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1. Descrivere la disciplina civilistica del recesso del socio nelle società di persone

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1. Descrivere la disciplina civilistica del recesso del socio nelle società di persone

2. Caso A: Alfa è una s.p.a. dotata di un patrimonio netto consistente, nella quale da alcuni esercizi non vengono distribuiti gli utili conseguiti, pur in assenza di perdite.

In occasione dell’approvazione dell’ultimo bilancio l’assemblea delibera:

-

da un lato, di destinare gli utili d’esercizio in parte a riserva straordinaria e di distribuire il residuo ai soci;

-

dall’altro, di aumentare il capitale sociale a pagamento in misura corrispondente all’importo degli utili distribuibili.

Tizio, socio di minoranza, è dissenziente.

Qualificare giuridicamente l’operazione e dire se Tizio ha una qualche tutela.

3. Caso B: la società Gamma fallisce in data 16.01.2018:

a. descrivere finalità, presupposti ed effetti dell’azione revocatoria fallimentare;

b. valutare se il curatore può assoggettare a revocatoria dei pagamenti eseguiti da Gamma a favore di Alfa tra il 16.09.2017 e il 13.11.2017 per forniture di merce, effettuati mediante assegni post-datati, a scadenza 4 mesi dalla consegna, come sempre avvenuto sin dall’inizio del rapporto con Alfa risalente al febbraio 2015 e dove tali assegni post-datati sono sempre stati onorati.

4. Caso C: cinque persone intendono costituire una spa.

Quattro di esse sono disponibili a conferire denaro in eguale misura; la quinta vorrebbe invece contribuire a prestare la propria attività intellettuale a favore della costituenda società per tutta la sua durata.

Verificare, anche tramite esempi numerici, la possibilità di soluzioni idonee a soddisfare le esigenze dei cinque potenziali soci.

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1. RECESSO DEL SOCIO IN SOCIETA’ DI PERSONE

Ex art. 2285 c.c. il socio di società di persone può recedere alle seguenti condizioni:

- se la società è a tempo indeterminato o contratta per tutta la vita di uno dei soci:

a. liberamente e in qualsiasi momento (cd. recesso ad nutum) b. nei casi previsti dal contratto sociale;

- se la società è contratta a tempo determinato il recesso può essere esercitato solo:

a. in presenza di giusta causa

b. nei casi previsti dal contratto sociale.

In sintesi, il codice civile ha ipotizzato tre cause complessive di recesso: ad nutum, per giusta causa e convenzionale:

- ad nutum: lo scioglimento consegue alla semplice manifestazione di volontà, senza che vi sia bisogno di motivazione alcuna, essendo sufficienti le condizioni previste per legge per il suo esercizio, ovvero un contratto a tempo indeterminato o per tutta la vita dei soci o soggetto a proroga tacita;

- per giusta causa: l’art. 2285 c.c. non specifica il concetto di giusta causa, ma la Cassazione lo traduce in violazione di obblighi contrattuali o inosservanza dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza e correttezza tali da compromettere irrimediabilmente la natura fiduciaria del rapporto tra soci.

La dottrina ravvisa giusta causa di recesso anche in circostanze sopravvenute attinenti la sfera personale del socio che, rendendo di fatto molto gravosa o impossibile la sua prosecuzione del rapporto sociale, ne giustificano lo scioglimento immediato (età avanzata, malattia, incarichi di lavoro, trasferimento ad altra sede).

In ogni caso, la corretta formulazione della dichiarazione di recesso per giusta causa deve far emergere i fatti in modo oggettivo;

- convenzionale: la motivazione è insita nel richiamo alla clausola statutaria.

Alle ipotesi ex art. 2285 c.c. vanno poi aggiunte quelle ex art. 2500 ter, 2502 e 2506 ter c.c. a favore del socio di società di persone che non abbia concorso alle decisioni rispettivamente di trasformazione in società di capitali, di fusione o di scissione.

