulente del mondo. Le cassatelle delle mie parti non hanno nulla a che vedere con il trionfo barocco di canditi e colori sgargianti che caratterizzano la classica cassata, la quale, come il carretto siciliano, è uno dei simboli ridondanti con cui i siciliani vogliono dare di sé un’immagine folkloristica a beneficio di quelli che vivono fuori, compresi gli stessi isolani emigrati. La cassatella, invece, è un tipico dolce trapanese, costituito da un leggiadro

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impasto di farina, zucchero, olio, vino e limone, con cui si crea una tasca che viene poi farcita con un ripieno di crema di ricotta, alla quale possono essere aggiunti cannella e cioccolato.

Una delizia per il palato, ma una condanna per chi non ha visto altro dalla nascita. Io, fin da piccolo, non vedevo l’ora di fuggire da quel paese di fantasmi e di silenzi, dove solo una pioggia di dollari insanguinati scaldava i cuori. Così vissi come una liberazione la possibilità di studiare all’Università di Palermo.

Scelsi la facoltà di Lettere, perché a diciotto anni “Ulisse” mi ci sentivo davvero ormai, con tutto il corredo di astratti furori e di folli voli, e non vedevo l’ora di esplorare il concavo mondo che ai miei genitori, che pure mi avevano dato quel nome e quel destino, aveva sempre fatto paura.

Insomma, il 25 dicembre del 1999 mi trovavo ospite dell’hotel Antares di Taormina, un immenso crostaceo arrampicato sulla montagna prospiciente Isola Bella. Mi arrivò sul cellulare l’sms di auguri di una mia, diciamo, “amica”. Cioè, senza peli sulla lingua, di quella che era stata la mia “trombamica” fino a un mese prima. Il problema è che quelli come me non dovrebbero avere la trombamica, non ci sono proprio tagliati per una cosa del genere: di una maga Circe che ti ammalia e prova anche a trasformarti in porco ti puoi liberare con un gesto eroico, perché la smascheri, la possiedi per un attimo e la saluti, come hai già fatto mille volte con tutte le sirene che hanno provato a incantarti.

Ma un’infermiera che scopa divinamente e che in cambio non ti chiede nulla se non di raccontarle belle storie con la tua bocca d’oro e di urlare felice durante l’orgasmo, ecco, di quel tipo di tenerezza non ti liberi facilmente, specie se sei cresciuto in un paesino della Sicilia dove le ragazze non la davano mai a noi, che eravamo la fauna locale, e pareva che aspettassero i turisti palermitani d’estate per esplorare le sconfinate praterie del piacere sfrenato.

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In definitiva, il messaggio di auguri natalizi dell’infermierina, da me abbandonata definitivamente un mese prima con sommo rammarico perché temevo che mi si potesse affezionare troppo, quell’sms, mi strinse il cuore di tenerezza… per completezza d’informazione devo anche aggiungere che il messaggino, oltre che l’attacco di tenerezza, mi procurò anche un’esplosiva e istantanea erezione, molto imbarazzante per me, che già mentalmente accampavo pretesti come «Ti ho voluto bene, ma non voglio illuderti». L’imbarazzo al cospetto della mia coscienza mi spinse a cancellare immediatamente il suo messaggio e a eliminare addirittura il contatto di Luana (come può non fare tenerezza una ragazza del popolo a cui hanno persino dato un nome simile?) dalla rubrica.

All’epoca non c’erano i social, così, non appena la mia furia iconoclasta si fu placata, realizzai l’irreparabilità del gesto che avevo compiuto e il mio autoinganno fu volgarmente smascherato: mi era preclusa per molto tempo la possibilità di trombare quando ne avessi avuto voglia e in più mi ero comportato in modo assurdo nei confronti di una ragazza che davvero non lo meritava. Insomma, Ulisse ha tanti difetti, ma non è uno stronzo, è un eroe magnanimo, in fondo. Al che, provai a ricostruire a memoria il suo numero (incredibile, all’epoca, la mole di rubriche telefoniche che ciascuno di noi aveva in mente, eravamo davvero dei piccoli rapsodi omerici).

