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II. FRANCO SACCHETTI PREDICATORE

2. Predicare la pace

a. «La via del mezzo»

La guerra per Franco Sacchetti è una realtà tangibile. Quando nel 1375 iniziò «la guerra della Chiesa»275, combattuta tra Firenze e papa Gregorio XI, Sacchetti era già un uomo maturo e aveva alle spalle anni di esperienza politica. Non di rado, in veste di poeta, aveva celebrato le vittorie dei fiorentini e si era scagliato contro i loro nemici. Eppure, l’esperienza della guerra degli Otto Santi fu determinante per la sua percezione della guerra e della pace. Nei componimenti poetici di quegli anni l’impegno civile e patriottico di Sacchetti senza alcun dubbio raggiunse il suo culmine.

Ambasciatore fiorentino a Bologna nel 1376 e podestà nei comuni di Raggiolo e di Romena nel 1377276, Sacchetti poté sicuramente osservare da vicino le atrocità commesse dalle truppe di Gregorio XI nel territorio romagnolo. Sconvolto dall’eccidio di Cesena del 1377, compiuto dai mercenari del cardinale Roberto di Ginevra (futuro Clemente VII), Sacchetti compianse in una canzone «l’inocente sangue di Cesena, / sparto da’ lupi tuo’ con tanta rabbia»277. In quella canzone l’indignazione di Sacchetti e il ricordo dei massacrati sfociò in una violenta invettiva nei confronti del responsabile ultimo delle stragi e dello spargimento di sangue: papa Gregorio XI278. Gregorio, questo lupo travestito da pastore, che profana il soglio pontificio, è anche l’unico che può portare la pace in Italia. Lo scrittore esorta quindi il papa a desistere dalla guerra e a cercare i nemici altrove:

«Italia ponga in pace, ed a chi ingombra / la Terra Santa pinga la sua asta»279. La canzone si conclude con una maledizione verso Gregorio: se non metterà l’Italia in pace, sarà dimenticato, morrà e nell’inferno sarà chiamato «papa Guastamondo»:

Se non che, come già fu spento e schiuso tra gli altri del catalogo Lïone,

a ciò che di sì pessimo non parli,

275 Trecentonovelle, XXXVIII, p. 152. Sulla guerra degli Otto Santi si veda G. A. Brucker, Florentine Politics and Society, 1343-1378, Princeton, Princeton University Press, 1962, pp. 244-335 (capitoli VI e VII).

276 Sacchetti fu eletto podestà il 30 luglio 1377 e doveva ricoprire la carica dall’11 settembre, ma già l’11 ottobre morì sua moglie. Non è chiaro se Sacchetti sia rimasto in ufficio per tutto il periodo del suo incarico (Li Gotti, Franco Sacchetti, pp. 40-41).

277 Libro delle rime, CXCIV, vv. 53-54.

278 Sull’anticlericalismo e sulla retorica anticuriale nella cultura trecentesca si veda Pasquini, Il mito polemico di Avignone nei poeti del Trecento.

279 Libro delle rime, CXCIV, vv. 90-91.

così lui veggio, e ‘n pig<g>ior condizione, il nome suo in terra esser deluso,

conquiso il corpo, ed ogni ben mancarli, e ‘nfine ne l’abisso gire al fondo, chiamato essendo papa Guastamondo280.

Il conflitto tra la Chiesa e Firenze poté concludersi solo grazie alla morte di Gregorio, avvenuta nel marzo del 1378. Sempre in quell’anno, come si è già detto, Sacchetti si ritirò dalla vita pubblica e probabilmente iniziò a ideare la composizione delle Sposizioni di vangeli.

