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INTRODUZIONE La responsabilità professionale medica può risultare assai diversa a seconda che ricorra nel caso di intervento chirurgico di elezione o d’urgenza, con una prevalente

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LINEE GUIDA E PROTOCOLLI DI TRATTAMENTO IN AMBITO CARDIOCHIRURGICO: STIME DI RISCHIO E VALUTAZIONI MEDICO

LEGALI DI POSSIBILI COMPLICANZE CARDIOVASCOLARI CONSEGUENTI ALLE PROCEDURE ADOTTATE.

GUIDELINES AND PROTOCOLS IN CARDIAC SURGERY: RISKS ESTIMATIONS AND MEDICO LEGAL EVALUATIONS OF

CARDIOVASCULAR COMPLICATIONS

A. Porrone

*

, P. Fallani



ABSTRACT

Il rischio operatorio riguarda le possibili evenienze e complicanze che possono intervenire nel periodo perioperatorio, o anche ad una certa distanza dall’intervento subito, in maniera più o meno attesa.

La gran parte delle complicanze che possono verificarsi a seguito di un intervento chirurgico di qualsiasi genere sono a carico dell’apparato cardiocircolatorio, soprattutto di tipo ischemico cardiaco.

Si calcola infatti, come risulta da qualche studio di settore, che circa il 50 % delle complicanze che si possono verificare nel periodo postoperatorio sono di tipo cardiaco.

Sotto il profilo medico legale è assai importante sapere che l’infarto del miocardio e l’embolia cerebrale rappresentano le patologie più importanti e fra le più frequenti che si possono verificare nel periodo postoperatorio, con i relativi riflessi di responsabilità conseguente.

INTRODUZIONE

La responsabilità professionale medica può risultare assai diversa a seconda che ricorra nel caso di intervento chirurgico di elezione o d’urgenza, con una prevalente

* Coordinatore Medico Centrale, Responsabile U.O.C. Area Studi, Ricerca e Procedure Medico Legali, Coordinamento Generale Medico Legale INPS Roma

 Responsabile U.O.S. “Formazione” Area Studi, Ricerca e Procedure Medico Legali, Coordinamento Generale Medico Legale INPS Roma, Docente di Medicina delle Assicurazioni Sociali presso l’Università degli Studi di Ferrara.

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ridotta o netta esclusione di coinvolgimento dei sanitari nel secondo caso, specie qualora l’evento ischemico cardiaco si verifichi a distanza di qualche giorno dall’intervento ed in assenza di specifiche colpe professionali.

In tal senso, un ruolo fondamentale gioca lo stato anteriore del soggetto considerato, ossia la presenza di comorbilità associate che possono avere un impatto notevole ai fini dell’insorgenza delle complicazioni cardiache, avendo un tasso d’incidenza variabile a seconda del peso specifico delle patologie prevalentemente vascolari o dismetaboliche esistenti.

Esiste, poi, un rischio di complicanze insito invece negli interventi di cardiochirurgia.

Una rassegna di articoli originali della letteratura indica le varie possibili complicazioni che possono gravare in base ai diversi tipi di intervento cardiochirurgico che vengono di norma eseguiti.

Esistono, quindi, rischi specifici perioperatori e anche a distanza che riguardano tanto gli interventi di by pass aortocoronarico, ovvero gli interventi di rivascolarizzazione miocardica in generale, quanto quelli di chirurgia valvolare, con complicazioni possibili abbastanza ben codificate nella gran parte dei casi a carico del cuore o del pericardio.

Esiste anche un rischio molto elevato di embolia cerebrale che va considerato e prevenuto in molti casi.

Vengono pertanto verificati i tassi di mortalità specifica, analizzati in base all’età, sesso e comorbilità esistenti.

Vengono anche indicati e studiati i fattori predisponenti che agiscono sull’incidenza del rischio operatorio, ovvero la stratificazione del rischio valutabile in base alle caratteristiche del soggetto preso in esame.

Esiste un diverso tasso di rischio collegato altresì al tipo d’intervento cardiochirurgico da eseguire.

Il rischio perioperatorio scende in caso di chirurgia cardiaca di tipo mininvasivo.

Un rischio diverso è quantificabile se collegato ai vari tipi di intervento di

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Anche in questo caso si riporta la diversa incidenza delle complicazioni possibili e la stratificazione del rischio in base al tipo di intervento e alle caratteristiche del soggetto considerato.

Ipoteticamente un quota parte di responsabilità professionale potrebbe anche derivare da una mancata indicazione dell’intervento cardiochirurgico da eseguire, ovvero da un ritardo non giustificato nell’esecuzione dell’intervento medesimo, o, da ultimo, da un errore diagnostico, comunque verificatosi.

Pertanto vengono anche riportati gli errori più frequenti che si possono verificare, come dai dati della letteratura, in caso di interventi di cardiochirurgia.

Esistono anche stime della performance dei vari centri cardiochirurgici ricavabili attraverso specifici indici.

Gli errori professionali medici possono dunque essere di tipo “omissivo improprio”, detti anche di tipo commissivo con omissione, con relativo ritardo diagnostico, ad es., di possibili complicazioni insorte e non diagnosticate, ovvero di tipo commissivo, dovendo poi la dimostrazione del nesso causale verificarsi con alto grado di probabilità logica, vicina alla certezza, in penale, e con il criterio più elastico del “più probabile che non” in civile.

RISCHIO OPERATORIO IN CARDIOCHIRURGIA

Interessante per la disamina dei rischi operatori si rivela un articolo dal titolo “Valutazione del rischio operatorio in cardiochirurgia” Panoramica, di F. H.

Edwars, Internet Anno 2001.

La valutazione del rischio operatorio è, prevalentemente, rappresentato da una stima soggettiva.

Questa deriva dalla combinazione di:

 esperienza personale dell’operatore;

 serie di casi su pazienti riportati nella letteratura chirurgica di settore.

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Ogni paziente presenta una gamma di fattori di rischio operatorio, in quanto è da ritenersi improbabile che il paziente o la situazione clinica considerata abbia molte similitudini con i casi riportati nella letteratura scientifica, con il relativo tasso d’incidenza.

Appare così difficile fare una stima preventiva efficace dei rischio operatorio.

Ad oggi esistono, comunque, migliori e più efficaci tecniche per la stima del rischio.

In cardiochirurgia è possibile avvalersi di uno specifico data base, detto STS.

Agli albori della tecnica del by pass aortocoronarico, negli anni ’80, il tasso di mortalità era pari al 1 – 2 %.

A distanza di appena 5 anni da quest’epoca le procedure chirurgiche si sono fatte carico in tal senso di assorbire anche gli interventi di urgenza o di emergenza, che divennero di prassi rispetto al passato.

Di fatto per questi motivi la mortalità operatoria era salita, per questi motivi, in modo prevedibile, al tasso del 5 – 6 %.

Accadeva così che un maggior numero di pazienti lasciasse l’ospedale in vita e morisse successivamente, trattandosi però di pazienti che sarebbero invece morti nel reparto di cardiologia e non dopo un intervento chirurgico, con un cambio intuibile della variazione statistica inerente.

Gli amministratori degli ospedali avvertirono questo incremento statistico apparente del tasso di mortalità legato al by pass aortocoronarico, rendendone conto e giustificazione.

Ci si rese subito edotti del fatto che si rendevano necessari modelli di rischio che fossero in grado di interpretare i dati grezzi epidemiologici.

Sono stati pertanto progettati e realizzati dei modelli di rischio adeguati a questo compito e ad una corretta stima statistica del rischio operatorio.

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Tali tipi di modello sono in grado, su base statistica e matematica, di quantificare l’impatto netto di tutti i fattori di rischio per un singolo paziente, ossia di fornire una stima obiettiva del rischio per un singolo paziente.

Pertanto i modelli di rischio STS possono essere usati come potenti strumenti per il miglioramento della qualità.

Non bastano quindi i dati grezzi relativi ai tassi di mortalità per avvalorare la stima reale del rischio operatorio.

Pertanto per poter effettuare un confronto dei risultati di un gruppo rispetto ad un altro occorre rapportare i gruppi di pazienti per cicli di rischio.

I rischi operatori vanno distinti in sottoinsiemi in modo tale da poter confrontare fra loro solo tipi di rischi analoghi ed omogenei.

Questo è ciò che viene realmente effettuato nel sistema STS.

Gli sforzi futuri sono dunque rivolti allo sviluppo di modelli di rischio atti a predire la grave morbilità operatoria come anche, ovviamente, la mortalità.

Ciò potrebbe rivelarsi di grande utilità nella pratica della chirurgia cardiotoracica.

Indicativo, a tale proposito, appare il lavoro di B.M. Karnath, Am Fam Physician, 15 novembre 2002, 66(10): 1889 – 1897, un articolo di eguale tenore dal titolo “La valutazione preoperatoria del rischio cardiaco” nel quale si sottolinea come le malattie cardiache rappresentino la principale causa di morte negli Stati Uniti.

