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La distinzione IV dello Specchio è dedicata alla prima delle tre parti della «vera penitenza»:

la contrizione92. In questa sezione del trattato Passavanti si rifà in modo particolare al Commento alle Sentenze di Tommaso d’Aquino93. Il domenicano fiorentino definisce la contrizione, sulla scia di Tommaso, come «uno dolore volontariamente preso per li peccati, con proponimento di confessargli e di sodisfare»94. Vi sono, afferma Passavanti, due motivi del dolore: la paura e l’amore. Il dolore che prende origine dalla paura è un dolore imperfetto, contrapposto a un dolore che scaturisce dall’amore di Dio:

il dolore che viene solo da paura non basta e non fa sofficiente contrizione, ma conviene che venga da amore di carità, come il dolore della Magdalena, della quale disse Gesù Cristo: imperò che molto ha amato le sono dimessi e perdonati molti peccati

[...]

questo dolore debbia procedere e nascere non da servile timore di tormento o di pena, ma dall’amore della caritade che s’ha a Dio

Nel dibattito teologico la distinzione tra il dolore imperfetto e il dolore perfetto corrisponde a quella tra attrizione e contrizione95. Il termine attritio, come si ritiene, fu menzionato per la prima volta nel XII secolo da Alano di Lilla (m. 1202), ma l’elaborazione della distinzione contritio – attritio risale a Guglielmo d’Alvernia (m. 1249). Nel periodo tardomedievale la controversia tra attrizionisti e contrizionisti (che può essere riassunta nella domanda: «il pentimento motivato dalla paura del giudizio divino è sufficiente per ricevere la grazia nel sacramento della penitenza?») non fu risolta.

Nel XVI secolo il Concilio di Trento nel decreto sulla penitenza fornì una risposta affermativa alla questione della sufficienza dell’attrizione, ma il dibattito tra le due correnti di pensiero rimase aperto anche dopo il concilio e si protrasse fino al XVII secolo. Nello Specchio della vera

92 Tutte le citazioni, se non indicate altrimenti, si riferiscono alla Dist. IV, Cap. I e II, pp. 265-273.

93 Cfr. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 17.

94 «Utrum contritio sit dolor pro peccatis assumptus cum proposito confitendi et satisfaciendi» (ivi, lib. 4 d. 17 q. 2).

95 Cfr. Tentler, Sin and Confession on the Eve of the Reformation, pp. 250-263; H. A. Kelly, Penitential Theology and Law at the Turn of the Fifteenth Century, in: A New History of Penance, ed. A. Firey, Leiden-Boston, Brill, 2008, pp. 239-317.

penitenzia Iacopo Passavanti non si pronuncia sul concetto di attrizione in rapporto alla grazia divina, la sua trattazione verte sulle motivazioni interne del penitente:

Ma è da notare che non ogni dolore che l’uomo ha del peccato è contrizione, onde dicono i santi ch’egli è differenza tra contrizione e attrizione: contrizione è il dolore perfetto e volontario, che nasce dall’amore della carità di Dio, del quale abbiamo detto, attrizione è uno dolore manco, scemo e imperfetto, il quale viene da servile timore per lo quale uomo teme pena o di non perdere premio, o nasce da sì tiepido e difettuoso amore che non aguaglia la misura della gravezza del peccato.

La paura della pena viene definita, sulla scorta di Tommaso, come il «servile timore»96, ma a differenza dell’Aquinate, Passavanti non riflette sulla possibilità della trasformazione dell’attrizione in contrizione97, insiste invece sull’assoluta insufficienza dell’attrizione per la penitenza («tale atrizione d’imperfetto dolore non conduce a salute»). L’exemplum scelto da Passavanti per illustrare questa affermazione è attinto, forse tramite la mediazione dell’Alphabetum, dal Dialogus miraculorum del monaco cistercense Cesario di Heisterbach98. Il Dialogus è datato tra il 1219 e il 122399, la sua composizione precede quindi il periodo in cui si fece strada il concetto di attrizione.

