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I DIRITTI POLITICI DEI RESIDENTI STRANIERI IN EUROPA IL CASO DI ROMA

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(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“L’ORIENTALE”

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE INDIRIZZO STORICO-ANTROPOLOGICO

TESI DI LAUREA IN

ANTROPOLOGIA ECONOMICA

I DIRITTI POLITICI DEI RESIDENTI STRANIERI IN EUROPA IL CASO DI ROMA

.

RELATORE CANDIDATA

CH.MO PROFESSOR CECILIA CARDITO

CLAUDIO MARTA [email protected]

CORRELATORE CH. MO PROFESSOR DOMENICO MADDALONI

ANNO ACCADEMICO 2003-2004

(2)

“La polis, propriamente parlando, non è la città stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza fra le persone che vivono insieme a questo scopo”.

Arendt H., 1994, p. 145.

“Nell’ambito delle rispettive attribuzioni e dotazioni di bilancio, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti locali adottano i provvedimenti concorrenti al perseguimento dell’obbiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelli inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana”.

Art. 3, 5 della L. 23/08/2002, n. 189 (nota come

“legge Fini-Bossi”) ripreso dal D. Lgs. N. 286/1998 (noto come “legge Turco-Napolitano”)

(3)

Indice

Presentazione...…...5

1. LA PARTECIPAZIONE POLITICA DEI RESIDENTI STRANIERI. CENNI GENERALI. 1.1. Residenti stranieri...…...8

1.2. Culture politiche...…...12

1.3. Nozioni generali sui diritti politici...19

1.4. La giurisprudenza ...…...23

1.5. Critiche ...……...34

1.6. Forme di consultazione e di rappresentanza ...…...42

1.7. Scegliere degli interlocutori...…...46

2. LE ESPERIENZE EUROPEE...….51

2.1. Regno Unito 2.1.1. Partecipazione e rappresentanza politica delle minoranze etniche nel Regno Unito ...…………...…..…....55

2.1.2. Partecipazione elettorale. Tendenze e modalità...…....58

Iscrizione alle liste...……….…...58

Affluenza...…………...….…...……..59

Comportamento elettorale...….…...61

Opinioni...……....…...65

Candidati..……...…...…...67

2.1.3 La politica...…...…...…...72

2.2. Francia 2.2.1. Partecipazione politica dei residenti stranieri in Francia...…...75

2.2.2. Forme locali di consultazione...…...…...77

2.2.3. Partecipazione elettorale (elezioni regionali del 1998)...…...82

2.2.4. Partecipazione elettorale. Tendenze e modalità...…..…...86

Partecipazione e associazionismo ...…...…....86

Gli elettori...…..…...87

Gli eletti......…...89

(4)

2.2.5. La politica...…...91

2.3. Paesi Bassi 2.3.1. Partecipazione politica dei residenti stranieri nei Paesi Bassi...96

2.3.2. La politica...…...…..97

2.3.3. Partecipazione elettorale. Tendenze e modalità...…..….100

Affluenza...….…...100

Gli eletti...…...102

Modelli interpretativi...…...…...104

Naturalizzazione....……...…...109

2.3.4. Forme locali di consultazione...…...112

2.4. Svezia. 2.4.1. Partecipazione politica dei residenti stranieri in Svezia...…....114

2.4.2. Partecipazione elettorale. Tendenze e modalità...…....116

Opinioni e partecipazione...…...116

Ostacoli...…...119

Affluenza …………...…...120

Un modello interpretativo....…...121

2.4.3. Forme locali di consultazione...…...123

2.5. Conclusioni...…...126

3. RAPPRESENTANZA POLITICA E DIRITTO DI VOTO IN ITALIA. 3.1. Introduzione...130

Le leggi in materia di immigrazione...….131

Il dibattito sul diritto di voto...…...133

Forme di consultazione...….…....138

Associazionismo...…... …...143

1.1

Due esempi di Consulta: Bolzano e Torino...149

3.2. L’esperienza del Consigliere aggiunto a Lecce...…...153

3.3. Il voto ai referendum comunali e alle elezioni municipali: Genova, Venezia e Forlì...155

3.4. Le Regioni: Marche, Emilia Romagna e Toscana...…...…..162

(5)

3.6. Scegliere la rappresentanza: eleggere o nominare?...…...170

3.7. Rilevanza delle appartenenze identitarie nella rappresentanza.……...172

3.8. Ruolo dell’associazionismo...……... …...176

3.9. Giudizi degli interessati, effetti delle esperienze...181

4. IL CASO DI ROMA...…...186

4.1. Cenni generali sull’immigrazione a Roma...186

4.2. Le elezioni di Roma, primi passi...…...188

4.2.1. Cronaca delle elezioni, dichiarazioni, programmi...191

4.2.2. Il regolamento...……...198

4.2.3. Critiche all’indomani delle elezioni...…...200

4.3. I Consiglieri comunali eletti...…...203

4.4. La Consulta delle comunità straniere...…...208

4.5. Mobilitazioni a favore del diritto di voto amministrativo: il gruppo di Roma...…...211

4.6. Scegliere la rappresentanza: eleggere o nominare?...…...214

4.7. Rilevanza delle appartenenze identitarie nella rappresentanza...…….217

4.8. Ruolo dell’associazionismo...…...228

4.9. Giudizi degli interessati, effetti delle esperienze...…...231

Conclusioni...…...238

Appendice...…...246

Bibliografia...…..…...325

Ringraziamenti...341

(6)

Presentazione

L’idea di questa tesi è nata a partire dall’interesse da me maturato per le prospettive antropologiche nell’ambito delle relazioni interetniche, unito alla curiosità per l’evento delle elezioni romane dei Consiglieri aggiunti. Si è pensato, da un lato, di analizzare le percezioni identitarie dei migranti, il loro modo di rapportarsi al proprio gruppo, agli altri gruppi e all’amministrazione locale, e, dall’altro, si è voluto ricostruire come l’Ente Locale si rapporti agli stranieri, prendendoli come una categoria in sé o come appartenenti a gruppi nazionali.

Quando si è chiamati alla partecipazione politica avviene, infatti, una redifinizione obbligata del sé, una messa in discussione dei propri rapporti sociali e del proprio modo di definirsi. Nelle consultazioni politiche destinate ai soli stranieri, si tratta di ridiscutere le proprie posizioni all’interno delle categorie proprie delle realtà migratorie: vale a dire si discute tra persone appartenenti a diverse religioni, nazionalità, comunità. Non si tratta quindi delle classiche opposizioni tipiche delle consultazioni “nazionali”, destra e sinistra, cattolici e laici, ma di opposizioni tra immigrati filippini o cingalesi, rumeni o albanesi, marocchini o senegalesi. Non solo si sceglie un rappresentante, ma si decide se questo debba essere un connazionale, se debba essere un leader riconosciuto, una persona nuova, un esponente dell’associazionismo ecc. in più si tratta di vedere quale sia il rapporto tra gli stranieri coinvolti e le amministrazioni e di come le elezioni siano organizzate, se sono una “concessione dall’alto” o il frutto di una rivendicazione degli stranieri.

Si è pensato quindi di ricostruire il percorso che ha portato alle elezioni di Roma per i Consiglieri aggiunti, partendo da volantini di immigrati in campagna elettorale si è andati all’indietro, alle origini del dibattito.

