Prefazione
Il diabete mellito è una patologia cronica, a elevata prevalenza nella popolazione italiana, con un’elevata mortalità. In questi ultimi anni il rapido sviluppo di strategie diagnostiche e terapeutiche per trattare questa malattia rende necessario un continuo aggior- namento della classe medica al fine di incrementare la percentuale di pazienti adeguatamente trattati e ridurre i costi già molto one- rosi e sempre più in aumento rispetto alla popolazione non diabetica.
La ripartizione dei costi tra le diverse complicanze legate al diabete evidenzia che le complicanze cardiovascolari ne ricoprono almeno l’80%. Nonostante si convoglino molte risorse economiche per questa malattia, la presenza del diabete mellito rimane comunque un fattore prognostico negativo e indipendente per morbilità e mortalità rispetto ai soggetti non diabetici.
I risultati sovra esposti mettono in luce quanto il paziente affetto da diabete mellito abbia una prognosi sfavorevole rispetto al paziente non diabetico al punto da essere considerato a rischio per la comparsa di eventi cardiovascolari alla pari di un paziente non diabetico in cui un evento cardiovascolare maggiore si sia già presentato. Inoltre, in presenza di livelli di emoglobina glicata elevati, indice di un cattivo controllo glicemico a medio termine, il rischio per la comparsa di eventi cardiovascolari maggiori e l’e- voluzione di lesioni microangiopatiche aumentano in modo esponenziale.
Lo scopo di questo convegno è quello di fornire una revisione aggiornata di alcuni aspetti clinici di diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2, approfondendo i rapporti tra diabete e complicanze non macroangiopatiche grazie alla partecipazione di esperti del settore. Con questi esperti il convegno esaminerà la malattia diabetica anche in rapporto ai meccanismi patogenetici quali la disfunzione endo- teliale fornendo i dati più aggiornati su epidemiologia, eziopatogenesi, diagnostica e terapia farmacologica. Inoltre, un importante obiettivo del convegno è quello di condividere alcuni algoritmi terapeutici che possano essere utilizzati nella pratica clinica nel dia- bete mellito di tipo 1 e di tipo 2.
Infine, il convegno approfondirà con i responsabili delle principali istituzioni sanitarie lombarde la malattia diabetica alla luce della sua crescente rilevanza socio-sanitaria.
Angela Girelli, PierMarco Piatti
Attività Diabetologica e Metabolica in Italia
XVI Congresso Interassociativo AMD-SID Sezione Lombardia
Milano, 22-23 ottobre 2010
Comitato Scientifico: A. Girelli, P.M. Piatti
Relazioni
L’uso appropriato del controllo domiciliare della glice- mia: cosa c’è da rivedere?
Grassi G
Le attuali raccomandazioni proposte negli Standard di Cura Italiani per il Diabete e nel documento dell’American Diabetes Association confermano il ruolo dell’automonitoraggio della gli- cemia nel diabete insulino-trattato, ma lasciano incertezze sul ruolo dell’autocontrollo nel diabete di tipo 2 in particolare non insulino-trattato.
Le raccomandazioni pubblicate nel 2008 dall’International Diabetes Federation relative al diabete di tipo 2 non insulino- trattato focalizzano il tema, superando le criticità degli studi disponibili, differenti per disegno dello studio, popolazione e modalità di intervento ed evidenziando quindi come solo l’au- tomonitoraggio seguito dalla ricerca di modifiche comporta- mentali e ruolo attivo del team curante possa essere efficace.
Questa visione del ruolo e dell’utilità dell’automonitoraggio gli- cemico è confermata anche in un recente Health Technology Assessment e in alcuni studi recenti che prendono anche in considerazione l’adesione dei pazienti al tipo di automonito- raggio proposto.
Per quanto riguarda la situazione italiana dobbiamo considerare come le indicazioni sulla frequenza consigliata di controlli propo- ste negli standard di cura non vengano riconosciute in alcune regioni e vi sia un’elevata difformità di regole sul territorio nazio- nale.
Altri elementi da considerare e strettamente legati all’appro- priatezza sono l’accuratezza e la qualità degli strumenti, ele- menti cruciali, in particolare per il diabete di tipo 1 in terapia intensiva.
Aspetto sicuramente nuovo ed emergente è il ruolo e relative indicazioni del monitoraggio continuo del glucosio interstiziale, sia professionale sia real time, le evidenze ancora limitate pro- pongono questa modalità di autocontrollo come utile per il dia- bete di tipo 1 nella modalità continua, mentre l’uso retrospettivo (professionale) è alla ricerca di una collocazione.
Diagnostica e terapia della retinopatia diabetica Lattanzio R
Nonostante le evidenze scientifiche oggi disponibili le quali hanno ampiamente dimostrato che, mediante programmi di screening e trattamento della retinopatia diabetica (RD), è possibile ridurre dra- sticamente la cecità da diabete con ingenti risparmi in termini di economia socio-sanitaria, non è infrequente nella pratica clinica oftalmologica il riscontro di casi di oftalmopatia diabetica avanzata.
Risulta pertanto tuttora utile la diffusione aggiornata di linee guida per la gestione di questa patologia estremamente invali- dante per la cui prevenzione e/o corretta gestione vi è un eleva- to rapporto costi-benefici. Il trattamento laser e, dove indicato, la chirurgia vitreo-retinica, rappresentano oggi le terapie validate per la gestione delle complicanze della RD; grande rilievo vanno via via acquisendo nuove terapie con farmaci intravitreali steroi- dei (anche a lento rilascio) o anti-angiogenici i cui risultati anato- mici e funzionali sono promettenti.
Neuropatie in corso di diabete Lauria G
Il diabete è il più importante fattore di rischio per lo sviluppo di neuropatie periferiche nel mondo occidentale e nei Paesi in via di sviluppo. La causa primaria della neuropatia diabetica non è completamente nota, ma iperglicemia, durata della malattia e coesistenza di complicanze cardiovascolari aumentano il rischio di sviluppare un danno a carico dei nervi periferici. Peraltro, è stato recentemente dimostrato che anche la condizione di ridot- ta tolleranza glucidica è in grado di determinare modificazioni funzionali precoci delle fibre nervose, che si traducono in una ridotta capacità dei nervi di riparare i danni.
Le neuropatie periferiche in corso di diabete hanno varie presen- tazioni, ed è il coinvolgimento di alcuni sottosistemi che determi- na il grado di disabilità, che si riflette in una riduzione della qua- lità della vita con importanti ricadute sul piano socio-economico.
Le forme di neuropatia diabetica includono le mononeuropatie craniche, le plessopatie, le polineuropatie assonali lunghezza- dipendenti (sensitivo-motoria, sensitiva, delle piccole fibre), le neuropatie autonomiche, le neuropatie demielinizzanti. Le princi- pali conseguenze delle neuropatie in corso di diabete sono il rischio di ulcera del piede e di morte. Inoltre, il 15-20% dei pazienti è gravato da dolore neuropatico.
La diagnosi di neuropatia in corso di diabete deve essere formu- lata dopo aver escluso altre cause di neuropatia, e deve prende- re in considerazione tutti i sottosistemi potenzialmente coinvolti:
motorio, sensitivo (propriocettivo e termoalgesico), autonomo.