Cesario narra la storia di un giovane canonico parigino, la cui penitenza fu tardiva e falsa («sera fuit et ficta»). Il canonico, che conduceva una vita viziosa, segnata dal peccato di gola e lussuria, provocò l’ira di Dio, si ammalò e morì. Prima di morire volle, mosso da una paura della morte, riconciliarsi con Dio: si confessò, mostrò i segni della contrizione e ricevette i sacramenti («timore mortis confessionem fecit, peccata deflevit, emendationem promisit, viaticum accepit, inunctus est, hominem deposuit»). Fu sepolto con grandi onori. Nel giorno del suo funerale il tempo era così sereno che tutti gli astanti erano convinti delle virtù del defunto. «Ma l’uomo vede solo le apparenze», conclude il narratore, «Dio invece guarda nel cuore» («Sed homo videt in facie, Deus autem intuetur cor»). Il canonico, infatti, dopo alcuni giorni apparve davanti a un suo compagno e dichiarò di essere dannato. Il compagno, vedendolo, rimase allibito, perché si ricordava della penitenza e della confessione del canonico.

96 «attritionis principium est timor servilis», Super Sent., lib. 4 d. 17 q. 2 a. 1 qc. 3 s. c. 1.

97 «Videtur quod attritio possit fieri contritio», ivi, lib. 4 d. 17 q. 2 a. 1 qc. 3 arg. 1.

98 Cesario di Heisterbach, Dialogus miraculorum (Caesarii Heisterbachensis monachi ordinis Cisterciensis Dialogus miraculorum), ed. J. Strange, Colonia-Bonn-Bruxelles, 1851, Dist. II, Cap. XIII, pp. 83-84; Alphabetum narrationum, 208 (Contritione sola deficiente confessio nec alia bona sufficiunt ad peccati dimissionem). Cfr.

Monteverdi, Gli «esempi» di Iacopo Passavanti, pp. 206-208.

99 Cfr. The Art of Cistercian Persuasion in the Middle Ages and Beyond. Caesarius of Heisterbach’s Dialogue on Miracles and Its Reception, ed. V. Smirnova, M. A. Polo de Beaulieu, J. Berlioz, Leiden-Boston, Brill, 2015.

Iacopo Passavanti omette la scena del funerale (ridotta a una sola frase nell’Alphabetum), ma fino a questo punto non modifica in modo significativo la narrazione di Cesario. Diamo però uno sguardo alla conclusione dell’exemplum, in tutte le tre versioni, dove il canonico spiega la ragione della sua dannazione (grassetto mio):

Cesario Unum bonum mihi defuit, sine quo nullum horum, quae enumerata sunt, mihi prodesse potuit. Quod est illud? inquit. Respondit mortuus: Vera contritio. Licet enim Deo promiserim consilio confessoris mei continentiam, sive alia quae salutis sunt, tamen dicebat mihi conscientia, quia si convalueris, observare non poteris. Et quia cor magis declinabat ad transgressionem, quam ad voti observationem, nullius peccati merui remissionem. Deus requirit fixum propositum poenitendi. Ecce hominis huius poenitentia sera fuit et ficta; nec tamen fuisset sera, si fuisset vera.

Arnoldo “Licet confessus fuerim, communicauerim et penintiam promiserim, unum tamen omisi sine quo cetere nihil prosunt.” Cui familiaris: “Quod est illud?” At ille: “Contritio licet enim promiserim continentiam, tamen mihi dicebat conscientia quod si conualescerem, non continerem, et ad hoc cor meum magis declinabat quam ad non peccandum et ideo firmum non habui propositum in bono nec per consequens perfectam contritionem.