Sotto il profilo procedurale, il recesso dalla società è un atto unilaterale recettizio a forma libera, la cui dichiarazione può essere fatta per iscritto, verbalmente o anche risultare da comportamento concludente del socio, dal quale si evinca, senza ombra di dubbio, la sua volontà di fuoriuscire dalla società. E’ evidente che in mancanza di forma scritta si pongono problemi di carattere probatorio.

Nella sola ipotesi di recesso ad nutum il socio deve dare un preavviso di tre mesi (non invece nel recesso per giusta causa o convenzionale).

Destinatari della dichiarazione sono tutti i soci singolarmente e personalmente, atteso che il recesso va a incidere profondamente nel rapporto sociale, modificandolo in modo sostanziale.

Ex art. 2290 c.c. lo scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile a chi lo ha senza colpa ignorato.

Ex art. 2300, 1° comma, gli amministratori devono richiedere nel termine di trenta giorni all’Ufficio del Registro delle Imprese l’iscrizione delle modificazioni dell’atto costitutivo, pena l’inopponibilità ai terzi, salvo si provi che questi ne erano a conoscenza.

In altri termini, ai fini del completamento del processo di uscita del socio dalla compagine sociale, è necessario che gli altri soci provvedano ad aggiornare il contratto sociale con atto pubblico o scrittura privata autenticata.

La pubblicità ex art. 2290 (per lo scioglimento del rapporto sociale) e quella ex art. 2300 (per le modifiche dell’atto costitutivo) tutelano da un lato il socio uscente, definendo temporalmente la sua responsabilità verso i terzi, (art. 2290 comma primo c.c.); dall’altro, la società che ha interesse a opporre ai terzi che quel socio non fa più parte della compagine sociale, soprattutto se amministratore e rappresentante.

Nulla esclude che i due momenti della fattispecie recesso possono sommarsi in un unico adempimento pubblicitario a carico degli amministratori.

Infine, sotto il profilo degli effetti civile del recesso, ex art. 2289 c.c. il socio receduto ha diritto di vedersi liquidata la quota di partecipazione, rappresentata da una somma di denaro. Salvo apposita pattuizione, il

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socio uscente non ha invece diritto alla restituzione dei beni conferiti, prevalendo l’interesse degli altri soci a mantenere intatta la funzionalità del patrimonio sociale.

Si ritiene che la società, in base alla propria convenienza, possa scegliere se liquidare la quota in denaro o mediante beni in natura.

Circa la determinazione del valore della quota, il codice fa riferimento alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento, tenuto conto dell’effettiva consistenza economica dell’azienda all’epoca del recesso, comprensiva anche dei fattori di redditività.

E’ opinione consolidata che, salvo che lo statuto preveda in alternativa di fare riferimento all’ultimo bilancio approvato, si renda necessaria la predisposizione un vero e proprio bilancio straordinario.

A norma del terzo comma dell’art 2289 c.c. il socio partecipa agli utili e alle perdite inerenti tutti gli affari iniziati mentre era in società, con l’effetto di un accrescimento o decurtazione della quota di liquidazione.

A patto che la quota abbia un valore positivo, il pagamento va effettuato entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento come termine massimo.

Infine, ex art. 2290 c.c. il socio receduto è responsabile per i debiti sociali contratti fino al giorno in cui ha effetto il suo recesso.

2. CASO A

La posizione di Tizio potrebbe ricevere tutela invocando e provando il cd. abuso della maggioranza sulla base dei seguenti ragionamenti.

Nel nostro ordinamento manca una norma che identifichi espressamente l’abuso di maggioranza; dottrina e giurisprudenza lo rinvengono in tutti i casi in cui una delibera assembleare viene adottata dalla maggioranza dei soci al solo scopo di ledere consapevolmente e fraudolentemente la posizione dei soci di minoranza.

Più precisamente, affinché si configuri l’abuso, è necessario:

a. sotto il profilo soggettivo, che emerga una condotta della maggioranza come intenzione consapevole di poter sfruttare a proprio vantaggio la sua posizione;

b. contemporaneamente, sotto il profilo oggettivo, che sia provata l'effettiva pregiudizialità della delibera per il socio di minoranza.

In realtà si tratta di un abuso del diritto di voto.