Un sottoinsieme importante in tal senso è sicuramente rappresentato dall’infarto del miocardio che colpisce circa 50 mila persone ogni anno nel periodo perioperatorio.

L’American College of Cardiology (ACC) e l’American Heart Association (AHA) hanno un comune orientamento nella valutazione preoperatoria del rischio cardiaco.

La direttrice che accomuna le due istituzioni utilizza dei fattori di predizione Clinici Maggiori, Intermedi e Secondari per stratificare i pazienti in diverse categorie di rischio cardiaco.

Nel caso di pazienti con grave deficit funzionale cardiaco o sottoposti a chirurgia ad alto rischio si rende necessaria una ulteriore stratificazione del rischio tramite adeguati test di “stress cardiaco”.

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In particolare le Linee Guida dell’American College of Physicians (ACP) iniziano con uno screening dei pazienti attraverso delle variabili cliniche che sono in grado di prevedere complicanze cardiache perioperatorie.

Secondo i Paesi aderenti all’ASP, in effetti, non sembrerebbero esserci adeguate evidenze sul cattivo stato funzionale cardiaco quale significativo fattore predittivo a sostegno dell’ipotesi di aumento del rischio operatorio.

Secondo la direttrice ACC – ACH la valutazione preoperatoria dei pazienti ad alto rischio con il cateterismo cardiaco appare necessaria, mentre per l’ACP ciò appare indispensabile solo nei pazienti candidati alla rivascolarizzazione cardiaca, al di fuori della chirurgia non cardiaca.

Un recente sviluppo della prevenzione delle complicazioni cardiache collegate alla chirurgia consiste nell’impiego preoperatorio dei beta – bloccanti nei pazienti con fattori di rischio cardiaco.

Un problema a parte è rappresentato dalla gestione perioperatoria del paziente anziano, continuando ogni giorno a crescere la popolazione anziana.

Nel 2002 le persone anziane negli USA erano circa 34 milioni.

Le malattie cardiache rappresentano la principale causa di morte con circa mezzo milione di morti che si sono verificati nel 1998, stando a quanto riportato nell’articolo.

Si valuta che siano ben 50 mila i pazienti affetti da infarto del miocardio nel periodo perioperatorio e di questi sono destinati a morire ben il 40 %.

Gli infarti del periodo perioperatorio si verificano in assenza di dolore precordiale, per gli effetti residui dell’anestesia e per l’uso di analgesici.

Fra i fattori di rischio perioperatorio si annoverano:

 una malattia delle coronarie o cardiopatia ischemica;

 un precedente infarto del miocardio;

 una insufficienza cardiaca;

 la stenosi aortica;

 età > 70 aa.

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Il tasso di reinfarto registrato in precedenti infartuati è pari al 27 – 37 % dei casi.

Il tasso di reinfarto nel caso di soggetti sottoposti a chirurgia per infarto del miocardio a distanza di 3 – 6 mesi è stato nell’ordine del 11 – 16 %.

Infine il tasso di reinfarto si è mantenuto stabile oltre i 6 mesi e nell’ordine del 5%, dopo intervento chirurgico sempre per infarto del miocardio.

E’ stato sviluppato per primo da parte di Goldman e al. un indice di rischio preoperatorio con uso di multipli fattori predittivi di rischio.

Sono stati valutati 1001 pazienti sottoposti a chirurgia di tipo non cardiaco con segnalazione di 9 variabili associate ad un aumentato rischio di complicanze cardiache perioperatorie.

E’ stato, quindi, assegnato un punteggio a ciascun fattore di rischio e i pazienti sono stati stratificati in quattro categorie di rischio in base al punteggio totale conseguito.

Nel 1986 tali categorie di rischi originali sono state modificate da Detsky e al.

con l’aggiunta di ulteriori variabili come l’angina e l’edema polmonare.

Dopo tali modifiche i pazienti sono stati stratificati in tre sole categorie di rischio in base al punteggio totale ottenuto.

Con tali indici modificati sono anche state aggiunte informazioni predittive per i pazienti sottoposti a chirurgia di tipo maggiore o minore.

Gli interventi di chirurgia maggiore comprendono interventi di tipo:

 vascolare,

 ortopedico,

 intratoracico,

 intraperitoneale e

 testa collo.

Quelli di chirurgia minore riguardano:

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 la cataratta,

 la prostata.

Fattori di rischio modificati secondo Detsky

Variabili Punteggio

Età > 70 anni 5

Infarto del miocardio < 6 mesi 10

Infarto del miocardio > 6 mesi 5

Angina (Società Cardiovascolare Canadese) Classe III 10

Classe IV 20

Angina instabile < 6 mesi 10

Edema polmonare alveolare < 1 settimana 10

Mai 5

Sospetta stenosi aortica critica 20

Aritmia Ritmo sinusale o extrasistolia atriale 5

> 5 extrasistoli ventricolari 5

Procedura di emergenza 10

Scadute condizioni generali 5

Classe Punti Rischio cardiaco

I^ 0 – 15 basso II^ 20 – 30 intermedio III^ > 30 alto

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L’ACC e l’AHA hanno altresì messo a punto delle Linee Guida per la valutazione preoperatoria cardiovascolare in caso di chirurgia non cardiaca.

Le Linee Guida comprendono fattori clinici predittivi e lo stato funzionale cardiaco nell’algoritmo della valutazione dei rischi preoperatori.

Tali Linee Guida sono state aggiornate agli inizi del 2002 con una particolare attenzione ad ottimizzare il rischio cardiaco onde evitare di sottoporre il paziente ad inutili interventi che altrimenti non sarebbero indicati.

I pazienti sono stati pertanto stratificati in base ai fattori predittivi clinici maggiori, intermedi o minori di aumento del rischio cardiaco.

Coloro che invece hanno ricevuto un intervento di rivascolarizzazione cardiaca entro 5 anni o hanno ottenuto un risultato favorevole con l’angiografia coronarica o con un test da sforzo cardiaco entro 2 anni, si possono sottoporre ad intervento chirurgico senza necessità di una ulteriore valutazione cardiaca.

I fattori clinici predittivi individuati e le relative raccomandazioni per le prove preoperatorie riguardano l’anamnesi e l’esame obiettivo del paziente.

I principali fattori clinici predittivi comprendono, nell’ordine:

 angina instabile;

 recente infarto del miocardio;

 insufficienza cardiaca congestizia scompensata;

 aritmie significative;

 grave malattia valvolare.

La presenza di fattori predittivi principali può condizionare o giustificare una dilazione o un annullamento di un intervento chirurgico di elezione, ovvero l’esecuzione

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di una coronarografia preoperatoria se l’intervento chirurgico è comunque ritenuto necessario.

Fattori clinici predittivi di aumentato rischio di complicanze cardiache perioperatorie

Rischio elevato

 Angina instabile o severa (Classe III o IV canadese)

 Scompenso cardiaco congestizio

 Aritmie significative (blocco AV di alto grado, aritmia ventricolare sintomatica in sottostante malattia cardiaca, con aritmia sopraventricolare non ben controllata)

 Severa malattia valvolare cardiaca

 Recente infarto del miocardio, < 30 giorni.

Rischio intermedio

 Angina di grado medio (Classe I o II canadese)

 Precedente storia di infarto del miocardio con ECG compensato o precedente scompenso cardiaco congestizio

 Diabete mellito

 Insufficienza renale.

Rischio minore

 Anomalie elettrocardiografiche (impegno ventricolare sinistro, blocco di branca sinistra, anomalie del tratto ST o dell’onda T)

 Fibrillazione atriale o tipo di ritmo diverso dal sinusale

 Ridotta capacità funzionale cardiaca

 Storia di ictus cerebrale

 Ipertensione non controllata ( es., pressione diastolica > 110 mm Hg)

 Età avanzata.

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Quindi i fattori di rischio operatorio intermedio comprendono, come visto, un’angina lieve, un precedente infarto del miocardio in fase di compenso emodinamico o un episodio pregresso già regredito di scompenso cardiaco congestizio, ovvero la presenza di diabete o di insufficienza renale.

Nel caso dell’esistenza di fattori di rischio operatorio intermedio si ravvisa la necessità di una valutazione della capacità funzionale cardiaca nel momento di decidere l’intervento, con il monitoraggio ottenuto attraverso un test da sforzo cardiaco.

Una capacità funzionale cardiaca scarsa viene associata ad un incremento di complicanze cardiache in caso di chirurgia non di tipo cardiaco.

La capacità funzionale del paziente può essere espressa in equivalenti metabolici (MET).

La misurazione unitaria del MET è rapportata approssimativamente al consumo di ossigeno di un uomo adulto di 40 anni del peso di 70 kg, in stato di riposo.