L’esame clinico deve essere associato allo studio neurofisiologico, del sistema nervoso autonomo e, quando necessario, della biop- sia cutanea. È utile usare scale cliniche validate per definire seve- rità della neuropatia e del dolore neuropatico. Queste potranno essere utili nel valutare il decorso della neuropatia e la risposta ai trattamenti. Il decorso delle neuropatie diabetiche è sufficiente- mente noto, quindi è importante che i pazienti siano sottoposti a un programma di valutazione clinica periodica che permette di valutare l’evoluzione rispetto a quando atteso. Gli esami neurofi- siologici ed eventualmente neuropatologici potranno essere in tal modo utilizzati sulla base del criterio clinico.
Modificazione degli stili di vita e disfunzione endotelia- le. Un approccio semplice da consigliare, ma difficile da mettere in pratica
Marelli G
L’adesione a un corretto stile di vita è diventato uno degli obiet- tivi principali di tante campagne pubblicitarie. Se sei “metaboli- camente malato” è perché non segui uno stile di vita sano!
Ma sappiamo dare un’interpretazione corretta al termine “stile di vita sano”?
Si può provare con una equazione di questo tipo: stile di vita = igiene di vita = migliore qualità della vita = benessere psicofisi- co. E parlare di “corretto stile di vita” vuol dire parlare di com- portamenti e di atteggiamenti che di certo sono in grado di
generare uno stato di benessere, ma che si devono tenere per sempre; e quindi avere chiaro il concetto di “sostenibilità nel tempo”.
Possiamo affermare che gli elementi principali dello stile di vita sono attività fisica e abitudini alimentari. Numerose testimonian- ze che provengono dal mondo scientifico sostengono che le malattie del metabolismo, l’obesità, il diabete mellito, l’iperten- sione arteriosa e le malattie cardiovascolari sono in aumento non solo negli adulti, ma anche in bambini e adolescenti. E que- sto grazie a fattori predisponenti, tra cui uno stile di vita non ade- guato, insiti in una società di consumi come la nostra dove i ritmi di lavoro non ci consentono di muoverci e mangiare in modo sano.
Ma è anche vero che non si mangia di più, semmai si mangia male e in modo diverso. Oggi l’assunzione calorica media della singola persona è addirittura diminuita, passando da circa 2600 calorie/die degli anni sessanta, a 2300 calorie/die degli anni novanta. Pensiamo allora a come la nostra alimentazione sia passata da quella dei nostri “antenati cacciatori”, a base di carni, vegetali e carboidrati non raffinati, a quella improntata sulla cultura del “fast-food”. Prodotti confezionati e non, appe- tibili ma ad alto contenuto calorico, con grandi quantità di grassi transinsaturi e a basso potere saziante. E poi c’è anche il fenomeno dell’inversione del carico alimentare. Si salta spes- so la colazione, si mangia poco a pranzo per impegni di lavo- ro, e quindi la cena diventa un pasto abbondante, sicuramen- te in eccesso rispetto alle esigenze del riposo notturno con un conseguente immagazzinamento di calorie sotto forma di grasso.
Per tornare ai nostri “antenati cacciatori” un’altra considerazione la dobbiamo fare sul ridotto movimento. Il ricorso eccessivo all’automazione ha portato a uno stile di vita sedentario. Oggi ascensori, scale mobili, telefoni cellulari, cancelli automatici, computer, telecomandi vari, televisione e giochi annessi ci fanno vivere “da seduti” con una notevole riduzione del consumo ener- getico. E ancora quanti dei ragazzi di oggi conoscono i vecchi
“giochi di cortile” o “di strada”, tutti caratterizzati da tanto movi- mento, che impegnavano gran parte del tempo libero?
Allora per cambiare questa situazione bastano pochi consigli pratici: mangiare in modo sano riscoprendo i benefici della dieta mediterranea (aumentando il consumo di carboidrati non raffina- ti, introducendo più fibre con frutta, verdure e legumi, limitando il consumo di prodotti ricchi in grassi saturi); muoversi di più, ricordando che il movimento per essere efficace deve essere continuativo per almeno 30 minuti e per almeno 5 volte alla set- timana.
Consigli facili da dare, ma difficili da mettere in pratica. Il mondo esterno, la realtà in cui viviamo, le dinamiche pubblicitarie sono ostacoli di cui dobbiamo tenere conto e difficili da rimuovere.
Forse per ottenere risultati positivi occorre aggiungere un po’ di psicologia comportamentale cercando di coinvolgere attivamen- te i pazienti nella pratica di un corretto stile di vita. Secondo un’interpretazione psicologica lo “stile di vita” può essere inteso anche come il modo come l’individuo si pone all’interno della realtà in cui vive, nel quale la stima di sé stessi, la convinzione dei propri mezzi e l’appagamento dei bisogni individuali diventa- no tasselli importanti. E allora tra le componenti di un positivo stile di vita occorre aggiungere una vita senza stress, nella quale la serenità è fondamentale.
Sette suggerimenti per una corretta alimentazione.
1. Adottare la dieta mediterranea. È basata sul consumo di pane, pasta, olio di oliva, consumo moderato di proteine, soprattutto se di origine animale, e abbondante di frutta (2-3 porzioni al giorno) e verdura (almeno cinque porzioni al giorno).
2. Attuare un consumo adeguato di farinacei, preferibilmente
integrali, che dovrebbero rappresentare il 50-60% del totale giornaliero delle calorie.
3. Limitare i cosiddetti grassi saturi, di origine animale (burro, strutto, formaggi): i formaggi vanno consumati non più di un paio di volte alla settimana, purché si beva regolarmen- te latte per garantire la corretta quantità di calcio.
L’apporto di colesterolo non dovrebbe superare i 200-300 mg al giorno.
4. Fare almeno 3 pasti al giorno. La colazione è un pasto importante e deve comprendere almeno una porzione di cereali, meglio se integrali, e di frutta.
5. Come condimenti utilizzare olio d’oliva a crudo in quantità compatibile con l’apporto calorico consigliato per il proprio peso e altezza, limitare le fritture e i condimenti a base di acidi grassi animali.
6. Il vino va bevuto in modica quantità (un bicchiere a pasto). È meglio evitare i superalcolici.
7. Limitare l’apporto di sale, i cibi già lo contengono in quanti- tà sufficiente. Per insaporire i cibi usare erbe e spezie.
Genetica dell’endotelio. Ruolo nell’evoluzione verso il diabete mellito e la malattia cardiovascolare
Monti L
Il diabete di tipo 2 presenta un rischio aumentato di 2-6 volte di sviluppare malattia cardiovascolare. In aggiunta, l’aterosclerosi può precedere lo sviluppo di diabete mellito, suggerendo che entrambe le patologie condividono alcuni fattori genetici e ambientali comuni (common soil hypothesis). La disfunzione endoteliale e l’insulino-resistenza costituiscono sia fattori impor- tanti nello sviluppo di diabete di tipo 2 ma anche importanti fat- tori di rischio per la malattia cardiovascolare.
L’ossido nitrico (NO) è una molecola gassosa e viene prodotta nell’uomo dalla famiglia di enzimi NOS sintetasi, distinte in inducibile (iNOS), neuronale (nNOS) ed endoteliale (eNOS).
