3. RAPPRESENTANZA POLITICA E DIRITTO DI VOTO IN ITALIA
3.7. Rilevanza delle appartenenze identitarie nella rappresentanza
Se partecipare implica la discussione politica e la presa di posizione, questo non può non implicare una scelta profonda, quella di valutare dove collocarsi all’interno della discussione. Parlare a nome di chi? A nome mio o a nome del mio gruppo? O a nome di alcune persone che conosco che hanno origini diverse ma si sentono accumunate da alcuni problemi? Le elezioni informali cui sono chiamati gli immigrati in questo contesto hanno utilizzato metodi diversi per nominare i vincitori e suddividere i voti. Generalmente si attua una rappresentanza per continente. Vale a dire che viene eletto un candidato per continente. Il che agli occhi di molti, specie dei diretti interessati, sembra un problema: un filippino non si sente rappresentato da un cinese, un senegalese da un marocchino e così via. Questo aspetto scatena ampie discussioni, eppure questa non è necessariamente una concessione degli Enti Locali al comunitarismo, come sembrerebbe ad un primo sguardo. Si può anche considerare una restrizione al comunitarismo, proprio perché la persona, nell’ambito di un continente, è costretta a guardarsi intorno, a vedere cosa può proporre un altro asiatico, o un altro americano, ma non necessariamente una persona della stessa nazione, associazione, parrocchia ecc. Al momento dell’elezione si voterà comunque il proprio candidato, probabilmente della propria comunità, ma c’è la possibilità che questo sia sconfitto e allora bisogna accontentarsi di un “altro” o disconoscere le elezioni. Molti a Roma, come vedremo, si sono disinteressati alle elezioni proprio per il timore che il proprio candidato non vincesse, andando così a sprecare il proprio voto. C’è però da dire che questo sistema per forza di cose penalizza le comunità più piccole. Il grande problema è che non vince un programma politico, ma una persona che è riuscita a mettersi in evidenza nella comunità e a questo punto la rilevanza numerica della comunità risulta fondamentale. Probabilmente con il ripetersi degli esperimenti tutto questo si attenuerà, perché le comunità più deboli cercheranno alleanze per vincere e dovranno passare oltre le appartenenze
nazionali. Per ora, però, se è vero che i voti espressi sono nella maggior parte etnici, programmi e idee passano davvero in secondo piano. Viene spontaneo chiedersi se i problemi degli immigrati possano differire così tanto di comunità in comunità, aldilà della vita quotidiana e della abitudine a stare con le persone che meglio si conoscono, e quindi, probabilmente, con i propri connazionali, è possibile che si avverta una differenza così netta nel valutare la propria condizione di “immigrato” rispetto alle condizioni di un altro gruppo? Sembra che gli immigrati preferiscano le Consulte ai Consiglieri aggiunti, perché le prime risponderebbero maggiormente alla rappresentanza comunitaria rispetto al tipo di rappresentanza fornita dai Consiglieri aggiunti.
Probabilmente dall’esterno molti Enti Locali vedono “gli immigrati” come una categoria omogenea e uniforme negli interessi, quindi un rappresentante alla fine vale l’altro.
Con delle elezioni vere e proprie, i candidati dovranno inserirsi nel sistema di partiti italiano e seguire dei programmi comuni, lì dovrebbe venire meno l’idea di appartenenza comunitaria e dovrebbe essere, più che altro, la persona a prevalere. Non escludo però il rischio che i partiti possano cooptare l’immigrato al proprio interno come “elemento esotico”, capace di rappresentare una intera categoria e di accaparrarsi i voti di un “indistinto mondo di immigrati”. Sarà, in ogni caso, l’esperienza a dare un’idea di quello che potrebbe succedere, e molto probabilmente l’entrata in politica degli stranieri non porterà sconvolgimenti, come si è visto anche nel trattare i casi europei. Tutti questi esperimenti sono solo un banco di prova, un modo di formulare strategie in vista di un’elezione amministrativa che veda la partecipazione di cittadini e residenti stranieri insieme.
