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Nella Distinzione II dello Specchio Iacopo Passavanti si sofferma su sette motivi «che ci inducono a fare penitenza e a non indugiarla»65. Si tratta in fondo dei benefici spirituali che l’anima può ricavare grazie alla rapida66, e non tardiva, conversione alla vita di penitenza. I primi tre motivi, dei quali ci occuperemo, sono: l’amore della giustizia divina, la paura del giudizio di Dio e l’incertezza legata alla morte67. Passavanti spiega che tutti, secondo la giustizia di Dio, meritano

«tormento e pena», ma Dio nella sua misericordia («la divina pietà») ha predisposto il sacramento della penitenza, grazie al quale l’uomo può riconciliarsi con Dio. Tuttavia, il frate è sconsolato, perché nel mondo si trovano «pochi amatori» della giustizia:

Or che pietà è questa, che cordoglio, qual confusione, qual vergogna, che non si truovi chi per amore della giustizia si guardi di peccare, o si penta dell’avere peccato? Almeno, quello che non si fa per amore si faccia per timore della severa giustizia di Dio!

Lamentele del genere sono un motivo costante nel repertorio retorico dei predicatori68, ma più significativo è il fatto che Passavanti non riesce a trovare nella sua biblioteca intellettuale un exemplum adeguato che possa illustrare l’amore della giustizia divina. Il primo exemplum (1)69 dello Specchio, «scritto dal venerabile dottore Beda», è ambientato in Inghilterra e narra la storia di un

64 Cfr. F. Cardini, Alfabetismo e livelli di cultura nell’età comunale, “Quaderni storici”, 38, 1978, pp. 488-522.

65 Specchio, Dist. II, p. 221. Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni in questa sezione si riferiranno alla Dist. II, pp. 221-238.

66 La rapidità è anche una delle condizioni della buona confessione, che deve essere appunto «accelerata» (Specchio, Dist. V, VI).

67 Altri quattro sono: «la pazienza e la benignità di Dio», «la malagevolezza del pentere dopo la lunga usanza», «la ingiuria che si fa a Dio» e «l’essemplo e la dottrina di Cristo e de’ santi».

68 Cfr. i rimproveri di Giordano da Pisa, infra, p. 164.

69 Adotto la numerazione degli exempla (1-48) introdotta da Angelo Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, in: idem, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli, 1954, pp. 169-303 [già in:

“Giornale storico della letteratura italiana” LXI, 1913, pp. 266-344; LXIII, 1914, pp. 240-290]. Giorgio Varanini nella sua edizione degli exempla passavantiani a 48 narrazioni individuate da Monteverdi ne aggiunge ancora una, quarantanovesima (Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, vol. 2).

uomo, morto e tornato in vita prima della sepoltura70. Nella versione dell’Alphabetum narrationum il protagonista dell’exemplum, spaventato per quello che aveva osservato nell’inferno, si ritirò in un eremo («territus penis quas uiderat fugit ad heremum»), dove fino alla morte si sottopose alle aspre pratiche ascetiche. Il volgarizzamento dell’exemplum fatto da Passavanti risente dei modi orali della predica ed è per questa ragione più prolisso è più vivace nella descrizione («spaurito e sbigottito per le pene e per li gravi tormenti che avea veduti sostenere a’ peccatori nell’altra vita […] non si rallegrava neente, ma subito tutto spaventato sì fuggì nel diserto»), ma nonostante questo accumulo degli aggettivi volti a rappresentare lo stato d’animo del personaggio, il volgarizzatore non si decide ad apporre delle modifiche sostanziali al racconto. L’exemplum dell’Alphabetum ci consente di capire che nella pedagogia di Passavanti non è la pura emozione (amore o paura che sia) che ha il compito di guidare il comportamento umano. Ciò che induce alla penitenza è la consideratio (meditazione, contemplazione) della morte e del destino ultraterreno dell’uomo, della pena o del premio71.

Nel secondo exemplum (2) si narra di un giovane domenicano72. Il giovane «dilicatamente nodtrito» (cioè “uno che ha vissuto in lusso”, magari anche “effeminato”) entrò nell’ordine dei Predicatori, malgrado l’opposizione della sua famiglia, che a ogni costo cercava di persuaderlo ad abbandonare lo stato religioso, poiché non sarebbe riuscito a «sostenere l’asprezze dell’ordine». Il giovane rispose loro che era proprio per questo che si era fatto frate:

«E questa è la cagione perch’io sono entrato a l’Ordine, che, veggendo io come io era tenero e dilicato e che neuna cosa malagevole o aspra potea sostenere, pensai: “Come potre’ io sofferire le gravissime pene dello

‘nferno sanza fine?”. E però diliberai, e così voglio tenere fermo, di volere anzi sostenere qui un poco di tempo l’asprezze della religione che avere poi a sostenere quelle intollerabili e eterne pene.»

