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Ammaestrare e predicare a Firenze nel Trecento. Studi sull educazione religiosa in volgare

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Academic year: 2022

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UNIWERSYTET WARSZAWSKI Wydział Neofilologii

Piotr Białecki

Ammaestrare e predicare a Firenze nel Trecento.

Studi sull’educazione religiosa in volgare

ROZPRAWA DOKTORSKA w dziedzinie nauk humanistycznych

w dyscyplinie literaturoznawstwo

Rozprawa wykonana pod kierunkiem prof. dr hab. Haliny Manikowskiej Instytut Historii Polskiej Akademii Nauk

Warszawa 2021

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Streszczenie

Niniejsza rozprawa doktorska z zakresu literaturoznawstwa jest poświęcona zjawisku edukacji religijnej w języku volgare w XIV-wiecznej Florencji. Najważniejszym, choć nie jedynym, celem dysertacji jest zbadanie mechanizmów przekazu religijnego oraz jego recepcji. Wraz z narodzinami zakonów żebraczych (dominikanów, franciszkanów) w XIII wieku, w kulturze religijnej średniowiecza przeszły zasadnicze przemiany. Przedstawiciele nowych zakonów skupili swoją działalność przede wszystkim na kaznodziejstwie i nauczaniu ludzi świeckich. W czternastowiecznej Toskanii język volgare zastąpił w istocie łacinę jako język komunikacji Kościoła z wiernymi. Nauczanie religijne w języku rodzimym doprowadziło do bezprecedensowego podniesienia wiedzy religijnej świeckich. Praca składa się z trzech głównych części podzielonych na rozdziały. W pierwszej części zajmiemy się traktatem „Lo specchio della vera penitenzia”

(„Zwierciadło prawdziwej pokuty”), autorstwa florenckiego dominikanina Iacopo Passavantiego.

Druga, najdłuższa, część pracy jest poświęcona poecie i noweliście Franco Sacchettiemu. Głównym przedmiotem naszych dociekań będzie dzieło Sacchettiego „Sposizioni di vangeli” („Objaśnienia do ewangelii”), wyjątkowy zbiór kazań wielkopostnych ułożonych przez osobę świecką. W trzeciej części rozprawy zastanowimy się nad motywem mocy słowa w literaturze dominikańskiej i w nowelistyce. Nasze rozważania są umieszczone w kontekście badań nad kaznodziejstwem, kulturą religijną średniowiecza i historią literatury włoskiej.

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INDICE

INTRODUZIONE...1

I. IACOPO PASSAVANTI MAESTRO DI FEDE...9

1. Iacopo Passavanti e la virtù della penitenza...9

2. La paura dell’inferno o la paura dell’ignoranza? Strategie pedagogiche ne Lo specchio della vera penitenzia...13

a. La «musa del terrore»: il predicatore, la morte e il diavolo...13

I) La paura come incitamento alla penitenza...16

II) La paura come impedimento alla penitenza...20

III) La contrizione e l’attrizione...24

b. L’ignoranza e la reiterazione della confessione...28

II. FRANCO SACCHETTI PREDICATORE...40

1. Le Sposizioni di vangeli e la predicazione tardomedievale...40

a. Le angosce di un poeta fiorentino...40

b. Le Sposizioni di vangeli al vaglio della critica...54

c. Franco Sacchetti predicatore?...60

2. Predicare la pace...66

a. «La via del mezzo»...66

b. «Questa storia tra lo ‘ntelletto, volontà e memoria»: i percorsi delle potenze dell’anima....77

c. «Quando s’accorda al bene l’uno con l’altro»: l’agostinismo di Sacchetti?...90

d. Le quattro battaglie e i tre diletti: gli exempla delle Sposizioni...105

I) Giugurta...108

II) Sardanapalo...112

III) Piramo e Tisbe...115

e. Conclusione...119

3. Sacchetti, Dante e la soteriologia...131

a. «E non dice Dante...?»: la salvezza dei pagani e il grande scisma d'Occidente...131

b. «Ma vuolsi sporre che...»: Sacchetti commentatore di Dante?...143

III. LA «VIRTÙ DELLA PENITENZA» E LA «VIRTÙ DELLA PAROLA»: IL POTERE DELLA oooPAROLA DAI PREDICATORI DOMENICANI A FRANCO SACCHETTI...155

CONCLUSIONI...190

BIBLIOGRAFIA...193

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INTRODUZIONE

«Il diavolo induce a fermare le torrenti della dottrina», scriveva il quinto maestro generale dell’ordine domenicano Umberto di Romans (m. 1277), «ma Dio manda i suoi predicatori per far scorrere l’acqua»1. L’affermazione di Umberto è espressione di autocoscienza intellettuale delle prime generazioni dei domenicani, che consideravano lo studio e la predicazione come elementi essenziali della loro esperienza spirituale. La cultura religiosa medievale subì una profonda trasformazione nel XIII secolo, quando gli ordini mendicanti, soprattutto i francescani e i domenicani, elaborarono un nuovo modello di cura pastorale, più attento alle esigenze spirituali, sempre maggiori, dei fedeli. L’azione pastorale dei frati mendicanti si incentrò proprio sulla predicazione e sull’educazione religiosa dei laici2. Nell’Italia centro-settentrionale (in particolare in Toscana) già all’inizio del XIV secolo il volgare soppiantò il latino e diventò lo strumento principale della comunicazione religiosa con i laici. Ai primi del Trecento risalgono, infatti, le reportationes dei cicli di prediche di Giordano da Pisa e i volgarizzamenti dei testi religiosi preparati dal domenicano Domenico Cavalca e i suoi collaboratori3.

La consapevolezza religiosa del laicato crebbe di pari passo con i successi pastorali degli ordini mendicanti. «Si apriva, per dir così», ha affermato Giovanni Miccoli, «una reazione a catena:

strati sempre più larghi del laicato cominciarono a leggere, a riflettere, a pensare, a misurarsi con una tradizione»4. In una società largamente alfabetizzata, come quella fiorentina del XIV secolo5, molte persone, anche di modesta condizione, si sentirono autorizzate a prendere la parola, discutere

1 «Hoc diabolus maxime suadet, ut doctrinae fluenta auferantur; sed e contrario Dominus mittit praedicatores qui aquam influant», Umberto di Romans, Liber de eruditione praedicatorum [= De eruditione praedicatorum], I, Cap.

III, in: B. Humberti de Romanis Opera de vita regulari, vol. II, a cura di J. J. Berthier, Roma, Befani, 1889, p. 379.

Ho consultato inoltre l’edizione polacca: Humbert z Romans, O głoszeniu i słuchaniu słowa Bożego, przeł. W.

Szymona OP, Poznań, W drodze, 2017. Nella prima parte della frase, Umberto cita la Glossa ordinaria (Idt 7, 7):

«Hoc enim maxime diabolus studet ut doctrine fluenta et virtutum arma auferat» (Glossae Scripturae Sacrae- electronicae (Gloss-e), disponibile sul sito: <https://gloss-e.irht.cnrs.fr/>).

2 Cfr. G. Miccoli, La storia religiosa, in: Storia d’Italia, II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1974, pp. 429-1079, in particolare si veda il capitolo Gli ordini mendicanti e la vita religiosa dei laici, pp.

793-875; G. Barone, Gli ordini mendicanti, in: Storia dell’Italia religiosa, vol. 1, L’Antichità e il Medioevo, a cura di A. Vauchez, G. De Rosa, T. Gregory, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 347-373.

3 L’argomento verrà affrontato in modo approfondito nel corso delle nostre indagini. Per una rassegna di temi fondamentali cfr. M. Petrocchi, Scrittori di pietà nella spiritualità toscana e italiana del Trecento, “Archivio Storico Italiano”, 125/1, 1967, pp. 3-33; C. Delcorno, Predicazione volgare e volgarizzamenti, “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes”, 89/2, 1977, pp. 679-689.

4 Miccoli, La storia religiosa, p. 801.

5 Cfr. R. Black, Education and Society in Florentine Tuscany. Teachers, Pupils and Schools, c. 1250-1500, Leiden- Boston, Brill, 2007.