Il comune di Venezia, come si è visto, propone il diritto di voto attivo e passivo nei Consigli circoscrizionali, gli stranieri andrebbero a votare quindi con gli italiani. Per ovviare al problema delle liste elettorali (le stesse valide anche per le votazioni politiche), si creerà una lista separata, costantemente aggiornata. Da discutere ci saranno poi i criteri per l'attribuzione di tali diritti, visto che per "stranieri residenti" le interpretazioni oscillano, soprattutto per quel che riguarda i tempi minimi di residenza fissa (ad esempio la Carta europea dei Diritti dell'uomo nelle città parla
di due anni): la base di partenza sono i sei mesi di durata del permesso di soggiorno, ma di certo questo sarà un punto da definire.
Per quanto riguarda le elezioni della Consulta di Bolzano, non sono previste liste, sia per evitare, per quanto possibile, il raggruppamento su base nazionale, sia dato l’esiguo numero dei votanti. I candidati, quindi, non meno di 24, si presenteranno a titolo personale. E’ interessante notare che il meccanismo elettorale, con la previsione di un seggio per ogni 300 residenti, impone alle comunità più piccole (a Bolzano solo albanesi e marocchini superano questa soglia) di creare delle alleanze attorno ad un candidato unitario, che quindi dovrà necessariamente cercare voti di non connazionali. Questo dovrebbe impedire, come riportato in www.meltingpot.org, che i membri della Consulta si considerino rappresentanti unicamente del proprio gruppo nazionale. Senza quindi cadere nel pericolo di considerare gli immigrati come un insieme omogeneo, proprio in quanto stranieri (e quindi in un certo senso contrapposti agli autoctoni), il meccanismo della Consulta di Bolzano cerca di incoraggiare il superamento dell’identità nazionale come unico collante fra gruppi di elettori e candidati, dando quindi spazio alle opzioni politiche e programmatiche degli uni e degli altri. Gli sbarramenti per la validità delle elezioni sono stati volutamente lasciati relativamente bassi, facendo quindi tesoro delle esperienze spesso non incoraggianti delle altre città italiane, dove la partecipazione al voto non ha superato il 20%: perché la Consulta sia validamente eletta, basteranno, infatti, i voti del 15% dell’elettorato, ma è necessario che donne e uomini costituiscano rispettivamente almeno il 25% dei membri. I membri della Consulta, inoltre, devono provenire da tutte le quattro aree (Africa, America, Asia ed Oceania, Europa) in cui il regolamento elettorale suddivide il mondo. È, in ogni caso, evidente che una Consulta veramente rappresentativa, agli occhi dei propri elettori ma anche a quelli dei cittadini “autoctoni” e delle stessa Amministrazione comunale, dovrebbe poter contare su di una base elettorale ben più ampia.
In un contesto come quello del nostro paese, davanti alle accelerazioni proposte dai “laboratori politico-istituzionali dei territori”, in attesa di provvedimenti del Parlamento, si pone, secondo Mosconi (Mosconi R., 2000), questo interrogativo: la partecipazione dei cittadini stranieri alla vita sociale e civile delle
comunità locali deve passare per istituti del tutto simili a quelli tipici della democrazia rappresentativa (elezione diretta dei propri rappresentanti) oppure è meglio attendere che si sviluppi il processo di integrazione per poi, in un secondo tempo, arrivare anche alla istituzione di organismi elettivi rappresentativi, magari attraverso un ufficiale diritto di voto alle elezioni rappresentative? Secondo l’autore queste esperienze “intermedie” sono importanti all’interno di un percosso graduale. Il problema è, semmai, quello che questi strumenti “concessi” non siano utilizzati e valorizzati attraverso un’ampia partecipazione. Perché ciò avvenga è necessario che alla parola partecipazione, e anche alla parola decentramento, venga attribuito un significato pieno tale da fare sì che l’importanza formale di questi istituti si approssimi a quella sostanziale.