Uno dei temi principali delle Sposizioni è la dialettica tra guerra e pace. A differenza dei componimenti precedenti, lo scrittore nel suo quaresimale è meno pungente e riesce a tenere a freno il suo piglio polemico. La condanna dei nemici di Firenze, più volte da lui espressa, si trasforma nelle Sposizioni nella condanna della violenza. Sacchetti, prima fervente fautore degli Otto e difensore della libertas fiorentina, ora si rammarica per la violenza che imperversa in Italia e in Toscana:

Ma sventurata Italia è più che sventurata Toscana, che bene è il suo nome diritto, cioè ‘tosco’: ché per alcuna cosa non si dée percuotere o uccidere, e ciascheduno di quella con fiero sangue sanza cagione si fa micidiale, in vergogna e in obrobbio de gl’Italiani, e spezialmente de’ Toscani281.

L’idea della guerra nelle Sposizioni appare ridimensionata e assume un aspetto morale. L’autore non inveisce più contro i tiranni o contro i pastori maligni della Chiesa che prendono di mira la libertà di Firenze. I colpevoli sono invece tutti quelli che contravvengono al comandamento dell’amore verso i nemici. La radice del male sta nell’odio personale, nell’odio che «uccide l’anima»282. Il rimedio all’odio può essere trovato solo dentro l’anima di ogni singolo cristiano. La parola di pace predicata da Sacchetti smette così di avere un carattere strettamente sociale o politico.

Il tema della pace nelle Sposizioni viene trattato nel modo più complesso nella predica del martedì dopo Pasqua (XLIX), con la quale si conclude l’intero ciclo quaresimale283. In questo capitolo vorremmo proporre una lettura della predica XLIX, volta ad individuare alcuni tratti caratteristici della concezione della pace elaborata da Sacchetti. Nella nostra analisi faremo ricorso

280 Ivi, vv. 95-102.

281 Spos., III, p. 123.

282 Ivi.

283 Spos., XLIX, pp. 283-288. Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni delle Sposizioni in questo capitolo si riferiranno alla predica XLIX.

a un procedimento metodologico proposto da David d’Avray284. Secondo d’Avray la maggior parte dei predicatori del tredicesimo e del quattordicesimo secolo cercava di strutturare vari temi all’interno di una predica in modo che il risultato finale potesse essere soddisfacente dal punto di vista estetico. D’Avray suggerisce a chi studia la predicazione di quel periodo di dividere la struttura della predica in due parti e di distinguere il messaggio dalle immagini mentali che lo rafforzano285. Lo studioso consiglia inoltre di non sottrarsi al giudizio estetico: bisogna saper distinguere una predica riuscita da una predica mediocre. La conoscenza della struttura modello permette di ascrivere una predica allo specifico genere, aiutando così a capire quali erano le intenzioni del predicatore e le aspettative da parte del pubblico286.

Il nostro scopo è diverso. Nel caso delle Sposizioni non ci troviamo di fronte a delle “vere”

prediche, ma abbiamo a che fare con un’imitazione del discorso dei predicatori. La valutazione estetica, proposta da d’Avray, sarebbe più pertinente nell’analisi di prediche destinate a essere pronunciate dal pulpito: il predicatore di successo doveva infatti saper costruire un testo di facile memorizzazione. Questo aspetto mnemotecnico è meno percettibile nelle Sposizioni di vangeli, ideate con ogni probabilità come testo da leggere. Il metodo proposto da d’Avray ci permetterà però di gettare luce sul outillage intellettuale di Sacchetti. Osserveremo il banco di lavoro dello scrittore e cercheremo di rispondere alla domanda fino a che punto Sacchetti sia riuscito a interiorizzare e a ricreare i modelli e le varietà della predicazione contemporanea.

La predica XLIX ha per thema il versetto «Pax vobis» (Lc 24, 36). Il thema però, come non di rado avviene nelle Sposizioni, non è in alcun modo commentato. Non viene rievocata la scena biblica dell’incontro dei discepoli con il Cristo risorto e inizialmente non viene spiegato in che modo uno possa pervenire alla pace. Il ragionamento di Sacchetti parte invece dal concetto di mezzo. La predica si apre con un aforisma in apparenza banale: «Ogni cosa a volere che sia perfetta, conviene pigliare la via del mezzo». Seguono due esempi: il primo deriva dal campo semantico dell’economia: la via di mezzo tra prodigalità e avarizia sta nella «libertà» (liberalità):

«spendere dove si conviene, e ritenere come si conviene». Nel secondo esempio si consiglia di non esagerare nel digiuno, mangiando troppo o troppo poco del solito, perché l’esagerazione può portare

284 D. L. d’Avray, Method in the Study of Medieval Sermons, in: Modern Questions about Medieval Sermons. Essays on Marriage, Death, History and Sanctity, ed. N. Bériou, D. L. d’Avray, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1994, pp. 3-29.