Il primo capitolo della tesi cerca, appunto, di introdurre l’argomento generale, i soggetti che sono chiamati in causa, il significato del partecipare alla politica, dell’espressione del voto. Si spiegano quali sono le opinioni delle varie forze in campo riguardo il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti e che tipo di cultura politica ci sia dietro ai sistemi attuati dai vari Stati per integrare le persone straniere, per poi toccare il dibattito sulle idee di nazionalismo, assimilazionismo e

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Spiegare quale filosofia politica muova le scelte politiche dei vari Stati è utile ad introdurre le scelte fatte in Europa in materia di partecipazione politica degli stranieri. Il secondo capitolo tratta, infatti, delle diverse esperienze di quattro Stati europei: Regno Unito, Francia, Paesi Bassi e Svezia. Il Regno Unito si dimostra un caso peculiare, in quanto i cittadini dell’ex Commonwealth residenti nel paese votano a tutte le elezioni.

La Francia, invece, non concede il diritto di voto amministrativo ai non cittadini, però ha sperimentato negli anni diverse modalità di consultazione locale, Consulte e Consiglieri aggiunti, simboliche e di efficacia variabile. La Francia è un paese di ius soli, coloro che nascono nel paese anche da genitori stranieri, sono francesi e godono del diritto di voto, è interessante, quindi, notare quale sia il comportamento elettorale dei cittadini “di origine straniera”. Paesi Bassi e Svezia hanno invece concesso il diritto di voto amministrativo ai residenti stranieri affiancandolo ad altri metodi di consultazione.

Questi esempi possono servire a dare un quadro di quali potrebbero essere le conseguenze dell’estensione del diritto di voto amministrativo ai residenti stranieri.

Introducono, inoltre, al terzo capitolo che tratta l’esperienza italiana nell’ambito della partecipazione politica degli stranieri e i principali aspetti del dibattito in merito all’estensione del diritto di voto amministrativo.

Varie forme di consultazione locale sono state attuate in Italia, con tentativi anche più coraggiosi di estendere la partecipazione politica oltre l’elezione o la nomina simbolica di Consiglieri o consulte, attribuendo agli stranieri il diritto di partecipare ai referendum locali o alle elezione circoscrizionali, in virtù dei poteri conferiti agli Enti Locali dalla riforma del Titolo V della Costituzione.

Il quarto capitolo è il resoconto di un’analisi sul campo da me condotta sulle elezioni dei Consiglieri Aggiunti a Roma, tenutesi il 28 marzo 2004. Tale analisi è stata condotta su dati raccolti tramite interviste, visite agli Uffici comunali e analisi della stampa a riguardo.

Il materiale bibliografico è stato reperito a Roma, presso il CIES di via delle Carine e presso il Cser di via Dandolo, oltre che presso la Biblioteca Nazionale, la biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di via Caetani, la biblioteca

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dell’ISTAT, la biblioteca di studi giuridici di piazza Cavour e quella delle facoltà di Sociologia, Demografia ed Economia e Commercio della Sapienza.

È stato prezioso il contributo dell’Ufficio elettorale di via dei Cerchi, della Commissione Elettorale presieduta dal Consigliere Maurizio Bartolucci e dell’Assessorato per le Politiche della Multietnicità della Consigliera delegata Franca Coen, e di un funzionario di tale ufficio, il dott. Rossi.

Si ringrazia anche il dott. Pittau, direttore del Dossier Statistico Caritas Migrantes, per l’invito a vari incontri dove ho potuto reperire il materiale Caritas.

Ringrazio le persone che si sono lasciate intervistare all’uscita dal seggio della IV e V Circoscrizione, il giorno delle elezioni di Roma.

E infine ringrazio la Consigliera Aggiunta Irma Tobias Perez, e i signori Insa Ndiaye e Godwin Oyebuchukwu, che pure hanno dedicato il loro tempo alle mie interviste.

(9)

1

LA PARTECIPAZIONE POLITICA DEI RESIDENTI STRANIERI.

CENNI GENERALI.

1.1. Residenti Stranieri

Il discorso che si intende qui sviluppare riguarda la partecipazione politica degli immigrati, intendendo con partecipazione politica una sorta di cittadinanza attiva per coloro che, in effetti, cittadini non sono e che non intendono diventarlo, almeno per il momento. Si tratta di persone che vivono in Italia, pagano le tasse, hanno figli che frequentano la scuola italiana e non di rado hanno qui trascorso gran parte della loro esistenza. Costoro sono formalmente stranieri, ma hanno ormai acquisito uno status definitivo di residenti, non hanno la cittadinanza, ma un forte legame con il paese dove, di fatto, vivono. Come suggerisce Hammar (Hammar T., 1991), usando un’antica parola inglese, potremmo definirli “denizen”, residenti, in modo da indicare, con questo termine, una categoria ulteriore rispetto a quella di “cittadino” e di “straniero”.

In Italia i “residenti”, dopo l’ottenimento del permesso di soggiorno, dopo l’inserimento nel mondo del lavoro, la ricerca di una casa, l’apprendimento di una nuova lingua, si ritrovano ad aver solo espletato i propri doveri di “immigrati”, ma non hanno ancora riscosso i vantaggi dell’essere da tanto qui e dell’essere divenuti soggetti economicamente attivi in Italia. Ovvero non hanno la possibilità di accedere a quel coinvolgimento profondo rappresentato dalla partecipazione politica, dal diritto di influire sulle agende politiche del territorio in cui vivono.

Un’integrazione intesa come integrità della persona (Zincone G.,2000), richiede che l’individuo si possa percepire nel pieno delle proprie facoltà e dei propri diritti, non ultimo quello di partecipare alla vita politica e sociale del luogo nel quale risiede. L’individuo dovrebbe sentirsi sia libero di esprimersi politicamente, sia rispettato nelle proprie idee e opinioni, una condizione che può realizzarsi solo attraverso la sua accettazione nell’arena pubblica. Inoltre l’integrazione come interazione a basso conflitto richiede che gruppi e individui

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entrino in contatto e abbiano occasioni per conoscersi reciprocamente.

Partecipazione politica significa discutere, scambiare opinioni, frequentare sedi politiche: strumento di partecipazione politica per eccellenza è senza dubbio il voto.

Alcune importanti democrazie hanno ammesso gli immigrati alle elezioni amministrative (regionali, e/o provinciali, e/o municipali) aprendo un varco nell’antico legame tra partecipazione e cittadinanza, in favore del binomio residenza/partecipazione (Zincone G., 2000).

Con la categoria “immigrati” si possono intendere gruppi di persone piuttosto eterogenei: dai cittadini naturalizzati fino agli stranieri clandestini, passando per le persone con permesso di soggiorno. Tale raggruppamento identifica, quindi, individui che hanno un accesso differenziato alla partecipazione politica e alle istituzioni. La categoria di persone cui qui si fa riferimento è quella che si potrebbe definire degli “stranieri residenti”, essa non si riferisce agli stranieri comunitari, per i quali il diritto al voto per le elezioni europee e amministrative è stato sancito a Maastricht e Amsterdam, né alle persone prive di permesso di soggiorno. Si tratta, invece, di donne e uomini provenienti da Paesi non europei che risiedono in Italia da un certo periodo, tale da rendere necessario un coinvolgimento politico tale da fornire loro lo status di attore sociale, e non solo di mero fruitore di politiche spesso assistenzialistiche o di emergenza.