Il codice civile prevede e sanziona un abuso del diritto di voto esclusivamente ex art. 2373 alla voce

“conflitto di interessi”, per il quale ex art. 2377 è annullabile la delibera approvata col voto determinante dei soci che, per conto proprio o di terzi, fossero motivati da un interesse in contrasto con quello della società.

L’art. 2373, però, non è applicabile all’abuso di maggioranza, perché disciplina il conflitto tra un interesse extrasociale del socio e quello che egli ha in società, mentre nell’abuso di maggioranza si ha contrapposizione tra i diversi interessi che i soci hanno tra loro all’interno della società.

Altro motivo per cui non si può ricorrere all’art. 2373 c.c. è che solitamente nell’abuso di maggioranza la delibera non ha una ricaduta negativa sulla società, anzi, spesso la avvantaggia.

Se però si considera che attraverso l’abuso di maggioranza si perseguono finalità vietate dalla legge attraverso delibere formalmente legittime, esso concretizza una violazione del principio generale di correttezza e buona fede contrattuale, che deve caratterizzare i rapporti tra i soci ex art. 1375 c.c., tenuto conto che le decisioni dei soci equivalgono a veri e propri atti di esecuzione contrattuale.

Infatti, costituita la società, si realizza una comunione di interessi che, da un lato richiede la subordinazione del singolo alla volontà della maggioranza e dall’altro esclude che il voto assembleare sia strumentalizzato per il conseguimento di fini estranei al contratto sociale, cosicché ogni socio può esercitare il diritto di voto per realizzare un proprio interesse legittimo a condizione di non danneggiare volutamente gli altri.

La tutela per il socio di minoranza che si prospetta è quindi l’annullabilità della delibera di aumento di capitale a pagamento ex art. 2377 c.c. per contrarietà alla legge, cioè per violazione dell’art. 1375 c.c. - appunto – e non dell’art. 2373 c.c.

Più precisamente, Tizio potrà sostenere l’abuso di maggioranza, posto che:

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- la necessità di ricapitalizzare la società non trova riscontro nei fatti, essendo quest’ultima in costante e rilevante sviluppo patrimoniale e finanziario;

- l’assemblea avrebbe, nel caso, potuto deliberare un aumento di capitale gratuito, impiegando quanto invece accantonato a riserva straordinaria;

- la coincidenza tra utili destinati alla distribuzione e importo dell’aumento di capitale induce a pensare ad una strategia volta ad impedire al socio di minoranza di ottenere la remunerazione del proprio investimento;

- di fatto per Tizio si concretizza un pregiudizio, sia che decida di investire i dividendi che gli spettano, perdendo la sua remunerazione, sia che decida di non impiegarli per sottoscrivere nuovo capitale, deprimendo ulteriormente la propria partecipazione di minoranza;

- pare inverosimile che ai soci di maggioranza tali circostanze ed effetti non siano noti.

3. CASO B

La revocatoria fallimentare (art. 67 l.f.) è finalizzata alla reintegrazione della garanzia patrimoniale del fallito, attraverso una declaratoria di inefficacia di atti di disposizione del patrimonio posti in essere da quello, in un periodo in cui, pur non essendo ancora spossessato, avrebbe dovuto tuttavia astenersene, consapevole della propria insolvenza, per non alterare la par condicio creditorum.

Essa è pertanto uno strumento preordinato alla tutela di detta par condicio e della massa dei creditori del fallito all’interno della procedura concorsuale.

Può essere esperita solo dal curatore fallimentare, previa autorizzazione del giudice delegato, entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque non oltre cinque anni dal compimento dell’atto.

Presupposti della revocatoria fallimentare sono:

- il compimento dell’atto impugnato nell’ambito di un cd. periodo sospetto stabilito dalla legge;

- la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del terzo a favore del quale l’atto è stato compiuto.

L’esercizio dell’azione fallimentare è agevolato, grazie al supporto di presunzioni relative circa la conoscenza dello stato d’insolvenza precedente al fallimento da parte del terzo beneficiario dell’atto e che invertono, a favore del curatore, l’onere della prova; infatti, ex art. 67 comma 1 l.f., è il terzo a dover provare al giudice di non aver incolpevolmente conosciuto lo stato di insolvenza del debitore per evitare l’inefficacia dell’atto.