La valutazione dello stato funzionale cardiaco è ritenuta:

 eccellente, per un test da sforzo con un risultato > 7 MET,

 moderato, fra 4 – 7 MET,

 scarso < 4 MET.

Interessante al riguardo è quanto indicato in un articolo dal titolo “L’importanza della capacità di esercizio in cardiologia” di A. Vallebona e al., Ital Heart J Suppl 2003;

4(9): 712 – 719.

In particolare, nel lavoro in parola viene specificato come con la capacità aerobica di esercizio sia possibile valutare l’abilità del sistema cardiovascolare di aumentare la portata circolatoria e quella dei muscoli di utilizzare l’ossigeno contenuto nel sangue.

L’apporto circolatorio di ossigeno viene considerato il più importante fattore in grado di condizionare la capacità di esercizio anche se la respirazione e gli scambi

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gassosi sono in grado di adattarsi di continuo alle necessità di apporto d ossigeno e di eliminazione di anidride carbonica dai tessuti.

Si può quindi ritenere che la capacità di esercizio, in definitiva, rappresenti l’espressione dell’integrità e dello stato di efficienza dell’intero organismo.

Già con l’anamnesi è possibile ottenere preziose informazioni, con questionari che sono in grado di valutare la capacità di svolgere alcune comuni attività e con buona approssimazione la capacità di esercizio al treadmill, che è un test con ECG da sforzo al tapis roulant o mediante jogging, e, perfino, con approssimazione il consumo di ossigeno (VO2).

Mentre la correlazione fra VO2 e punteggio di capacità fisica ricavato con un’intervista appare elevata nel soggetto sano o con disfunzione ventricolare asintomatica, del tutto inaffidabile si è dimostrata la classificazione funzionale NYHA, assai poco riproducibile sia rispetto a se stessa che in rapporto ai risultati del treadmill.

Il metodo più corretto e preciso per misurare l’intensità di un esercizio è quindi quello di fare riferimento alla spesa energetica misurata come VO2, che in condizioni normali, a riposo è pari a circa 3,5 ml / kg / min, rapportato ad un uomo di 40 anni di età e del peso di 70 Kg in condizioni di riposo, quantità che definisce 1 MET.

I multipli del MET rappresentano un indice del costo energetico delle varie attività, per cui è possibile quantificare la spesa energetica approssimativa delle varie attività, necessitando, ad es., una spesa energetica bassa per attività come vestirsi, lavarsi, camminare in casa, < 4 MET, media fra 4 – 7 MET per attività come lavare i pavimenti, rifare i letti, salire 1 piano di scale, nuotare o giocare a golf, e una spesa energetica elevata, > 7 MET, per praticare jogging veloce, sciare sulla neve, giocare a pallone o a tennis.

Il costo in MET dell’esercizio effettuato può essere ricavato indirettamente in base alla pendenza o alla velocità al treadmill, ovvero in base al numero dei watt e al peso corporeo al cicloergometro.

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Questi metodi con le equazioni che si ottengono non tengono nel dovuto conto l’esistenza di variabili individuali o ambientali, per cui la corrispondenza con il VO2 misurato appare inevitabilmente grossolana.

In tal caso il metodo più accurato per la misurazione della capacità funzionale è basato sul rilievo del massimo VO2 che si può ottenere, in modo non invasivo con un test da sforzo cardiopolmonare.

La capacità funzionale cardiopolmonare, potendo una scarsa capacità funzionale essere associata ad un maggior numero di complicanze cardiache, va, poi, rapportata adeguatamente ai rischi specifici esistenti in chirurgia.

Le procedure chirurgiche vengono, in rapporto al loro rischio potenziale, classificate ad alto, medio e basso rischio.

Così la chirurgia d’urgenza è considerata una procedura ad alto rischio, in modo tale da essere valutata assai diversamente in tal da una chirurgia di tipo elettivo, con un significativo aumento del rischio nel primo caso.

Procedure chirurgiche ad alto rischio sono quindi considerate nell’ordine:

 chirurgia d’urgenza;

 chirurgia aortica;

 chirurgia vascolare periferica;

 procedure chirurgiche prolungate collegate a grandi spostamenti di fluidi o di perdite ematiche.

Procedure chirurgiche a rischio intermedio sono invece considerate nell’ordine:

 chirurgia ortopedica;

 chirurgia urologica;

 chirurgia semplice addominale;

 chirurgia semplice toracica;

 chirurgia ambulatoriale della testa e del collo.

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Infine procedure chirurgiche a basso rischio sono da ritenersi in modo esemplificativo, nell’ordine:

 chirurgia endoscopica del seno;

 procedure dermatologiche;

 asportazione di cataratta.

Secondo l’ACP, in ogni caso, i pazienti stratificati in Classe II e III di rischio cardiaco sono da reputarsi ad alto rischio perioperatorio.

Entrando poi nel merito delle procedure di anestesia e di chirurgia, va sottolineato che l’orientamento generale è quello di consentire all’anestesista di scegliere il tipo di anestesia da utilizzare all’occorrenza.

I risultati di diversi studi di settore hanno consentito di verificare che fra anestesia generale e anestesia epidurale non esistono differenze significative per il tasso di complicanze cardiache perioperatorie.

Secondo, poi, le Linee Guida ACC – AHA i pazienti con fattori clinici di predizione minori non hanno alcuna necessità di effettuare test di tipo non invasivo, a meno che non abbiano una scarsa capacità funzionale e si debbano sottoporre ad una procedura ad alto rischio.

Nel caso invece di presenza di fattori predittivi di rischio intermedio è opportuno richiedere test funzionali non invasivi in caso di interventi chirurgici ad alto rischio o ancora in caso di scarsa capacità funzionale cardiaca.

L’ACP invece raccomanda l’effettuazione di test funzionali nei pazienti a rischio intermedio quando vengono sottoposti a chirurgia vascolare.

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La stessa ACP si dichiara piuttosto contraria all’utilizzo convenzionale del test con ECG da sforzo partendo dal presupposto che lo stesso non possa essere somministrato in una percentuale significativa di pazienti che vengono sottoposti a chirurgia vascolare e in cui è compromessa la capacità di deambulare.

Ciò non toglie che esistono studi interessanti sui risultati dei test da sforzo che sono in grado di predire le complicanze cardiache dopo chirurgia vascolare.

In base ai risultati di uno studio si è verificato che i pazienti che hanno raggiunto oltre l’85 % del limite massimo previsto per il cuore nella prova da sforzo avevano un tasso del 6 % di complicanze cardiache, mentre i pazienti che non avevano raggiunto la soglia del 85 % manifestavano un tasso del 24 % di complicanze cardiache.

L’ACP peraltro raccomanda altresì l’esecuzione di metodiche d’immagine (RMI) o l’utilizzo di scintigrafia con tallio – dipiridamolo o da ultimo un eco stress per la stratificazione ulteriore di pazienti a rischio intermedio che si sottopongano a interventi di chirurgia vascolare.

In base ai risultati di uno studio si è potuto accertare che i migliori risultati in tal senso si sono ottenuti nei pazienti a rischio intermedio sottoposti a scintigrafia cardiaca per la stratificazione dei rischi preoperatori in chirurgia vascolare.

Al contrario l’ACP non ritiene utili tali test in senso predittivo preoperatorio nel caso di chirurgia non vascolare.

In uno studio che ha però utilizzato quale metodi di monitoraggio l’ecostress si è potuto verificare che su 530 pazienti monitorati in fase preoperatoria, nella popolazione studiata il 60 % non manifestava alterazioni ischemiche a livelli elevati di stress cardiaco, il 32 % manifestava alterazioni ischemiche cardiache a livelli elevati di eco stress e l’8 % le manifestava a livelli bassi di stress cardiaco, e che i corrispettivi risultati dimostravano

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che nella prima classe di pazienti gli eventi cardiaci perioperatori si erano rivelati pari a 0, nella seconda classe si attestavano al 9 % e nella terza al 43 %, rispettivamente.

Una netta e significativa riduzione delle complicanze cardiache è stata valutata in vari studi con l’utilizzo in fase preoperatoria dei beta bloccanti.

In base ai risultati di uno studio si è dimostrata una riduzione di ben il 65 % della mortalità per cause cardiache nei pazienti trattati con atenololo.

In un altro studio l’utilizzo del bisoprololo rispetto al placebo ha consentito di dimostrare che nel secondo caso le complicanze erano nell’ordine del 34 % e solo del 3 % nei pazienti trattati con il farmaco.

Appare quindi accertato che l’uso dei beta bloccanti riduce la mortalità cardiaca perioperatoria in pazienti con nota o sospetta malattia coronarica.