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e scrivere di religione. Il celonaio6 fiorentino Agnolo Torini, membro di diverse confraternite e autore di meditazioni bibliche, è un personaggio che esemplifica tale atteggiamento. Prendiamo in esame un passo della sua opera, in cui vengono dichiarate le sue intenzioni:

mi dispuosi, quanto possibile mi fosse, a mostrare per lo presente brieve trattato quanto sia la miseria della umana condizione dal suo origine al suo fine, acciò che io principalmente e li altri ambiziosi ignoranti di nostra reputazione ci riconosciamo e consideriamo, il nostro errore amendando, però che neuno, quantunque grande, ha materia d’insuperbire7.

L’autodefinizione di Torini come «ambizioso ignorante» è di particolare interesse. Oltre che un semplice ricorso al topos modestiae, è una conferma delle sue aspirazioni intellettuali e del desiderio di insegnare. I predicatori domenicani si mossero fin da subito contro quegli «ambiziosi ignoranti», i quali in realtà non erano altri che i loro stessi allievi. Domenico Cavalca, ad esempio, denunciava in modo chiaro proprio l’ignoranza dei laici che vogliono insegnare agli altri:

Dico adunque primieramente che l’appetito del magisterio, o vogliam dire di essere maestro, è da riprendere per l’ignoranza di colui che vuole insegnare ad altri, e a ciò non è sufficiente, che, come dicono S. Girolamo e Gregorio: Niun presuma di dirsi maestro, nè anche di qualunque arte si sia più vile, se prima diligentemente non l’impara. Ma dell’arte dell’insegnare e curar l’anime, la quale è la maggiore che sia, ogni vecchierella e idiota si fa maestro8.

Cavalca si riferisce alla definizione della cura pastorale come «ars artium» (risalente a Gregorio Magno e ripresa dal Concilio Lateranense IV9), un’arte, quindi, che non può essere esercitata senza adeguata preparazione e formazione10. La nostra ricerca è diretta a studiare i fenomeni che si collocano all’intersezione di queste due dinamiche. Lo scopo che ci prefiggiamo è quello di individuare e analizzare alcuni temi dominanti nel discorso pastorale11 del XIV secolo, nonché

6 Facitore, venditore di celoni, ovvero panni di tessuto pesante.

7 Agnolo Torini, Brieve collezzione della miseria della umana condizione, in: I. Hijmans-Tromp, Vita e opere di Agnolo Torini, Leiden, Universitaire Pers Leiden, 1957, p. 225.

8 Domenico Cavalca, Disciplina degli spirituali col Trattato delle trenta stoltizie, a cura di G. Bottari, Milano, Silvestri, 1838, Cap. VI, p. 41.

9 «Cum sit ars artium regimen animarum, districte praecipimus, ut episcopi promovendos in sacerdotes diligenter instruant et informent», Concilio Lateranense IV, 27, De instructione ordinandorum (Dokumenty soborów powszechnych, tom II, układ i opracowanie A. Baron, H. Pietras SJ, Kraków, Wydawnictwo WAM, 2007, p. 267).

10 Su questo argomento vedi infra, p. 61.

11 Il termine «discorso pastorale» (pastoral discourse) è più spesso usato negli studi anglosassoni, che in quelli italiani. Con questo termine ci riferiamo ai temi e ai concetti espressi nella predicazione, nei trattati morali e dottrinali, oppure in quei testi che Leonard Boyle ha definito come pastoralia (manuali di cura pastorale, raccolte di exempla ecc.). Cfr. J. Goering, Leonard E. Boyle and the Invention of Pastoralia, in: A Companion to Pastoral Care in the Late Middle Ages (1200-1500), ed. R. J. Stansbury, Leiden-Boston, Brill, 2010, pp. 7-20.

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quello di esaminare la ricezione e la trasformazione del messaggio religioso da parte dei fedeli.

Dobbiamo tenere presente che le parole dei predicatori non cadevano nel vuoto. Al contrario, come ha osservato di recente la studiosa della cultura religiosa medievale Isabella Gagliardi, la pastorale dei mendicanti può in effetti essere considerata «un veicolo dell’acculturazione dei fiorentini vissuti nel Medioevo»12. Nella sua caratteristica della predicazione nella Firenze del Basso Medioevo, Gagliardi ha sottolineato il fatto che il modello di pietà e di pratica religiosa proposto ai fedeli portò di conseguenza a una maggiore consapevolezza delle carenze pastorali del clero:

La qualità teologica dei sermoni, la reiterata insistenza con la quale si spronavano i laici e le laiche dell’epoca a prendere contatto diretto e personale con la Scrittura, a compulsarla, a goderne cercandovi anche il messaggio individuale e personalizzato di Dio alla singola creatura umana, se elevarono lo status culturale dei fiorentini, li resero al contempo anche maggiormente permeabili al non conformismo o all’esercizio attivo della critica salace nei confronti di quella Chiesa che non sapeva dimostrarsi all’altezza delle aspettative13.

Tale ricostruzione del fenomeno della predicazione a Firenze ci suggerisce due domande di ricerca fondamentali: (1) in che cosa consistevano l’individualizzazione e la personalizzazione delle pratiche religiose proposte dai predicatori?; (2) che cosa suscitava preoccupazione e perplessità nei fedeli, e che cosa li spronava a manifestare la critica nei confronti della Chiesa?

Gli studi sulla predicazione medievale (e sui fenomeni collegati, come la confessione) hanno avuto uno sviluppo senza precedenti a partire dagli anni Settanta del Novecento14. In quel periodo, la predicazione ha smesso di essere considerata una semplice miniera di informazioni sulla Chiesa medievale; l’interesse degli studiosi si è spostato, invece, verso l’analisi della predicazione in quanto un sistema di comunicazione, si è prestata maggiore attenzione al pubblico dei predicatori (negli studi anglosassoni definito con il termine audience; sotto questo aspetto è emblematico il titolo della raccolta di studi Preacher, Sermon and Audience), si è, infine, riflettuto sull’efficacia delle strategie usate dai predicatori per persuadere il pubblico15. Nella nostra ricerca ci interesseremo proprio alle tecniche e alle strategie persuasive di quello che si potrebbe definire

12 I. Gagliardi, Coscienze e città: la predicazione a Firenze tra la fine del XIII e gli inizi del XV. Considerazioni introduttive, “Annali di Storia di Firenze”, 8, 2013, pp. 113-143: p. 132. Cfr. anche eadem, Dibattiti teologici e acculturazione laicale nel tardo Medioevo, “Rivista di storia e letteratura religiosa”, 39, 2003, pp. 23-65.

13 Gagliardi, Coscienze e città, pp. 132-133.

14 Cfr. The Sermon (Typologie des sources du moyen âge occidental), ed. B. M. Kienzle, Turnhout, Brepols, 2000;

Preacher, Sermon and Audience in the Middle Ages, ed. C. Muessig, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002. La bibliografia più aggiornata sulla predicazione del Basso Medioevo è quella di P. Delcorno, In the Mirror of the Prodigal Son. The Pastoral Uses of a Biblical Narrative (c. 1200-1550), Leiden-Boston, Brill, 2018.

15 Cfr. A. Thompson OP, From Texts to Preaching: Retrieving the Medieval Sermon as an Event, in: Preacher, Sermon and Audience in the Middle Ages, pp. 13-37; A. T. Thayer, Medieval Sermon Studies since The Sermon: A Deepening and Broadening Field, “Medieval Sermon Studies”, 58/1, 2014, pp. 10-27.

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come faire croire16. André Vauchez ha notato che all’inizio del XIII secolo la cultura religiosa del Medioevo subì una trasformazione radicale: da allora in poi «non bastava più solo credere, ma bisognava credere bene e agire bene»17. Come sosteneva Vauchez, all’origine di quella trasformazione non vi fu la riforma delle strutture ecclesiastiche, bensì la nascita di un nuovo concetto di parola, «una valorizzazione della parola come strumento di mediazione e di seduzione»18. Lo sforzo catechistico, il desiderio di divulgare (ma anche di volgarizzare) la dottrina teologica e di promuovere modelli di comportamento, erano pertanto elementi fondamentali dell’azione pastorale dei mendicanti nel Trecento.