Ricostruito il numero, lo memorizzai di nuovo sul cellulare e scrissi il seguente messaggio poetico riparatore, che fungeva anche da elegante congedo:

«Davanti a me si stagliano i faraglioni, che mi ricordano quante tempeste ho scampato fra la luna e il mare, dolcissima amica mia. Ma le tempeste sono la mia vita e il vero amore di Ulisse consiste nel non legare a sé nessuna Penelope, perché è proprio lei che alla fine rimane intrappolata nella condanna di un’attesa eterna, che diventa ancora più penosa proprio quando il suo uomo ritorna a Itaca e diventa il fantasma di se stesso; perché non resiste alla monotonia del matrimonio e l’abbandona una

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seconda volta, definitivamente, per trovare la morte fra le braccia dell’unica amante che può avere in eterno: la spuma del mare.

Non ti scorderò mai, dolcissima mia Penelope.

Per sempre tuo, Odisseo».

Il messaggio mi era uscito un po’ barocco, secondo lo stile ampolloso di allora, perché le frequenti esercitazioni accademiche della facoltà di Lettere e Filosofia mi portavano a una specie di dilettantismo poetico compulsivo, che in me veniva poi rafforzato perché piaceva molto alle donne, almeno, alle donne degli anni ’90.

Col cuore in gola attesi la risposta, anche se a rigor di logica l’avevo congedata, per cui, oltre al silenzio, l’unica sensata risposta avrebbe dovuto essere “Fanculo, fottiti tu e i faraglioni”.

Ma Luana, sebbene la sua condizione sociale non le avesse consentito di studiare, non era per nulla volgare e sboccata.

Dopo cinque minuti esatti il telefonino si illumina e sento il dliin di risposta:

«Ma chi sei? E soprattutto, come fai a sapere che mi chiamo Penélope?».

Non la racconto più a nessuno questa storia, perché la gente o non ci crede, oppure pensa che io stia camuffando un rimorchio da social ante litteram.

Ma è andata esattamente così e il vile stratagemma commerciale della compagnia telefonica, che offriva sms gratuiti e illimitati a partire dall’ultimo Natale del vecchio millennio fino al primo capodanno del nuovo, ha fatto sì che io e la mia futura moglie siamo stati fra i primi sconosciuti a chattare con l’innocenza e il candore dei veri pionieri.

Così, fra i primi messaggi di goffe scuse e di imbarazzati spiegazioni dell’equivoco, scoprii che Penélope Acciarri doveva il suo singolare nome al fatto che era nata in Argentina da un

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coraggioso avventuriero marchigiano, Armando. Quest’ultimo, emigrato nella pampa, aveva conosciuto Nina, una donna di gran tempra che univa i ruvidi tratti Mapuche ai più sottili lineamenti di antenati inglesi stanziatisi un secolo prima nella regione di Santa Fe. Proprio nella città di Rosario i due innamorati avevano aperto un ristorante che contaminava la cucina italiana coi tipici piatti argentini e sempre lì avevano concepito la loro unica figlia, che portava lo stesso nome della nonna materna.

L’inguaribile nostalgia dell’Italia lontana aveva sempre dilaniato il cuore del povero Armando, che infine era riuscito a trascinare moglie e figlia di appena sette anni nella patria da cui era fuggito solo tre lustri prima: così i due coniugi erano riusciti ad aprire un agriturismo a Petritoli, nelle campagne del sud delle Marche e, grazie all’importazione a buon mercato della carne argentina, avevano fatto discreti affari portando in quel lembo di terra italiana la moda dell’asado, il prelibato arrosto di carne ampiamente asperso del divino nettare del chimichurri. Dopo pochi anni, tuttavia, Armando era stato colpito da una cirrosi epatica fulminante, lasciando in questo mondo una vedova e un’orfana.

Una vera storia da romanzo picaresco, a cui io contrapposi la mia tragicomica epopea familiare siculo americana, un po’

Robert De Niro, un po’ Franco e Ciccio… fra risate, confessioni e reciproco interesse gli sms divennero presto telefonate, le telefonate viaggi.

Avevamo venticinque anni io e ventitré Penélope e per la prima volta in vita nostra provavamo un’attrazione che al tempo stesso era carnale, mentale, ideale. Proiettare tutti i desideri lungamente accarezzati nella fantasia di ciascuno, e insieme realizzarli, fu un’esperienza unica, perché eravamo le avanguardie sul ciglio di una nuova epoca. Non ci scambiammo alcuna foto l’uno dell’altro fino al primo incontro, ma ci eravamo così ben descritti con lievi e precise pennellate di parole che quando ci siamo visti la passione ha trovato subito il suo sbocco naturale. Amicizia,

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