“Le esperienze di voto degli stranieri permettono di progredire un po’

nell’armonizzazione degli status di residenti extra-comunitari e verso l’obiettivo di una cittadinanza di residenza dal momento che questa è fortemente minacciata dalla cittadinanza di reciprocità istituita dal trattato di Maastricht. Essa permette, poi, di lottare contro i comunitarismi identitari volti ai paesi di origine o verso solidarietà chiuse, a base etnica o di religiosità tradizionale, e di fare emergere delle élite cittadine” (Wihtol de Wenden C., 1996b, p. 34).

La consultazione politica in ambito postmigratorio può essere considerata come una forma di riconoscimento simbolico della presenza o meglio della legittimità della presenza di immigrati e dei loro discendenti in seno alla società.

Infatti, se una persona o un gruppo di persone Consulta una controparte e quest’ultima accetta di essere interpellata, automaticamente riconosce quella

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controparte come un interlocutore legittimato e credibile. Dando agli immigrati la possibilità di una consultazione politica, si offre loro la reale opportunità di accedere alla vita pubblica. Come sottolineato dalle parole riportate della de Wenden, si auspica, per gli stranieri residenti, il conseguimento di una cittadinanza di residenza, non di reciprocità come quella che coinvolge i cittadini comunitari1.

Voto degli immigrati in Europa

Paese Nazionalità Residenza

necessaria Tipo di elezioni Dal Unione Europea

Danimarca Tutte 3 anni Comunali e

provinciali 1981 Finlandia Scandinavi e

islandesi 2 anni Comunali 1981

Irlanda

Tutte 6 mesi Comunali 1963

Britannici 6 mesi Tutte 1984

Cittadini UE 6 mesi Europee 1984

Paesi Bassi Tutte 5 anni Comunali 1985

Portogallo Lusofoni

(reciprocità) 2 anni Nazionali e locali 1971

revisionata in 1997

Regno Unito

Cittadini NCW,

irlandesi e

pakistani

Tutte

Cittadini UE Comunali e

Europee 1992

Spagna Tutte Comunali 2000

Svezia Tutte 3 anni

Comunali,

regionali e

referendum

1975

Belgio Tutto 5 anni Comunali 2004

Estonia Tutte 5 anni nel

Comune Comunali 1996

Lituania (*) Tutte Comunali 2002 (applicabile

dal 2004)

Malta Britannici 6 masi negli

ultimi 18 mesi

Comunali

Regionali 1993

Repubblica Ceca Tutte Comunali 2001 (applicabile

1 Si concede il diritto di voto ad un cittadino straniero comunitario perché a sua volta il Paese di quel cittadino lo riconosce agli stranieri ivi residenti.

(12)

(*) dal 2004)

Slovacchia (*) Tutte Comunali e

Sindaco 2002

Slovenia (*) Tutte Comunali e

Sindaco 2002

Ungheria Tutte Comunali,

Sindaco Contea 1990 Altri Europa

Islanda Scandinavi 2 anni Comunali 1981

Norvegia Tutte 3 anni Comunali e

provinciali 1982 Svizzera:

Neuchatel Belgi e francesi 5 anni Comunali 1849

Tutte le altre 10 anni Comunali 1849

Jura Tutte 10 anni Comunali e

cantonali 1979

(*) In questi paesi, nonostante non si preveda una durata minima di residenza per accedere al diritto di voto, è necessario avere un permesso di residenza permanente, per ottenere il quale sono necessari 10 anni di residenza in Slovacchia, 8 in Slovenia e Repubblica Ceca, 5 anni il Lituania.

Fonte: Caritas, 2004, p. 195.

Fino ad ora le esperienze più positive sono quasi tutte orientate, in Italia ed in Europa, in direzione di consultazioni di vario genere ma, per un eventuale estensione del diritto di voto, almeno al livello locale, andrebbero toccate non solo la legislazione ma, secondo parte della giurisprudenza, anche la Costituzione. Il dibattito quindi si accende e, spesso, si rivela essere trasversale alle forze politiche.

Il diritto di voto vero e proprio (alle elezioni locali, poiché si tratta sempre di soggetti non aventi la cittadinanza) è concesso solo in pochi paesi in Europa, a testimoniare il fatto che di questa materia si discute un po’ ovunque da molti anni ma senza incidenza nelle agende politiche nazionali. A questo proposito si veda la tabella precedente.

Chi parla di mostruosità giuridica, in riferimento all’estensione del voto ai residenti stranieri, mostra innanzitutto una qualche ignoranza dei fatti: il voto locale agli stranieri provenienti dai paesi dell’Unione esiste già nei paesi che hanno

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ratificato l’articolo 8 b del trattato di Maastricht, divenuto poi articolo 19 del trattato di Amsterdam. Tali articoli prevedono, infatti, che gli stranieri, cittadini dei paesi membri dell’Unione, possano votare, sia per le elezioni locali, che per quelle europee, nei paesi dell’Unione nei quali si trovino a risiedere. Inoltre, alcuni paesi dell’Unione (la Spagna, la Svezia, la Danimarca e i Paesi Bassi) assegnano il diritto di voto locale a tutti gli stranieri residenti, dopo un periodo di tempo che varia tra i tre ed i cinque anni. Il Portogallo applica una clausola di reciprocità: oltre ai capoverdiani, dal 1971 ammette al voto locale i brasiliani e, dal 1997, gli argentini, i peruviani, gli uruguaiani, i norvegesi, gli israeliani. La Finlandia lo estende solo ai cittadini di paesi dell’area nordica. Nel Regno Unito gli irlandesi, i pakistani ed i cittadini del nuovo Commonwealth possono votare anche alle elezioni politiche. Altri paesi europei, come la Norvegia, concedono il voto locale a tutti gli stranieri, l’Islanda solo a quelli provenienti dai paesi dell’area nordica.

1.2. Culture politiche.

Nel trattare il tema della partecipazione politica, risulta doverosa una breve analisi di quale sia il rapporto tra migrazioni e culture politiche (Delle Donne M., 2003). Per cultura politica si intende l’insieme di idee che, nel lungo periodo, orientano un paese sui temi dello Stato, del popolo e della nazione, la concezione del popolo in termini di ethnos o demos, la visione etico-politica o etnico-culturale della nazione, le relazioni esplicite o implicite tra etnicità, nazionalità e cittadinanza, i principi che regolano l’acquisizione di quest’ultima e i diritti e i doveri che ne conseguono.

L’ostacolo più grande alla concessione del diritto politico per eccellenza, quello di voto, è ancora oggi dettato dal legame di identificazione esistente trai concetti di nazionalità e cittadinanza. Viene considerato cittadino colui che è nazionale. Ecco perché, specie dove vige lo ius sanguinis, la cittadinanza è ottenuta solo a seguito di una difficile naturalizzazione, requisito che non comprende solo la residenza da un certo numero di anni (15 anni richiesti in Germania) o la semplice padronanza della lingua, ma una rinuncia completa alla propria identità in favore di una totale assimilazione. La naturalizzazione è una “operazione di annessione profonda e

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totale” come sostiene Sayad (Sayad A., 2002, p. 303). Si tratta da una parte di annettere, dall’altra di lasciarsi annettere:

perciò bisogna avere una grande fede (come può essere la malafede) per fare in modo che la relazione inscritta nella naturalizzazione e offerta come uno scambio equilibrato dal punto di vista della nazionalità giuridica (acquisire assieme alla nazionalità i diritti a cui fa accedere e accettare come contropartita i doveri collegati a questi diritti) non sia o non appaia quello che in fondo è, cioè una relazione di forza” (ibidem).