Il punto di partenza per chi si accinge allo studio dei fenomeni relativi all’educazione religiosa del Tre e Quattrocento in Italia sono i numerosi lavori di Carlo Delcorno sulla predicazione (in particolare quella di Giordano da Pisa e quella di Bernardino da Siena), sui volgarizzamenti di Domenico Cavalca, sull’agiografia, sulla tradizione dell’exemplum. Non meno importanti sono gli studi condotti da Roberto Rusconi sui francescani, sulla predicazione, sul sacramento della penitenza, sulle attese apocalittiche19. Meritano, inoltre, particolare attenzione le monografie di Lina Bolzoni sul ruolo delle immagini e della memoria nella predicazione in volgare20, di Timothy Kircher sul rapporto tra la cultura umanistica e la letteratura dei mendicanti21, e di Eliana Corbari sul pubblico femminile dei predicatori domenicani22. Lo studio di Wojciech Brojer Diabeł w wyobraźni średniowiecznej (Il diavolo nell’immaginario medievale)23, anche se tratta degli exempla latini del XIII secolo, si è rivelato di vitale importanza per l’impostazione della presente tesi.

La nostra tesi è basata su fonti edite. In primo luogo, saranno prese in esame le opere di carattere pastorale, prodotte nella Toscana del Trecento. Si tratterà, per lo più, di testi assai noti, che

16 Mi riferisco alla raccolta di studi Faire croire. Modalités de la diffusion et de la réception des messages religieux du XIIe au XVe siècle. Actes de table ronde de Rome (22-23 juin 1979), éd. A. Vauchez, Rome, École Française de Rome, 1981.

17 «Il ne suffit plus de croire: il faut encore bien croire et bien agir» (A. Vauchez, Présentation, in: Faire croire, p. 16).

18 «Il s’agit plutôt d’une mutation fondamentale de la catéchèse fondée sur une valorisation de la parole comme instrument de médiation et de séduction» (ivi, p. 11).

19 Gli studi di Carlo Delcorno e Roberto Rusconi saranno più volte citati in questa sede. Per la bibliografia degli scritti di Delcorno si veda idem, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, Firenze, Olschki, 2009.

L’elenco delle pubblicazioni di Rusconi può essere consultato sul sito:

<https://www.academia.edu/29072466/Roberto_Rusconi_Elenco_delle_pubblicazioni>.

20 L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002.

21 T. Kircher, The Poet’s Wisdom. The Humanists, the Church, and the Formation of Philosophy in the Early Renaissance, Leiden-Boston, Brill, 2006.

22 E. Corbari, Vernacular Theology. Dominican Sermons and Audience in Late Medieval Italy, Berlin-Boston, De Gruyter, 2013.

23 W. Brojer, Diabeł w wyobraźni średniowiecznej. Trzynastowieczne exempla kaznodziejskie, Wrocław, Wydawnictwo Uniwersytetu Wrocławskiego, 2003.

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hanno un posto sicuro nell’ambito della storia della letteratura italiana, ma che non sono stati studiati a fondo, oppure sono stati spesso descritti in modo poco soddisfacente dal punto di vista della storia religiosa del Medioevo. Quel vasto campo sarà rappresentato nel nostro caso dalla letteratura domenicana. Gli autori domenicani di cui ci occuperemo in modo particolare sono:

Giordano da Pisa (ca. 1260-1311), Domenico Cavalca (ca. 1270-1342) e Iacopo Passavanti (ca.

1302-1357). Le loro opere in volgare (prediche, trattati, volgarizzamenti) saranno interpretate sullo sfondo della produzione ecclesiastica mediolatina e, se necessario, confrontate con la letteratura per i confessori (summae confessorum) e quella per i predicatori (artes praedicandi, raccolte di exempla), con le fonti canoniche, con i trattati teologici della Scolastica. La scelta dei testi domenicani toscani è motivata dalla loro situazione editoriale, dalla quantità di studi già condotti, ma anche dalla loro prevalenza numerica sui testi (superstiti) di origine francescana o agostiniana24. Ma ancora più rilevante sembra il fatto che tutti i tre autori, nonostante la comune formazione, propongono diversi modelli di educazione religiosa. Giordano, nelle sue prediche in volgare, intende divulgare la dottrina filosofica e teologica di stampo aristotelico-tomista. Domenico Cavalca, autore tra l’altro del volgarizzamento delle Vitae Patrum, è interessato a recuperare le forme spirituali della Patristica e del monachesimo antico. Iacopo Passavanti (come Giordano, studente di teologia a Parigi), nel suo trattato Lo specchio della vera penitenzia, attualizza la dottrina penitenziale del XIII secolo, da una parte per renderla conforme al pensiero di San Tommaso, dall’altra per avvicinarla alla realtà segnata da uno scontro istituzionale all’interno della Chiesa.

Il titolo della tesi («Ammaestrare e predicare») è desunto, con una lieve modifica, da Lo specchio della vera penitenzia. Iacopo Passavanti nel prologo allo Specchio dichiarava di aver composto il trattato in volgare per i laici e in latino per i chierici:

porgo la mano collo ingegno a scrivere e per volgare, come fu principalmente chiesto, per coloro che non sono litterati, e in latino per li chierici, a’ quali potrà esser utile e per loro e per coloro i quali egli hanno amaestrare o predicando, o consigliando, o le confessioni udendo25.

L’ammaestramento dei frati assumeva nel Trecento diverse forme (predicazione, direzione spirituale, ascolto delle confessioni), ma va sottolineato che la predicazione in volgare rimaneva uno strumento privilegiato della comunicazione religiosa.

24 Gagliardi, Coscienze e città, p. 131.

25 Iacopo Passavanti, Lo Specchio della vera penitenzia [= Specchio], a cura di G. Auzzas, Firenze, Accademia della Crusca, 2014, Prolago, p. 212. Sulla doppia redazione dello Specchio vedi qui, p. 11.

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Eliana Corbari ha suggerito che Iacopo Passavanti distingueva nettamente due tipi di insegnamento teologico: quello latino, dotto e destinato ai chierici, e quello volgare (vernacolare), più accessibile e rivolto ai laici26. La studiosa ha proposto di denominare questo secondo tipo

«teologia vernacolare» (vernacular theology). Nella sua definizione, la teologia vernacolare si origina da un processo di «democratizzazione e secolarizzazione»27 dell’educazione cristiana, ed è

«una tradizione, che ha esistito parallelamente alle più note teologie del Medioevo, quella scolastica e quella monastica, ed era aperta e influenzata in modo particolare dalle donne»28. Tale modo di concettualizzazione dei fenomeni relativi all’educazione cristiana, caratterizzato da una rigida (e insuperabile) distinzione tra la teologia scolastica e l’insegnamento in volgare, desta non pochi dubbi e sarà per questo motivo oggetto della nostra riflessione. Una delle questioni che saranno affrontate nel corso della ricerca, riguarda proprio i meccanismi della traduzione (volgarizzamento), attivi nel passaggio dalla cattedra al pulpito, cioè dall’elaborazione scolastica in latino all’ammaestramento in volgare.

In secondo luogo, ci occuperemo della produzione poetica e prosastica di Franco Sacchetti (1332-1400). Sacchetti, nel passato considerato autore “minore”, ha goduto di una notevole fortuna critica negli ultimi decenni, ma le sue opere, in sostanza, non sono state studiate nel contesto della cultura religiosa della Firenze della seconda metà del XIV secolo. La mole degli studi su Sacchetti è imponente, ma l’opera che sarà oggetto delle nostre indagini, Sposizioni di vangeli, non ha attirato la stessa attenzione degli studiosi. Le Sposizioni sono una particolare raccolta di prediche quaresimali, composte da un laico (in tutti i sensi del termine) qual era Sacchetti. La nostra analisi si concentrerà quindi sui legami tra la sua produzione letteraria e il discorso pastorale trecentesco. Al contempo, le opere di Sacchetti (componimenti poetici, le Sposizioni di vangeli, la raccolta Trecentonovelle) saranno collocate su uno sfondo più vasto della cultura letteraria del Trecento. I due punti costanti di riferimento saranno pertanto la Commedia dantesca e il Decameron di Boccaccio.

Le tre sezioni della tesi, pur rimanendo in dialogo, sono concepite in modo che possano essere lette indipendentemente l’una dall’altra. Il filo conduttore che unisce tutte le parti è l’intento pedagogico che può essere individuato nella maggior parte dei testi presi in esame. Nella prima sezione ci occuperemo del domenicano fiorentino Iacopo Passavanti e del suo trattato Lo specchio della vera penitenzia. Il trattato, nel corso dei secoli più volte ristampato (l’edizione critica risale al

26 Corbari, Vernacular Theology, p. 109.

27 Ivi, p. 64.

28 «a tradition that existed in parallel to the better-known scholastic and monastic theologies of the Middle Ages, and was particularly opened to and influenced by women» (ivi, p. 15).