L’ossido nitrico prodotto dalla eNOS svolge un ruolo chiave nell’omeostasi vascolare poiché l’ossido nitrico derivato dal- l’endotelio è considerato un importante mediatore ateroprotet- tivo, mentre difetti acquisiti nella generazione del gas si asso- ciano a disfunzione endoteliale e possono contribuire allo svi- luppo dell’aterosclerosi. I punti focali di tutte queste funzioni sono l’appropriata espressione di eNOS e l’adeguata attività enzimatica. Recentemente il nostro gruppo ha trovato una stretta associazione tra le varianti del gene di eNOS e il diabe- te mellito di tipo 2, la sindrome metabolica e la malattia cardio- vascolare. Queste varianti erano caratterizzate da un fenotipo specifico caratterizzato da elevati livelli di ossido nitrico basa- le, ma con ridotta risposta in seguito a stimolo insulinico in pazienti cardiopatici, in pazienti con diabete di tipo 2 e nei loro parenti di primo grado.
L’associazione fra i polimorfismi di eNOS e la malattia cardiova- scolare sono stati precedentemente studiati da altri autori. In particolare, è stato precedentemente dimostrato un potenziale coinvolgimento delle varianti di eNOS nel processo aterosclero- tico in pazienti diabetici con malattia cardiovascolare. Altri studi hanno evidenziato che la presenza di varianti di eNOS rappre- senta un rischio indipendente di sviluppare ristenosi intra-stent e come polimorfismi di eNOS fossero associati con aumentato rischio di morte o di infarto miocardico un anno dopo impianto di stent.
In conclusione, polimorfismi di eNOS aumentano il rischio di svi- luppare sia insulino-resistenza e diabete mellito di tipo 2 sia di - sfunzione endoteliale e malattia cardiovascolare, supportando l’ipotesi di un common soil genetico fra diabete mellito di tipo 2 e malattia cardiovascolare.
Nuovi approcci terapeutici farmacologici della retino- patia diabetica
Porta M
Negli Stati Uniti, il Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) aveva dimostrato in pazienti con diabete di tipo 1 che il trattamento insulinico ottimizzato riduce la comparsa di nuova retinopatia del 76% e il peggioramento di una retinopatia già esi- stente di circa il 50%. Per quanto riguarda il tipo 2, lo UK Prospective Diabetes Study (UKPDS), condotto in Gran Bretagna, ha dimostrato che il controllo metabolico ottimizzato può ridurre del 21% la progressione della retinopatia e la neces- sità di intervento di cataratta del 24%. Lo UKPDS ha anche dimostrato che ridurre la pressione arteriosa riduce la progres- sione della retinopatia del 34% e il rischio complessivo di peg- gioramento dell’acuità visiva del 47%.
I livelli complessivi dell’assistenza diabetologica stanno miglio- rando e, negli Stati Uniti, i dati del National Health And Nutrition Examination Survey (NHANES) 1999-2004 dimostrano un lento, ma costante aumento della percentuale di pazienti con HbA1c inferiore a 7,0%. Probabilmente, in connessione con questo fenomeno positivo, anche i dati raccolti in Scandinavia e nel Wisconsin mostrano una minore incidenza cumulativa di retino- patia proliferante nei pazienti che hanno contratto il diabete di tipo 1 negli anni più recenti. Nello studio EDIC, la continuazione del DCCT, a 30 anni dall’inizio, l’incidenza cumulativa della reti- nopatia proliferante è risultata del 21% nei pazienti che furono assegnati alla terapia ottimizzata, contro il 50% in quelli che erano rimasti a trattamento convenzionale.
La fotocoagulazione laser riduce del 95% l’incidenza di cecità da retinopatia proliferante e del 50% la perdita di acuità visiva dovuta all’edema maculare. Da alcuni anni si pratica con risulta- ti incoraggianti l’iniezione intraoculare di farmaci steroidei e inibi- tori del VEGF per il trattamento delle forme più aggressive di neovascolarizzazione e di edema maculare non dominabili con la sola fotocoagulazione.
Recentemente sono stati pubblicati i risultati di studi clinici rando- mizzati controllati che hanno valutato l’efficacia di alcuni farmaci già in uso con altre indicazioni nella prevenzione e terapia della retinopatia diabetica. DIRECT (DIabetic REtinopathy Candesartan Trials) ha mostrato una riduzione del 35% del rischio di insorgenza della retinopatia e un aumento del 34% delle probabilità di miglioramento della stessa con la somministrazione di candesartan 32 mg/die. Il risultato è stato confermato dallo studio RASS, nel quale enalapril e losartan hanno ridotto la pro- gressione della retinopatia rispettivamente del 65 e 70%.
Per quanto riguarda altri possibili meccanismi, lo studio FIELD ha dimostrato in pazienti trattati con fenofibrato una riduzione di circa il 30% della necessità di trattamento laser, sia per edema maculare sia per retinopatia proliferante. Il farmaco preveniva la progressione della retinopatia già esistente, indipendentemente dagli effetti metabolici, ma non dimostrava efficacia nel preveni- re la comparsa di nuova retinopatia.
Ridurre la pressione arteriosa per migliorare la funzio- ne endoteliale. Un nuovo obiettivo per ridurre il rischio cardiovascolare
Rizzoni D, Muiesan ML
Negli ultimi anni, le nostre conoscenze sull’endotelio e sulle sue funzioni si sono enormemente accresciute, in termini sia quanti- tativi sia qualitativi. Si è gradualmente passati da una concezio- ne dell’endotelio come barriera puramente passiva frapposta fra due compartimenti, quello extravascolare e quello intravascola-
re, al massimo implicata nello scambio di nutrienti e ossigeno, a una visione più integrata, che riconosce all’endotelio un ruolo chiave in molte malattie cardiovascolari.
In particolare è stata dimostrata la capacità dell’endotelio di pro- durre sostanze vasocostrittrici e vasodilatatrici, e tale funzione potrebbe avere un ruolo assai importante nelle genesi e nel mantenimento degli elevati valori pressori. Fra le sostanze vaso- costrittrici prodotte dall’endotelio un ruolo rilevante è svolto dal- l’endotelina, dai trombossani e dagli anioni superossido, mentre le principali sostanze vasodilatatrici sono rappresentate dal monossido d’azoto (il primo gas al quale è stato riconosciuto un ruolo biologico), alcune prostaglandine, e un fattore endoteliale di iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce vascolari.
La disfunzione endoteliale a livello del microcircolo riveste un ruolo chiave nell’ambito delle malattie cardiovascolari. Infatti sostanze prodotte dall’endotelio non solo svolgono un ruolo rile- vante nel controllo del tono vascolare, ma anche nel controllo della crescita delle sottostanti cellule muscolari lisce e dell’ag- gregazione e adesione piastrinica.
L’attenzione dei ricercatori si è focalizzata soprattutto sul possi- bile ruolo che un’alterazione del delicato bilancio fra fattori vaso- dilatatori e vasocostrittori di origine endoteliale a livello di diversi distretti vascolari, tra cui anche il microcircolo, potrebbe avere nell’ipertensione arteriosa e nel diabete mellito. Numerosi studi in modelli animali di ipertensione genetica o sperimentale (ratti spontaneamente ipertesi, ratti resi ipertesi con varie procedure) hanno dimostrato la presenza di disfunzione endoteliale, solita- mente valutata come un’alterata risposta alla somministrazione di acetilcolina, un neurotrasmettitore in grado di stimolare la pro- duzione endoteliale di monossido d’azoto. Tali studi hanno evi- denziato, in maniera pressoché uniforme, la presenza di disfun- zione endoteliale sia in preparazioni di vasi isolati, sia in vivo, trat- tando i ratti con inibitori dell’enzima che sintetizza il monossido d’azoto (NO sintetasi). Analizzando direttamente il rilasciamento indotto dall’acetilcolina nelle piccole arterie sottocutanee di resi- stenza in vitro ex vivo, abbiamo potuto osservare la presenza di disfunzione endoteliale nei pazienti affetti da ipertensione arterio- sa. Tale disfunzione endoteliale è stata osservata anche in pazienti con ipertensione secondaria. Tali alterazioni sono evi- denti anche a carico delle arterie di maggiore calibro (arteria bra- chiale) sebbene non sia stata osservata una correlazione parti- colarmente stretta tra i diversi distretti vascolari.