285 «Message» e «mental imagery» sono termini di d’Avray.

286 «If a Martian historian of world culture in this century could not distinguish between a brilliant and a botched performance of a Bel Canto opera, and gave equal weight to the latter in his account of the genre’s nature, he, she, or it would be a bad historian, as well as a bad critic, for having failed to understand the genre’s teleological structure, i.e. what its practitioners were aiming at and what the people on the receiving end were hoping for»

(d’Avray, Method in the Study of Medieval Sermons, p. 24).

alla perdita di senno: «esce l’uomo talora de la memoria, e poi non conosce né sé né Dio». Risuona qui un’altra volta l’avversione di Sacchetti alle pratiche penitenziali troppo rigorose287.

A prima vista la retorica sacchettiana e gli appelli alla moderazione non si distanziano molto dalle raccomandazioni di Paolo da Certaldo, Giovanni di Pagolo Morelli e altri «mercanti scrittori»

tre e quattrocenteschi. Paolo da Certaldo nel Libro di buoni costumi affermava che «in tutte le cose vuole avere mezzo, e, sempre tenendo in ogni tuo fatto la via del mezzo, ne sarai lodato e tenuto più savio; de lo straboccare nel troppo e nel poco ti guarda, e se pecchi ne l’uno, usa anzi il poco che ‘l troppo»288. Con parole simili si esprimeva più tardi anche Giovanni di Pagolo Morelli: «Inn ongni chosa abbi modo e misura / sanza la quale alchuna chosa dura»289. Secondo Christian Bec e Vittore Branca, la cifra della scrittura mercantile stava proprio nell’ideale della mediocritas. Entrambi gli studiosi scorgevano nella scrittura mercantile la costante tensione e divaricazione tra l’etica cristiana e le esigenze dell’attività mercantile. Per Branca gli appelli a cercare la misura e il giusto mezzo erano uno strumento elaborato per conciliare queste due realtà o almeno per attenuare la tensione tra di esse290. Bec sosteneva invece che nel Libro di buoni costumi il concetto di giusto mezzo che inizialmente esprimeva le preoccupazioni spirituali dell’autore, man mano si andava laicizzando e diventava un principio di carattere prettamente mercantile, una «règle à suivre pour s’imposer au monde»291. Giacomo Todeschini ha giustamente messo in rilievo il fatto che questo tipo di storiografia abbia insistito troppo nel caratterizzare i «mercanti scrittori» come «eroi della modernità incentrata su di sé» («heroes of a self-centered modernity») e nell’accentuare un divario fra la cultura laica e la cultura religiosa e, di conseguenza, tra l’economia e la morale cristiana292. Il

287 «Sono molti che, come uno vento viene a loro, si muovono: – Io voglio digiunare in pane e acqua uno anno. – Io voglio andare co’ piè nudi a San Iacopo. – Io voglio stare senza favellare cotanto. E talora escono fuori de la memoria. Così, hanno poi guadagnato? Questo si può dire spirito di stoltizia. E però dice: “Nolite credere omni spirito”, però che Dio non vuole che tu mora di fame o di freddo, et sic de singulis» (Spos., IV, p. 127). Sacchetti segue da vicino i consigli dei predicatori che frequentemente esortavano alla moderazione nel digiuno («E questo potrebbe esser troppo, come il digiuno e l’altre aflizioni corporali, che si vogliono fare con modo e con misura, sì che si conservi la vita e la santade», Passavanti, Specchio, Dist. IV, I, p. 269).

