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1. LA PARTECIPAZIONE POLITICA DEI RESIDENTI STRANIERI

1.4. La giurisprudenza

La quasi totalità della dottrina costituzionale italiana e straniera sostiene che i titolari dei diritti politici sono tutti i cittadini, intendendosi con tale termine tutti coloro ai quali la legge attribuisce tale qualifica sulla base del possesso di determinati requisiti formali da essa stessa stabiliti. Gli articoli della Costituzione italiana sono molto chiari in proposito: “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età” (art. 48); “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente i partiti” (art. 49); “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere” (art. 50); “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive”(art. 51).

3 La Galeotti scrive nel 1991 (Galeotti A. E., 1991) considerazioni di questo tipo, nel 2003 in Italia la proposta di legge di Alleanza Nazionale per il voto agli immigrati ripropone il censo come

Tuttavia solo “storicizzando il problema della titolarità dei diritti politici è

possibile ragionare sulla loro attuale portata” (Grosso E., 2001). Solo se si

comprende perché e con quali strumenti, in un dato momento dell’evoluzione dello Stato moderno, la sovranità è stata attribuita al popolo e questo è stato fatto progressivamente coincidere con la somma di coloro che la legge qualifica come cittadini, si potrà trarre qualche conclusione sul significato del presunto parallelismo tra cittadinanza e titolarità dei diritti politici. Si potrà forse, così, pervenire ad una diversa interpretazione delle stesse disposizioni costituzionali che sembrano riservare la partecipazione politica soltanto a coloro che lo Stato, attraverso la legge sulla cittadinanza, qualifica come propri appartenenti.

Uno dei fattori che più hanno influenzato la convinzione persistente secondo cui la titolarità dei diritti di partecipazione politica debba rigorosamente seguire il possesso della cittadinanza è da ricercarsi nel modo in cui, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e dapprima in Germania, fu teorizzata la cosiddetta

cittadinanza attiva. Allora si riteneva che tutti i diritti soggettivi non fossero che la

conseguenza dell’appartenenza dei singoli allo Stato, e costituissero un effetto riflesso dell’organizzazione statale. Nel diritto pubblico, i diritti non spettano al singolo in quanto tale, ma solo in quanto membro della collettività. Tutti gli atti nei quali si riassume, nell’Ottocento, la categoria di quelli che oggi definiamo diritti politici, vale a dire, da un lato, l’esercizio del voto, dall’altro lato, la partecipazione alla funzione di governo e all’amministrazione dello Stato, non rappresentano altrettante manifestazioni della sfera delle libertà dell’individuo, ma concretizzano l’esercizio di una pubblica funzione. In questi termini il diritto di voto si configura come un procedimento che, in quanto concorrente alla creazione di una volontà statale, appartiene al singolo in quanto facente parte di una collettività qualificata come “corpo elettorale”. Soggetto della capacità politica non è, secondo questa concezione, tanto l’individuo, quanto lo Stato:

“In forza della concessione di pretese giuridiche positive verso lo Stato, il fatto di essere membro dello Stato si trasforma da un rapporto di pura dipendenza, in un rapporto avente un doppio carattere, in una condizione giuridica, cioè, che nello stesso tempo attribuisce facoltà e impone doveri. Questa condizione è quella che viene designata come

appartenenza allo Stato [Staatsangehörigkeit], come diritto di cittadinanza, come nationalité”. (Jellinek, cit. in Grosso E., 2001, p. 13).

Questa visione, anche nelle versioni più temperate, riduce l’individuo a funzionario e diffonde una concezione totalizzante dello Stato, cui i singoli “appartengono” poiché la legge li riconosce come sudditi-cittadini. Tale situazione è bene spiegata dalle parole del giurista tedesco Jellinek, sopra riportate. Proprio questa concezione rappresenterà un formidabile strumento ideologico, diretto a subordinare al possesso della cittadinanza l’attribuzione di qualsiasi situazione giuridica attiva nei confronti dello Stato, e a costruire, in tal modo, il “mito dello Stato”.

Si può affermare che la dottrina dello Stato liberale, cui si è accennato, rifiutava di riconoscere i diritti politici, i quali in quel momento si esaurivano nei diritti elettorali, come delle situazioni giuridiche individuali antecedenti e indipendenti rispetto all’affermazione dello Stato, e li riconduceva invece, essenzialmente, ad una funzione pubblica. Ne deriva che i diritti elettorali sono limitati ai soli cittadini, cioè a coloro che appartengono allo Stato nei modi stabiliti e precisati dalla legge sull’acquisto e sul possesso della cittadinanza. Dall’altro lato, possono essere liberamente introdotte dalla legge ulteriori restrizioni, al fine di impedire l’esercizio del voto ad ampie categorie di cittadini, sulla base di loro particolari condizioni personali o sociali.