L’argomento della stratificazione del rischio cardiaco è anche affrontato in un altro lavoro dal titolo “Anestesia e paziente cardiopatico” di L. Sollazzi e al., Cardiology Science, maggio – giugno 2006, Vol. 4: 119 – 123, in cui si ribadisce che il punto di partenza della suddetta stratificazione è dato dalle Linee Guida dettate da ACC e AHA.

Si sottolinea come siano stati individuati 5 diversi fattori atti a stabilire se i pazienti necessitino di ulteriori accertamenti, ovvero misure diagnostiche e terapeutiche prima dell’intervento, che sono rappresentate, nell’ordine da:

 il periodo di tempo intercorso da un’eventuale rivascolarizzazione cardiaca coronarica, chirurgica o con angioplastica;

 l’analisi e i risultati dell’ultimo controllo cardiaco effettuato;

 la presenza di fattori di predizione del rischio, elevati intermedi o minori;

 lo stato funzionale, ovvero le condizioni generali del paziente;

 il rischio insito legato alla procedura chirurgica.

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Valutando, quindi, i singoli fattori presi in considerazione è possibile stabilire il diverso impatto delle variabili utilizzate per stabilire il relativo peso specifico legato alle stesse.

E’ possibile così constatare che i pazienti rivascolarizzati da meno di 6 anni, asintomatici e in grado di svolgere una normale attività fisica sono da ritenersi a basso rischio e non necessitano di ulteriori indagini diagnostiche.

Una lieve differenza in termini di rischio aggiuntivo di infarto perioperatorio si verifica in pazienti vascolarizzati da oltre 6 anni per i quali si impone perciò una più attenta valutazione preoperatoria.

Come già in precedenza specificato, nel caso di pazienti che negli ultimi 2 anni hanno effettuato almeno un test da sforzo risultato negativo per ischemia o una coronarografia altrettanto negativa è possibile effettuare l’intervento chirurgico necessario senza esigenza di ulteriori esami, purché la sintomatologia clinica e il trattamento siano rimasti immutati.

Fra i fattori predittivi di rischio legati al paziente un aumentato rischio cardiovascolare pare legato alla eventuale presenza di malattie cardiache o di altro tipo vascolare e non, quali un’arteriopatia periferica, una vasculopatia cerebrale sintomatica, un’insufficienza renale con creatininemia > 2 mg / dl.

Della capacità funzionale del paziente si è già abbastanza diffusamente disquisito, con la classificazione dei rischi cardiaci in base al diverso consumo di MET.

Circa il 5° fattore di rischio, quello cardiaco legato alla pericolosità insita nella procedura chirurgica utilizzata, fermo restando quali siano le procedure, già in precedenza individuate ad alto, medio e basso rischio, è possibile aggiungere che per alto rischio si intendono le procedure gravate da un tasso di infarto > 5 %, per medio

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rischio quelle valutate in un ordine di rischio < 5 % e per basso rischio quelle considerate con un tasso di rischio di infarto < 1 %.

Riguardo ai test di valutazione cardiaca preoperatoria, i test relativi alla funzione ventricolare sistolica sono costituiti dall’ecocardiogramma trans toracico e dalla scintigrafia miocardica, laddove una FE < 35 % aumenta il rischio di eventuali complicanze perioperatorie anche se una buona FE non è sinonimo di esclusione di complicanze cardiache perioperatorie, mentre i test di valutazione della riserva coronarica oltre al comune test da sforzo sono costituiti dal test da sforzo farmacologico, eco stress e scintigrafia, tutti test gravati da un alto valore predittivo negativo, pari al 100 % per i test di riserva coronarica, ma con un basso valore predittivo positivo, pari al 38 % nel caso sempre dei test di riserva coronarica.

Per quanto afferisce alla gestione intraoperatoria del paziente vanno adottate opportune precauzioni in caso di gravi patologie di tipo ischemico o valvolare cardiaco.

Nel caso di cardiopatia ischemica il principale obiettivo sotto il punto di vista anestesiologico riguarda essenzialmente il mantenimento di un opportuno equilibrio fra richiesta e apporto di ossigeno al tessuto miocardico.

Fra i vari parametri da utilizzare vanno tenuti debitamente presenti la frequenza cardiaca, l’emocromo, la pressione arteriosa e la gittata cardiaca, ossia il pre e post carico, tutti elementi in grado ai aumentare il lavoro cardiaco.

Altri fattori in grado di ridurre l’ossigenazione sono rappresentati da situazioni di anemia preesistente, una riduzione della saturazione ematica dell’ossigeno e situazioni incidentali come una vasocostrizione o trombosi coronarica.

Anche nel corso dell’intervento si può verificare un’accresciuta richiesta d’ossigeno o un ridotto apporto dello stesso.

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La pressione arteriosa va monitorata costantemente onde prevenire cadute della stessa e un’acuta e misconosciuta anemia va in ogni caso controllata ed evitata efficacemente.

Riguardo alle valvulopatie, nel caso di stenosi aortica severa, con accresciuto rischio di morte improvvisa, per la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra si verificano un aumento del consumo di ossigeno cardiaco, una diminuzione dell’ossigenazione degli strati sub endocardici e un ridotto volume diastolico cardiaco per riduzione della compliance, per cui va evitato un qualsiasi calo pressorio e mantenuta la portata cardiaca e la frequenza a livelli accettabili.

Nel caso invece di insufficienza aortica con dilatazione ventricolare sinistra e aumento della gittata cardiaca, vanno prevenute la bradicardia e l’eventuale aumento delle resistenze periferiche, ovvero della pressione arteriosa.

In caso di stenosi mitralica la bassa gittata cardiaca comporta il mantenimento di un’adeguata portata cardiaca e un controllo della frequenza cardiaca onde evitare che si abbassi troppo.

Nel caso infine di insufficienza mitralica gli obiettivi dell’anestesia sono molto simili a quelli dell’insufficienza aortica, con necessità di frequenza cardiaca alquanto elevata, mantenimento del volemia e della portata cardiaca, controllo della pressione arteriosa.

In pratica la gestione operatoria del paziente cardiopatico fa capo sia al cardiologo che all’anestesista e al chirurgo, con un approccio di tipo multidisciplinare.

Da un articolo tratto da Internet sul sito Emedicine, aggiornato al 19 agosto 2008, dal titolo tradotto “Gestioni cardiache perioperatorie” è possibile trarre ulteriori delucidazioni sull’argomento.

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Sotto il profilo epidemiologico è possibile stimare che la popolazione generale degli anziani è in costante aumento e gli individui di età > 80 anno sono circa il 5 %.

Si stima che tale quota percentuale aumenterà fino al 15 % nel 2020 e fino al 25

% entro il 2050.

Aumentano di pari passo le comorbilità e il relativo rischio operatorio.

I sistemi cardiovascolari dei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici non cardiaci sono esposti a numerosi stress.

Ogni anno negli USA circa 30 milioni di persone vengono sottoposte ad interventi chirurgici non cardiaci.

I tassi stimati di grave comorbilità perioperatoria cardiaca variano nell’ordine del 1 – 10 %.

L’incidenza di infarto del miocardio subisce un incremento compreso fra 10 e 50 volte in pazienti che già hanno avuto precedenti eventi coronarici.

Un stratificazione del rischio perioperatorio dei pazienti in alto, intermedio e basso premette ai clinici di suddividere i pazienti in varie categorie di rischio, risparmiando in quelli a basso rischio l’esecuzione di test ulteriori cardiaci di controllo.

Già l’anestesia generale produce degli effetti cardiaci, con variazioni della pressione arteriosa e di quella venosa centrale, della gittata cardiaca e del ritmo, con una riduzione di tutti i parametri considerati, ossia tanto della pressione che della gittata cardiaca e in aggiunta, con una maggiore irritabilità del miocardio.

Ovviamente i pazienti con scompenso cardiaco congestizio sono molto sensibili a tali variazioni.

I farmaci da utilizzare nel corso dell’anestesia devono perciò tenere conto di tali

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Inoltre l’aumento delle catecolamine in circolo legate allo stress operatorio possono aumentare altresì il rischio di battito ectopico ventricolare.

Anche l’anestesia regionale produce effetti più o meno identici, con dilatazione arteriolare e venosa oltre che riduzione del precarico, non evidenziandosi vantaggi in termini di rischio perioperatorio cardiaco e non avendo accertato gli studi effettuati differenze significative in tal senso fra anestesia generale e anestesia regionale.

Riguardo ai fattori relativi al paziente va considerata prima di tutto l’ipertensione.

Circa il 50 % dei pazienti affetti da ipertensione non viene trattato in modo adeguato o anche non riceve cure farmacologiche.

Tali pazienti sono a rischio di emergenze ipertensive nel corso dell’intervento.

Bisogna prima di tutto mantenere la pressione arteriosa entro il range di 140 mm Hg per la massima e di 90 mm Hg per la minima, quale obiettivo ideale.

Pertanto in tutti i pazienti in Stadio III di malattia ipertensiva, ossia con PA > 180 / 110 la pressione va controllata adeguatamente in fase preoperatoria.