288 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, 375, in: Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Rusconi, Milano, 1986, pp. 91-92. Si potrebbero riportare ancora altri esempi:

«Molto è bella cosa e grande sapere guadagnare il danaio, ma più bella cosa e maggiore è saperlo spendere con misura e dove si conviene» (ivi, 81, pp. 12-13); «Ma meglio è la via del mezzo e la ragione: e a quello t’attieni in ogni tuo fatto, e capiterai bene» (ivi, 151, p. 35).

289 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi. Nuova edizione e introduzione storica, a cura di C. Tripodi, Firenze, Firenze University Press, 2019, Proverbi volghari detti per huomini valenti, p. 166. Cfr. Paolo da Certaldo: «”Misura dura”:

e però in ogni tuo fatto abbi misura acciò che tu non possi fallare, ché chi avrà misura ne’ suoi fatti soprastarà a ogni vizio» (Libro di buoni costumi, 3, p. 5).

290 «Questa misura, questo giusto modo […] sono proprio quelli che […] possono fare superare la divaricazione fra la

“ragion di mercatura” e la visione cristiana dell’esistenza» (Branca, Introduzione, in: Mercanti scrittori, p. XXXII).

291 C. Bec, Les marchands écrivains à Florence 1375-1434, Paris-La Haye, Mouton, 1967, pp. 107-108.

292 G. Todeschini, Theological Roots of the Medieval/Modern Merchants’ Self-Representation, in: The Self-Perception of Early Modern “Capitalists”, ed. M. C. Jacob, C. Secretan, New York, Palgrave-MacMillan, 2008, pp. 17-46 (p.

18). Si veda anche il lavoro fondamentale di Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo

nascente discorso economico, ha notato Todeschini, affondava invece le proprie radici nelle strutture linguistiche e concettuali della teologia293. La predilezione di Sacchetti per l’aforisma, per la frase fatta, non è, almeno per quanto riguarda il concetto del mezzo, «una specie di grossolano e inconscio realismo» (come voleva Franca Ageno), bensì è un consapevole riferimento filosofico e teologico294. L’aforisma di Sacchetti, se letto proprio nel contesto teologico, risulterà meno esplicito di quanto possa apparire a prima vista. Christian Bec, pur affermando che la mediocritas è un ideale di origine classica e cristiana, non approfondisce l’argomento295. È risaputo però che l’idea della virtù collocata nel mezzo risale all’Etica Nicomachea di Aristotele. La «via del mezzo», esaltata sia da Sacchetti sia dai mercanti scrittori, non sarebbe a nostro parere altro che un «volgarizzamento»

del concetto aristotelico.

La definizione aristotelica della virtù come «habitus electivus in medietate existens» (nella traduzione latina di Roberto Grossatesta) venne ripresa da svariati commenti all’Etica, in primo luogo quello di Tommaso d’Aquino296. Nell’ambito delle lingue romanze tra gli autori che si ispirarono all’etica aristotelica ritroveremo sia Brunetto Latini che Dante Alighieri. Latini nel Tresor, sulla scia di Aristotele, definiva la virtù come «uns habiz par volenté qui par certe raison et determinée demore au mileu qui est selonc nos»297. Dante nella canzone Le dolci rime (commentata nel Convivio) si esprimeva in modo simile:

Dico ch’ogni vertù principalmente vien da una radice:

vertute, dico, che fa l’uom felice in sua operazione.

virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino, 2002.

293 «in many cases the same language and the same words operated in the theological as well as in the economic field, because of the semantic potency so characteristic of many Christian economic metaphors or archetypes regarding the strategies exploitable to gain the heavenly treasure» (Todeschini, Theological Roots of the Medieval/Modern Merchants’ Self-Representation, p. 18).