Passavanti «Guai a me, che mi mancò quello che più m’era di bisogno, e sanza il quale niun’altra cosa vale, cioè la contrizione del cuore, che, avegna ch’io piagnesse e mostrassi dolore de’ miei peccati nella infermitade della morte e quando mi confessai, quello non fu vero dolore né vero pianto, ché io non piagnea perch’io avessi offeso a Dio peccando, né non avea dolore di contrizione per carità od amore ch’io avessi a Dio Salvatore, né non avea fermo proponimento, s’io fossi scampato, di lasciare il peccato, ma piangea per paura della pene dello ‘nferno, e avea dolore che mi convenia lasciare morendo le cose del mondo che io avea tanto amate».

Tutti i tre autori indicano che la parte mancante della penitenza del protagonista dell’exemplum era la contrizione. Nella narrazione del cistercense il canonico promette a Dio la continentia (astinenza), ma non ha intenzione di abbandonare i vizi carnali. Cesario considera falsa la confessione del canonico perché il suo proponimento di non peccare più era menzognero. È interessante osservare inoltre che il peccato del canonico viene descritto nei termini di una violazione di un voto professato («quia cor magis declinabat ad transgressionem, quam ad voti observationem»). Il Monaco del Dialogus soggiunge di aver conosciuto molti, che per paura della morte, si fanno monaci, ma una volta guariti, abbandonano la vita monastica («Plures sunt in saeculo, quos ego bene novi, qui tempore infirmitatis, cum timerent mori, se inter manus Abbatis reddiderunt, et cum convaluissent, transgressores voti facti sunt»). Il riferimento alla violazione dei

voti religiosi scompare nella raccolta di Arnoldo, dove si parla di una generica inclinazione al peccato («ad hoc cor meum magis declinabat quam ad non peccandum»). A Iacopo Passavanti l’exemplum di Cesario offre uno spunto per esporre la dottrina dell’attrizione (il termine stesso non viene usato). Mentre Cesario non accenna, se non di sfuggita, al pianto e al dolore del personaggio («peccata deflevit»), Passavanti costruisce il racconto del canonico proprio attorno a queste due parole, proponendo perfino una peculiare fenomenologia del pianto. Quella di Passavanti è una ripresa della definizione tomistica di contrizione come dolore e di lacrime come effetto del dolore100. Nell’exemplum passavantiano il canonico ha esternato il suo pentimento davanti al confessore («avegna ch’io piagnesse e mostrassi dolore»), ma il suo dolore non era mosso dalla carità, bensì dalla paura della pena («piangea per paura della pene dello ‘nferno») e dalla riluttanza di abbandonare la vita mondana («avea dolore che mi convenia lasciare morendo le cose del mondo»). Un lettore attento dello Specchio non potrà fare a meno di notare che si tratta proprio dei due tipi di paura di cui Passavanti ha parlato in precedenza e che abbiamo esaminato, rispettivamente, nella sezione I e II. Il pentimento del canonico di Parigi va identificato, dunque, come attrizione, un dolore imperfetto e insufficiente per ricevere il perdono divino.

Secondo Iacopo Passavanti la contrizione, ovvero un dolore perfetto che mancò al canonico di Parigi, potrebbe essere così grande da cancellare sia la colpa, che la pena. Ma è mai possibile che il penitente sia certo della sua contrizione? La risposta è negativa: la contrizione dovrebbe in ogni caso essere seguita dalla confessione e dalla soddisfazione:

Non però di meno si richiede e la confessione e la satisfazione, compiendo la penitenza ingiunta o presa, sì per lo comandamento della Chiesa, sì per la incertitudine, che non è l’uomo certo di sé né d’altrui ch’egli abbia tanta e tale contrizione che sia sofficiente a torre via tutto il reato della pena, cioè tutta la pena a che altri è obbligato per li peccati. Onde la vera e la perfetta contrizione conviene che sia acompagnata con proponimento di fare la confessione e la soddisfazione, abbiendo la possibilità di ciò fare101.

Giovanni Miccoli nella sua discussione sul discorso pastorale di Passavanti ha posto l’accento sul fatto che il domenicano contrapponeva l’incertezza dell’esistenza umana alla certezza garantita dall’osservanza dei precetti della Chiesa102. Il commento di Miccoli si rivela, a un certo livello di

100 «effectus doloris sunt lacrymae», Super Sent., lib. 4 d. 17 q. 2 a. 3 qc. 1 arg. 2.