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2014), è molto noto per i suoi exempla, ma finora è stato studiato solo parzialmente. Passavanti, dotto teologo e abile volgarizzatore, mette in atto un progetto di divulgazione della dottrina penitenziale elaborata nel XIII secolo. Lo Specchio, però, non è una mera trasposizione di nozioni teologiche in volgare. Il trattato di Passavanti deriva dalla sua esperienza di predicatore e si offre come strumento di educazione religiosa, destinato a una comunità cittadina, già sufficientemente preparata dal punto di vista culturale e maggiormente istruita nella religione cristiana. Questa sezione si articola in due capitoli: il primo offre una breve introduzione all’autore e alla sua opera, il secondo costituisce soprattutto un tentativo di approfondire alcuni aspetti della teologia penitenziale del domenicano fiorentino e si propone di esaminare le strategie pedagogiche scelte da Passavanti per diffondere la dottrina della «vera penitenza». La nostra tesi è, contrariamente a ciò che si è a lungo ritenuto, che la trattatistica di Passavanti sia contrassegnata non dalla paura dell’inferno, ma da una particolare paura dell’ignoranza.

La seconda sezione della tesi, articolata in tre capitoli, è dedicata al poeta e scrittore fiorentino Franco Sacchetti, il quale può essere considerato il protagonista della nostra ricerca. Il compito che ci poniamo, come si è già detto, è quello di individuare le corrispondenze, finora non evidenziate, tra la produzione letteraria di Sacchetti e il coevo discorso pastorale. L’analisi delle Sposizioni di vangeli ci permetterà dunque di studiare le modalità, secondo le quali il messaggio religioso diffuso dai frati mendicanti veniva recepito e trasformato. Le Sposizioni, per la loro ricchezza tematica, sono una vera e propria cartina di tornasole dei processi di acculturazione laicale, che sono al centro della nostra ricerca. Sacchetti, pur rimanendo in pratica un «ambizioso ignorante», era un conoscitore della predicazione, si interessava ai dibattiti teologici, alle polemiche religiose. Al tempo stesso era immerso nel mondo urbano, nella mercatura, nella politica comunale.

La sua produzione letteraria è ampia e variegata. Per chi studia la letteratura italiana del Trecento, Franco Sacchetti risulta, da un certo punto di vista, un personaggio più interessante dei dotti domenicani. Abbiamo deciso, per questo motivo, di dedicare alla sua opera letteraria la sezione centrale della tesi.

Il primo capitolo della seconda sezione è un’introduzione alle Sposizioni di vangeli, che vengono collocate nel contesto della predicazione tardomedievale e della tumultuosa vita politica e sociale della Firenze dell’ultimo quarto del secolo XIV. In questo capitolo proporremo una sintetica rassegna delle posizioni della critica sacchettiana (a partire dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis fino agli studi recenti) e risponderemo alla domanda se sia possibile definire Franco Sacchetti “predicatore”. Nel secondo capitolo, il più lungo di tutti, esamineremo da vicino

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un’intera predica delle Sposizioni, in tutti i suoi contesti (poetici, teologici, politici). Partendo da un’analisi delle relazioni tra il concetto di mezzo e il concetto di pace, ci occuperemo soprattutto del tema delle potenze dell’anima (intelletto, volontà) nelle Sposizioni di vangeli. Tali analisi offriranno uno spunto per riflettere sull’agostinismo di Sacchetti e sulla sua vicinanza intellettuale a Domenico Cavalca. Nell’ultima parte analitica ci soffermeremo sugli exempla scelti da Sacchetti per illustrare il suo messaggio morale. Il terzo capitolo, da un lato studia l’atteggiamento assunto da Sacchetti nei confronti del Grande Scisma d’Occidente (1378-1417), dall’altro indaga sul ruolo della Commedia di Dante nelle Sposizioni di vangeli.

La terza e ultima sezione costituisce un tentativo di provare la tesi (sopraccitata) di André Vauchez, secondo la quale alla radice delle trasformazioni dell’educazione cristiana e, più generalmente, del panorama religioso del Basso Medioevo vi fu un’evoluzione del concetto di parola. In questa sezione raccoglieremo le fonti eterogenee (ma, per lo più, citate in precedenza) per esaminare il tema della «virtù» (potere) della parola nella letteratura domenicana del XIII e del XIV secolo. Vorremo così rispondere alla domanda in che modo la riflessione linguistica elaborata in ambiente ecclesiastico abbia influenzato i novellieri del Trecento, come Giovanni Boccaccio o Franco Sacchetti.

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I

IACOPO PASSAVANTI MAESTRO DI FEDE

1. Iacopo Passavanti e la virtù della penitenza

Il 27 agosto 1579 Francesco Diacceto, vescovo di Fiesole, firmava la dedica preposta all’edizione di un’opera da lui curata. Nella dedicatoria al cardinal Vincenzio Giustiniano (Vincenzo Giustiniani), ex maestro generale dell’ordine dei Predicatori, Diacceto esaltava la «salutifera virtù della penitenza» e i suoi innumerevoli meriti29. Tra le guide sul sentiero della penitenza, affermava il vescovo, un posto particolare è occupato dal domenicano fiorentino Iacopo Passavanti, autore dello Specchio della vera penitenzia. Nella sua edizione dello Specchio (la seconda dopo l’editio princeps del 1495) Diacceto si poneva l’obbiettivo di divulgare l’opera del domenicano per due principali motivi: «utilità de’ veri penitenti» e «giovamento delli studiosi della pura Fiorentina favella». Sembrerebbe perfino che il secondo motivo fosse più importante, poiché Diacceto si concentrò in modo particolare sulla descrizione dello stile dell’autore domenicano:

[Passavanti] scrisse in volgare Fiorentino, non meno felicemente che santamente; un’dottissimo trattato della penitenza, vestito da lui, con si leggiadro stilo, e con tanta propietà di parole, che non cede alla eloquenza e leggiadria di qual si voglia altro componitore Toscano ancora di messer Giovanni Boccaccio, tanto pregiato dal mondo in cotal’arte. Anzi ch’essendo eglino stati in una medesim’età e havuto commodo di leggere e imitare, gli scritti l’uno dell’altro: pare habbian’voluto farsi tra loro concorrenza nella sincerità del nativo idioma nostro30.

Il trattato di Passavanti, per ben tre secoli, sarà apprezzato dagli eruditi italiani soprattutto in quanto uno splendido esempio della prosa del «buon secolo» della lingua. Diacceto, però, fu uno dei primi a notare i paralleli tra l’attività letteraria di Boccaccio e quella di Passavanti31. È un tema caro agli

29 Lo Specchio di vera penitenza del Reverendo Maestro Iacopo Passavanti Fiorentino dell’ordine de Predicatori, Firenze, Sermartelli, 1579.

30 Ivi.

31 Diacceto fu forse suggerito dalle considerazioni dei Deputati (1573): «Or costui [Passavanti] fra gli altri pare a noi assai puro, leggiadro, copioso, e vicino allo stile del Boccaccio» (Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron di M. Giovanni Boccacci, fatte da’ deputati alla correzione del medesimo, Firenze, Le Monnier, 1857,

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studiosi moderni di Boccaccio, che nelle novelle del Decameron vedevano un ribaltamento ironico dei valori morali dello Specchio32. Ma non è stato finora chiarito dai filologi se i due scrittori abbiano veramente avuto «commodo di leggere e imitare, gli scritti l’uno dell’altro», come sosteneva il vescovo Diacceto. Le analisi delle relazioni tra la “cultura laica” di Boccaccio e la

“cultura religiosa” di Passavanti esulano dallo scopo della nostra ricerca.

Iacopo Passavanti nacque da una famiglia appartenente all’élite fiorentina, intorno al 130233. Da giovane entrò nell’ordine domenicano, presso il convento di Santa Maria Novella (ca. 1317- 1318). In un periodo successivo fu mandato a Parigi per studiare presso lo studium generale di Saint Jacques. Dopo il soggiorno a Parigi, tornò in Italia (ca. 1333) e ricoprì diversi incarichi all’interno della Provincia romana dell’ordine (priore a Pistoia, a San Miniato al Tedesco; lettore di teologia a Pisa, a Siena, a Roma); negli anni 1347-1351 fu vicario del vescovo di Firenze Angelo Acciaiuoli.