L’onere probatorio a carico del curatore si ha solo nel caso in cui egli intenda colpire quei cd. atti normali compiuti dal debitore nel semestre anteriore al fallimento (art. 67 comma secondo l.f.).

Effetto della revocatoria fallimentare è – si ripete - l’inefficacia dell’atto revocato, tale per cui il terzo dovrà restituire il bene al curatore nella sua consistenza o mediante equivalente in denaro, divenendo a sua volta creditore concorsuale, con diritto di insinuarsi al passivo per ottenere quanto gli spetti, come corrispettivo versato.

Con riferimento ai pagamenti effettuati da Gamma verso l’Alfa con assegni post-datati, premesso che si tratta pagamenti di debiti scaduti avvenuti nell’anno precedente il fallimento, va valutato se possano essere colpiti dall’azione revocatoria, perché ricadenti sotto l’art. 67 primo comma lf., quali atti compiuti con mezzi anomali o se ricadono sotto l’esenzione ex art. 67 co. 3° lett. a) lf. , quali pagamenti effettuati nei termini d’uso.

Per pagamenti nei “termini d’uso” s’intendono quelle elargizioni eseguite con un mezzo fisiologico ed ordinario ed effettuate nell’ambito della prassi commerciale pregressa tra le parti, compresi i tempi.

Nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto commerciale si è creata tra le parti una prassi condivisa di pagamenti regolari e prevedibili benché tardivi, e sempre onorati.

L’utilizzo di assegni post-datati di per sé non è sufficiente a renderli mezzi anomali di pagamento; infatti, sebbene post-datati, si tratta comunque di mezzi di pagamento tipici.

A diversa conclusione si sarebbe giunti se si fosse trattato di un singolo pagamento in ritardo, effettuato con tale mezzo.

In conclusione, se per pagamenti nei termini d’uso si possono intendere anche i pagamenti eseguiti, seppur con notevole ritardo rispetto alla scadenza delle fatture, secondo una tempistica sostanzialmente conforme

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e omogenea a quella in uso tra le parti sulla base di una consuetudine consolidata, si ritiene che nel caso in esame i pagamenti sono esentati dall’azione revocatoria.

4. CASO C

Fatta salva la possibilità di altre soluzioni più convenienti, presumendosi che nella fattispecie si intenda ragionare sulla possibilità o meno di avvalersi di una prestazione d’opera all’interno di una spa, tenuto conto del fatto che l’ultimo comma dell’art. 2342 c.c. vieta il conferimento di prestazioni d’opera, si ipotizza e esemplifica quanto segue.

I soci che conferiscono denaro versano ad esempio 20.000 euro ciascuno e, per comodità, si immagini che il valore attribuito all’opera del “quinto” sia equivalente (sempre 20.000 euro).

Tanto premesso, si prospettano le seguenti soluzioni:

1)

- costituire la spa con un capitale di 80.000 euro, formato dai soli conferimenti in denaro (non potendo imputare a capitale la prestazione lavorativa del quinto);

- ex quarto comma dell’art. 2346 c.c., prevedere nell’atto costitutivo un’assegnazione di azioni non proporzionata ai conferimenti, con conseguente rinuncia da parte di ognuno dei quattro soci conferenti denaro al 5% delle azioni a cui avrebbero diritto, per costituire la quota del quinto socio;

- assegnare le azioni in parti uguali a tutti e cinque, in misura del 20% ciascuno;

2)

- costituire la spa con un capitale di 80.000 euro, formato dai soli conferimenti in denaro (non potendo imputare a capitale la prestazione lavorativa del quinto);

- ex ultimo comma dell’art. 2346 c.c. assegnare le azioni in misura proporzionata ai conferimenti, quindi il 25% solo ai quattro soci conferenti denaro;

- acquisire l’apporto lavorativo del “quinto” come parte del patrimonio ed emettere a suo favore strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali e / o amministrativi, a loro volta descritti nell’atto costitutivo.

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