Questo è, ad esempio, il caso tedesco, dove solo dal 1 gennaio 2000 la legge della cittadinanza è stata relativamente ammorbidita dal punto di vista della naturalizzazione, introducendo una qualche idea di ius soli. La visione tedesca della nazionalità è chiusa e vige una sostanziale estraneità nei confronti dello straniero, visto fino a non molto tempo fa esclusivamente come una figura di passaggio, il cosiddetto lavoratore ospite (Gastarbeiter) del cui inserimento non ci si preoccupava. La Germania è il paese europeo con il tasso più alto di popolazione immigrata (8 milioni) e ha a lungo rifiutato di riconoscersi come paese di immigrazione. Fino a pochi anni fa si poteva parlare di una politica sintetizzabile nei termini “né integrazione, né segregazione”. Gli immigrati sono a lungo rimasti solo stranieri, di cui l’apporto economico era certo apprezzabile, ma di cui non si favoriva affatto l’insediamento definitivo. Esiste una tendenza a mantenere gli stranieri in una condizione giuridicamente precaria, considerata funzionale alla flessibilità sul mercato del lavoro e all’auspicato futuro rientro in patria. Il modello di estraniazione dello straniero, nato prima del crollo del muro, sembrava fatto apposta per coltivare odii e pregiudizi. L’integrazione non era vista come lo sviluppo di relazioni tra persone, ma come il risultato di un processo guidato dall’alto, ad interesse della componente tedesca.

In Francia, invece, vige una normativa sulla cittadinanza legata al diritto del suolo, le politiche di accoglienza sono sempre state legate all’idea dell’assimilazionismo, dell’apertura a tutti coloro che fossero disposti ad accettare i costumi francesi. Storicamente le migrazioni sono state utilizzate in Francia, non solo per colmare occasionali mancanze di manodopera, ma anche per sopperire ad una grave crisi demografica. L’État-Nation francese si è sempre identificato profondamente con un forte stato accentrato che non ha mai riconosciuto al

(15)

proprio interno né nazionalità minoritarie, né gruppi etnici locali, in modo da contrastare ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra istituzioni e cittadini. In cambio dell’assimilazione, lo Stato concede la cittadinanza2. D’altra parte gli immigrati che non possono o non vogliono naturalizzarsi mettono al mondo figli francesi (in Francia vige lo ius soli) o che potranno facilmente scegliere di diventarlo al compimento della maggiore età. Oggi il progetto assimilazionista francese appare sempre meno legittimo, mano a mano che si dissolvono le convinzioni della missione civilizzatrice della Francia, si diffonde un maggior rispetto per la diversità culturale ed emerge una nuova consapevolezza dell’iniquità del subordinare il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali all’acquisizione della cittadinanza. Si va diffondendo la consapevolezza che l’assimilazionismo comporti, di fatto, la rinuncia alla propria identità culturale, il cui mantenimento si configura oggi sempre più come un diritto della persona.

In Francia resta certamente più facile che in altri paesi acquisire la cittadinanza: la partecipazione politica viene legata alla cittadinanza, e quindi acquisire il voto senza di essa viene visto come qualcosa di incostituzionale e assurdo. Il voto andrebbe a coloro che non si sentono francesi, che non sono nazionali, e questo non è facilmente concepibile.

Nel Regno Unito, questo legame tra nazionalità e cittadinanza risulta ben più flebile, alla luce di una visione pluralista della società , di una cultura pragmatica che riconosce i particolarismi etnici e culturali, promuove autonomia e decentramento, valorizza il ruolo delle formazioni sociali intermedie. Questa tendenza alla “parcellizzazione” multietnica, è anche il risultato della tradizione coloniale: ancora oggi si mantiene un legame con i paesi appartenenti all’ex Commonwealth.

L’etnocentrismo caratterizza fortemente la cultura politica francese come quella britannica, ma secondo modalità opposte. Nel Regno Unito lo straniero si accetta per la sua “irrecuperabile diversità”. Ci si preoccupa di porre gli immigrati nella posizione di nuocere il meno possibile. Qui l’arrivo degli stranieri non ha mai svolto funzione demografica importante ed è stato anche poco motivato da una domanda inappagata di lavoro. A determinarlo sono state piuttosto le vicende

2 Gli stranieri che hanno acquisito ogni anno la cittadinanza francese sono stati, in media, 100 mila negli anni ’80 e 115 mila negli anni ’90.

(16)

storico-economiche dei paesi di esodo. Di conseguenza è stato un esodo non tanto individuale, quanto un movimento collettivo. Queste “popolazioni trapiantate”

hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità (mentre in Francia solo dal 1981 si riconosce il diritto all’associazionismo ai non cittadini). Le comunità etniche sono qui divenute importanti punti di riferimento per gli interventi delle autorità amministrative (mentre in Francia si è privilegiato il rapporto con i singoli). Qui la distinzione tra cittadini e non cittadini sembra molto meno netta rispetto agli altri paesi europei. Esistono molte situazioni intermedie dettate della provenienza dal Commonwealth (con differenze tra i vari paesi membri o ex membri), dalla data di arrivo, da una eventuale ascendenza britannica (partiality), eventuali passate prestazioni per l’amministrazione britannica. Gli immigrati del Commonwealth godono di diritto di voto attivo e passivo per tutte le elezioni e la concentrazione di alcune comunità in determinati collegi assicura loro, dato il sistema elettorale vigente, una notevole influenza. Anche il sistema britannico oggi mostra i suoi limiti a causa di una indebita tendenza ad etnicizzare i problemi e a considerare le differenze come irriducibili, relegando intere comunità a posizioni subalterne. La configurazione aprioristica delle minoranze non può che evocare l’immagine di un pur blando apartheid.

La risposta al perché di un dato trattamento degli stranieri risiede nell’idea di comunità, nell’importanza che si dona all’individuo piuttosto che al gruppo, nella concezione della nazione. Gli stranieri sono da considerare degli individui, dei gruppi, o semplicemente dei generici immigrati?

In tutta Europa, lì dove il voto ai non cittadini non è stato concesso, vige una discussione sull’opportunità di tale tipo di partecipazione. Dibattito profondamente segnato dalle culture politiche locali. Questo dibattito, è da sottolineare, si rivolge a persone che già hanno superato uno stadio particolarmente problematico del loro percorso migratorio. Persone che hanno un lavoro, una casa, un permesso o una carta di soggiorno. Si tratta di persone relativamente avvantaggiate, con un minimo livello di integrazione, che possono, quindi, indirizzarsi verso uno stadio successivo a quello del conseguimento dei diritti sociali.

È solo dalla seconda metà del XX secolo che l’Europa è interessata da fenomeni migratori su larga scala. Entzinger fa notare (cit. in Marta C., 1990) che

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negli anni ’50 quasi tutti i paesi non hanno adottato strumenti politici speciali nel tentare di favorire l’integrazione degli immigrati. L’integrazione avveniva principalmente attraverso l’acquisizione della cittadinanza, in un modo possibilmente indolore, soprattutto per la società di accoglienza. L’immigrato ben integrato era, come afferma Marta (Marta C., 1990, p. 117), “colui che fosse assuefatto ai modelli culturali dominanti” .

POPOLAZIONE STRANIERA O NATA ALL’ESTERO E FORZA LAVORO IN ALCUNI PAESI EUROPEI

Popolazione straniera Forza di lavoro straniera

migliaia % sul tot. pop. migliaia % sul tot. pop.