Tra il 1355 e il 1356 fu per alcuni mesi priore di Santa Maria Novella. Morì il 15 giugno del 1357.

Nel Necrologium del convento Passavanti è celebrato come «sacerdos et predicator supra modum facundus et fervidus et in hoc magno tempore occupatus»34. In questa prima parte della tesi vogliamo rivolgere la nostra attenzione proprio all’attività di Passavanti come predicatore e maestro di fede, propagatore della «virtù della penitenza».

La composizione dello Specchio della vera penitenzia risale all’ultimo periodo della vita del domenicano. Nel prologo all’opera l’autore dichiara esplicitamente le sue intenzioni:

E acciò che prontamente e con desiderio fervente della propria salute, ogni negligenzia e ignoranza da noi rimossa e tolta, stendiamo le mani a prendere questa necessaria e virtuosa tavola della penitenza e perseverantemente la tegnamo infino ch’ella ci conduca alla riva del celestiale regno al quale siamo chiamati, io, frate Iacopo Passavanti, dell’Ordine de’ Frati Predicatori minimo, pensai di comporre e ordinare certo e spezial trattato della penitenzia. E a ciò mi mosse il zelo della salute dell’anime, alla quale la professione dell’Ordine mio spezialmente ordina i suoi frati, provocommi l’affettuoso priego di molte persone spirituali e devote, che mi pregarono che quelle cose della vera penitenza che io per molti anni, e spezialmente nella passata quaresima dell’anno presente milletrecentocinquantaquattro, avea volgarmente al popolo predicato, ad utilitade e consolazione loro e di coloro che le vorranno leggere le riducesse a certo ordine per iscrittura volgare, sì come nella nostra fiorentina lingua volgaremente l’avea predicate. Onde, non volendo né dobbiendo Proemio, p. 29).

32 Cfr., ad esempio, G. Mazzotta, The World at Play in Boccaccio’s Decameron, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1986, pp. 53-54; T. Kircher, The Poet’s Wisdom. The Humanists, the Church, and the Formation of Philosophy in the Early Renaissance. Alcune tesi di Kircher verranno riassunte infra, p. 87.

33 Le principali informazioni biografiche si ricavano dal Necrologium del convento di Santa Maria Novella (S.

Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, I, Firenze, Olschki, 1955, pp. 88-89). Cfr. C. Di Pierro, Contributo alla biografia di Frà Jacopo Passavanti fiorentino, “Giornale storico della letteratura italiana”, 47, 1906, pp. 1-24; A.

Macchiarelli, Per la biografia di Fr. Iacopo Passavanti OP (1302 ca.-1357), “Aevum”, 94/2, 2020, pp. 341-368.

34 Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella.

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negare quello che la carità fruttuosamente e debitamente domanda, porgo la mano collo ingegno a scrivere e per volgare, come fu principalmente chiesto, per coloro che non sono litterati, e in latino per li chierici, a’ quali potrà esser utile e per loro e per coloro i quali egli hanno amaestrare o predicando, o consigliando, o le confessioni udendo35.

Lo Specchio, stando alle parole di Passavanti, è una rielaborazione delle sue prediche tenute durante la Quaresima del 1354. La realtà testuale è più complessa: l’opera sotto molteplici aspetti ha un carattere ibrido; il trattato amalgama il materiale narrativo degli exempla con la casistica delle summae confessorum e dei manuali di confessione, unisce toni popolareggianti con una riflessione scolastica di matrice tomista. Ginetta Auzzas ha scritto giustamente che è difficile trovare un modello a cui si rifaceva Passavanti («egli procedeva a un esperimento, agiva, nella sostanza, da pioniere»36). Occorre precisare che Passavanti, anche se si lamentava delle insufficienze del volgare fiorentino («il nostro volgare ha difetto di propi vocaboli»37), nella composizione del suo trattato poteva basarsi sul lavoro già svolto dai suoi più anziani confratelli domenicani, infaticabili volgarizzatori Bartolomeo da San Concordio (1262-1347) e Domenico Cavalca (ca. 1270-1342).

Passavanti, inoltre, allude nel prologo alla doppia stesura del trattato: «per volgare […] per coloro che non sono litterati, e in latino per li chierici». La redazione latina dello Specchio è stata individuata nel trattato intitolato Theosophia, contenuto nel manoscritto (adespoto) San Marco 459 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze38. Il fatto di differenziare i contenuti, a seconda delle capacità dei lettori (uditori), non sorprende, anzi, tale strategia era consigliata dai teorici della predicazione, come Umberto di Romans39. Passavanti, scrivendo in volgare, non si allontana dall’impostazione scolastica, anzi il suo programma pastorale si traduce infatti in una sorta di

«teologia per non teologi»40. Tuttavia, l’intento pedagogico dell’opera (ovvero, l’esposizione della dottrina della «vera penitenzia», della quale la confessione è solo una parte) non può essere

35 Specchio, Prolago, p. 212.

36 G. Auzzas, Dalla predica al trattato: lo Specchio della vera penitenzia di Iacopo Passavanti, “Lettere italiane”, 54/3, 2002, pp. 325-342 (p. 336).

37 Specchio, Trattato della vanagloria [= T. van.], V [II], p. 421.

38 G. Rossi, La ‘redazione latina’ dello «Specchio della vera penitenza», “Studi di filologia italiana”, 49, 1991, pp. 29- 58. Agnese Macchiarelli dell’Università Ca’ Foscari di Venezia sta attualmente lavorando su un’edizione critica dell’opera (A. Macchiarelli, Iacopo Passavanti e la Theosophia: nuove riflessioni sul ms. Laur. San Marco 459.,

“Linguistica e letteratura”, XLIV, 1/2, 2019, pp. 27-49).

39 «notandum quod illis quibus praedicandum est non sunt omnibus eadem praedicanda: sed diversa diversis, prout eis competunt» (De eruditione praedicatorum, IV, Cap. XVIII, p. 421).

40 Il termine «theology for non-theologians» è stato usato da Amos Edelheit per caratterizzare la Summa theologica di Antonino Pierozzi (idem, Scholastic Florence. Moral Psychology in the Quattrocento, Leiden-Boston, Brill, 2014, p. 107).

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sottovalutata, perché quella di Passavanti è anche una pedagogia morale, che considerava l’ignoranza la causa del peccato.

Nel prologo allo Specchio Passavanti si serve di una metafora della temporalità come un mare mosso e della vita umana come un viaggio marittimo. In questo viaggio, dichiara Passavanti, a causa del naufragio, «la maggiore parte della gente perisce»41. Se uno vuole salvarsi dopo il naufragio, deve per forza «prendere questa necessaria e virtuosa tavola della penitenza». Passavanti avrebbe quindi delineato una situazione di estrema precarietà della vita umana, segnata dall’esperienza della morte (Timothy Kircher ha parlato a tal proposito di una situazione di

«emergenza penitenziale»42). In realtà, la patristica definizione della penitenza come «secunda tabula post naufragium» è diffusissima nel pensiero scolastico già nel XII secolo (la ritroveremo nelle opere di Abelardo, Pietro Lombardo o Pietro Cantore) e deve per questa ragione essere considerata un luogo comune. Inoltre, si è a lungo ritenuto che l’immaginario di Passavanti fosse fortemente influenzato dall’esperienza della Morte Nera del 134843, ma come ha dimostrato Lucia Battaglia Ricci la «cultura della penitenza», della quale anche lo Specchio è espressione, fu teorizzata dai domenicani del convento pisano di Santa Caterina già negli anni Trenta del XIV secolo44. La nostra ricerca mirerà proprio a evidenziare come l’ammaestramento di Passavanti fosse meno attento ai temi di attualità e più immerso in un dialogo con la tradizione teologica, canonica, esemplaristica del XIII secolo.

41 Specchio, p. 208. Cfr. Kircher, The Poet’s Wisdom, V, The Sea as an Image of Temporality, pp. 185-228.

42 «penitential emergency» (Kircher, The Poet’s Wisdom, p. 203).