Nel caso di insufficienza cardiaca congestizia la terapia è volta a ridurre la pressione di riempimento ventricolare oltre a migliorare la gittata cardiaca.

La cardiopatia ischemica rappresenta invece un elemento discriminante riguardo alla morbilità e alla mortalità perioperatoria.

Molti studi hanno segnalato nel tempo un accresciuto rischio di reinfarto o di morte cardiaca valutabile nell’ordine del 30 % circa, in caso di infarto verificatosi < 3 mesi, nell’ordine del 15 % quando la chirurgia è stata effettuata fra i 3 – 6 mesi dall’infarto e del 5 % oltre i 6 mesi dall’infarto iniziale.

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Tale definizione è stata rivista però dal comitato dell’ACC (Consenso del Collegio dei Cardiologi) che considera ora un infarto acuto in atto se si è verificato < 7 giorni, un infarto miocardico recente, se si è verificato fra 7 giorni e 1 mese, e una storia di infarto del miocardio se lo stesso si è verificato oltre il tempo di 1 mese.

E’ chiaro che un intervento chirurgico d’emergenza va fatto a prescindere dal rischio cardiaco esistente, ma di norma va tenuto in considerazione almeno un tempo di 4 – 6 settimane di attesa dall’infarto, ove possibile.

In caso di intervento chirurgico semiurgente i rischi perioperatori vanno valutati in base a studi prognostici.

Già uno studio del 1990 aveva rivelato che il 25 % di pazienti affetti da angina instabile aveva avuto un infarto del miocardio dopo interventi chirurgici di tipo non cardiaco.

In caso di angioplastica appare opportuno aspettare almeno 1 settimana per interventi per via percutanea senza stenting, mentre in caso di applicazione di stent coronarico occorre attendere almeno 4 – 6 settimane per un intervento non cardiaco.

La stenosi aortica è associata ad un 13 % di morte perioperatoria.

Il tasso varia in funzione della severità della stenosi con un tasso associato di mortalità pari al 50 % in caso di stenosi critica dell’aorta.

Nell’anamnesi bisogna quindi fare attenzione ad eventuali episodi di sincope, di angina o alla presenza o gravità della dispnea.

Un altro tipo di rischio è dato dal trattamento anticoagulante, come nel caso di pazienti con FA o portatori di protesi valvolari cardiache.

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Sono soprattutto a rischio trombo embolico pazienti con protesi valvolari meccaniche in sede mitralica e con FA in malattia mitralica o con semplice storia di tromboembolismo.

Tali pazienti dovrebbero essere trattati con eparina per via endovenosa.

Riguardo ai tipi di procedura, distinguibili in alto, intermedio e basso rischio, oltre a quanto già indicato in precedenza va tenuta in considerazione l’età anziana del paziente e la perdita di grandi quantitativi di sangue o di liquidi per prolungati interventi all’addome, al torace, alla testa e al collo.

Una valutazione preoperatoria del rischio cardiaco prende in considerazione un’accurata anamnesi e un buon esame obiettivo oltre all’effettuazione di un elettrocardiogramma di base.

Malattie cardiache come un’insufficienza cardiaca, la presenza d’ipertensione, di aritmie, di cardiopatie valvolari, di scompenso cronico congestizio, di un pace maker cardiaco, sono tutti aspetti che vanno adeguatamente indagati in anamnesi.

L’ecostress con Dobutamina e la scintigrafia con tallio dipiridamolo sono considerati dei test attendibili per la stratificazione del rischio dei pazienti.

Non è stato valutato in tal senso il ruolo della coronarografia quale fattore predittivo del rischio.

La coronarografia trova indicazione solo nei pazienti sintomatici.

In effetti il by pass aortocoronarico trova indicazione nella malattia coronarica critica di sinistra grado 3 con una FE ridotta.

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Non parimenti più raccomandate ai fini della stratificazione del rischio cardiaco sono l’ecografia semplice trans toracica, non più reputata di ausilio per l’individuazione di ulteriori aspetti predittivi rispetto all’esame clinico e neanche il treadmill test, non essendo tutti i pazienti in grado di raggiungere il massimo della frequenza cardiaca vista anche la gravità eventuale della concomitante malattia cardiovascolare .

In effetti poiché molti eventi ischemici cardiaci che si verificano durante l’intervento chirurgico non sono associati a cambiamenti della frequenza cardiaca o della pressione sanguigna, non si può dire che sia stata raggiunta la soglia minima di utilizzazione dell’ossigeno da parte del miocardio per raggiungere l’ischemia, per cui un eventuale risultato negativo del test da stress può apparire fuorviante.

In buona sostanza lo stress provocato dagli effetti dell’intervento chirurgico con il rilascio di catecolamine e l’aumento della pressione arteriosa può predisporre il paziente ad un evento cardiaco.

Sono stati utilmente valutati in positivo gli effetti della somministrazione di betabloccanti a scopo preventivo di eventi ischemici cardiaci.

Storicamente un infarto del miocardio insorto nel periodo post operatorio era gravato da un lato tasso di mortalità, pari al 50 % dei casi, con un picco d’incidenza entro le 48 ore dall’intervento.

L’ischemia postoperatoria è silente, soprattutto per gli effetti dell’anestesia e dell’analgesia nel 90 % dei casi.

Dopo monitoraggio continuo con ecocardiografia si è verificato che i giorni a maggior rischio d’infarto sono quelli 1° e 2° postoperatori, potendosi eventi ischemici cardiaci verificare nel 22 % dei casi in fase preoperatoria, nel 25 % dei casi in fase

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In effetti l’ischemia cardiaca postoperatoria sembra essere più deleteria delle altre, per cui è raccomandato l’utilizzo di betabloccanti e di alte dosi di analgesici di tipo narcotico nel periodo postoperatorio.

La profilassi antibatterica atta a prevenire l’insorgenza di endocardite batterica è indicata nel caso di protesi valvolare cardiaca, precedente storia di endocardite infettiva, cardiopatie congenite, prolasso della mitrale e cardiomiopatia ipertrofica.

Di identico tenore si presenta un altro articolo dal titolo “Risk Stratification and Comorbidity. Charter 7 Risks Of Cardiac Operations” di V. A. Ferraris e al., ed. Cardiac Surgery in the Adult. New York: McGraw-Hill, 2008:199-246.

Esistono vari modelli di stratificazione del rischio cardiaco perioperatorio con presenza di numerose variabili in tutti i sistemi di stratificazione.

Esistono in tal senso modelli matematici che utilizzano equazioni di regressione per migliorare la precisione e la validità dei modelli.

Una delle situazioni chirurgiche che si presta all’azione di fattori di rischio e di complicazioni è dato dagli interventi di rivascolarizzazione.

Dei circa 500 mila pazienti che subiscono ogni anno interventi chirurgici di rivascolarizzazione, in una quota parte fra il 50 e il 75 % degli stessi non vanno incontro ad alcun tipo di complicanza perioperatoria.

Le complicazioni che si verificano nei pazienti che sopravvivono sono di vario tipo e dipendono dalla disfunzione grave eventuale del sistema od organo compromesso o anche da una limitazione minore e dal disagio accusato al punto da far lievitare i costi delle procedure medesime.

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Si valuta che il 40 % dei costi sostenuti per le procedure sono consumati dal 10 – 15 % dei pazienti che vanno incontro alle complicanze.

Esistono numerose informazioni e grandi data base per tali tipi di complicanze non fatali.

Fino a qualche anno fa il tasso di mortalità operatoria rappresentava il solo criterio relativo alla riuscita degli interventi di rivascolarizzazione.

La rettifica del rischio operatorio relativo a questo tipo di interventi si dimostra comunque difficile per il fatto che tuttora non sono bene stabiliti i fattori di rischio della gran parte delle complicazioni che si possono verificare.

Nel database di STS sono state considerate 5 importanti complicanze dell’intervento chirurgico di rivascolarizzazione con by pass aortocoronarico, nel modo qui di seguito riportato:

 ictus cerebrale;

 insufficienza renale;

 reintervento entro le 24 ore dal by pass aortocoronarico;

 prolungata, > 24 ore, ventilazione assistita postoperatoria;

 mediastinite.

Su 500 mila pazienti presi in esame le percentuali delle predette 5 complicanze postoperatorie furono le seguenti:

 ictus cerebrale, 1,63 %;

 insufficienza renale acuta con necessità di dialisi, 3,53 %;

 ventilazione assistita prolungata postoperatoria, 5,96 %;

 mediastinite, 0,63 %;

 reintervento entro le 24 ore, 7,17 %.

Esistono differenze sostanziali di rischio legate alla presenza di fattori di rischio individuali.