I dati disponibili circa l’effetto dei farmaci antipertensivi sulla fun- zione endoteliale del microcircolo sono ancora relativamente limitati, mentre un maggior numero di evidenze è stato ottenuto mediante lo studio della vasodilatazione flusso-mediata (VFM) dell’arteria brachiale. L’atenololo non si è dimostrato in grado di migliorare la funzione endoteliale nelle piccole arterie sottocuta- nee di resistenza. Gli inibitori selettivi dei recettori dell’angioten- sina II, e gli ACE-inibitori hanno determinato un miglioramento della funzione endoteliale nelle piccole arterie di resistenza sot- tocutanee e sulla VFM dell’arteria brachiale. Anche alcuni calcio- antagonisti diidropiridinici si sono dimostrati in grado di norma- lizzare o migliorare la funzione endoteliale nelle piccole arterie sottocutanee.
I dati finora disponibili indicherebbero che alcuni farmaci anti- pertensivi possano indurre un miglioramento o perfino una nor- malizzazione della funzione endoteliale. È stato inoltre recente- mente suggerito un rilevante significato prognostico della di - sfunzione endoteliale e delle sue modificazioni durante terapia.
È probabile, quindi, che il connubio disfunzione endoteliale- danno vascolare rappresenti uno degli aspetti di maggior inte- resse nel mantenimento e/o aggravamento dell’ipertensione arteriosa. La disfunzione endoteliale presenta quindi molte caratteristiche che fanno ritenere che essa possa costituire un valido endpoint intermedio nella valutazione del beneficio della terapia antipertensiva.
Riassunti
Utilizzo del microinfusore di insulina nella prima infan- zia: efficacia a lungo termine
Bonfanti R, Meschi F, Viscardi M, Rigamonti A, Biffi V, Frontino G, Battaglino R, Favalli V, Bonura C, Chiumello G IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
L’obiettivo è stato quello di confrontare l’efficacia della terapia insulinica tramite microinfusore (CSII) con quella multiniettiva (MDI) in età prescolare dopo più di un anno di trattamento.
Sono stati valutati 25 bambini (11 maschi, 14 femmine) con durata di diabete mellito di tipo 1 di almeno un anno (14 CSSI, 11 MDI). Sono stati valutati i seguenti indici di controllo glice- mico: emoglobina glicata (HbA1c), glicemia media (MBG) e deviazione standard (SD), percentuale di glicemie (BG%) sopra e sotto il target degli ultimi tre mesi di follow-up, e l’average daily risk range (ADRR) dell’ultimo mese di follow-up. I bambi- ni avevano età tra i 2 e i 6 anni (media: CSII 4,6 anni, MDI 4,6 anni) e la durata di malattia variava da 1 a 4,9 anni (media: CSII 2,9 anni, MDI 2,3 anni). La durata media del trattamento con CSII al momento dello studio era di 2,45 anni. Non sono state rilevate differenze statisticamente significative tra i due gruppi in merito a HbA1c(CSII 7,09%; MDI 7,38%), MBG (CSII 161,8 mg/dl; MDI 168 mg/dl), SD (CSII 82,1 mg/dl; MD 85,2 mg/dl), percentuale di glicemie sotto il target (CSII 12,7%; MDI 15,2%) e ADRR (CSII 44,9; MDI 35,6). Tuttavia è stata riscontrata una differenza statisticamente significativa nella BG% sopra il tar- get (CSII 35,1%; MDI 47,2%; p < 0,05). Nonostante la terapia con CSII possa essere una sicura ed efficace via di sommini- strazione in età prescolare, nel nostro studio il suo utilizzo a lungo termine non ha dimostrato differenze significative nel controllo glicemico rispetto alla terapia MDI, confermando pre- cedenti lavori effettuati sul suo utilizzo nel breve termine. Il nostro lavoro dimostra che sia la terapia con CSII sia quella MDI permettono di ottenere un controllo glicemico ottimale (HbA1c < 7,5%; linee guida ISPAD 2009), sottolineando che questo possa essere raggiunto indipendentemente dalla via di somministrazione. L’indicazione all’utilizzo di CSII in questa fascia di età dovrebbe essere quindi principalmente basata sulla selezione del paziente/genitore e sui potenziali vantaggi sullo stile di vita. Tuttavia, sono necessari studi a lungo termi- ne, utilizzando anche il monitoraggio glicemico continuo, per valutare i possibili benefici per la prevenzione delle compli- canze.
L’efficacia di un intervento multifattoriale nel diabete di tipo 2 con nefropatia conclamata: la remission clinic a Bergamo
Corsi A, Dodesini AR, Lepore G, Nosari I, Trevisan R Unità di Struttura Complessa di Diabetologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
La riduzione della proteinuria (PRO) migliora la prognosi della nefropatia diabetica (DN) nei diabetici di tipo 2 (DT2), ma il reale impatto clinico di un intervento multifattoriale sull’evoluzione della DN non è ancora ben definito.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di valutare l’effica- cia di un intervento strutturato multifattoriale (basato sull’ini- bizione spinta del sistema renina-angiotensina, associata a terapia ipolipemizzante e ipoglicemizzante) sulla velocità di progressione della DN in 102 DT2 (età 63 ± 9 anni, BMI 30 ±
4 kg/m2, creatinina 1,3 ± 0,05 mg/dl) con DN conclamata (PRO > 0,5 g/die). Il follow-up medio è stato di 5,6 anni (range 1,2-13,4). I controlli erano almeno semestrali e la velo- cità di declino (delta) del GFR stimato (eGFR, formula MDRD) è stata determinata mediante regressione lineare di tutti i valori disponibili.
Pressione arteriosa (da 148/83 ± 2,3/1,1 a 137/75 ± 2/1 mmHg), PRO (da 1,3 a 1 g/die), HbA1c(da 8,4 ± 0,2 a 7,6 ± 0,1%), colesterolo totale (da 212 ± 4 a 177 ± 4 mg/dl) e tri- gliceridi (da 218 ± 15 a 189 ± 12 mg/dl) sono migliorati durante il follow-up. Il delta eGFR è stato di –3,9 ± 0,4 ml/min/anno. Il 23,5% (n = 24) dei DT2 ha raggiunto la remis- sione della malattia renale (PRO < 0,5 g/die). Nei DT2 con PRO residua > 1 g/die (56 DT2, 55%), il delta eGFR era signi- ficativamente più rapido (–4,9 ± 0,6 ml/min/anno) rispetto ai DT2 con PRO residua < 1 g/die (46 DT2, 45%) (–2,8 ± 0,5 ml/min/anno; p < 0,02). Anche se la riduzione della pressio- ne arteriosa era più marcata nei DT2 con PRO residua < 1 g/die, solo la riduzione della PRO e la PRO residua erano pre- dittori indipendenti del delta eGFR. La riduzione di HbA1c, lipi- di e pressione non correlava né con la riduzione della PRO né con il delta eGFR.