Il progressivo allargamento del suffragio, fino al riconoscimento generalizzato del suffragio universale maschile e femminile, è un prodotto irreversibile del processo di democratizzazione degli ordinamenti, frutto del riconoscimento del pluralismo sociale come base della democrazia nello Stato costituzionale. Lo stesso concetto di “sovranità dello Stato” è stato ovunque abbandonato in nome della “sovranità popolare”.

Le Costituzioni hanno esteso il numero e la portata dei diritti politici, che non si riducono più alla sola espressione del suffragio o alla partecipazione alle elezioni, ma comprendono tutta una serie di libertà ulteriori, riassumibili nel concetto di “partecipazione attiva”, che si manifestano attraverso la partecipazione a riunioni, cortei, manifestazioni, o mediante il libero esercizio della critica politica attraverso i mezzi di comunicazione del pensiero, o ancora attraverso lo sviluppo degli istituti

di democrazia diretta, e soprattutto attraverso l’esercizio delle libertà associative e l’adesione a partiti e sindacati.

Il pieno accoglimento del principio democratico, tuttavia, se da un lato ha condotto al definitivo allargamento del suffragio, all’affermazione del principio di eguaglianza e libertà di voto, all’ estensione del numero e della portata dei diritti politici, non ha al contrario mai messo in discussione l’altra limitazione generale che la dottrina dei diritti pubblici soggettivi poneva all’esercizio del voto, cioè quella fondata sulla cittadinanza, intesa come appartenenza dell’elettore allo Stato. Anzi si può dire che proprio lo strumento attraverso il quale il principio democratico ha trovato la sua definitiva affermazione, vale a dire il riconoscimento a livello costituzionale della sovranità popolare, è servito a consolidare ulteriormente la convinzione che i diritti politici, in quanto diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica, siano naturalmente riservati al popolo, inteso come insieme di tutti i cittadini. Anche quegli autori secondo i quali la definizione di popolo non è fissa e immutabile, ma può cambiare a seconda che ci si riferisca a coloro cui è attribuita la capacità di esercitare i diritti politici (cittadini e maggiorenni) o anche a tutti i coloro i quali esercitano la loro influenza sul governo attraverso l’esercizio dei diritti di libertà, tendono ad escludere che ad individui privi della cittadinanza possano essere riconosciuti i diritti di partecipazione politica.

Quando si deduce, dalla nozione di sovranità popolare, che i diritti attraverso cui essa si manifesta sono riservati ai soggetti che fanno parte del popolo, e costoro sono fatti coincidere con i cittadini dello Stato, questi ultimi vengono concretamente individuati facendo riferimento alla nozione giuridico-formale di cittadinanza, così come disciplinata dalla legge che, in tutti i paesi, ne regola le forme di acquisto. Si tratta appunto della cittadinanza intesa come appartenenza allo Stato (Staatsangehörigkeit, nationalité). L’attribuzione dei diritti politici sulla base di questa specifica nozione di cittadinanza presuppone logicamente l’esatta corrispondenza tra i cittadini (Staatsangehörige, nationaux) e i membri della comunità politica. Tuttavia, l’appartenenza ad una comunità politica individua una diversa nozione di cittadinanza, non sempre e non necessariamente omogenea alla prima: si tratta di una accezione storico-sostanziale che si costruisce a partire

dai reciproci legami concreti che si creano tra i concittadini. Legami che potrebbero essere indipendenti dall’essere giuridicamente cittadini o meno.

Quando le Costituzioni parlano del “popolo sovrano”, fanno riferimento a una concezione sostanziale di popolo, corrispondente alla comunità politica, cioè alla somma concreta dei citoyens, alla quale viene poi automaticamente sovrapposta l’altra concezione, quella dei cittadini in senso formale, i nationaux. Viene realizzata cioè un’arbitraria equiparazione tra nationalité e citoyenneté. Invece mentre il primo termine designa il rapporto che lega l’individuo allo Stato, definito dalle norme che regolano i requisiti d’acquisto (nonché le cause di perdita e di eventuale riacquisto), il secondo termine designa lo status che rende un soggetto membro di una comunità politica, e si compone di quei diritti e doveri fondamentali che non sono limitati nella sfera privata, ma riguardano in particolare l’esistenza politica dell’individuo. Carl Schmitt negli anni ‘20 (Schmitt, cit. in Grosso E., 2001) proponeva una dottrina che insisteva proprio su una concezione sostanziale di cittadinanza, fondata sul presupposto che tutti i cittadini partecipano di una

sostanza (definibile diversamente a seconda delle epoche) e in nome di questa

appartenenza partecipano alla vita politica. Per Schmitt il soggetto centrale di democrazia è il popolo e non l’umanità. In questi termini la legittimazione della titolarità dei diritti politici si trova non nella concezione formale (nationalité), ma nel dato sostanziale (individuazione di una comunità politica, di un popolo,

citoyenneté). Solo con la coincidenza tra status giuridico di cittadino e

appartenenza sostanziale al popolo si giunge alla coincidenza tra nationalité e

citoyenneté.