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Alcune forme di diabete e un ictus intervenuto in epoche preoperatorie si dimostravano fattori di rischio di estrema rilevanza ai fini della comparsa di complicazioni postoperatorie, specie la ventilazione postoperatoria prolungata.

Esistono in base agli studi effettuati con analisi multivariata fattori di rischio apparentemente indifferenti rispetto alle complicazioni postoperatorie.

Per esempio non furono riscontrate emorragie più imponenti in soggetti che testati rispetto ai controlli dimostravano tempi di emorragia più prolungati.

Altro tipo di parametro studiato è la soddisfazione del paziente, trattandosi nel caso delle coronaropatie di malattie croniche in cui l’obiettivo degli interventi terapeutici è quello di alleviare i sintomi e di migliorare la qualità della vita piuttosto che quello di guarire ovvero di prolungare la vita.

Poca influenza negli studi ha dimostrato il fattore età in tal senso, mentre le condizioni cliniche di base e la comorbilità si sono dimostrati fattori assai incidenti relativamente alla qualità della vita a distanza di 6 mesi dall’intervento.

Un capitolo a se stante si è dimostrato quello degli eventuali errori medici e delle loro conseguenze.

In base a due grandi studi dell’ Istituto di Medicina americano (IOM) fu suggerito che ben 44 mila americani muoiono ogni anno per errori medici prevenibili.

Si penso di creare dei modelli di miglioramento atti a minimizzare gli errori medici sulla base dell’accertamento e della ricerca degli errori umani.

Furono usati dei questionari per l’accertamento.

Si dimostrò il ruolo dei fattori umani nelle conseguenze chirurgiche avverse ma soprattutto si verificò il ruolo attivo di errori di comportamento intervenuti nella fase di pianificazione e di decisione degli interventi medesimi.

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Lo stesso IOM successivamente nel 2000 si rammaricò che poco era stato fatto per cambiare la cultura della sicurezza negli ospedali.

Esiste, peraltro, ancora molta riluttanza nel trattare in modo trasparente gli errori medici.

Sforzi di miglioramento della qualità basati probabilmente sull’evidenza dell’efficacia potranno consentire in futuro di salvare più vite.

Valido in ogni caso si dimostra un lavoro scientifico dal titolo “The first Latin- American risk stratification System for cardiac surgery: can be used as a graphic pocket- card score” di Victorio C. Carosella, e al., Interact CardioVasc Thorac Surg 2009;9:203-208, in cui si traccia il primo modello di rischio che può essere usato come una piccola card che utilizza un grafico e un punteggio, di facile utilizzo e di accettabile precisione statistica.

Oltremodo interessante ed efficace si dimostra un lavoro dal titolo “Left main coronary artery stenosis no longer a risk factor for early and late death after coronary artery bypass surgery — an experience covering three decades” di Anders Jonssone al., Eur J Cardiothorac Surg 2006;30:311-317 che analizza la mortalità precoce e tardiva dopo interventi di by pass aortocoronarici in pazienti con e senza stenosi dell’arteria coronarica principale nel periodo che va dal 1970 al 1999.

Si tratta, quindi, di uno studio retrospettivo che dimostra che la percentuale di pazienti con stenosi della coronaria principale di sinistra ha subito un incremento dal 7

% registrato nel 1970 al 26 % registrato nel 1999.

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Dal 1970 al 1984 la mortalità precoce era del 5,8 % in pazienti con stenosi dell’arteria principale coronarica di sinistra (LMCA), comparata nei pazienti senza stenosi LMCA in cui la mortalità precoce era del 1,5 %.

I tassi comparati nel periodo 1995 – 1999 dimostravano rispettivamente percentuali del 2,0 e del 2,2 %, rispettivamente.

L’incrementato rischio di morte precoce in pazienti con stenosi LMCA è stato neutralizzato nei maschi nel periodo 1985 – 1994 e nelle femmine nel periodo 1995 – 1999.

La sopravvivenza a 5 anni nei maschi è del 88 % dopo operazione nel periodo 1994 – 1999 mentre è del 82 % nel periodo antecedente 1970 – 1984 riferito ad interventi di by pass aortocoronarico.

Da ultimo l’incremento di morte tardiva riferito ai predetti periodi di osservazione sempre in pazienti con stenosi LMCA è stato neutralizzato identicamente nei maschi nel periodo 1984 – 1995 e nelle femmine nel periodo 1994 – 1999.

Le conclusioni dello studio indicano che nel periodo 1970 – 1999 si è assistito ad un decremento della mortalità iniziale e a 5 anni in pazienti con stenosi LMCA trattati con by pass aortocoronarico e ad un corrispettivo incremento dell’età dei pazienti e dei relativi fattori di rischio.

Un altro articolo dal titolo “The Effect of Comorbid Illness on Mortality Outcomes in Cardiac Surgery” di Robert A. Clough, e al., Arch Surg - Vol 137: 428 - 433, Aprile 2002, indica che la prevalenza delle condizioni di comorbilità, associate con il rischio di morte nel caso di intervento di by pass aorocoronarico, è quella di seguito riportata:

 ipertensione 64,3 %;

 diabete, 30,1 %;

 obesità, 24,6 %;

 severa obesità, 7,2 %;

 malattie vascolari, 18,3%;

 malattia polmonare cronica ostruttiva, 10,9 %;

 ulcera peptica, 7,5 %;

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 cancro, 3,8 %;

 insufficienza renale, 1,5 %;

 malattia epatica, 0,6 %;

 demenza, 0,1 %.

Tali dati sono stati poi aggiustati in base all’età, al sesso, intervento chirurgico cardiaco previsto, priorità della chirurgia, grado di stenosi della coronaria principale di sinistra, numero delle coronarie malate, FE ventricolare sinistra, che rappresentano le principali condizioni di comorbilità che corrispondono ai più significativi fattori predittivi di mortalità ospedaliera, con i seguenti risultati in termini di Odd Ratio (OD):

 diabete, OR = 1,19;

 malattie vascolari, OR = 1,67;

 malattia polmonare cronica ostruttiva, OR = 1,57;

 ulcera peptica, OR = 1,34;

 insufficienza renale in fase dialitica, OR = 3,68.

Non sembra al riguardo esistere una significativa associazione fra mortalità intraospedaliera operatoria e:

 ipertensione;

 obesità e severa obesità;

 cancro;

 malattia epatica;

 demenza.

Le conclusioni sono che specialmente le condizioni indicate come il diabete, le malattie vascolari, l’insufficienza renale in fase dialitica, la malattia polmonare cronica ostruttiva e l’ulcera peptica rappresentano degli importanti fattori di incremento del rischio di morte dopo intervento di by pass aortocoronarico.

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Riguardo poi ai fattori di rischio perioperatorio inerenti gli interventi valvolari effettuati sull’aorta e sulla mitrale molto indicativo si dimostra un articolo dal titolo

“Decreasing mortality for aortic and mitrai valve surgery in northern New England” di Nancy J.O. Birkmeyer, e al., Ann Thorac Surg 2000;70:432-437, in cui viene segnalato un significativo decremento del tasso di mortalità negli interventi di sostituzione valvolare nel nord del New England durante il periodo di osservazione.

In effetti viene dimostrato un incremento del rischio dipendente:

 dall’età del paziente e in funzione di

 un’area della superficie corporea inferiore a 1,7,

 della presenza di diabete,

 di malattia coronarica;

 dalla necessità prioritaria di interventi chirurgici o dall’urgenza.

Un lieve incremento del tasso di mortalità è stato verificato in caso di appartenenza del paziente alla classe IV preoperatoria, in caso di intervento chirurgico valvolare mitralico.

Il periodo di osservazione va dal gennaio 1992 fino al dicembre del 1997.

Il rischio aggiustato di mortalità decresce del 9,3 % dal 1992 e del 5,3 % dal 1993 rispetto al 1996 e al 1997 nel caso di interventi sulla valvola aortica, e del 13,6

% dal 1992 e del 8,2 % dal 1993 rispetto al 1996 e al 1997, nel caso di interventi sulla valvola mitralica.

Non si possono esprimere delle conclusioni certe sulle cause di questo decremento del tasso di mortalità, forse dovuto alla minore necessità di interventi cardiochirurgici nella zona considerata ovvero dagli sforzi effettuati di migliorare la qualità specifica degli stessi interventi.

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La possibilità dell’incidenza maggiore di ictus cerebrali a seguito di interventi di cardiochirurgia viene esaminata in un articolo dal titolo “Stroke after cardiac surgery: a risk factor analysis of 16,184 consecutive adult patìents” di Jan Bucerius, e al., Ann Thorac Surg 2003;75:472-478.

Si tratta dei risultati di uno studio prospettico effettuato a carico di 16.184 pazienti sottoposti consecutivamente ad intervento cardochirurgico fra l’aprile del 1996 e l’agosto del 2001.