43 «Gli anni che seguirono la peste furono i più bui della storia di Firenze e di Siena, e forse di tutta l’Europa. Sia la letteratura sia la pittura di questo periodo sono pervase da un profondo pessimismo» (M. Meiss, Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento, Torino, Einaudi, 1982, p. 115, su Passavanti in particolare pp. 124-126). Ma si veda piuttosto A. Zorzi, L’angoscia delle repubbliche. Il “timor”

nell’Italia comunale degli anni trenta del Trecento, in: The Languages of Political Society. Western Europe, 14th- 17th Centuries, a cura di A. Gamberini, J.-Ph. Genet, A. Zorzi, Roma, Viella, 2011, pp. 287-324. Le tesi di Zorzi sono discusse infra, p. 48.

44 L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della Morte, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 47-99.

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2. La paura dell’inferno o la paura dell’ignoranza? Strategie pedagogiche ne Lo specchio della vera penitenzia

a. La «musa del terrore»: il predicatore, la morte e il diavolo

«La musa del Passavanti è il terrore», scriveva Francesco De Sanctis, «e la sua materia è il vizio e l’inferno»45. Secondo De Sanctis il domenicano fiorentino quasi con sadismo si compiaceva nello «spaventare e tormentare l’anima»46. L’austero stile dello Specchio della vera penitenzia veniva contrapposto dal critico alla soavità delle prose di Domenico Cavalca. Questa immagine, basata soprattutto sulla valutazione estetica e psicologizzante degli exempla passavantiani, ha dominato incontrastata nella critica e nelle storie letterarie per tutto il Novecento47. Giovanni Getto (1943) ha contribuito non poco alla costruzione dell’immagine del «Passavanti giustiziere», che riusciva ad incutere timore più abilmente di Dante stesso48. Giorgio Petrocchi (1965), riprendendo il tema della paura nello Specchio, ha notato la minaccia posta dal diavolo «sempre all’erta e sempre crudelissimo»49. Guido Baldassarri (1995), a distanza di 125 anni dalla pubblicazione della Storia della letteratura italiana di De Sanctis, ha deciso di riproporre immutata l’opinione del critico ottocentesco50. Il lavoro più recente che si inserisce in questo filone di ricerca è quello della studiosa francese Myriam Carminati (2006), nel quale veniva messa in evidenza soprattutto l’ambientazione notturna di alcuni exempla passavantiani51. In parallelo si è svolta la ricerca degli storici della mentalità, in primo luogo di Jean Delumeau, che ha insistito sulla diffusione del sentimento della

45 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Nuova edizione, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1925, Cap. VI, p.

108.

46 Ivi.

47 Come ha giustamente affermato Giorgio Varanini il tema della paura in Passavanti «[è] divenuto dopo il De Sanctis una sorta di passaggio obbligato per chi abbia rivolto la sua attenzione allo Specchio» (Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, vol. 2, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Roma, Salerno Editrice, 1993, p. 511).

48 G. Getto, Umanità e stile di Jacopo Passavanti, Milano, Casa Editrice Leonardo, 1943 (ristampato in: idem, Letteratura religiosa del Trecento, Firenze, Sansoni, 1967). Carlo Delcorno ha stilato una breve lista di alcune

«immaginose formule» usate da Getto per descrivere gli spaventosi exempla di Passavanti: «favolosa tetraggine»;

«paesaggio sinistro»; «sbigottita catastrofe»; «lugubre paura»; «truce spavento»; «truculenza fosca da romanzo giallo» (Gli studi di Giovanni Getto sulla letteratura religiosa degli Ordini mendicanti, “Lettere italiane”, 55/3, 2003, pp. 335-360: p. 349).

49 G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento, in: Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, vol. II, Milano, Garzanti, 1965, pp. 559-724 (su Passavanti pp. 652-656).

50 «i modi una religiosità, se non tutta volta a suscitare il terrore delle pene infernali, certo lontanissima dalla un po’

inerte tranquillità delle pagine di un Cavalca» (G. Baldassarri, Letteratura devota, edificante e morale, in: Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, vol. II, Il Trecento, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 211-326: p. 247).

51 «les prédications de Passavanti s’enracinent dans une vision pessimiste de la nature humaine souillée et corrompue par le péché originel» (M. Carminati, La pénitence, “médecine de l’âme”: nuit et terreur dans les exempla de Jacopo Passavanti, “Revue des Langues Romanes”, 2, 2006, pp. 407-424: p. 409).

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paura nella cultura del Basso Medioevo e della prima età moderna52. Il concetto di «pastorale de la peur»53, elaborato da Delumeau, ha goduto di una notevole fortuna, ma è stato rivalutato negli studi più recenti, che mostrano un quadro più bilanciato della religione tardomedievale54. Wojciech Brojer, nella sua ricerca sugli exempla del XIII secolo, ha dimostrato, grazie all’analisi statistica di un vastissimo corpus, che la retorica degli autori delle raccolte si fondava su uno studiato equilibrio tra la paura e la speranza, tra il pessimismo e l’ottimismo55. Il sentimento della speranza, concludeva Brojer, ha mantenuto però la prevalenza sulla paura per tutto il secolo XIII56.

Uno dei compiti che ci proponiamo in questo capitolo è quello di riconsiderare il tema della paura (timore) nello Specchio della vera penitenzia. La ricerca di questo tipo ha purtuttavia le sue limitazioni. Dato il ristretto numero degli exempla e l’incompiutezza del trattato, la strada dell’analisi statistica non pare percorribile. Al contempo, si vogliono evitare analisi stilistiche del materiale narrativo, che finora hanno caratterizzato la lettura e l’interpretazione del trattato di Passavanti. Non ci occuperemo, dunque, della paura come strumento di persuasione, ma cercheremo di riflettere sul ruolo del sentimento della paura nella teologia penitenziale del domenicano fiorentino. Saranno prese in esame tre principali questioni: (I) la paura come incitamento alla penitenza, (II) la paura come impedimento alla penitenza, (III) la contrizione e l’attrizione.

La nostra ipotesi è che l’opera di Passavanti sia contrassegnata non da una paura del giudizio divino e dell’inferno, ma piuttosto dalla «paura dell’ignoranza»57, caratteristica della formazione intellettuale dei frati mendicanti. L’ammaestramento, inteso come la rimozione della peccaminosa ignoranza, è proprio il principio che determina e organizza la trattazione di Passavanti.

52 J. Delumeau, La Peur en Occident (XIVe-XVIIIe siècles). Une cité assiégée, Paris, Fayard, 1978; idem, Le Péché et la peur: La culpabilisation en Occident (XIIIe-XVIIIe siècles), Paris, Fayard, 1983.

53 Con questa espressione si intende una pastorale caratterizzata da una particolare insistenza sui Novissimi: «l’enfer plus que le paradis, la justice de Dieu plus que la miséricorde, la Passion plus que la Résurrection, l’aveu plus que le pardon» (G. Cuchet, Jean Delumeau, historien de la peur et du péché. Historiographie, religion et société dans le dernier tiers du 20e siècle, “Vingtième Siècle. Revue d’histoire”, 107/3, 2010, pp. 145-155: p. 146).

54 Cfr. M. Lodone, L’attesa e la paura. La fine dei tempi nella predicazione fiorentina del tardo medioevo (XIV-XVI secolo), “Cahiers d’études italiennes” [En ligne], 29, 2019, <http://journals.openedition.org/cei/6244>. Per il periodo tridentino cfr. C. E. Norman, The Social History of Preaching: Italy, in: Preachers and People in the Reformations and Early Modern Period, ed. L. Taylor, Boston-Leiden, Brill, 2003, pp. 125-191 (in particolare pp.

176-178).

55 Brojer, Diabeł w wyobraźni średniowiecznej, p. 600. Michele Lodone nell’analisi della predicazione fiorentina è giunto alle conclusioni simili: «Nel discorso clericale, a ben vedere, la minaccia e la paura dell’inferno rivestivano un ruolo secondario, rispetto alla ricerca della salvezza eterna; erano parte cioè di una strategia – ora terroristica, ora rassicurante – intesa a raggiungere un obiettivo che restava fondamentalmente soteriologico», idem, L’attesa e la paura.

56 Brojer, Diabeł w wyobraźni średniowiecznej, p. 600.

57 L’espressione è di Paweł T. Dobrowolski, Wincenty Ferrer. Kaznodzieja ludowy późnego średniowiecza, Warszawa, Instytut Historii PAN, 1996, p. 75.