Nelle due narrazioni si possono notare dei curiosi paralleli. Entrambi l’eremita e il giovane domenicano abbandonano il mondo per dedicarsi alla penitenza. Il primo, dopo aver visto le anime che patiscono le pene nell’inferno, decide di fuggire nel deserto. La decisione del giovane di entrare nell’ordine domenicano non è dettata dalla sua esperienza sensitiva, ma è piuttosto frutto della sua

70 La fonte diretta dell’exemplum, come nella quasi totalità dei casi nello Specchio, è la raccolta Alphabetum narrationum, composta dal domenicano Arnoldo di Liegi all’inizio del XIV secolo (Arnoldi Leodiensis Alphabetum narrationum, ed. E. Brilli, Turnhout, Brepols, 2015, 389, Infernalis pene consideratio inducit homines ad penitentiam). Cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 174-176.

71 Così anche nell’explicit: «Hoc etiam ualet ad penitentiam et ad considerationem siue meditationem et timorem»

(Alphabetum narrationum, 389).

72 L’exemplum risale al De dono timoris del domenicano Stefano di Borbone, ma la fonte di Passavanti anche stavolta è la raccolta di Arnoldo: Alphabetum narrationum, 211 (Conuerti facit etiam aliquando peccatorem consideratio acerbitatis pene inferni). Cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 176-177.

speculazione intellettuale («pensai… diliberai… voglio tenere fermo...»). La fuga nel deserto, impossibile nella realtà urbana, trova quindi la sua nuova espressione nell’ideale mendicante.

Nell’autocoscienza dei domenicani la predicazione itinerante e lo studio non erano per nulla inferiori alla vita eremitica, anzi, i domenicani credevano di essere i nuovi padri del deserto73. Passavanti senza dubbio intende “pubblicizzare” l’ideale di vita domenicano, ma il suo exemplum si basa sul materiale narrativo ereditato dalle generazioni precedenti dei domenicani. Nella metà del secolo XIV la sua insistenza sulle «asprezze dell’ordine» è solo un lontano riflesso di una polemica con i vecchi ordini monastici, che denunciavano l’instabilità della vita dei mendicanti74.

Il terzo motivo che induce alla penitenza è «la incertitudine della morte», cioè l’incertezza dell’ora in cui la morte sopraggiungerà. Il pericolo più grave che il fedele cristiano può correre è quello che la morte lo troverà impreparato e non munito dei sacramenti; coloro che differiscono la penitenza, nella vana speranza di avere una lunga vita, meritano pertanto riprovazione. Ugualmente pericoloso è il caso della malattia che può oscurare la mente in modo che l’infermo non godrà della facoltà del libero arbitrio. In tali circostanze, la sua confessione potrà essere difettosa e soprattutto incerta. La penitenza fatta nell’ora della morte, conclude il domenicano, è «dubbiosa o di rischio, e spezialmente, che ‘l più delle volte di quella cotale penitenza è cagione paura di pena e non amore di giustizia»75. La paura, sembra dire Passavanti, non è mai buona consigliera. L’uomo, dunque, deve prendere la via della certezza e confessare i propri peccati quando è in pieno possesso delle facoltà mentali:

Ora, tra ‘l dubbio e ‘l possibile, è da seguire il sano consiglio di santo Agostino, il quale parlando di questa materia conchiude: piglia il certo e lascia lo ‘ncerto76. Dove vuole dire: piglia il certo di fare penitenzia quando sé forte e sano, e quando non solamente paura di pena ma eziandio amore di giustizia a fare penitenza t’induca – per la qual cosa certamente eterna salute s’acquista – e lascia lo ‘ncerto della penitenzia indugiata insino alla morte, la qual è incerta, avegna che sia possibile, se sia valevole o sì o no.