In effetti una maggiore incidenza di stroke è stata evidenziata nel 4,6 % dei casi nel complesso e varia in base alla procedura chirurgica effettuata, con i seguenti risultati:

 interventi di by pass aortocoronarico, 3,8 %;

 infarto del miocardio in by pass aortocoronarico, 1,9 %;

 chirurgia valvolare aortica, 4,8 %;

 chirurgia valvolare mitralica, 8,8 %;

 doppio o triplo intervento chirurgico valvolare, 9,7 %;

 by pass e chirurgia valvolare, 7,4 %.

Delle 63 variabili specifiche legate al paziente esaminate, 54 hanno dimostrato un’associazione lineare con l’insorgenza di uno stroke.

L’analisi multivariata dimostra che 10 variabili sono da considerarsi fattori predittivi indipendenti di stroke:

1. storia di malattia cerebrovascolare;

2. malattia vascolare periferica;

3. diabete;

4. ipertensione;

5. precedente intervento cardochirurgico;

6. infezione in fase preoperatoria;

7. operazione d’urgenza;

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8. by pass aortocoronarico con durata dell’intervento di by pass cardiopolmonare maggiore di 2 ore;

9. bisogno di emofiltrazione intraoperatoria;

10. alta richiesta di trasfusioni.

In conclusione l’identificazione dei fattori predittivi dello stroke è importante per sottostadiare la patogenesi delle complicazioni gravi e per sviluppare strategie preventive.

In base alla analisi retrospettive l’infarto del miocardio nel corso di interventi di by pass aortocoronarico è associato con una bassa incidenza di stroke e può tuttavia pregiudicare i buoni esiti dei trattamenti dei pazienti.

Di eguale tenore si rivela una pubblicazione dal titolo “Cerebral Injury After Cardiac Surgery : Identification of a Group at Extraordinary Risk” di Richard L. Wolman, e al., Stroke 1999;30;514-522, in cui viene affrontato ancora l’argomento delle possibili ingiurie ischemiche cerebrali dopo un intervento di cardiochirurgia.

Vengono passati in rassegna i problemi possibili che possono insorgere nel periodo perioperatorio e individuati i sottogruppi di pazienti e il grado di rischio che può essere identificato, in modo da poter seguire ed implementare nuove strategie cliniche di prevenzione.

Si tratta di uno studio prospettico in cui vengono studiati 273 pazienti arruolati in 24 diversi centri medici negli USA che sono stati sottoposti a chirurgia intracardiaca e coronarica.

I pazienti vengono raggruppati usando metodi standardizzati che comprendono la storia clinica, test specifici, valutazione neurologica e dati autoptici e anche misure delle risorse utilizzate.

I risultati negativi vengono definiti a priori e determinati dopo chiusure del data base.

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Vengono sviluppati modelli di regressione multipla per stimare i rischi relativi associati con la storia clinica ed eventi intra ed extraoperatori.

Risultati avversi cerebrali si verificano nel 16 % dei pazienti, equamente divisi fra risultati di tipo I, 8,4 %, morti cerebrali e strokes non fatali che sono prevalenti, come i TIA, risultati di tipo II, 7,3 %, con nuovo incidente e persistente deterioramento intellettivo, evidentemente da lesioni micro vascolari associate.

I fattori significativi di rischio individuati per il tipo I sono principalmente relazionati con i fenomeni embolici che comprendono e sono associati con patologie come:

 aterosclerosi prossimale dell’aorta;

 trombosi intracardiaca;

 clamping (clampaggio) intermittente dell’aorta durante l’intervento.

 Per i risultati di tipo II i fattori di rischio individuati comprendono:

 aterosclerosi prossimale dell’aorta;

 storia preoperatoria di endocardite;

 abuso di alcool;

 disritmia perioperatoria;

 scarso controllo dell’ipertensione;

 sviluppo di uno stato generale scadente dopo by pass cardiopolmonare.

Le conclusioni dello studio multicentrico dimostrano che i pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca combinata con rivascolarizzazione coronarica rappresentano un formidabile rischio e che in 1 paziente su 6 si sviluppano complicazioni cerebrali che si verificano frequentemente con esiti devastanti e costosi.

Pertanto nuove strategie di management perioperatorio includenti interventi di tipo tecnico e farmacologico sono da ben considerare per questi sottogruppi di pazienti cardiochirurgici.

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Ancora, relativo alle possibili complicanze cardiache e al rischio cardiaco inerente, è il tema di un articolo dal titolo “Derivation and Prospectìve Validation of a Simple Index for Prediction of Cardiac Risk of Major Noncardiac Surgery” di Thomas H.

Lee e al., Circulation 1999;100:1043-1049, in cui viene effettuato uno studio di coorte per sviluppare e validare un indice di rischio delle complicazioni cardiache.

Nello studio vengono reclutati 4315 pazienti di età > 50 anni sottoposti a procedure chirurgiche di elezione.

Le complicazioni maggiori hanno riguardato il 2 % dei soggetti considerati in una derivazione di coorte di 2893 pazienti.

I fattori predittivi indipendenti dal sesso sono stati identificati e inclusi in un indice di revisione dei rischi cardiaci, nel modo seguente:

 tipo di chirurgia ad alto rischio;

 storia di cardiopatia ischemica;

 storia di insufficienza cardiaca congestizia;

 storia di malattia cerebrovascolare;

 trattamento preoperatorio con insulina;

 creatinina sierica preoperatoria > 2,0 mg / dl.

Il tasso di complicanze maggiori cardiache con 0, 1, 2, o > 3 fattori di rischio è stato di 0,5 %, 1,3 %, 4 %, e 9 %, rispettivamente, nella derivazione di coorte del 0,4 %, 0,9 %, 7 %, e 11 %, rispettivamente, nei 1422 pazienti della validazione di coorte.

L’indice cardiaco di rischio revisionato studiato nell’occasione si è dimostrato superiore agli altri indici di predizione del rischio finora pubblicati.

Concludendo si può dire che in pazienti sottoposti ad interventi chirurgici maggiori non cardiaci, questo indice revisionato può servire ad identificare pazienti ad alto rischio di complicazioni.

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Sulla tematica del confronto fra i rischi derivanti dagli interventi chirurgici di rivascolarizzazione con by pass aortocoronarico e quelli legati agli interventi di sostituzione valvolare è incentrato l’articolo dal titolo “Comparison of short-term mortality risk factors for valve replacement versus coronary artery bypass graft surgery” di Sheila C. Gardner, e al., Ann Thorac Surg 2004;77:549-556.

In prima istanza viene qui analizzata la mortalità a breve termine, ossia entro i 30 giorni dall’intervento chirurgico di by pass aortocoronarico.

Poco conosciuti appaiono invece i fattori di rischio comparati per la mortalità a breve termine degli interventi di sostituzione valvolare in raffronto con quelli di by pass aortocoronarici.

Lo studio ha così messo in evidenza un significativo incremento del rischio a breve termine di mortalità post operatoria in rapporto allo stato funzionale cardiaco per i pazienti sottoposti a sostituzione valvolare aortica, con OR = 1,64, ma non per i pazienti singolarmente considerati sottoposti a by pass aortocoronarico, con OR = 1,04.

Le conclusioni dello studio indicano, quindi che la mortalità a breve termine per gli interventi di sostituzione valvolare e per quelli di by pass aortocoronarici appaiono relativamente consistenti.

Pertanto i clinici dovrebbero dare rilievo allo stato funzionale preoperatorio quale unico fattore predittivo di mortalità nel corso di interventi di sostituzione valvolare.

Una serie di articolo tratti dalla letteratura scientifica di settore illustra il diverso peso dei fattori di rischio operatorio, trattati in modo diffuso dai vari autori.

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In un articolo dal titolo “Risk Factors for Early or Delayed Stroke After Cardiac Surgery” di Charles W. Hogue, e al., Circulation 1999;100;642-647, viene di nuovo affrontato l’argomento del rischio a breve e lungo termine di sviluppare uno stroke dopo interventi di cardiochirurgia.

L’evenienza di un ictus cerebrale dopo interventi di cardiochirurgia rappresenta una complicanza devastante che comporta un incremento della mortalità e l’utilizzo di numerose risorse.

L’identificazione quindi dei fattori di rischio di stroke in fase preoperatoria appare quindi di estremo rilievo, per cui lo studio si propone proprio di individuare tali fattori di rischio, comprendendo anche la necessità di una diagnosi precoce degli stessi strokes.

Vengono quindi esaminati 2972 pazienti sottoposti ad interventi di by pass aortocoronarico e/o sostituzione valvolare cardiaca.

I pazienti reclutati avevano tutti età > 65 anni e una storia di malattia neurologia sintomatica e sottoposti in fase preoperatoria ad ecografia dei vasi carotidei.

Gli strokes si sono verificati in 48 pazienti che rappresentano 1,6 % e di questi ben 31 pazienti hanno avuto degli strokes in tempi distanziati dall’intervento.