101 Specchio, Dist. IV, IV, p. 275. La confessione sacramentale, come dirà successivamente Passavanti, ha il potere di generare la contrizione del penitente («se la contrizione non fosse stata sofficiente inanzi la confessione, nella confessione si concede spesse volte grazia d’avere sofficiente contrizione», Specchio, Dist. V, III, p. 289).

102 «Il «comandamento della Chiesa» è obbligatorio e vincolante «come il comandamento di Dio», indipendentemente dalla condizione soggettiva e dal giudizio del singolo; solo la sua piena, integrale, assidua osservanza può offrire quel minimo di certezza e di speranza di cui l’uomo peraltro, per la sua stessa condizione, non può non tornare ad

generalità, pienamente condivisibile, ma necessita di una precisazione: i termini «Chiesa»,

«l’istituzione ecclesiastica» non vanno intesi in maniera monolitica. L’insegnamento di Passavanti va collocato in una precisa realtà religiosa, caratterizzata da un’esperienza di rivalità tra il clero secolare e gli ordini mendicanti. La polemica con i secolari, alla quale il domenicano fiorentino non si sottrae, avrà un forte riverbero sul piano pastorale: vi sono dei casi specifici in cui il penitente, come afferma Passavanti, può legittimamente dubitare dell’idoneità del suo confessore e, in conseguenza, della validità della confessione stessa.

b. L’ignoranza e la reiterazione della confessione

Il concilio Lateranense IV (1215) stabilì con il canone Omnis utriusque sexus che ogni fedele, uomo o donna, era obbligato almeno una volta all’anno a confessare i suoi peccati al proprio sacerdote103. In seguito alla nascita degli ordini mendicanti la definizione del «proprius sacerdos», con cui si intendeva il parroco, divenne oggetto di un acceso dibattito. I domenicani e i francescani, rivendicando tra l’altro il diritto di ascoltare le confessioni, entrarono per questo motivo in un lungo conflitto con il clero secolare104. Nel 1281 papa Martino IV nella bolla Ad fructus uberes concedeva ai frati il privilegio di ascoltare le confessioni indipendentemente dal permesso del vescovo del luogo. I privilegi dei mendicanti furono però limitati da Bonifacio VIII nella bolla Super cathedram (1300). Bonifacio, vista la «gravis et periculosa discordia» tra i secolari e i mendicanti, decise di affrontare tre questioni particolarmente contenziose: predicazione, confessioni e sepolture. In materia di confessione, il pontefice Caetani decretò che i superiori dei francescani e dei domenicani dovessero scegliere i candidati «sufficienti, idonei, onesti, discreti, modesti ed esperti» ai confessori e presentare le loro candidature al vescovo locale al fine di ottenere l’autorizzazione105. La bolla

essere sistematicamente privato. In tale stato l’istituzione ecclesiastica offre quei mezzi e quegli strumenti che sono in grado di assicurare, malgrado tutto, infinite possibilità di salvezza e di protezione contro le insidie del maligno», Miccoli, La storia religiosa, p. 848.

103 «Omnis utriusque sexus fidelis, postquam ad annos discretionis pervenerit, omnia sua solus peccata confiteatur fideliter, saltem semel in anno proprio sacerdoti», 21, De confessione facienda (Dokumenty soborów powszechnych, II, p. 258).

104 Cfr. H. Lippens, Le droit nouveau des mendiants en conflit avec le droit coutumier du clergé séculier du Concile de Vienne à celui de Trente, “Archivum franciscanum historicum”, 47, 1954, pp. 241-292; R. Swanson, The

‘Mendicant Problem’ in the Later Middle Ages, “Studies in Church History. Subsidia”, 11, 1999, pp. 217-238; R.

Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 131-142; T. Gałuszka, Dominikanie i spory wokół prawa do słuchania spowiedzi. Recepcja bulli Jana XXII Vas electionis w diecezji wrocławskiej w pierwszej połowie XIV wieku, “Studia źródłoznawcze”, 52, 2014, pp. 3-22.