Un intervento terapeutico multifattoriale e intensivo è in grado di ottenere la remissione della nefropatia nel 24% dei DT2 e una PRO < 1 g/die nel 45% dei DT2. La riduzione della proteinuria si conferma l’obiettivo principale per rallentare la progressione del danno renale nel diabetico nefropatico.
Case report: diabete mitocondriale trattato con vilda- gliptin e gliclazide
Dagani R, Tempesta A, Didoni F, Gianni M, Porro A
Struttura Semplice di Diabetologia, UO Medicina 4°
Ospedale di Rho
Paziente di 39 anni, giunta alla nostra osservazione durante rico- vero in Medicina per episodio subocclusivo da verosimile squili- brio acido-base (con elevata acidosi lattica) a duplice genesi:
S. MELAS e assunzione di metformina.
Affetta da S. MELAS, diagnosticata all’età di 26 anni, insorta con disturbi della deambulazione, ipoacusia neurosensoriale attual- mente corretta da protesi acustiche, polineuropatia assonale prevalentemente sensitiva (diagnosi e follow-up presso Istituto Neurologico Besta di Milano) e diabete correlato, in terapia con metformina e sulfonilurea.
In anamnesi positività per HBV Ag con transaminasi nel range di normalità e asma bronchiale su base allergica.
Durante il ricovero importante meteorismo e distensione addo- minale con dispepsia e addominoalgie. Riscontro di aumento di transaminasi fino a 2-3 volte la norma. Alla EGDS normalità endoscopica con HP positività, consigliata eradicazione.
L’emogasanalisi evidenziava importante acidosi lattica (valori di lattato 51 mg/dl).
Era presente funzione pancreatica residua con C peptide basa- le (1,69 ng/ml) stimolabile dal pasto (2,72 ng/ml).
Dopo aver sospeso la metformina si è ottenuto un netto miglio- ramento del quadro addominale, riduzione dell’acido lattico e normalizzazione delle transaminasi.
Non essendo note controindicazioni in letteratura, è stato intro- dotto in terapia vildagliptin in associazione a gliclazide.
A distanza di 6 mesi si è ottenuto compenso metabolico più che discreto e risoluzione della sintomatologia gastrointestinale par- ticolarmente disturbante per la paziente. L’HbA1cè attualmente 7%, con acido lattico e transaminasi nella norma.
I risultati ottenuti appaiono incoraggianti e la paziente prosegue il trattamento con beneficio.
Effetti di acarbose sui parametri infiammatori e di insu- lino-resistenza durante un carico orale di grassi Derosa G, Maffioli P, Ferrari I, Fogari E, D’Angelo A, Palumbo I, Randazzo S
Dipartimento di Medicina Interna, Clinica Medica II, Ambulatorio di Diabetologia e Malattie Metaboliche, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Università di Pavia Con il nostro studio abbiamo voluto valutare gli effetti di acar- bose sui parametri infiammatori e di insulino-resistenza in pazienti diabetici prima e durante un carico orale di grassi (OFL). Centoottantotto pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 sono stati arruolati in questo studio; 96 sono stati randomiz- zati ad assumere acarbose 50 mg 3 volte al giorno e 92 ad assumere placebo; dopo il primo mese acarbose è stato tito- lato a 100 mg tre volte al giorno. Abbiamo valutato al basale e dopo 1, 2 e 7 mesi i seguenti parametri: indice di massa cor- porea (BMI), emoglobina glicata (HbA1c), glicemia a digiuno (FPG), glicemia post-prandiale (PPG), insulinemia a digiuno (FPI), insulinemia post-prandiale (PPI), indice HOMA di resi- stenza all’insulina (HOMA-IR), pressione sistolica e diastolica, profilo lipidico, molecola di adesione cellulare intercellulare-1 (sICAM-1), interleuchina-6 (IL-6), proteina-C ad alta sensibilità (hs-CRP), molecola di adesione cellulare vascolare-1 (sVCAM- 1), E-selectina (sE-selectin). Inoltre, al basale e alla fine dello studio tutti i pazienti sono stati sottoposti a un OFL e a una tecnica di clampaggio per valutare il valore M e la richiesta totale di glucosio (TGR).
Acarbose ha dimostrato di essere migliore di placebo nel ridur- re HbA1c, FPG, PPG, HOMA-IR. Acarbose è stato anche più effi- cace nel migliorare il profilo lipidico, il valore M e TGR paragona- to a placebo. Inoltre, acarbose ha condotto a una riduzione di FPI, PPI, sICAM-1, sVCAM-1, IL-6, e hs-CRP, non registrata nel gruppo di controllo, anche se, paragonando i due gruppi, non sono state rilevate differenze significative. Durante l’OFL esegui- to dopo 7 mesi di terapia con acarbose, abbiamo registrato una diminuzione significativa di tutti i picchi dei parametri infiamma- tori rispetto all’OFL somministrato al basale.
Possiamo, quindi, concludere che acarbose è risultato essere più efficace di placebo nel migliorare il profilo lipidico e glicemi- co; in più acarbose è stato migliore nel ridurre i picchi post-OFL dei vari parametri, inclusi i marcatori infiammatori, dopo 7 mesi di terapia.
Pioglitazone paragonato a glibenclamide sul profilo lipidico e i parametri infiammatori nei pazienti diabeti- ci di tipo 2 in terapia con metformina durante un cari- co orale di grassi
Derosa G, Maffioli P, Ferrari I, Fogari E, D’Angelo A, Palumbo I, Randazzo S
Dipartimento di Medicina Interna, Clinica Medica II, Ambulatorio di Diabetologia e Malattie Metaboliche, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Università di Pavia Con il nostro studio abbiamo valutato l’effetto di pioglitazone e glibenclamide sul profilo lipidico e su diversi parametri infiam- matori in 194 pazienti diabetici di tipo 2 in terapia con metfor- mina durante un carico orale di grassi (OFL). Pioglitazone è stato titolato fino a 45 mg/die e glibenclamide fino a 15 mg/die. I pazienti sono stati sottoposti a un OFL al basale e dopo 12 mesi di trattamento, tra le 08.00 e le 09.00 del matti- no dopo 12 ore di digiuno. Abbiamo valutato i seguenti para- metri: colesterolo totale (TC), colesterolo-LDL (LDL-C), triglice-
ridi (Tg), colesterolo-HDL (HDL-C), interleuchina-6 (IL-6), pro- teina C-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP) e fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α). Durante l’OFL eseguita dopo 12 mesi di terapia TC, LDL-C e Tg sono risultati significativamente ridotti a 6 e 9 ore nel gruppo trattato con pioglitazone rispetto al gruppo trattato con glibenclamide (13 ± 5 vs 5 ± 2 mg/dl; 8 ± 3 vs 4 ± 1 mg/dl; 49 ± 11 vs 28 ± 9 mg/dl; p < 0,05 per tutti);
HDL-C è risultato significativamente aumentato con pioglitazo- ne dopo 6 ore rispetto a glibenclamide (7 ± 3 vs –2 ± 1 mg/dl;
p < 0,05). Una riduzione significativa di IL-6 è stata registrata a 3 e 6 ore con pioglitazone rispetto a glibenclamide (0,5 ± 0,1 vs 0,3 ± 0,05 pg/ml; 0,9 ± 0,4 vs 0,1 ± 0,008 pg/ml; p < 0,05 e p < 0,01 rispettivamente), mentre una significativa riduzione di hs-CRP a 6 e 9 ore è stata riscontrata nel gruppo trattato con pioglitazone rispetto a quello trattato con glibenclamide (1,1 ± 0,08 vs 0,4 ± 0,005 mg/L; 0,9 ± 0,05 vs 0,2 ± 0,001 mg/L; p < 0,01, e p < 0,05 rispettivamente). Inoltre, si è verifi- cata una significativa riduzione di TNF-α a 6 ore dall’OFL (0,9
± 0,1 vs 0,3 ± 0,05 ng/ml; p < 0,05). Sette pazienti hanno manifestato effetti collaterali durante l’OFL e tre hanno interrot- to il test. Concludendo, la terapia con pioglitazone ha mitigato le variazioni delle componenti lipidiche e i parametri infiamma- tori paragonato a glibenclamide.