1986 1996 1986 1996 1986 1996 1986 1996

Austria

315 728 4,1 9 155 328 5,3 10

Belgio

853 912 8,6 9 270 341 6,8 8,1

Danimarca 128 238 2,5 4,7 60 84 2,1 3

Finlandia

17 74 0,4 1,4 19 0,8

Francia

3714 3597 6,8 6,3 1556 1605 6,5 6,3

Germania 4513 7314 7,4 8,9 1834 2559 6,8 9,1

Irlanda

77 118 2,2 3,2 33 52 2,5 3,5

Italia

450 1096 0,8 2 285 332 1,3 1,7

Lussemburgo

97 143 26,3 34,1 59 118 35,6 53,8

Paesi Bassi

568 680 3,9 4,4 169 218 3,2 3,1

Norvegia 109 158 2,6 3,6 49 55 2,3 2,6

Portogallo

95 173 1 1,7 46 87 1 1,8

Spagna

293 539 0,8 1,3 58 162 0,4 1

Svezia 391 527 4,7 6 215 218 4,9 5,1

Svizzera

956 1338 14,7 19 567 709 16,4 17,9

Regno Unito

1820 1972 3,2 3,4 815 878 3,4 3,4

Fonte: Sopemi, in Zincone, G., 1999, p. 25.

L’intervento volto a inserire gli immigrati nella società come “uguali”, in realtà mirava alla loro “conformità”. Dagli anni ’70 questa politica ha cambiato tendenza.

Molti paesi hanno adottato politiche più pluraliste. Soprattutto quando è apparso

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chiaro che la maggior parte dei migranti non erano “lavoratori di passaggio”, ma intendevano stabilirsi e crescere i propri figli nel paese di accoglienza. La politica assimilazionista, inizialmente adottata in tutta Europa, è oggi peculiare della Francia; altri paesi, già dagli anni ’70, come si diceva, hanno optato per politiche di stampo pluralista, ed è questo il caso di Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia.

Esistono due modelli alla base della concezione dell’integrazione dell’immigrato in una società: una concezione assimilazionistica e una pluralista. Occorre premettere che si tratta di modelli astratti e inesistenti allo stato puro: il primo, e più antico modello, attribuisce valore assoluto all’omogeneità culturale, il secondo invece punta alla convivenza culturale. Come sottolinea Marta:

“L’accento viene, prevalentemente, posto sull’aspetto “culturale” della problematica”

(Ivi, p. 118).

Sintetizzando, la prima visione non concede nulla ai gruppi, tutti i cittadini si riconoscono nei valori della nazione e qualsiasi particolarismo è relegato al privato di ciascuno. Il pluralismo, invece, riconosce la società come estremamente frammentaria e divisa in gruppi cui si riconosce un trattamento diversificato secondo le esigenze. Nel dibattito su quale dei due modelli sia il più efficace, il multiculturalismo risulta una moderna risposta data da alcuni stati come, ad esempio, la Svezia, i Paesi Bassi, il Canada o gli Stati Uniti. In questi Paesi si prende atto della coesistenza di più culture all’interno dello Stato. La diversità culturale è esaltata come una ricchezza della società, e va salvaguardata come un patrimonio comune. L’identità di un gruppo viene preservata in nome del suo essere diversa e singolare. I gruppi minoritari, per rivendicare spazi e diritti, tendono così a presentarsi come omogenei, pur essendo percorsi al loro interno da fratture culturali, generazionali, di genere, politiche, economiche.

La diversità culturale, presa come indiscutibile dal pluralismo, può ritorcersi contro gli stessi immigrati, perché può anche ostacolarne la piena integrazione.

Nel Regno Unito e in Svezia, ad esempio, è stato dimostrato come l’”educazione multiculturale” abbia finito per caratterizzarsi più come uno strumento di controllo e stabilità, che di cambiamento (Marta C., 1990).

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La questione del multiculturalismo ha trovato posto nel dibattito che oppone, fin dagli anni ’60, due tendenze della filosofia politica: liberali e comunitaristi. In merito al riconoscimento della diversità culturale ed identitaria nello spazio pubblico, i primi sono tradizionalmente diffidenti. Al centro della società c’è l’individuo, egli è cittadino titolare esclusivo dei diritti e dei doveri. Per i comunitaristi, invece, la comunità è, per l’individuo, un’esigenza ontologica e normativa, perciò è giusto concedere diritti alle minoranze etniche e culturali. Il dibattito ha portato i primi a prendere posizione in favore dell’assimilazionismo e i secondi a non considerare i pericoli di chiusura e separazione tipici del comunitarismo. Sono poi state tentate delle sintesi come quella di Kymlicka (Kymlicka W., 1999), che ha proposto un modello di cittadinanza multiculturale molto elaborato. Egli sostiene che lo Stato non deve essere neutrale nel campo della cultura e dell’identità, perché i diritti dell’uomo non sono sufficienti ad arginare le discriminazioni. Sono necessari, a suo avviso, dei diritti speciali per le minoranze. Si tratta di una sintesi possibile, quello che appare è che nonostante i pericoli di certi suoi eccessi, il multiculturalismo esercita un certo fascino. I rischi insiti in questa politica restano, comunque, ben evidenti, come sottolinea Marta:

“C’è un’insidia incombente nel discorso sulla società multiculturale: che una volta scongiurato il pericolo della negazione delle differenze, affiori quello della loro assolutizzazione. La rivendicazione del mio diritto alla differenza diviene allora, il paravento ideologico dietro cui si cela la volontà di escludere e discriminare chi rappresenta una differenza diversa dalla mia. Capire e rispettare le differenze significa ridurre le distanze che intercorrono tra culture diverse e agire in modo che la società multiculturale dia vita ad identità nuove e dinamiche, invece di riprodurre identità vecchie e cristallizzate, e produca scambi e unioni, invece di chiusure e divisioni”. (Marta C., 1990, p.

121).

Serve, quindi, un’attrezzatura concettuale nuova perché il pluralismo culturale possa valorizzare la molteplicità delle identità culturali espresse da individui e gruppi che vivono in una società e che sono sottoposti a molteplici dinamiche e relazioni di potere.

Oggi si parla molto di società multietnica o multiculturale, locuzioni solitamente usate come sinonimi. In genere con queste formule non si intende identificare

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precisamente il modello basato sull’integrazione collettiva (quello anglosassone cui si è detto prima), ma si vuole alludere a società in cui sia riconosciuta e rispettata la diversità culturale, in cui si realizzi una pacifica convivenza fra comunità di origine diversa. Il difetto maggiore è quello di una tendenza di questo modello, che è una derivazione moderna di quello pluralista, a considerare i soggetti collettivi come delle etnie o delle comunità statiche e immutabili nel tempo.

“Quando si parla di multiculturalismo, anche se in termini ragionevoli o favorevoli […], si è già accettato il falso presupposto che i migranti costituiscono frammenti o avanguardie di culture diverse, si ipostatizza la loro differenza e si scava un solco tra noi e loro […].” (Dal Lago A., 1999, p. 169).