105 «Ac deinde praefati magistri, priores, provinciales et ministri ordinum praedictorum eligere studeant personas sufficientes, idoneas, vita probatas, discretas, modestas atque peritas ad tam salubre ministerium et officium exsequendum, quas sic ab ipsis electas representent vel faciant praesentari prealatis, ut de eorum licentia, gratia et beneplacito in civitatibus et dioecesibus eorundem huiusmodi personae sic electae confessiones confiteri sibi volentium audiant», Concilio di Vienne, 10, Dudum a Bonifacio (Dokumenty soborów powszechnych, II, p. 550).

Super cathedram fu presto revocata dal papa domenicano Benedetto XI (Inter cunctas, 1304), ma parecchi anni più tardi fu ristabilita dal Concilio di Vienne (1312) con il decreto Dudum a Bonifacio e successivamente inclusa nelle Constitutiones Clementinae (1317). Nel 1321, infine, Giovanni XXII proclamò la bolla Vas electionis, con la quale condannava gli errori del maestro parigino Giovanni di Pouilly, fiero oppositore dei privilegi dei mendicanti (secondo una delle sue tesi, la confessione fatta al frate doveva essere ripetuta davanti al proprio sacerdote106). Nella metà del XIV secolo, quando Iacopo Passavanti componeva il suo trattato, la fase più acuta del confitto era ormai passata, ma la polemica con il clero secolare era ancora lungi da essere conclusa.

Nel terzo capitolo della distinzione V dello Specchio della vera penitenzia Iacopo Passavanti sviluppa il tema degli effetti della confessione. Il domenicano cita l’autorità di Sant’Ambrogio, secondo il quale la confessione ha un triplice effetto: «la confessione libera l’anima dalla morte, la confessione apre il paradiso, la confessione dà speranza di salute»107. Passavanti, seguendo l’impostazione tomistica del suo trattato, ritiene che l’opinione di Ambrogio debba essere completata dalle considerazioni dell’Aquinate, il quale enumerò nominato ancora un altro effetto della confessione: la confessione libera il penitente non solo dal peccato, ma anche dalla pena temporale e in quanto tale può sostituire, pienamente o in parte, la soddisfazione. Ciò avviene per due motivi: o per il potere delle chiavi, o per la vergogna provata dal penitente. Soffermiamoci in modo particolare sul secondo motivo:

L’altro modo che la confessione diminuisce e scema la pena si è per la erubescenzia, cioè per la vergogna che s’ha nella confessione del proprio peccato, la quale è penosa, e spezialmente a molte persone vergognose, che anzi vorrebbono sostenere qualunque altra pena che quella della vergogna. Quella adunque vergogna penosa e vergognosa pena è in luogo di sodisfazione, come l’altre opere penose della penitenza. E però dicono i santi, che è utile il confessare più volte e a più confessori il peccato, perché, avendone tuttavia nuova vergogna e nuova pena, si scema la pena debita. E tanta potrebbe esser la pena del dolore della contrizione e la pena della vergogna, la quale l’uomo volontariamente sosterrebbe per amore di giustizia e caritade, che non rimarrebbe a sostenere pena veruna nel purgatorio per li peccati108.

106 È il primo errore di Giovanni di Pouilly condannato nel Vas electionis: «Primo, siquidem adstruens, quod confessi fratribus habentibus licentiam generalem audiendi confessiones, teneantur eadem peccata, que confessi fuerant, iterum confiteri proprio sacerdoti» (cito dall’edizione della bolla di Tomasz Gałuszka, Dominikanie i spory wokół prawa do słuchania spowiedzi, p. 18).