In generale gli ordinamenti giuridici tendono a riconoscere i diritti politici sulla base del possesso della cittadinanza formale, senza badare se effettivamente ci sia coincidenza sostanziale tra nationaux e citoyens. Accade che la nozione di popolo assuma posizione preminente nell’ordinamento giuridico, poiché la Costituzione gli riconosce la titolarità della sovranità, ma che si riveli in concreto molto simile ad una scatola vuota che può essere riempita di diversi contenuti (a seconda delle scelte operate dalla legge che stabilisce i criteri di attribuzione e perdita di cittadinanza). I diritti politici dovrebbero quindi essere riconosciuti a tutti coloro che fanno sostanzialmente parte della comunità politica, in quanto deve

essere loro consentito di partecipare all’assunzione delle decisioni pubbliche, cioè collettive, riguardanti la comunità stessa.

Nella realtà accade che sul territorio dello Stato vivono individui che non sono cittadini in senso giuridico, pur avendo una residenza stabile e “subendo” quotidianamente le decisioni pubbliche assunte dai rappresentanti in nome del popolo. Parallelamente esistono cittadini in senso formale, che mantengono i diritti politici e la nationalité pur essendosi trasferiti ed integrati in altre comunità e avendo perso il contatto con il popolo.

Esistono individui formalmente “stranieri” ma che partecipano di una comunità politica, in quanto vivono e lavorano quotidianamente fianco a fianco con i cittadini, ne condividono esperienze, adempiono ai doveri di solidarietà specie economica che l’ordinamento giuridico richiede loro alla pari degli altri. È ragionevole pensare che uno straniero possa provare un doppio attaccamento, per la terra di origine e per quella di accoglienza, Cicerone lo spiega molto bene nel De Legibus:

“Tutti hanno due patrie…noi consideriamo patria e quella in cui siamo nati, e quella da cui fummo accolti. Ma è necessario amare specialmente quella in grazia della quale il nome dello Stato è comune a tutti i cittadini; per la quale dobbiamo morire ed alla quale dedicarci interamente e in cui porre tutti i nostri interessi e quasi consacrarveli; ma quella che ci ha generato è poi dolce in grado non molto diverso da quella che ci ha accolto. Perciò io mai negherò essere questa appunto la mia patria, pur essendo maggiore di essa quell’altra.” (Cicerone, cit. in Grosso E., 2001).

È risaputo quanto gli antichi romani erano abituati ed aperti alla diversità e al cosmopolitismo, e le parole di Cicerone lo confermano.

Ancora nell’Ottocento al fine di sancire l’assoluta coincidenza tra popolo e nazione, ci si serve della nozione giuridico formale di cittadinanza per dare un contenuto concreto ad entrambi i concetti. Il popolo è composto dalla somma dei cittadini. Costoro sono definiti dalla legge che stabilisce le condizioni di acquisto della cittadinanza come tutti gli individui nati da padre cittadino (ius sanguinis). Solo tra i cittadini possono essere tratti coloro che sono legittimati ad esprimere, attraverso il voto, la volontà di nazione. Si opera in tal modo una doppia equivalenza. Quella della cittadinanza rispetto alla nazionalità, quella della

titolarità dei diritti politici rispetto alla cittadinanza, con il preciso scopo di consentire soltanto ai “figli della stessa nazione” di esprime la volontà politica di quest’ultima. Tale equivalenza è sopravvissuta fino ad oggi, ma è destinata ad entrare in crisi qualora il punto di partenza non sia più un’idea “etnica” di nazione, bensì un’idea “elettiva” di quest’ultima. Vale a dire non un’appartenenza chiusa alla comunità di sangue, ma la partecipazione alla costruzione di una comunità aperta, continuamente in movimento, fondata su quel “plébiscite de tous les jours” di renaniana memoria (cit. in Grosso E., 2001, p. 42) grazie al quale i membri di una comunità politica trovano la propria identità non in somiglianze etnico culturali, ma in quella che Habermas chiama “prassi di cittadini che esercitano i loro diritti

democratici di partecipazione e comunicazione” (ibidem). Secondo Habermas, a

tale comunità di cittadini devono poter partecipare non soltanto coloro che siano formalmente in possesso della cittadinanza giuridica, ma tutti coloro che, risiedendo in un certo luogo, ed essendo soggetti alla sovranità della Costituzione, godono dei diritti ed adempiono ai doveri che tale Costituzione riconosce ed impone. Egli rifiuta l’idea di nazione come comunità di destino, in favore di una concezione aperta, nella quale il fondamento della nazione risiede essenzialmente nel concreto esercizio dei diritti costituzionali, e in primo luogo nei diritti democratico di partecipazione.