In un’altra accezione messa in evidenza da Rivera (Rivera A., 2001), il multiculturalismo può auspicare una società in cui le diverse appartenenze culturali dei cittadini non siano d’ostacolo al riconoscimento e al godimento dei diritti di cittadinanza. La diversità culturale in tal caso dovrebbe essere considerata come qualcosa di attinente alla sfera privata e che quindi non deve condizionare la sfera dei diritti universali , né impedire la partecipazione di tutti alla vita pubblica, indipendentemente dalle origini. In questa visione la libertà di fare scelte culturali resta il valore principale, il che implica anche il diritto ad abbandonare una cultura, oltre che di conservarla o di assumerla.

1.3. Nozioni generali sui diritti politici.

Ecco la valenza da attribuire all’esercizio dei diritti politici secondo l’opinione del sociologo algerino Abdelmalek Sayad:

“Escludere ed escludersi di diritto e di fatto, da una parte dall’ordine politico in cui si è spinti a vivere, dall’altra parte, dall’ordine politico a cui si continua in teoria ad appartenere nonostante l’assenza, vuol dire essere privati e privarsi del diritto più elementare e fondamentale, il diritto di avere diritti, di essere soggetti di diritto, di appartenere a un corpo politico, avendo in esso il proprio posto, la propria residenza, la propria partecipazione attiva, cioè il diritto di dare senso e ragione alle proprie azioni, alle proprie parole e alla propria esistenza. Vuol dire non potere avere una storia o, in altri termini, un passato e un avvenire; né soprattutto la possibilità di appropriarsi di questo passato e di

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Si comprende quindi quale sia l’importanza dell’esercizio dei diritti, attraverso la partecipazione politica, per l’affermazione di una persona, per il miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Occorre però analizzare cosa si intenda per diritti politici e partecipazione politica. Nel farlo si utilizzeranno delle riflessioni di Anna Elisabetta Galeotti (Galeotti A. E., 1991).

I diritti politici comprendono la libertà di associazione e di adesione a partiti politici, il diritto di voto, o di appartenenza al corpo elettorale, passivo, più alcuni diritti correlati, specificati nei diversi ordinamenti, quali il diritto di petizione e di referendum (diritti questi ultimi, riconosciuti dalla Costituzione italiana).

In ogni caso, il diritto prioritario che organizza e dà senso a tutti gli altri è il diritto di voto; anche il diritto di associazione riveste un’importanza centrale tra i diritti di cittadinanza, tuttavia si tratta di un diritto propriamente politico solo nel caso di associazioni politiche, e in connessione alla possibilità di esercitare, tramite il diritto di voto, un controllo dell’autorità politica. In assenza di diritto di voto, il diritto di associazione rientra più propriamente tra i diritti civili, come espressione della libertà di pensiero , coscienza e parola dei singoli.

Poiché il diritto di voto si distingue in voto politico ed amministrativo, questo può, in linea di principio, essere attribuito solo per le elezioni locali e, in questo caso, non configurare una piena appartenenza dell’individuo al corpo elettorale attivo e passivo.

I diritti politici caratterizzano in modo specifico, rispetto ad altri diritti soggettivi, la democrazia: innanzi tutto dal punto di vista ideale, in quanto concreta espressione della partecipazione popolare alla direzione politica;

secondariamente, dal punto di vista teorico, in quanto forma dell’autonomia e dell’autogoverno che si ritiene tratto peculiare della politica democratica; poi, ancora, dal punto di vista etico, in quanto garanti della libertà politica, dell’alternanza pacifica dei governi e della tutela delle minoranze; infine anche da un punto di vista storico, in quanto la conquista del suffragio universale ha contrassegnato il passaggio dalla fase liberale a quella democratica dello Stato.

Oltre al rapporto privilegiato con la democrazia, i diritti politici intrattengono un rapporto speciale anche con la cittadinanza. La cittadinanza è considerabile e

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come un concetto giuridico e come un concetto socio-politologico; pur non con significati esattamente coincidenti, la nozione di cittadinanza si rivela in entrambi i contesti indissolubile da quella di diritti politici. In generale la cittadinanza configura lo status di cittadino, cioè quell’insieme di diritti e doveri che caratterizzano l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica.

Nell’ambito del diritto, la cittadinanza definisce la posizione dell’individuo nei confronti dello Stato, specificando facoltà, poteri ed obblighi che identificano il legame tra singoli e istituzioni pubbliche di uno stato. Il contenuto specifico della cittadinanza varia di stato in stato a seconda dei differenti orientamenti giuridici. In parte però essa si definisce sempre in contrasto alla posizione di coloro che cittadini non sono, cioè gli stranieri. La posizione di questi ultimi è diversificata in ogni ordinamento dall’appartenenza a specifiche categorie: congiunto di cittadino, discendente da cittadini, membro di territori ex coloniali, straniero a servizio dello Stato, rifugiato politico ecc.

Ogni categoria ha un diverso status quanto ai diritti; in genere ogni ordinamento democratico deve garantire a chiunque i “diritti dell’uomo”, corrispondenti, grosso modo, ai diritti civili (anche se in genere gli stranieri sono limitati nelle libertà di movimento entro i confini dello Stato ospite) con particolare riferimento alla giustizia penale. Ad alcune categorie di stranieri poi alcuni ordinamenti riconoscono particolari diritti sociali ed economici (sanità, alloggio, libertà di associazione sindacale…). Ciò che separa lo straniero dal cittadino, in ogni caso, è l’esclusione dai diritti politici veri e propri.

Lo specifico legame tra cittadinanza e diritti politici non è senza conseguenze riguardo l’immigrazione. Se si considera la questione dal punto di vista giuridico, l’accesso ai diritti politici significa la concessione della cittadinanza piena e pare essere il provvedimento finale di un lungo percorso di integrazione dello straniero nella comunità politica. Come sostiene Galeotti, sembra essere un percorso fatto per individui che scelgono un nuovo paese di elezione, e non per chi si trasferisce spinto da bisogni economici o politici, e non necessariamente recide i propri legami originari. Se si considera il significato politico e sociale della cittadinanza, e cioè che l’essere cittadini è la precondizione per essere trattati da eguali, sembrerebbe conseguire che lavoratori stranieri residenti in modo non occasionale

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o temporaneo in un dato paese, e privi del diritto di voto, non possiedano i requisiti indispensabili per essere trattati come eguali.

I diritti politici sono, secondo una distinzione usuale, diritti positivi, nel senso generale che il soggetto è da essi investito di un potere attivo di fare determinate cose e non, come nei casi dei diritti civili e socio-economici, semplicemente portatore di pretese circa il comportamento di terzi e/o dello Stato nei propri confronti.

La distinzione negativo/positivo può trovare spiegazione nell’analisi del tipo di libertà che questi diritti forniscono. La teoria politica ha definito in due modi la libertà sociale: la libertà negativa, o libertà da, o libertà dei moderni, e la libertà positiva, o libertà di, o degli antichi. La definizione più articolata è stata data da Isaiah Berlin (cit in Galeotti, A. E., 1991): la libertà negativa, che costituisce la libertà dei moderni, corrisponde all’assenza di ostacoli e interferenze all’azione degli individui; la libertà positiva, che riprende la libertà degli antichi, coincide con l’autonomia, la padronanza di sé, il dominio dell’io più autentico. La libertà negativa non dice niente su ciò che l’individuo libero fa ed è in condizioni di fare;

mentre la libertà positiva si manifesta negli atti spontanei dell’individuo e così si definisce. Questa distinzione ha alimentato grandi dibattiti, soprattutto perché Berlin ha accordato priorità alla libertà negativa. Evidentemente entrambe le libertà sono essenziali alla democrazia.