Promozione dell’attività fisica nella popolazione diabe- tica della “bassa bresciana orientale”: report di un’e- sperienza personale
Desenzani P1, Orini S1, Tusi MC1, Orlandi N1, Perillo R2, Ceccardi E2, Di Stefano O1
1Ambulatioro Diabetologia e Malattie Metaboliche dell’UO Medicina Generale, PO di Montichiari; 2Associazione Diabetici della Provincia di Brescia-Sezione Nizzola Fernanda L’attività fisica (AF) rappresenta nei pazienti con diabete melli- to di tipo 1 e 2 un momento importante nella cura della malat- tia. Secondo le linee guida AMD-SID i pazienti diabetici dovrebbero svolgere regolarmente attività fisica, soprattutto di tipo aerobico, almeno per 3 volte alla settimana con sessioni di 30-40 minuti. L’AF viene univocamente considerata un eccel- lente sistema per mettere alla prova la capacità di autogestio- ne della malattia. La pratica sportiva consapevolmente intra- presa infatti “costringe” all’autocontrollo, insegna come adat- tare alternativamente insulina e apporto di carboidrati al di - spendio energetico (è quindi una valida palestra di autogestio- ne), favorisce la socializzazione, migliora l’autostima, allena a una disciplina di vita contribuendo dunque a quel saper esse- re diabetici che è il più alto gradino del processo educativo. In questo senso l’attività delle associazioni è fondamentale: nella nostra realtà il team diabetologico dell’Ambulatorio di Diabetologia e Malattie del Ricambio dell’UO di Medicina Generale del PO di Montichiari e l’Associazione Diabetici della Provincia di Brescia (ADBP)-Sezione Nizzola Fernanda stanno realizzando un progetto di promozione di tale attività fisica par- tecipando attivamente a degli eventi di “Corsa-Camminata”
promossi dai Gruppi Podistici Locali dell’Hinterland Gardesano. In data 18 aprile 2010 un gruppo di pazienti del nostro ambulatorio accompagnati dal personale sanitario dello stesso e da alcuni rappresentanti dell’Associazione hanno par- tecipato alla “XXVI Caminada Ecologica” organizzata a Montichiari dal Gruppo Podistico Monteclarense. Il nostro gruppo ha completato il percorso non competitivo di circa 6 km classificandosi al 19° posto nella classifica per gruppi. Tre nostri “atleti diabetici” si sono invece cimentati nella competi- zione agonistica riportando ottimi piazzamenti. Al fine di pro- muovere l’attività fisica come terapia non farmacologica per la
cura del diabete tutti i diabetici intervenuti all’evento hanno ricevuto in omaggio dal team diabetologico e dalla locale Sezione della ADPB un contapassi. A fronte del successo di tale iniziativa abbiamo redatto un calendario che comprende i seguenti appuntamenti per l’anno 2010: camminata a Calcinato il 24 settembre, a Carpenedolo il 9 novembre, deno- minata “Maratonina del Basso Garda”, e a Castenedolo il 12 dicembre. Tale report vuole stigmatizzare l’importanza della collaborazione fra strutture diabetologiche, associazioni dei pazienti diabetici e realtà di gruppi sportivi già operanti nel ter- ritorio al fine di realizzare eventi congiunti volti a promuovere l’AF nella popolazione diabetica e in quella generale. L’intento per il futuro è che anche le Amministrazioni comunali, le ASL locali con il contributo dei medici di medicina generale possa- no fattivamente collaborare nella realizzazione e implementa- zione di tali progetti di promozione della salute.
Insulino-resistenza e microalbuminuria nel diabete di tipo 2: caratteristiche fenotipiche
Dodesini AR, Corsi A, Lepore G, Nosari I, Trevisan R Unità di Struttura Complessa di Diabetologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
La microalbuminuria (MA) nei diabetici di tipo 2 (DMT2) si asso- cia a una maggiore insulino-resistenza (IR) e comporta un più elevato rischio cardiovascolare.
Con il nostro studio abbiamo voluto valutare in una popolazione di DMT2 con MA quali caratteristiche metaboliche e cliniche fos- sero associate al grado di IR.
A 85 DMT2 (età: 59 ± 9 anni, durata diabete: 8 ± 7 anni, emo- globina glicata [A1c]: 7,3 ± 1,1%) con MA persistente (raccolte urinarie 24 ore) nonostante terapia con sartano o ACE-inibitore, oltre ai principali parametri metabolici, sono stati valutati IR con clamp euglicemico-iperinsulinemico, velocità di filtrazione glo- merulare (GFR) mediante ioexolo ev e pressione arteriosa (PA) con monitoraggio in continuo delle 24 ore.
Risultati. Nei DMT2 con MA valutati alla spiccata IR rilevata (4,4 ± 2,4 mg/kg/min - vn > 10) sono risultati associarsi (p <
0,001) BMI (r = –0,46), circonferenza vita (r = –0,35), trigliceri- di (r = –0,38), HDL colesterolo (r = 0,31), gammaGT (r = –0,46), ALT (r = –34) e GFR (r = –0,29), ma non A1c, PA e MA.
I DMT2 nel terzile con maggiore IR avevano una minore dura- ta di diabete (6,2 ± 0,9 anni) rispetto a quelli del terzile con minore IR (10,9 ± 1,5; p < 0,01) e la prevalenza di malattia car- diovascolare (in anamnesi storia di IMA, TIA, ICTUS cerebri o rivascolarizzazioni) era significativamente maggiore nel terzile con maggiore IR (25%) rispetto al terzile con minore IR (10%).
All’analisi multivariata (F = 14,8; p < 0,0001) BMI, gammaGT e HDL colesterolo sono risultati i soli predittori significativi indi- pendenti dell’IR.
Conclusioni. L’insulino-resistenza nei diabetici di tipo 2 con microalbuminuria si associa alle tipiche caratteristiche della sindro- me metabolica. L’assenza di relazione con l’entità della microalbu- minuria e la relazione inversa con la durata di diabete fanno ritene- re che l’insulino-resistenza preceda la comparsa di microalbuminu- ria, contribuendo al maggior rischio cardiovascolare precocemen- te presente nei diabetici di tipo 2 con microalbuminuria.