294 «l’opera letteraria del Sacchetti non è solo uniforme, ma addirittura priva di svolgimento, pur nel suo vario articolarsi. Il suo perenne e più profondo motivo è una fede istintiva e immobile nel valore assoluto del vocabolo, della frase, della formula, del luogo comune: una specie di grossolano e inconscio realismo» (F. Ageno, Ispirazione proverbiale del «Trecentonovelle», “Lettere italiane”, 10/3, 1958, pp. 288-305). Sulla stessa linea si colloca anche Christian Bec, affermando che «Paolo di Pace [Paolo da Certaldo], comme Sacchetti dans une certaine mesure, se soumet au formalisme du langage et témoigne de son incapacité à le modifier et à le renouveler» (Bec, Les marchands écrivains, p. 97).

295 Bec, Les marchands écrivains, p. 107.

296 Tommaso d’Aquino, Sententia Ethic., lib. 2 l. 7 n. 4. Si veda anche la quaestio «utrum virtutes morales sint in medio» (Summa Theologiae, Iª-IIae q. 64 a.).

297 Brunetto Latini, Li livres dou tresor par Brunetto Latini, éd. P. Chabaille, Paris, Imprimerie Impériale, 1863, Livre II, part I, chap. XV, p. 271. Cfr. la versione toscanizzata: «la virtude è abito volontario, che sta nel mezzo a noi, con determinata ragione» (Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, a cura di L. Carrer, Vol. II, Venezia, Gondoliere, 1839, Libro VI, Cap. XIII, p. 22).

Questo è, secondo che l’Etica dice, un abito eligente,

lo qual dimora in mezzo solamente, e tai parole pone298.

Non pare tuttavia che Dante, traducendo alla lettera l’astrusa definizione latina, potesse contribuire alla vasta diffusione delle nozioni aristoteliche nella cultura trecentesca299. Ma a Firenze nei primi anni del secolo XIV un altro personaggio di rilievo, il domenicano Giordano da Pisa, mise in opera un considerevole progetto di volgarizzamento e di diffusione della dottrina aristotelico-tomistica300. Nelle prediche di Giordano ritroveremo un chiaro riferimento ad Aristotele («il grande filosofo»), nonché l’affermazione che la virtù consiste nel «tenere la via del mezzo». Citiamo a questo proposito due brani delle sue prediche avventuali, tenute rispettivamente nel 1304 e nel 1305:

Dicono i Santi tutti, e i filosofi che il mezzo è solamente una cosa, la quale propriamente pongono per mezzo verace. Questa è la virtù: onde dicono, che la virtù è mezzo di tutte le cose: e ogni virtù è uno mezzo: e virtù null’altra cosa è, che uno mezzo in tutte le cose. Fuori del mezzo non è virtù; tutto è vizio e peccato. Quale è dunque questo mezzo? Non fare mai nè più nè meno, che tu debbie; ma sempre, come dèi, in tutte le cose.

Onde qualunque otta tu fai meno o fai troppo, sì esci fuori del mezzo, e vai manco; sicché il soperchio e ‘l poco è fuori di virtude, ed è fuori di questo mezzo. Onde se manuchi troppo, o bèi troppo, o dormi, o favelli, o nulla cosa fai più che non debbi, sì valichi e se’ fuori di questo mezzo, e manchi. Onde la virtù non è altro, se non in tutte le cose, in tutte l’operazioni tenere la via del mezzo, nè il troppo, né il poco301.

la virtù sta nel mezzo, e i vizii nelle estremitadi. Siccome dice il grande filosofo, e dà esemplo d’una virtude che si chama larghezza. Contrario a questa virtù si è avarizia, cioè quegli che non vuole dare nulla; e ancora l’ è contrario un altro vizio, che si chiama prodigalità, cioè lo scialacquare e dare troppo. Ecco che questa virtù si è contraria a due vizii, al poco spendere e al troppo302.

298 Dante Alighieri, Convivio, a cura di G. Inglese, Milano, BUR, 2015, IV, Cap. I, Le dolci rime d’amor, ch’i’ solìa, vv. 81-88. Nel trattato IV compare altre due volte la stessa definizione della virtù come «abito elettivo consistente nel mezzo» (Cap. XVII, 7; Cap. XX, 1).