Se i diritti soggettivi rappresentano l’espressione della libertà, alcuni corrisponderanno alla libertà negativa (come i diritti economici e sociali), altri a quella positiva (come i diritti politici che danno forma alla partecipazione e alla volontà dei cittadini).

A questo punto occorre analizzare un minimo anche il concetto di rappresentanza. La moderna concezione della rappresentanza nasce con la Rivoluzione Francese, quando viene superata l’idea di rappresentante come agente del popolo, legato al mandato imperativo (come invece permane nella Costituzione americana). In questo periodo il rappresentante è affermato come costruttore indipendente delle politiche nazionali, come autorità pubblica che deriva il suo potere dalla procedura elettorale e che è svincolato da ogni legame diretto con i suoi elettori.

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Questa concezione ha legittimato, storicamente, il suffragio ristretto: per la Galeotti, infatti, se i membri eletti rappresentano l’intera nazione e parlano per il bene pubblico e non per i propri elettori, non è necessario che tutti abbiano il diritto di voto per essere rappresentati. Ci si chiede se la strategia usata per estendere la cittadinanza a gruppi e classi di esclusi entro lo Stato, possa essere semplicemente estesa a sua volta ai gruppi esclusi fuori dalla nazione o se, viceversa, la circoscrizione della teoria politica liberale allo Stato nazione richieda un ripensamento generale della teoria stessa se si vuole mettere in questione questi confini.

Nel corso di questo secolo il pluralismo democratico, specie negli Stati Uniti, ha messo in evidenza la difficoltà a trattare le differenze “orizzontali”, basate su caratteristiche ascrittive dei soggetti (genere, razza, età, religione). Prima si consideravano limitative di diritti le caratteristiche verticali che comprendevano le qualificazioni sociali e culturali (proprietà, censo, educazione) che andavano poi a determinare le classi di appartenenza.

L’affacciarsi oggi, nel dibattito sul suffragio, di questioni legate alle differenze orizzontali trova la teoria politica normativa non pronta e tende a dare risposte che si avvalgono degli stessi criteri usati in passato, ad esempio l’istruzione o il censo.3

1.4. La giurisprudenza.

La quasi totalità della dottrina costituzionale italiana e straniera sostiene che i titolari dei diritti politici sono tutti i cittadini, intendendosi con tale termine tutti coloro ai quali la legge attribuisce tale qualifica sulla base del possesso di determinati requisiti formali da essa stessa stabiliti. Gli articoli della Costituzione italiana sono molto chiari in proposito: “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età” (art. 48); “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente i partiti” (art. 49); “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere” (art. 50); “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive”(art. 51).

3 La Galeotti scrive nel 1991 (Galeotti A. E., 1991) considerazioni di questo tipo, nel 2003 in Italia la proposta di legge di Alleanza Nazionale per il voto agli immigrati ripropone il censo come

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Tuttavia solo “storicizzando il problema della titolarità dei diritti politici è possibile ragionare sulla loro attuale portata” (Grosso E., 2001). Solo se si comprende perché e con quali strumenti, in un dato momento dell’evoluzione dello Stato moderno, la sovranità è stata attribuita al popolo e questo è stato fatto progressivamente coincidere con la somma di coloro che la legge qualifica come cittadini, si potrà trarre qualche conclusione sul significato del presunto parallelismo tra cittadinanza e titolarità dei diritti politici. Si potrà forse, così, pervenire ad una diversa interpretazione delle stesse disposizioni costituzionali che sembrano riservare la partecipazione politica soltanto a coloro che lo Stato, attraverso la legge sulla cittadinanza, qualifica come propri appartenenti.

Uno dei fattori che più hanno influenzato la convinzione persistente secondo cui la titolarità dei diritti di partecipazione politica debba rigorosamente seguire il possesso della cittadinanza è da ricercarsi nel modo in cui, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e dapprima in Germania, fu teorizzata la cosiddetta cittadinanza attiva. Allora si riteneva che tutti i diritti soggettivi non fossero che la conseguenza dell’appartenenza dei singoli allo Stato, e costituissero un effetto riflesso dell’organizzazione statale. Nel diritto pubblico, i diritti non spettano al singolo in quanto tale, ma solo in quanto membro della collettività. Tutti gli atti nei quali si riassume, nell’Ottocento, la categoria di quelli che oggi definiamo diritti politici, vale a dire, da un lato, l’esercizio del voto, dall’altro lato, la partecipazione alla funzione di governo e all’amministrazione dello Stato, non rappresentano altrettante manifestazioni della sfera delle libertà dell’individuo, ma concretizzano l’esercizio di una pubblica funzione. In questi termini il diritto di voto si configura come un procedimento che, in quanto concorrente alla creazione di una volontà statale, appartiene al singolo in quanto facente parte di una collettività qualificata come “corpo elettorale”. Soggetto della capacità politica non è, secondo questa concezione, tanto l’individuo, quanto lo Stato:

“In forza della concessione di pretese giuridiche positive verso lo Stato, il fatto di essere membro dello Stato si trasforma da un rapporto di pura dipendenza, in un rapporto avente un doppio carattere, in una condizione giuridica, cioè, che nello stesso tempo attribuisce facoltà e impone doveri. Questa condizione è quella che viene designata come

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appartenenza allo Stato [Staatsangehörigkeit], come diritto di cittadinanza, come nationalité”. (Jellinek, cit. in Grosso E., 2001, p. 13).

Questa visione, anche nelle versioni più temperate, riduce l’individuo a funzionario e diffonde una concezione totalizzante dello Stato, cui i singoli

“appartengono” poiché la legge li riconosce come sudditi-cittadini. Tale situazione è bene spiegata dalle parole del giurista tedesco Jellinek, sopra riportate. Proprio questa concezione rappresenterà un formidabile strumento ideologico, diretto a subordinare al possesso della cittadinanza l’attribuzione di qualsiasi situazione giuridica attiva nei confronti dello Stato, e a costruire, in tal modo, il “mito dello Stato”.

Si può affermare che la dottrina dello Stato liberale, cui si è accennato, rifiutava di riconoscere i diritti politici, i quali in quel momento si esaurivano nei diritti elettorali, come delle situazioni giuridiche individuali antecedenti e indipendenti rispetto all’affermazione dello Stato, e li riconduceva invece, essenzialmente, ad una funzione pubblica. Ne deriva che i diritti elettorali sono limitati ai soli cittadini, cioè a coloro che appartengono allo Stato nei modi stabiliti e precisati dalla legge sull’acquisto e sul possesso della cittadinanza. Dall’altro lato, possono essere liberamente introdotte dalla legge ulteriori restrizioni, al fine di impedire l’esercizio del voto ad ampie categorie di cittadini, sulla base di loro particolari condizioni personali o sociali.

Il progressivo allargamento del suffragio, fino al riconoscimento generalizzato del suffragio universale maschile e femminile, è un prodotto irreversibile del processo di democratizzazione degli ordinamenti, frutto del riconoscimento del pluralismo sociale come base della democrazia nello Stato costituzionale. Lo stesso concetto di “sovranità dello Stato” è stato ovunque abbandonato in nome della “sovranità popolare”.

Le Costituzioni hanno esteso il numero e la portata dei diritti politici, che non si riducono più alla sola espressione del suffragio o alla partecipazione alle elezioni, ma comprendono tutta una serie di libertà ulteriori, riassumibili nel concetto di

“partecipazione attiva”, che si manifestano attraverso la partecipazione a riunioni, cortei, manifestazioni, o mediante il libero esercizio della critica politica attraverso i mezzi di comunicazione del pensiero, o ancora attraverso lo sviluppo degli istituti

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di democrazia diretta, e soprattutto attraverso l’esercizio delle libertà associative e l’adesione a partiti e sindacati.