Alterazione della secrezione e della sensibilità insulini- ca in pazienti affetti da cirrosi epatica candidati a tra- pianto d’organo
Grancini V1, Orsi E1, Boselli L2, Agnelli F3, Lunati ME1, Palmieri E1, Beck-Peccoz P1, Bonadonna R2
1UO Endocrinologia e Diabetologia, Fondazione IRCCS Ca’
Granda, Ospedale Maggiore Policlinico; 2Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Verona; 3UO Chirurgia Generale e dei Trapianti, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico
L’incidenza di anomalie dell’omeostasi glucidica in pazienti affet- ti da cirrosi varia dal 60 all’80% e quella di diabete mellito di tipo 2 (DM2) dal 20 al 60%. Lo sviluppo del DM2, che può essere considerato un indice di epatopatia avanzata, è più frequente nelle forme da alcol, epatite C, emocromatosi e NASH. Scopo del nostro lavoro era valutare, in una popolazione di pazienti cir- rotici candidati a trapianto e con storia negativa per alterazioni del metabolismo glucidico: (1) la prevalenza di DM2 e pre-DM (IFG o IGT) mediante OGTT; (2) la funzione beta-cellulare (OGTT analizzato con modello matematico ad hoc), ulteriormente distinta in secrezione basale, prima fase o controllo derivativo (DC, mediana [range interquartile]; unità [pmol × m-2BSA]/[mM
× min-1]) e seconda fase o controllo proporzionale (PC; espres- so come curva stimolo-risposta della secrezione insulinica a gli- cemie di 5,5, 8,0, 11,0, 15,0 e 20,0 mM; unità: pmol × min-1 × m-2BSA); e (3) la resistenza insulinica mediante HOMA-IR. Sono stati studiati 42 pazienti, 24 M/18 F, di età 52 ± 10 anni, affetti da epatopatia cronica in stato avanzato (HCV+ n = 25), con valori di glicemia a digiuno (91,1 ± 6,1) e HbA1c(5,2 ± 1,3) nella norma. I risultati hanno mostrato un’alta prevalenza di DM2 o pre-DM (90,5%), più elevata rispetto a casistiche precedenti. I pazienti con DM2, confrontati con i soggetti con pre-DM, mostravano un deficit sia del DC (616,1 ± 525 vs 1846,6 ± 1034; p < 0,01) sia del PC (251,7 ± 124, 258,2 ± 128, 344,3 ± 170, 533,2 ± 303, 846,4 ± 494 vs 159,4 ± 92, 193,2 ± 112, 445,5 ± 135, 782,5 ± 214, 1231,8 ± 362; p < 0,01) della funzio- ne beta-cellulare. Infine, i pazienti HCV+ presentavano ridotta funzione beta-cellulare, in particolare per quanto riguarda il DC, e HOMA-IR più elevato (5,4 ± 3,6 vs 3,3 ± 2,3; p < 0,04) rispet- to ai soggetti HCV–.
Conclusioni. Nei pazienti cirrotici candidati a trapianto: 1. esi- ste un’elevata prevalenza di DM2, associata a deficit di funzione beta-cellulare; 2. i soggetti HCV+ hanno un deficit di funzione beta-cellulare, possibile conseguenza di pregresse terapie e/o di un effetto dell’infezione virale, che potrebbe rendere conto del loro aumentato rischio di diabete.
La terapia insulinica con microinfusore: efficacia clini- ca e sicurezza in una larga casistica di pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1
Inversini C, Zarra E, Agosti B, Cimino E, Rocca L, Cimino A, Girelli A, Valentini U
UO di Diabetologia, Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia
La terapia insulinica sottocutanea continua mediante microinfu- sore (CSII, continuous subcutaneous insulin infusion) in pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 è in continua espansione e attualmente viene considerata il gold standard della terapia insu- linica intensiva.
Scopo di questo lavoro è stato descrivere le caratteristiche clinico- metaboliche e valutare l’efficacia clinica e la sicurezza a medio- lungo termine della CSII in un’ampia popolazione di pazienti dia- betici di tipo 1 adulti. Presso l’UO Diabetologia degli Spedali Civili di Brescia al giugno 2009 erano seguiti 165 pazienti in CSII (17,1% dei diabetici di tipo 1 totali): sono stati esclusi dall’osser- vazione i pazienti che hanno posizionato CSII dopo il gennaio 2009 o in un altro centro, le pazienti che hanno posizionato CSII
per programmazione/gravidanza già in atto e l’hanno mantenu- to per meno di un anno, i pazienti con microinfusore a flusso basale unico. Gli 86 pazienti così selezionati sono stati monito- rati per un periodo medio di 5,2 ± 3,0 anni (range 1-14) per un totale di 443 anni osservati. Nella tabella sono riportate le carat- teristiche clinico-metaboliche dei pazienti al momento dell’os- servazione.
Numero 86
M/F 35/51
Età all’inizio CSII (anni, M ± DS) 37,9 ± 10,3 Durata di malattia al momento del
posizionamento CSII (anni, M ± DS) 16,1 ± 10,4 Durata media di CSII (anni, M ± DS)
al giugno 2009 5,2 ± 3,0
BMI (kg/m2, M ± DS) 23,6 ± 3,15
HbA1c(mg/dl, M ± DS) 7,95 ± 1,05
Fabbisogno insulinico (UI/kg/die, M ± DS) 0,71 ± 0,24 Colesterolo totale (mg/dl, M ± DS) 188 ± 31 Colesterolo HDL (mg/dl, M ± DS) 63 ± 18
Trigliceridi (mg/dl, M ± DS) 89 ± 60
Pressione arteriosa sistolica (mmHg, M ± DS) 125,7 ± 12,5 Pressione arteriosa diastolica (mmHg, M ± DS) 76,3 ± 6,4 Insulina rapida pre CSII
(% regolare/analogo rapido) 23,1/76,9
Insulina lenta pre CSII (% NPH/analogo) 51,8/48,2
Retinopatia (%) 44,2
Microalbuminuria (%) 11,6
Macroalbuminuria (%) 5,8
Insufficienza renale (%) 1,2
Neuropatia (%) 34,9
Macroangiopatia (%) 4,7
Ipertensione arteriosa (%) 22,0
La maggior parte dei pazienti (70, pari a 81,4%) ha iniziato la terapia per migliorare il controllo metabolico, 8 pazienti (9,3%) per avere più flessibilità nello stile di vita, 6 pazienti (7,0%) per ipoglicemia grave, 2 pazienti (2,3%) per la presenza di compli- canze. Al momento dello studio tutti i pazienti utilizzavano aghi in teflon. I pazienti cambiavano mediamente l’ago ogni 3 giorni, il catetere e la siringa ogni 5 giorni. Al momento dello studio nes- sun paziente utilizzava insulina regolare, 63 pazienti (73,3%) insulina lispro, 20 (23,2%) insulina aspart, 3 (3,5%) insulina gluli- sina. Al momento dell’osservazione, l’81,5% dei pazienti mante- neva continuativamente la terapia con il microinfusore durante tutto l’anno. Il 92,9% dei pazienti applicava nella pratica quotidia- na il conteggio dei carboidrati e il 62,4% utilizzava algoritmi cor- rettivi per valori di glicemia al di fuori dal target fissato; il numero di determinazioni quotidiane capillari della glicemia era di 5,2 ± 1,9 (range 2-10). I pazienti usufruivano mediamente di 4,1 visi- te/anno presso il nostro centro. Nell’anno precedente all’inizio della terapia, l’HbA1cmedia era pari a 7,95 ± 1,05 mg% (range 5,3-11,3); nel primo anno di terapia era diminuita a 7,63 ± 0,76 mg% (range 6,1-9,9). Stratificando i pazienti in funzione del valo- re di HbA1c, non abbiamo registrato variazioni per i pazienti (32) che avevano un’HbA1c di partenza inferiore a 7,5%, mentre abbiamo registrato un calo nei pazienti con HbA1ciniziale com- presa tra 7,5% e 8,5% o maggiore/uguale a 8,5%. Il BMI inizia- le era pari a 23,6 ± 3,15 kg/m2e si è mantenuto stabile per i primi 5 anni di osservazione. Il fabbisogno di insulina è diminuito da
0,71 ± 0,24 U/kg/die a 0,59 ± 0,16 U/kg/die nel primo anno di terapia e non è variato negli anni successivi. Il 26,3% dei pazien- ti aveva avuto ipoglicemie gravi prima del posizionamento del microinfusore e si è ridotto al 16,3% nel periodo di osservazione successiva; per la chetoacidosi abbiamo registrato una riduzio- ne dal 13,6% all’8,6% (dato riferito a 80 pazienti). Prima di inizia- re la CSII, 29 pazienti (33,7%) avevano una diagnosi di retinopa- tia e 14 di nefropatia (16,3%) (9 pazienti microalbuminurici, 6 macroalbuminurici) che si sono mantenute stabili. Abbiamo regi- strato 7 casi di retinopatia insorta dopo posizionamento del microinfusore su 301 anni complessivi di osservazione.