Attraverso analisi multivariata si è verificato che:

 primitivi eventi neurologici,

 aterosclerosi aortica e

 durata del by pass cardiopolmonare

erano associati, in modo indipendente, con stroke precoce, mentre fattori predittivi di stroke tardivi erano rappresentati ancora da:

 eventi primitivi neurologici,

 diabete,

 aterosclerosi aortica,

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con la combinazione finale di

 bassa efficienza cardiaca

 associata con FA.

La mortalità intraospedaliera di pazienti con stroke precoce, 41 % ,o tardivo, 13

%, appariva più alta rispetto agli altri pazienti.

Le conclusioni dello studio indicano che la gran parte degli strokes dopo intervento di cardiochirurgia si verifica dopo un iniziale ricovero in chirurgia per singolo evento morboso acuto in fase conclamata.

Le donne sono ad alto rischio di stroke perioperatorio precoce e tardivo.

La fibrillazione atriale non ha di per se un impatto sul tasso di stroke postoperatorio salvo che non sia accompagnata da una sindrome di insufficienza cardiaca.

Sul problema della variazione del tempo di incidenza dei fattori di rischio per la mortalità a lungo termine dopo interventi di by pass aortocoronarico è incentrato l’articolo dal titolo “Time-Varying Risk Factors for Long-Term Mortality After Coronary Artery Bypass Graft Surgery” di Dexiang Gao, e al., Ann Thorac Surg 2006;81:793- 799, nel quale diversamente da quanto in prevalenza accade in letteratura, in cui viene quasi esclusivamente affrontato l’argomento della mortalità a breve termine dopo interventi di by pass aortocoronarico, viene invece condotto uno studio specifico atto alla conoscenza dei fattori di rischio di mortalità a lungo termine dopo tale tipo d’intervento.

Vengono pertanto analizzati ben 56.543 reduci da interventi di by pass aortocoronarico, effettuati fra il 1° ottobre 1991 e il 30 marzo del 2001.

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Gli effetti delle variazioni di tempo della mortalità sono valutati in rapporto all’esistenza di 22 diversi fattori di rischio preoperatorio, usando due modelli diversi di regressione multipla.

In base allo studio sono state individuate 6 variabili significative della variazione dei tempi relativi alla mortalità a distanza dopo interventi cardiochirurgici di by pass aortocoronarico.

I fattori di rischio perioperatorio non appaiono significativi nel corso del follow up a lungo termine.

Il diabete che rappresenta un lieve rischio nell’immediato postoperatorio, si incrementa statisticamente nel tempo e raddoppia a distanza di 9,5 anni dall’intervento.

Tre altri fattori di rischio a breve termine nel perioperatorio quali l’età, la malattia polmonare cronica ostruttiva e il carattere di urgenza o emergenza dell’intervento cambiano dal 50 % al 60 % a distanza di 10 anni dall’intervento.

Da ultimo la gran parte delle altre 16 variabili di rischio è associata in modo significativo con la mortalità, ma il rischio non varia in modo sostanziale con il trascorrere del tempo.

Concludendo si può dire che i rischi associati con qualche variabile preoperatoria possono cambiare in modo significativo nel corso della prima decade successiva all’intervento chirurgico, e lo stato del rischio che assume carattere di rischio costante nel periodo postoperatorio può diventare sostanzialmente un rischio sovrastimato o sottostimato in qualche lasso di tempo.

Quanto riscontrato può aiutare i clinici a individuare appropriate strategie di gestione dei pazienti negli anni successivi ad interventi di by pass aortocoronarici e ad enfatizzare le comorbilità non cardiache nel periodo lungo postoperatorio.

Sugli indicatori di qualità degli interventi di by pass aortocoronarico è ancora incentrato un articolo dal titolo “The identìficatìon and development of Canadian

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coronary artery bypass graft surgery qualìty indìcators” di Veena Guru, e al., J Thorac Cardiovasc Surg 2005;130:1257, in cui viene condotto uno studio che ha come obiettivo lo sviluppo degli indicatori di qualità degli interventi di by pass aortocoronarico, rapportato alla qualità delle cure e associato con la morte preventivabile.

I risultati del lavoro riportano che sono stati esaminati ben 149 indicatori di qualità.

In questa lista vengono distinti 33 indicatori collegati alla qualità delle cure, 10 indicatori che dovrebbero adeguatamente essere aggiustati per il rischio, 34 indicatori relazionati con la morte preventivabile e 18 indicatori che dovrebbero comprendere i dati sulla performance.

Questi indicatori consistono in 19 variabili relative alle conseguenze, 23 processi di variabili relative ai trattamenti e 4 variabili relative alle strutture.

Gli indicatori di qualità che sono stati utilizzati dall’Istituto Canadese per i risultati degli interventi di by pass aortocoronarico riguardano nell’ordine:

 mortalità a 30 giorni;

 mortalità intraospedaliera;

 infarto miocardico elettrocardiografico;

 trasfusione ematica;

 trasfusione allogenica di derivati del sangue;

 infezione di una ferita profonda sternale;

 stroke postoperatorio;

 dialisi postoperatoria;

 riammissione in una unità di cura intensiva;

 lunghezza di soggiorno in unità di terapia intensiva;

 durata della ventilazione assistita;

 ripetizione dell’intervento chirurgico;

 ripetizione della chirurgia con by pass cardiopolmonare;

 ripetizione della rivascolarizzazione;

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 tempo di attesa della chirurgia;

 completamento della chirurgia nel corso di un tempo di attesa raccomandato;

 uso sulla sinistra dell’innesto di arteria interna toracica;

 grandezza dell’istituzione di accoglienza.

Questo set di indicatori può essere quindi usato come una lista standard utile per monitorare le necessità della chirurgia con by pass coronarico nello sforzo di valutare e migliorare continuamente i risultati di questa modalità d’intervento.

Più di recente, sempre sullo stesso argomento, è apparso un articolo dal titolo “Relationship Between Preventability of Death After Coronary Artery Bypass Graft Surgery and All-Cause Rìsk-Adjusted Mortality Rates” di Veena Guru, e al., Circulation 2008;117;2969-2976, in cui lo scopo dello studio condotto è quello di determinare la relazione fra tutte le cause di rischio, aggiustato, di mortalità intraospedaliera dopo intervento di by pass coronarico e la proporzione delle morti intraospedaliere prevenibili, unita alla misura della qualità delle cure e del livello delle istituzioni impegnate.

E’ stata, quindi, condotta un’analisi retrospettiva di 347 eventi di morte randomizzati intraospedalieri dopo chirurgia di by pass arterioso coronarico in 9 istituzioni dell’Ontario nel periodo dal 1998 al 2003.

I tassi di morte attesa prevenibile vengono stimati per ciascun ospedale e comparati con i tassi di mortalità per tutte le cause.

Un controllo di un evento avverso strutturato completato dalla revisione critica di ogni intervento viene usato per identificare le cause di caduta della qualità per le morti prevenibili.

Un totale di 111 su 347 decessi, circa il 32 %, viene giudicato prevenibile e legato ad un basso rischio di mortalità aggiustata, dal 1,3 % al 3,1 %, per l’indagine sui vari ospedali.

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Non viene trovata una significativa correlazione tra tutte le cause, tra i tassi di rischio aggiustato intraospedaliero e la proporzione di morti prevenibili rispetto ai livelli degli ospedali.

Una larga proporzione di morti preventivabili vengono collegate ai problemi della sala operatoria, 86 % e della unità di cura intensiva, 61 %.

La gran parte delle morti sono associate con deviazione della cura perioperatoria, 32 %, valutata sulla concorrenza di due analisi di controllo, e un altro 42 % dei casi in questa prima analisi di controllo, su cui si basa questa opinione.

Le conclusioni indicano che approssimativamente 1/3 delle morti intraospedaliere per by pass coronarico sono giudicate prevenibili in base ad una revisione degli interventi chirurgici effettuati.

I tassi di mortalità di rischio aggiustato per tutte le cause rappresentano misure appropriate della qualità delle cure delle istituzioni ma non sono correlate con la mortalità prevenibile nella giurisdizione considerata.

I gestori dovrebbero condurre delle dettagliate analisi degli eventi avversi per condurre e mitigare nel miglior modo possibile le cadute di qualità.

Riguardo alla problematica della mortalità legata ad interventi di sostituzione valvolare, è possibile leggere un articolo dal titolo “Prediction of operative mortality after valve replacement surgery” di Fred H. Edwards e al., J. Am. Coll. Cardìol. 2001;37;885-892, che si pone come obiettivo dello studio condotto lo sviluppo di una banca dati delle chirurgia di sostituzione valvolare attraverso lo sviluppo di modelli statistici di rischio della mortalità operatoria.

I tassi di mortalità operatoria per la sostituzione valvolare aortica o mitralica o

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