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Nella teologia del domenicano la conoscenza adeguata è una condizione ineludibile per accedere al sacramento della penitenza e, in conseguenza, per salvare l’anima:

E acciò che prontamente e con desiderio fervente della propria salute, ogni negligenzia e ignoranza da noi rimossa e tolta, stendiamo le mani a prendere questa necessaria e vittoriosa tavola della penitenza e perseverantemente la tegnamo infino ch’ella ci conduca alla riva del celestiale regno al quale siamo chiamati, io, frate Iacopo Passavanti, dell’Ordine de’ Frati Predicatori minimo, pensai di comporre e ordinare certo e spezial trattato della penitenzia58.

la principale intenzione di coloro, a cui stanzia l’autore imprese a fare questo libro, fu per imprendere a sapersi bene confessare, la qual cosa comunemente la gente sa mal fare, impediti o da ignoranza, o da negligenza, o da vergogna, o da certa malizia, ché l’ignoranza nolli lascia sapere e cognoscere li peccati e le loro cagioni, e le loro spezie e differenze, né le loro circustanze, né discernere le loro gravezze; e però non gli sanno distintamente confessare59.

Passavanti si rivela sotto questo aspetto un fedele allievo di San Tommaso. L’Aquinate sosteneva che l’ignoranza (distinta dalla semplice nescientia, ovvero la negazione di conoscenza) (1) fosse causa di peccato per parte della ragione; (2) fosse un peccato60. Tutti, argomentava il teologo, sono perciò obbligati a conoscere gli articoli della fede e i precetti del diritto; alcuni invece devono sapere solo quello che è pertinente al loro stato o ufficio61. Ebbene, chi per colpa della negligenza ignora quello che deve sapere, commette il peccato62. Questo imperativo dello studio, fondamentale per la spiritualità domenicana, si tradusse nell’elaborazione di un programma catechistico rudimentale, ma dai contorni ben precisati, rivolto ai laici che non conoscevano il latino:

a’ quali basta di sapere in genere de’ comandamenti della Legge, degli articoli della fede, de’ sacramenti della Chiesa, de’ peccati, degli ordinamenti eclesiastici, della dottrina del santo Evangelio, quanto è necessario alla loro salute, e quanto n’odono da’ loro rettori e da’ predicatori della Scrittura e della fede63.

58 Specchio, Prolago, p. 212 (grassetto mio).

59 Ivi, Dist. V, p. 281 (grassetto mio).

60 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Iª-IIae q. 76.

61 «Unde omnes tenentur scire communiter ea quae sunt fidei, et universalia iuris praecepta, singuli autem ea quae ad eorum statum vel officium spectant» (ivi, Iª-IIae q. 76 a. 2 co.).

62 «Unde propter negligentiam, ignorantia eorum quae aliquis scire tenetur, est peccatum» (ivi).

63 Specchio, T. van., V, [1], p. 415. Cfr. S. Vecchio, Le prediche e l’istruzione religiosa, in: La predicazione dei frati dalla metà del ‘200 alla fine del ‘300, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1995, pp. 301-335; C.

Delcorno, La fede spiegata ai fiorentini. Le prediche sul “Credo” di Giordano da Pisa, “Lettere italiane”, 65/3, 2013, pp. 318-352.

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Ma, come si vedrà più avanti, Passavanti nello Specchio vorrà rispondere alle esigenze più profonde di un ceto cittadino istruito e alfabetizzato nella lingua volgare. Le strategie pedagogiche utilizzate dal domenicano presuppongono un certo livello di cultura dei suoi lettori (uditori)64.

I) La paura come incitamento alla penitenza

Nella Distinzione II dello Specchio Iacopo Passavanti si sofferma su sette motivi «che ci inducono a fare penitenza e a non indugiarla»65. Si tratta in fondo dei benefici spirituali che l’anima può ricavare grazie alla rapida66, e non tardiva, conversione alla vita di penitenza. I primi tre motivi, dei quali ci occuperemo, sono: l’amore della giustizia divina, la paura del giudizio di Dio e l’incertezza legata alla morte67. Passavanti spiega che tutti, secondo la giustizia di Dio, meritano

«tormento e pena», ma Dio nella sua misericordia («la divina pietà») ha predisposto il sacramento della penitenza, grazie al quale l’uomo può riconciliarsi con Dio. Tuttavia, il frate è sconsolato, perché nel mondo si trovano «pochi amatori» della giustizia:

Or che pietà è questa, che cordoglio, qual confusione, qual vergogna, che non si truovi chi per amore della giustizia si guardi di peccare, o si penta dell’avere peccato? Almeno, quello che non si fa per amore si faccia per timore della severa giustizia di Dio!

Lamentele del genere sono un motivo costante nel repertorio retorico dei predicatori68, ma più significativo è il fatto che Passavanti non riesce a trovare nella sua biblioteca intellettuale un exemplum adeguato che possa illustrare l’amore della giustizia divina. Il primo exemplum (1)69 dello Specchio, «scritto dal venerabile dottore Beda», è ambientato in Inghilterra e narra la storia di un

64 Cfr. F. Cardini, Alfabetismo e livelli di cultura nell’età comunale, “Quaderni storici”, 38, 1978, pp. 488-522.

65 Specchio, Dist. II, p. 221. Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni in questa sezione si riferiranno alla Dist. II, pp. 221-238.

66 La rapidità è anche una delle condizioni della buona confessione, che deve essere appunto «accelerata» (Specchio, Dist. V, VI).

67 Altri quattro sono: «la pazienza e la benignità di Dio», «la malagevolezza del pentere dopo la lunga usanza», «la ingiuria che si fa a Dio» e «l’essemplo e la dottrina di Cristo e de’ santi».

68 Cfr. i rimproveri di Giordano da Pisa, infra, p. 164.

69 Adotto la numerazione degli exempla (1-48) introdotta da Angelo Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, in: idem, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli, 1954, pp. 169-303 [già in:

“Giornale storico della letteratura italiana” LXI, 1913, pp. 266-344; LXIII, 1914, pp. 240-290]. Giorgio Varanini nella sua edizione degli exempla passavantiani a 48 narrazioni individuate da Monteverdi ne aggiunge ancora una, quarantanovesima (Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, vol. 2).

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uomo, morto e tornato in vita prima della sepoltura70. Nella versione dell’Alphabetum narrationum il protagonista dell’exemplum, spaventato per quello che aveva osservato nell’inferno, si ritirò in un eremo («territus penis quas uiderat fugit ad heremum»), dove fino alla morte si sottopose alle aspre pratiche ascetiche. Il volgarizzamento dell’exemplum fatto da Passavanti risente dei modi orali della predica ed è per questa ragione più prolisso è più vivace nella descrizione («spaurito e sbigottito per le pene e per li gravi tormenti che avea veduti sostenere a’ peccatori nell’altra vita […] non si rallegrava neente, ma subito tutto spaventato sì fuggì nel diserto»), ma nonostante questo accumulo degli aggettivi volti a rappresentare lo stato d’animo del personaggio, il volgarizzatore non si decide ad apporre delle modifiche sostanziali al racconto. L’exemplum dell’Alphabetum ci consente di capire che nella pedagogia di Passavanti non è la pura emozione (amore o paura che sia) che ha il compito di guidare il comportamento umano. Ciò che induce alla penitenza è la consideratio (meditazione, contemplazione) della morte e del destino ultraterreno dell’uomo, della pena o del premio71.

Nel secondo exemplum (2) si narra di un giovane domenicano72. Il giovane «dilicatamente nodtrito» (cioè “uno che ha vissuto in lusso”, magari anche “effeminato”) entrò nell’ordine dei Predicatori, malgrado l’opposizione della sua famiglia, che a ogni costo cercava di persuaderlo ad abbandonare lo stato religioso, poiché non sarebbe riuscito a «sostenere l’asprezze dell’ordine». Il giovane rispose loro che era proprio per questo che si era fatto frate:

«E questa è la cagione perch’io sono entrato a l’Ordine, che, veggendo io come io era tenero e dilicato e che neuna cosa malagevole o aspra potea sostenere, pensai: “Come potre’ io sofferire le gravissime pene dello

‘nferno sanza fine?”. E però diliberai, e così voglio tenere fermo, di volere anzi sostenere qui un poco di tempo l’asprezze della religione che avere poi a sostenere quelle intollerabili e eterne pene.»