Il pieno accoglimento del principio democratico, tuttavia, se da un lato ha condotto al definitivo allargamento del suffragio, all’affermazione del principio di eguaglianza e libertà di voto, all’ estensione del numero e della portata dei diritti politici, non ha al contrario mai messo in discussione l’altra limitazione generale che la dottrina dei diritti pubblici soggettivi poneva all’esercizio del voto, cioè quella fondata sulla cittadinanza, intesa come appartenenza dell’elettore allo Stato. Anzi si può dire che proprio lo strumento attraverso il quale il principio democratico ha trovato la sua definitiva affermazione, vale a dire il riconoscimento a livello costituzionale della sovranità popolare, è servito a consolidare ulteriormente la convinzione che i diritti politici, in quanto diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica, siano naturalmente riservati al popolo, inteso come insieme di tutti i cittadini. Anche quegli autori secondo i quali la definizione di popolo non è fissa e immutabile, ma può cambiare a seconda che ci si riferisca a coloro cui è attribuita la capacità di esercitare i diritti politici (cittadini e maggiorenni) o anche a tutti i coloro i quali esercitano la loro influenza sul governo attraverso l’esercizio dei diritti di libertà, tendono ad escludere che ad individui privi della cittadinanza possano essere riconosciuti i diritti di partecipazione politica.

Quando si deduce, dalla nozione di sovranità popolare, che i diritti attraverso cui essa si manifesta sono riservati ai soggetti che fanno parte del popolo, e costoro sono fatti coincidere con i cittadini dello Stato, questi ultimi vengono concretamente individuati facendo riferimento alla nozione giuridico-formale di cittadinanza, così come disciplinata dalla legge che, in tutti i paesi, ne regola le forme di acquisto. Si tratta appunto della cittadinanza intesa come appartenenza allo Stato (Staatsangehörigkeit, nationalité). L’attribuzione dei diritti politici sulla base di questa specifica nozione di cittadinanza presuppone logicamente l’esatta corrispondenza tra i cittadini (Staatsangehörige, nationaux) e i membri della comunità politica. Tuttavia, l’appartenenza ad una comunità politica individua una diversa nozione di cittadinanza, non sempre e non necessariamente omogenea alla prima: si tratta di una accezione storico-sostanziale che si costruisce a partire

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dai reciproci legami concreti che si creano tra i concittadini. Legami che potrebbero essere indipendenti dall’essere giuridicamente cittadini o meno.

Quando le Costituzioni parlano del “popolo sovrano”, fanno riferimento a una concezione sostanziale di popolo, corrispondente alla comunità politica, cioè alla somma concreta dei citoyens, alla quale viene poi automaticamente sovrapposta l’altra concezione, quella dei cittadini in senso formale, i nationaux. Viene realizzata cioè un’arbitraria equiparazione tra nationalité e citoyenneté. Invece mentre il primo termine designa il rapporto che lega l’individuo allo Stato, definito dalle norme che regolano i requisiti d’acquisto (nonché le cause di perdita e di eventuale riacquisto), il secondo termine designa lo status che rende un soggetto membro di una comunità politica, e si compone di quei diritti e doveri fondamentali che non sono limitati nella sfera privata, ma riguardano in particolare l’esistenza politica dell’individuo. Carl Schmitt negli anni ‘20 (Schmitt, cit. in Grosso E., 2001) proponeva una dottrina che insisteva proprio su una concezione sostanziale di cittadinanza, fondata sul presupposto che tutti i cittadini partecipano di una sostanza (definibile diversamente a seconda delle epoche) e in nome di questa appartenenza partecipano alla vita politica. Per Schmitt il soggetto centrale di democrazia è il popolo e non l’umanità. In questi termini la legittimazione della titolarità dei diritti politici si trova non nella concezione formale (nationalité), ma nel dato sostanziale (individuazione di una comunità politica, di un popolo, citoyenneté). Solo con la coincidenza tra status giuridico di cittadino e appartenenza sostanziale al popolo si giunge alla coincidenza tra nationalité e citoyenneté.

In generale gli ordinamenti giuridici tendono a riconoscere i diritti politici sulla base del possesso della cittadinanza formale, senza badare se effettivamente ci sia coincidenza sostanziale tra nationaux e citoyens. Accade che la nozione di popolo assuma posizione preminente nell’ordinamento giuridico, poiché la Costituzione gli riconosce la titolarità della sovranità, ma che si riveli in concreto molto simile ad una scatola vuota che può essere riempita di diversi contenuti (a seconda delle scelte operate dalla legge che stabilisce i criteri di attribuzione e perdita di cittadinanza). I diritti politici dovrebbero quindi essere riconosciuti a tutti coloro che fanno sostanzialmente parte della comunità politica, in quanto deve

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essere loro consentito di partecipare all’assunzione delle decisioni pubbliche, cioè collettive, riguardanti la comunità stessa.

Nella realtà accade che sul territorio dello Stato vivono individui che non sono cittadini in senso giuridico, pur avendo una residenza stabile e “subendo”

quotidianamente le decisioni pubbliche assunte dai rappresentanti in nome del popolo. Parallelamente esistono cittadini in senso formale, che mantengono i diritti politici e la nationalité pur essendosi trasferiti ed integrati in altre comunità e avendo perso il contatto con il popolo.

Esistono individui formalmente “stranieri” ma che partecipano di una comunità politica, in quanto vivono e lavorano quotidianamente fianco a fianco con i cittadini, ne condividono esperienze, adempiono ai doveri di solidarietà specie economica che l’ordinamento giuridico richiede loro alla pari degli altri. È ragionevole pensare che uno straniero possa provare un doppio attaccamento, per la terra di origine e per quella di accoglienza, Cicerone lo spiega molto bene nel De Legibus:

“Tutti hanno due patrie…noi consideriamo patria e quella in cui siamo nati, e quella da cui fummo accolti. Ma è necessario amare specialmente quella in grazia della quale il nome dello Stato è comune a tutti i cittadini; per la quale dobbiamo morire ed alla quale dedicarci interamente e in cui porre tutti i nostri interessi e quasi consacrarveli; ma quella che ci ha generato è poi dolce in grado non molto diverso da quella che ci ha accolto.

Perciò io mai negherò essere questa appunto la mia patria, pur essendo maggiore di essa quell’altra.” (Cicerone, cit. in Grosso E., 2001).

È risaputo quanto gli antichi romani erano abituati ed aperti alla diversità e al cosmopolitismo, e le parole di Cicerone lo confermano.

Ancora nell’Ottocento al fine di sancire l’assoluta coincidenza tra popolo e nazione, ci si serve della nozione giuridico formale di cittadinanza per dare un contenuto concreto ad entrambi i concetti. Il popolo è composto dalla somma dei cittadini. Costoro sono definiti dalla legge che stabilisce le condizioni di acquisto della cittadinanza come tutti gli individui nati da padre cittadino (ius sanguinis).

Solo tra i cittadini possono essere tratti coloro che sono legittimati ad esprimere, attraverso il voto, la volontà di nazione. Si opera in tal modo una doppia equivalenza. Quella della cittadinanza rispetto alla nazionalità, quella della

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