107 Specchio, Dist. V, III, p. 288. La citazione è attinta con ogni probabilità dal Decreto di Graziano oppure dalle Sentenze del Lombardo: «Ecce nunc tempus acceptabile adest, in quo confessio a morte animam liberat, confessio aperit paradysum, confessio spem saluandi tribuit», Decretum magistri Gratiani, II, C. 33, q. 3, dist. 1, c. 39; Pietro Lombardo, Sententiarum libri quatuor, Lib. IV, Dist. XVII (PL 192, col. 880).

108 Specchio, Dist. V, III, p. 292 (grassetto mio).

Passavanti riprende le riflessioni di Tommaso sulla possibilità di confessarsi a uno che non sia il proprio prete (e sull’eventuale necessità di riconfessare a lui i peccati)109, ma come si è già detto, a metà Trecento questo aspetto della controversia, almeno dal punto di vista del diritto canonico, era già risolto110. L’Aquinate non vedeva la necessità della riconfessione, ma affermava che nel caso in cui il penitente nondimeno si dovesse riconfessare davanti al «proprio prete», tale confessione sarebbe benefica, perché a causa della vergogna e del potere delle chiavi («ex erubescentia confessionis; ex vi clavium») potrebbe essere cancellata interamente la pena111. Tommaso, facendo leva sul sentimento di vergogna, metteva in rilievo il ruolo della confessione nella formazione della coscienza del penitente112. Nella stessa distinzione del Commento alle Sentenze viene affrontata la seguente questione: quando il penitente si confessa davanti a diversi confessori, prova maggiore vergogna e siccome la vergogna diminuisce la pena, la sua confessione sarà più fruttuosa113. Tommaso confuta questa proposizione perché, come sostiene, la confessione deve essere intera («integra») e il penitente non può dividere la sua confessione tra i diversi confessori114.

Perché la speculazione di Tommaso si trasforma in Passavanti nell’esortazione a confessarsi

«più volte e a più confessori»? Come conciliare questa esortazione con l’imperativo di preservare l’integrità della confessione? Passavanti, a mio avviso, non si esprime in questo passo con sufficiente chiarezza. Per comprendere al meglio il discorso di Passavanti dobbiamo perciò rivolgere la nostra attenzione al trattato Frutti della lingua del domenicano pisano Domenico Cavalca. Cavalca descrive i benefici della confessione reiterata, ma la sua trattazione è accompagnata da forti accenti polemici nei confronti del clero secolare:

molto è utile confessarsi più e più volte, acciocchè almeno delle molte volte, alcuna ne sia ben fatta : ed anco perchè, come dice santo Agostino, quanto più e più l’uomo per suo dispetto, e per farsi vergogna si confessa, più conseguita e merita la divina misericordia. […] E però per questo rispetto, e per altri molti come

109 Super Sent., lib. 4 d. 17 q. 3 a. 3 qc. 5 («Videtur quod non possit aliquis alteri quam proprio sacerdoti confiteri, etiam ex privilegio, vel mandato superioris»).

110 La confessione, come stabilito dalla bolla Vas electionis, non va ripetuta, a patto che venga osservato l’obbligo della confessione annuale secondo la normativa del Lateranense IV: «Cum illi, qui predictis fratribus confitetur, non magis teneatur eadem peccata iterum confiteri, quam si alias confessi fuisset suo proprio sacerdoti iuxta concilium generale» (Gałuszka, Dominikanie i spory wokół prawa do słuchania spowiedzi, p. 19).

111 «Si tamen iterum confiteri teneretur, non frustra primo confessus fuisset; quia quanto pluribus sacerdotibus confitetur quis, tanto plus de poena ei remittetur, tum ex erubescentia confessionis, quae in poenam satisfactoriam computatur, tum ex vi clavium. Unde toties posset aliquis confiteri quod ab omni poena liberaretur», Super Sent.,

111 «Si tamen iterum confiteri teneretur, non frustra primo confessus fuisset; quia quanto pluribus sacerdotibus confitetur quis, tanto plus de poena ei remittetur, tum ex erubescentia confessionis, quae in poenam satisfactoriam computatur, tum ex vi clavium. Unde toties posset aliquis confiteri quod ab omni poena liberaretur», Super Sent.,