Nelle due narrazioni si possono notare dei curiosi paralleli. Entrambi l’eremita e il giovane domenicano abbandonano il mondo per dedicarsi alla penitenza. Il primo, dopo aver visto le anime che patiscono le pene nell’inferno, decide di fuggire nel deserto. La decisione del giovane di entrare nell’ordine domenicano non è dettata dalla sua esperienza sensitiva, ma è piuttosto frutto della sua

70 La fonte diretta dell’exemplum, come nella quasi totalità dei casi nello Specchio, è la raccolta Alphabetum narrationum, composta dal domenicano Arnoldo di Liegi all’inizio del XIV secolo (Arnoldi Leodiensis Alphabetum narrationum, ed. E. Brilli, Turnhout, Brepols, 2015, 389, Infernalis pene consideratio inducit homines ad penitentiam). Cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 174-176.

71 Così anche nell’explicit: «Hoc etiam ualet ad penitentiam et ad considerationem siue meditationem et timorem»

(Alphabetum narrationum, 389).

72 L’exemplum risale al De dono timoris del domenicano Stefano di Borbone, ma la fonte di Passavanti anche stavolta è la raccolta di Arnoldo: Alphabetum narrationum, 211 (Conuerti facit etiam aliquando peccatorem consideratio acerbitatis pene inferni). Cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 176-177.

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speculazione intellettuale («pensai… diliberai… voglio tenere fermo...»). La fuga nel deserto, impossibile nella realtà urbana, trova quindi la sua nuova espressione nell’ideale mendicante.

Nell’autocoscienza dei domenicani la predicazione itinerante e lo studio non erano per nulla inferiori alla vita eremitica, anzi, i domenicani credevano di essere i nuovi padri del deserto73. Passavanti senza dubbio intende “pubblicizzare” l’ideale di vita domenicano, ma il suo exemplum si basa sul materiale narrativo ereditato dalle generazioni precedenti dei domenicani. Nella metà del secolo XIV la sua insistenza sulle «asprezze dell’ordine» è solo un lontano riflesso di una polemica con i vecchi ordini monastici, che denunciavano l’instabilità della vita dei mendicanti74.

Il terzo motivo che induce alla penitenza è «la incertitudine della morte», cioè l’incertezza dell’ora in cui la morte sopraggiungerà. Il pericolo più grave che il fedele cristiano può correre è quello che la morte lo troverà impreparato e non munito dei sacramenti; coloro che differiscono la penitenza, nella vana speranza di avere una lunga vita, meritano pertanto riprovazione. Ugualmente pericoloso è il caso della malattia che può oscurare la mente in modo che l’infermo non godrà della facoltà del libero arbitrio. In tali circostanze, la sua confessione potrà essere difettosa e soprattutto incerta. La penitenza fatta nell’ora della morte, conclude il domenicano, è «dubbiosa o di rischio, e spezialmente, che ‘l più delle volte di quella cotale penitenza è cagione paura di pena e non amore di giustizia»75. La paura, sembra dire Passavanti, non è mai buona consigliera. L’uomo, dunque, deve prendere la via della certezza e confessare i propri peccati quando è in pieno possesso delle facoltà mentali:

Ora, tra ‘l dubbio e ‘l possibile, è da seguire il sano consiglio di santo Agostino, il quale parlando di questa materia conchiude: piglia il certo e lascia lo ‘ncerto76. Dove vuole dire: piglia il certo di fare penitenzia quando sé forte e sano, e quando non solamente paura di pena ma eziandio amore di giustizia a fare penitenza t’induca – per la qual cosa certamente eterna salute s’acquista – e lascia lo ‘ncerto della penitenzia indugiata insino alla morte, la qual è incerta, avegna che sia possibile, se sia valevole o sì o no.

73 «I nuovi padri del deserto sono loro, i Predicatori: l’intera terra è la loro cella, scrive Matteo Paris, e l’oceano è il loro chiostro», C. Delcorno, Le «Vitae Patrum» nella letteratura religiosa medievale (secc. XIII–XV), “Lettere italiane”, 43/2, 1991, pp. 187-207: p. 195. Precisiamo che con queste parole il benedettino Matteo Paris voleva offendere i mendicanti e lodare i cistercensi di Parigi: «Et placuit Deo, praelatis, et populo eorum honesta et ordinata conversatio; non enim vagabuntur per civitates et pagos. Non erat eis pro claustrali maceria oceanus, sed infra muros suos clausi et stabiles conversantes suo secundum regulam sancti Benedicti obediebant superiori», Matteo Paris, Chronica majora, vol. V, ed. H. R. Luard, London, 1880, A.D. 1255, Revocata est universitas Parisiensis, p. 529.

74 Cfr. il paragone tra la vita dei cistercensi e quella dei domenicani proposto dal maestro generale domenicano Umberto di Romans, infra, p. 162 n.

75 Per la differenza tra la contrizione e l’attrizione vedi infra.

76 «Ergo dimitte incertum, tene certum», Agostino, Sermones dubii, Sermo 393, De poenitentibus (PL 39, coll. 1713- 1715).

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Il problema della dilazione della penitenza sino alla morte, come ha osservato Thomas N. Tentler, fu discusso già nella Chiesa antica e rimase aperto per secoli77. Nel Decreto di Graziano (XII secolo) furono incluse due contrastanti opinioni patristiche: secondo la prima, la penitenza è possibile fino all’ultimo istante («Tempus uero penitenciae est usque in ultimum articulum vitae»78); la seconda, espressa da Agostino, è più cauta. La penitenza nell’ora della morte è dubbiosa e incerta; è preferibile perciò fare penitenza quando si è nella buona salute («Age poenitentiam, dum sanus es.

Si enim agis veram poenitentiam, dum sanus es, et invenerit te novissimus dies, curre ut reconcilieris: si sic agis, securus es»79). Nella dottrina penitenziale del XIII secolo l’opinione di Agostino sarà prevalente: la confessione sacramentale deve essere rapida (accelerata, festina) perché l’eventuale malattia può indebolire l’intelletto e ostacolare la penitenza80. Nell’exemplum 5 Passavanti racconta la scena della morte di un peccatore. La trama del racconto, attinto da Gregorio Magno, è scarna: un uomo malato in punto di morte vede «grande moltitudine di domoni», arrivati per portare via la sua anima81. Per scongiurare la minaccia, l’uomo emette un grido disperato:

«Indugio pure infino a domane! Indugio infino a domane!». Il senso del grido del peccatore non è immediatamente apparente: è una preghiera oppure un comando rivolto ai diavoli (in entrambi i casi le parole rivelerebbero la loro efficacia82), o ancora è un grido vuoto che non chiama nessuno?

Comunque sia, le parole del peccatore non sortiscono nessun effetto: l’uomo muore e la sua anima è

«portata da’ diavoli alle pene dello ‘nferno». Ma quello che l’uomo deve temere veramente non sono i diavoli «nerissimi e crudelissimi» (così descritti nell’exemplum 4). Nella dottrina di Passavanti il motivo di vero terrore sono la penitenza indugiata fino alla morte e la dolente consapevolezza che ormai può essere troppo tardi.

77 T. N. Tentler, Sin and Confession on the Eve of the Reformation, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1977, pp. 6-9.

78 Decretum magistri Gratiani (Corpus iuris canonici, 1), Leipzig, 1879, II, C. 33, q. 3, dist. 7. Disponibile sul sito:

<https://geschichte.digitale-sammlungen.de//decretum-gratiani/>. Questa opinione è sorretta dall’autorità di Leone Magno: «Unde Leo Papa: “Nemo desperandus est, dum in hoc corpore constitutus est”» (ivi).

79 Agostino, Sermones dubii, Sermo 393.

80 Così il domenicano Raimondo di Penyafort: «in extrema aegritudine vix potest aliquis poenitere, vel etiam cogitare», Summa sancti Raymundi de Peniafort Ordinis Praedicatorum cum glossis Joannis de Friburgo, Avignone, 1715, III, 34 (De poenitentiis et remissionibus), 22, p. 667. Sull’importanza della summa di Raimondo per lo sviluppo della teologia penitenziale nel XIII secolo cfr. P. Michaud-Quantin, Sommes de casuistique et manuels de confession au moyen âge (XII-XVI siècles), Louvain, Nauwelaerts, 1962, pp. 34-42.

81 Per le fonti cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 180-181. L’exemplum compare più volte nei trattati di Domenico Cavalca.

82 Cfr. l’analisi dell’exemplum 3, infra, p. 173.

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