Quest’analisi retrospettiva indica che la CSII mantiene o miglio- ra il controllo metabolico nei pazienti diabetici di tipo 1, asso- ciandosi a un decremento del rischio di chetoacidosi e ipoglice- mia grave.
Efficacia di un programma di trattamento nutrizionale del diabete gestazionale
Marelli G, Vilei V, Andrioli M, Colombo E, De Luca E, Galimberti C
UO Diabetologia e Malattie Metaboliche, Ospedale di Desio (MB)
Nel nostro ospedale è attivo dal 2000 un programma per la gestione del diabete gestazionale (GDM). Il programma prevede uno stretto controllo nutrizionale con incontri periodici per tutta la durata della gravidanza finalizzato all’ottenimento del miglior controllo metabolico. La nostra casistica attuale è di 745 donne (età media 33,11 ± 4,57 anni) con diagnosi di GDM osservate presso il nostro ambulatorio nel periodo gennaio 2000-aprile 2010. Di queste i dati completi si riferiscono a 685 donne con età media di 33,16 ± 4,49 anni. Solo 17 donne su 685, pari al 2,5% hanno avuto bisogno del passaggio alla terapia insulinica.
L’intervento nutrizionale è avvenuto in media alla 29,7 ± 4,03 settimana di gestazione.
Il peso pregravidico medio era di 66,97 ± 14,63 kg mentre il peso finale medio è stato di 78,02 ± 14,19 kg, con un incremen- to totale pari a 11,06 ± 4,92 kg.
La valutazione del peso in base al momento dell’intervento nutri- zionale ha dato i seguenti risultati:
– incremento ponderale prima dell’intervento nutrizionale
= 9,30 ± 4,64 kg
– incremento ponderale dopo l’intervento nutrizionale
= 1,77 ± 2,39 kg
Il peso neonatale medio è stato di 3,34 ± 0,49, mentre i neona- ti macrosomici (peso neonatale > 4 kg) sono stati 64/677, pari al 9,4%.
I risultati di questo lavoro mostrano come un programma di intervento nutrizionale sia in grado di determinare un significati- vo contenimento dell’incremento ponderale e una bassa per- centuale di casi in cui si è resa necessaria la terapia insulinica e di neonati macrosomici.
Outcome assistenziali e clinici di un protocollo assi- stenziale per il paziente diabetico ricoverato per sin- drome coronarica acuta
Marelli G1, Avanzini F2, Vilei V1, Bellato L1, Fedeli M1, Merlini A1, Pinelli G1
1UO Diabetologia e Malattie Metaboliche; 2UO Cardiologia, Ospedale di Desio (MB)
All’interno di un protocollo per la gestione dell’iperglicemia nel
paziente diabetico in corso di sindrome coronarica acuta (SCA) denominato OCTOPUS (Organizzazione e ottimizzazione delle Cure in Team per il miglioramento degli Outcome nei Pazienti con iperglicemia ricoverati in Utic-cardiologia per Sindrome coronarica acuta) abbiamo valutato una casistica di 230 pazien- ti (157 maschi e 73 femmine) avviati a un percorso assistenziale caratterizzato da incontri periodici di valutazione clinica e gestio- nale (dopo 1 settimana, 1 e 3 mesi dalla dimissione ospedalie- ra), terapia educazionale per gli aspetti gestionali e nutrizionali della malattia diabetica.
I risultati del nostro studio sono riportati nella seguente tabella.
Tappe del percorso Numero/Totale %
Verifica e/o addestramento
gestione della malattia diabetica 230/230 100
Visita 1asettimana 211/230 91,7
Visita 1° mese 225/230 97,8
Visita 3° mese 225/230 97,8
Il valore medio dell’emoglobina glicata misurato all’ingresso in ospedale è risultato di 7,7% ± 1,8 DS mentre alla visita del 3°
mese il valore medio è risultato 6,5% ± 1,0 DS con una differen- za statisticamente significativa. Anche il peso e il BMI medio hanno mostrato significative riduzioni durante il percorso assi- stenziale: il peso è passato da 76,6 kg ± 14,0 a 74,7 kg ± 14,6 e il BMI da 27,9 ± 4,8 a 27,1 ± 5,2.
L’applicazione di un percorso assistenziale caratterizzato da una continuità di cura dal ricovero al controllo ambulatoriale compor- ta un miglioramento significativo dei parametri metabolici della malattia diabetica.
Opzioni di trattamento nel diabete mellito di tipo 2 all’esordio clinico con severa iperglicemia
Mirani M, Radaelli MG, Badalamenti S, Berra C
Dipartimento di Medicina Interna, Istituto Clinico Humanitas, IRCCS, Rozzano (MI)
I risultati di grandi trial recenti (ACCORD, ADVANCE, VADT) hanno dimostrato la necessità di individualizzare i target glicemi- ci, e di conseguenza i trattamenti terapeutici, per migliorare gli outcome clinici e ridurre il rischio di effetti indesiderati (ipoglice- mie e incremento ponderale).
La scelta terapeutica si pone in particolare di fronte al diabete di tipo 2 all’esordio clinico con iperglicemia severa. È preferibile ini- ziare subito una terapia insulinica oppure i farmaci orali sono altrettanto efficaci? Esistono differenze a medio termine tra i due approcci? Per rispondere a tali domande abbiamo condotto uno studio prospettico osservazionale su pazienti ricoverati in un reparto di medicina per iperglicemia, arruolando quelli con una diagnosi alla dimissione di diabete di tipo 2 di primo riscontro (autoanticorpi negativi, non chetosi).
I pazienti sono stati sottoposti a follow-up clinico di almeno 6 mesi, separati in base alla terapia prescritta alla dimissione:
insulina (INS) o ipoglicemizzanti orali (IPO). Nei due gruppi sono stati valutati la glicemia e l’HbA1call’esordio e a 6 mesi, il BMI alla diagnosi, i giorni di degenza.
Si sono ottenuti due gruppi omogenei per numero ed età (16 pz INS e 14 pz IPO, età 59 e 57 anni rispettivamente). Non si sono osservate differenze significative in termini di grado di scompen- so glicemico al momento del ricovero tra i due gruppi (INS vs IPO: glicemia 439 vs 435 mg/dl, ns; HbA1c13,5 vs 12,2%, ns).
Viceversa nel gruppo IPO rispetto al gruppo INS il BMI alla