299 Non possiamo scordarci della limitatissima diffusione del Convivio nel Trecento. Cfr. S. A. Gilson, Reading the Convivio from Trecento Florence to Dante’s Cinquecento Commentators, “Italian Studies”, 64/2, 2009, pp. 266-295.

300 Il più recente contributo sul tema è quello di C. Iannella, Giordano da Pisa e il pubblico. Modelli e comportamenti, in: The Dominicans and the Making of Florentine Cultural Identity (13th-14th centuries) / I domenicani e la costruzione dell’identità culturale fiorentina (XIII-XIV secolo), ed. J. Bartuschat, E. Brilli, D. Carron, Reti Medievali E-Book, Firenze University Press, 2020, pp. 141-155. Il lavoro fondamentale sulla predicazione giordaniana è quello di Carlo Delcorno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare.

301 Giordano da Pisa, Prediche del beato fra Giordano da Rivalto dell’Ordine dei Predicatori recitate in Firenze dal 1303 al 1309, vol. 2, Milano, Silvestri, 1839, Predica CIX, 13 dicembre 1304, p. 431.

302 Giordano da Pisa, Prediche inedite del B. Giordano da Rivalto dell’Ordine de’ Predicatori recitate in Firenze dal 1302 al 1305, a cura di E. Narducci, Bologna, Romagnoli, 1867, LXXXVII, 25 dicembre 1305, p. 413.

Nella predica del 13 dicembre 1304 Giordano commenta il thema «Quid existis in desertum videre?

Arundinem vento agitatam» (Mt 11, 7). Il predicatore spiega che la felicità, o la beatitudine, equivalgono allo stato di immutabilità, immobilità303. Benché la vera felicità, afferma Giordano, possa essere trovata solo nella vita eterna, la beatitudine dei santi incomincia già nel tempo della loro permanenza terrestre. Il predicatore elenca successivamente quattro ragioni dalle quali dipende l’immobilità dei santi. Una delle ragioni è la «ratione [sic] mediationis». L’unica cosa immobile, continua il domenicano, è il mezzo – l’unico vero mezzo è la virtù. La virtù, quindi, sta nel mezzo e il peccato ne sta fuori. L’opposizione tra virtù e peccato viene in seguito più volte illustrata con l’opposizione tra scarsità ed eccesso («Non fare mai né più né meno»; «fai meno o fai troppo»; «il soperchio e ‘l poco»; «né ‘l troppo, né ‘l poco»). Notiamo che nell’esemplificazione Giordano ricorre ai temi tipici della tradizione ascetica, legati al corpo umano (digiuno, astinenza, sonno, conversazione): «se manuchi troppo, o bei troppo, o dormi, o favelli, o nulla cosa fai più che non debbi». L’imperativo morale di «tenere la via del mezzo» è connesso anche con il corretto uso del denaro. Nel secondo brano citato (predica del 25 dicembre 1305) Giordano, riprendendo il testo dell’Etica, spiega quindi che alla virtù di «larghezza» (liberalitas) si oppongono due estremi: la prodigalità e l’avarizia, il dare troppo e il dare troppo poco304.

È indubbio che la definizione aristotelica della virtù sia stata «volgarizzata» da Giordano da Pisa. «Volgarizzata», cioè tradotta dal latino al volgare, ma anche dal linguaggio scolastico al linguaggio pastorale. Il predicatore, consapevole di rivolgersi al pubblico laico, abbandona una parte della definizione aristotelica, ritenuta forse troppo difficile da comprendere («habitus electivus») e per rafforzare l’effetto retorico ricorre alla triplice ripetizione («la virtù è mezzo di

È indubbio che la definizione aristotelica della virtù sia stata «volgarizzata» da Giordano da Pisa. «Volgarizzata», cioè tradotta dal latino al volgare, ma anche dal linguaggio scolastico al linguaggio pastorale. Il predicatore, consapevole di rivolgersi al pubblico laico, abbandona una parte della definizione aristotelica, ritenuta forse troppo difficile da comprendere («habitus electivus») e per rafforzare l’effetto retorico ricorre alla triplice ripetizione («la virtù è mezzo di