Alla contrapposizione tra concezione etnica o elettiva della cittadinanza,corrisponde quella tra popolo inteso come ethnos, e popolo inteso come demos. La prima accezione fa riferimento ad un aggregato del quale si esaltano il passato e la storia comune. Demos, al contrario, definisce un aggregato che si costituisce a partire da un’adesione volontaria dei soggetti che intendono creare una comunità politica basata su valori condivisi. Una valorizzazione della prima tipologia è adatta ad un’idea di nazione impermeabile all’adesione volontaria di nuovi soggetti, e ad un’interpretazione chiusa dei valori costituzionali riguardanti i diritti politici. Al contrario, l’idea di demos rimanda alla nazione intesa come libera associazione di cives che praticano quotidianamente un’attiva partecipazione alle vicende politico-istituzionali della comunità cui appartengono, ed interpreta in senso evolutivo le disposizioni costituzionali che garantiscono il possesso dei diritti politici. Le concezioni aperte di popolo e di

nazione, sebbene largamente diffuse, non hanno prodotto un’estensione dei diritti politici. Al massimo hanno favorito moderazioni del criterio di concessione della cittadinanza in direzione di uno stemperamento dello ius sanguinis. Come nel caso della Francia che, dal 1993, ha aperto la cittadinanza ai figli di immigrati nati sul suolo francese (la cosiddetta “jeunesse beur”4).

Nei sistemi politici europei, un accesso facile alla cittadinanza e la concezione del diritto di voto locale agli immigrati non sono in antitesi. I Paesi Bassi hanno recentemente facilitato le pratiche di naturalizzazione riuscendo ad aumentarne i tassi, i paesi scandinavi sono relativamente aperti rispetto all’acquisizione della cittadinanza e lo stesso vale per il Regno Unito. È vero che i tassi di naturalizzazione non dipendono solo dalla liberalità delle leggi, ma anche dai luoghi di provenienza e dai tempi di insediamento. La tavola seguente mostra quanto meno un’indifferenza tra voto amministrativo e tassi di naturalizzazione. D’altra parte, in Italia, i critici del voto amministrativo non si sono mai mobilitati per rivedere la legge n. 91 del 1992, che ha reso l’accesso alla cittadinanza per i non comunitari più difficile (raddoppiando il numero di anni richiesti) e indurito le condizioni anche per i minori nati in Italia (introducendo il requisito della residenza legale e continuativa). In tema di cittadinanza persino la Germania, fino ad oggi citata sempre come esempio di chiusura, ha recentemente votato una legge sulla riforma della cittadinanza più aperta rispetto a quella italiana.

“Accesso semplificato alla cittadinanza e voto amministrativo sono strumenti non alternativi, ma concomitanti”. (Zincone G., 1999, p. 9).

Il voto locale costituisce sia una tappa intermedia nella strada verso la naturalizzazione, sia un’alternativa per chi non voglia o non possa naturalizzarsi.

Il filosofo liberale John Rawls (cit. in Zincone G., 1999, p. 9) suggeriva una valida anche se difficile ricetta per fare leggi giuste consigliando di prendere le nostre decisioni come se non sapessimo chi siamo, come se non sapessimo in

4 Quello beur è un movimento che rifiuta l’alternativa tra assimilazione alla cultura maggioritaria e segregazione nella cultura di origine, rivendicando una doppia identità, francese-europea e magrebina (Rivera A., 2001, p. 143).

quale paese, in quale classe sociale, in quale sesso o gruppo etnico la sorte ci ha fatti nascere, né quali aspirazioni abbia messo nel nostro cuore.

Dall’analisi fatta sembra emergere che i diritti politici sono attribuibili sulla base dell’appartenenza storico-sostanziale ad una comunità più che in base al requisito giuridico-formale della cittadinanza.