73 «I nuovi padri del deserto sono loro, i Predicatori: l’intera terra è la loro cella, scrive Matteo Paris, e l’oceano è il loro chiostro», C. Delcorno, Le «Vitae Patrum» nella letteratura religiosa medievale (secc. XIII–XV), “Lettere italiane”, 43/2, 1991, pp. 187-207: p. 195. Precisiamo che con queste parole il benedettino Matteo Paris voleva offendere i mendicanti e lodare i cistercensi di Parigi: «Et placuit Deo, praelatis, et populo eorum honesta et ordinata conversatio; non enim vagabuntur per civitates et pagos. Non erat eis pro claustrali maceria oceanus, sed infra muros suos clausi et stabiles conversantes suo secundum regulam sancti Benedicti obediebant superiori», Matteo Paris, Chronica majora, vol. V, ed. H. R. Luard, London, 1880, A.D. 1255, Revocata est universitas Parisiensis, p. 529.

74 Cfr. il paragone tra la vita dei cistercensi e quella dei domenicani proposto dal maestro generale domenicano Umberto di Romans, infra, p. 162 n.

75 Per la differenza tra la contrizione e l’attrizione vedi infra.

76 «Ergo dimitte incertum, tene certum», Agostino, Sermones dubii, Sermo 393, De poenitentibus (PL 39, coll. 1713-1715).

Il problema della dilazione della penitenza sino alla morte, come ha osservato Thomas N. Tentler, fu discusso già nella Chiesa antica e rimase aperto per secoli77. Nel Decreto di Graziano (XII secolo) furono incluse due contrastanti opinioni patristiche: secondo la prima, la penitenza è possibile fino all’ultimo istante («Tempus uero penitenciae est usque in ultimum articulum vitae»78); la seconda, espressa da Agostino, è più cauta. La penitenza nell’ora della morte è dubbiosa e incerta; è preferibile perciò fare penitenza quando si è nella buona salute («Age poenitentiam, dum sanus es.

Si enim agis veram poenitentiam, dum sanus es, et invenerit te novissimus dies, curre ut reconcilieris: si sic agis, securus es»79). Nella dottrina penitenziale del XIII secolo l’opinione di Agostino sarà prevalente: la confessione sacramentale deve essere rapida (accelerata, festina) perché l’eventuale malattia può indebolire l’intelletto e ostacolare la penitenza80. Nell’exemplum 5 Passavanti racconta la scena della morte di un peccatore. La trama del racconto, attinto da Gregorio Magno, è scarna: un uomo malato in punto di morte vede «grande moltitudine di domoni», arrivati per portare via la sua anima81. Per scongiurare la minaccia, l’uomo emette un grido disperato:

«Indugio pure infino a domane! Indugio infino a domane!». Il senso del grido del peccatore non è immediatamente apparente: è una preghiera oppure un comando rivolto ai diavoli (in entrambi i casi le parole rivelerebbero la loro efficacia82), o ancora è un grido vuoto che non chiama nessuno?

Comunque sia, le parole del peccatore non sortiscono nessun effetto: l’uomo muore e la sua anima è

«portata da’ diavoli alle pene dello ‘nferno». Ma quello che l’uomo deve temere veramente non sono i diavoli «nerissimi e crudelissimi» (così descritti nell’exemplum 4). Nella dottrina di Passavanti il motivo di vero terrore sono la penitenza indugiata fino alla morte e la dolente consapevolezza che ormai può essere troppo tardi.

77 T. N. Tentler, Sin and Confession on the Eve of the Reformation, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1977, pp. 6-9.

78 Decretum magistri Gratiani (Corpus iuris canonici, 1), Leipzig, 1879, II, C. 33, q. 3, dist. 7. Disponibile sul sito:

<https://geschichte.digitale-sammlungen.de//decretum-gratiani/>. Questa opinione è sorretta dall’autorità di Leone Magno: «Unde Leo Papa: “Nemo desperandus est, dum in hoc corpore constitutus est”» (ivi).

79 Agostino, Sermones dubii, Sermo 393.

80 Così il domenicano Raimondo di Penyafort: «in extrema aegritudine vix potest aliquis poenitere, vel etiam cogitare», Summa sancti Raymundi de Peniafort Ordinis Praedicatorum cum glossis Joannis de Friburgo, Avignone, 1715, III, 34 (De poenitentiis et remissionibus), 22, p. 667. Sull’importanza della summa di Raimondo per lo sviluppo della teologia penitenziale nel XIII secolo cfr. P. Michaud-Quantin, Sommes de casuistique et manuels de confession au moyen âge (XII-XVI siècles), Louvain, Nauwelaerts, 1962, pp. 34-42.

81 Per le fonti cfr. Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 180-181. L’exemplum compare più volte nei trattati di Domenico Cavalca.

82 Cfr. l’analisi dell’exemplum 3, infra, p. 173.