ACQUISTO DELLA CITTADINANZA IN ALCUNI PAESI EUROPEI (dati percentuali sulla popolazione straniera) Paese 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 Austria 2,5 2,4 2,5 2,2 2,3 2,4 2,1 2,2 Belgio 0,9 5,0 1,8 2,8 2,8 2,7 Danimarca 2,3 2,0 3,4 3,0 2,8 3,0 2,7 3,3 Finlandia 8,1 4,2 4,7 2,3 1,8 1,2 1,1 1,4 Francia * 2,7 Germania 1,5 2,1 2,7 3,1 3,1 3,8 4,5 4,2 Italia 0,6 0,5 0,7 0,7 0,8 0,7 Lussemburgo 0,6 0,7 0,5 0,5 0,6 0,6 0,6 0,6 Paesi Bassi 4,6 2,0 4,2 4,9 5,7 6,3 9,4 11,4 Norvegia 3,4 3,4 3,5 3,5 3,6 5,4 7,2 7,6 Spagna 1,6 2,8 1,3 1,5 2,1 1,8 1,5 1,7 Svezia 4,2 3,7 5,7 5,9 8,5 6,9 6,0 4,8 Svizzera 1,0 0,8 0,8 1,0 1,1 1,1 1,3 1,5 Regno Unito 6,4 3,2 3,4 2,4 2,3 2,2 2,1 2,1

* La Francia fa riferimento solo ai dati relativi ai censimenti

Fonte: Zincone, G., 1999, p. 21.

Tale tesi è contestata anche in luce del fatto che le principali costituzioni legano alla cittadinanza il possesso dei diritti politici. Eppure ci sono paesi che hanno riconosciuto ai residenti extracomunitari il diritto di voto alle elezioni locali (prima ancora che nel 1992 il trattato di Maastricht imponesse questo diritto ai cittadini comunitari).

L’articolo 2 del Capitolo III della Costituzione Svedese (paese che, come abbiamo visto, riconosce il diritto di voto sin dal 1975) dispone che “ogni cittadino

svedese che ha, o che ha avuto, la residenza stabile in Svezia ha il diritto di partecipare alle elezioni del Riksdag”. Laddove è espressamente riconosciuto il

diritto di voto agli stranieri nelle elezioni locali o municipali, esso è disciplinato come una deroga puntuale al principio di esclusione, e perlopiù come una mera facoltà del legislatore. Sembra sia costituzionalmente vietato per il legislatore, lì dove non sia esplicitamente consentito, riconoscere in singoli casi il diritto di voto a tutti o a taluni degli stranieri presenti sul territorio dello Stato. Nessuna Costituzione europea riconosce esplicitamente al legislatore il diritto (o il dovere) di attribuire il diritto di voto politico ai non cittadini. Tale silenzio è stato interpretato in alcuni paesi nel senso che non sia vietato a priori agli stranieri il diritto di partecipare alle elezioni, almeno a livello locale5. In altri casi la stessa Costituzione è stata espressamente integrata in modo da permettere tale estensione. Infine, in seguito all’approvazione del trattato di Maastricht, tutti gli Stati hanno dovuto fare i conti con il riconoscimento al livello comunitario del diritto di voto di tutti i cittadini europei nel luogo di residenza, per le elezioni locali e per le elezioni del Parlamento Europeo. Talvolta si è proceduto alla revisione della Costituzione, in altri casi si è ritenuto che fosse sufficiente la modifica delle singole leggi in materia elettorale.

È da rilevare come tutte le disposizioni relative alla cittadinanza dell’Unione Europea (sancite a Maastricht e Amsterdam) siano state direttamente inserite nel trattato del 1958, istitutivo della allora Comunità Economica Europea. Questo perché si è voluto dare alla cittadinanza europea un vero e proprio valore fondante.

Si pone quindi un problema di adeguamento dei singoli ordinamenti costituzionali nazionali alle nuove disposizioni, che attribuiscono ad ogni cittadino europeo il “diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali dello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato”6. L’attuazione concreta del diritto di voto per il Parlamento Europeo nello Stato membro di residenza non ha richiesto specifici interventi costituzionali nei singoli paesi. Si

5 Spesso si è anche fatto leva sul fatto che le elezioni amministrative sono altra cosa dalle politiche, che la sovranità non risulterebbe intaccata dal voto amministrativo (anche se in Francia le elezioni locali, per un sistema di Grandi Elettori, sono legate all’elezione dei Senatori, e quindi occorrerebbero particolari modifiche di questo aspetto se venisse concesso il voto agli stranieri extracomunitari).

tratta, in effetti, della razionalizzazione di spinte innovative che già in precedenza avevano investito molti stati europei. In materia di elezione al Parlamento Europeo il diritto di voto (attivo) era già stato riconosciuto nel Regno Unito, Irlanda, Belgio,