A Lecce un punto critico sottolineato dai rappresentanti è l’elezione a doppio livello prevista dal regolamento: ogni comunità può presentare due candidati, tra questi i più votati provvederebbero poi all’elezione del Consigliere aggiunto. Questa norma assicurerebbe pari rappresentanza alle diverse comunità a scapito di una rappresentanza proporzionale all’effettiva consistenza numerica delle stesse. Il che può anche, però, avere il merito di permettere l’elezione di una persona con effettive capacità, che sia una figura di compromesso e non semplicemente il rappresentate della comunità più numerosa. Proprio su questo punto si sono levate le proteste della comunità albanese, la più rilevante numericamente tra quelle presenti a Lecce, all’incirca 1000 persone su un totale di 3000. Non trovando risposte alle proprie richieste, la comunità albanese ha deciso di ritirare le proprie candidature. Eppure questo esempio risulta un compromesso tra l’eleggere e il nominare su cui ci siamo soffermati nel paragrafo precedente.
A Torino la Consulta comunale era eletta secondo un meccanismo che prevedeva la ripartizione dei seggi tra comunità e aree geografiche (per le comunità meno numerose): i seggi si assegnavano in proporzione alla consistenza numerica delle comunità. Tale forma di rappresentanza su base “etnico-geografica” era sembrata garantire, secondo alcuni, una più estesa e puntuale rappresentatività. Ecco il parere di un esponente della Caritas:
"[…] la maggioranza degli stranieri che hanno partecipato alle elezioni per la Consulta non aveva mai votato; penso ai somali, ai maghrebini che allora erano in maggioranza qui
in città. Noi avevamo pensato di far votare tutte le etnie in base al numero, per obbligare tutte le etnie a partecipare, e credo che ancora oggi, almeno per tre, quattro anni, questa sia la soluzione migliore. Perché tutte le altre politiche vedono esclusi gran parte degli stranieri, che non parteciperebbero perché non ci sono leader politici, leader culturali. Ci sono solo leader religiosi. Allora c'è il rischio che facendo delle cose per raggruppamenti si vada ad eleggere chi è popolare per il fatto di essere un leader religioso " (cfr. Carpo F.,
Cortese O., Di Pieri R., Magrin G., 2003, p. 23 ).
Secondo altri, invece, la scelta del sistema elettorale su base etnica si è rivelata un errore: se è vero che è legittimo, ed anche opportuno, garantire il diritto di espressione politica dei cittadini immigrati nell'ambito locale, è un'esagerata concessione al multiculturalismo, e comunque difficilmente praticabile, tutelare la posizione dei cittadini immigrati marocchini, piuttosto che filippini, e così via, insomma in nome di una nazionalità specifica. E questo è quanto sottolineato da un Sindacalista straniero CGIL:
"[…] la scelta della rappresentanza su base etnica era sbagliata e va superata, in una visione a lungo termine. Si può anche difendere la posizione particolare dei cittadini immigrati nell'ambito locale, ma non di cittadini marocchini o di cittadini senegalesi, e così via" (ivi, p.23).
E da un Ex Consigliere Comunale straniero:
"[…]Io avevo proposto, insieme ad altri, di rafforzare la Consulta, eliminando innanzi tutto il riferimento "tribale" alla composizione per quote etniche. Secondo me, ognuno doveva poter votare per chi voleva, indipendentemente dall'etnia di appartenenza. Se tutti i marocchini volevano votare per un marocchino…benissimo; ma se qualcuno di loro voleva votare per un nigeriano o per un albanese, perché impedirlo?" (ivi, p. 23).
Inoltre, sono state messe in luce due degenerazioni opposte del "vincolo etnico" presente nel meccanismo elettivo della Consulta Comunale di Torino: da una parte, alcune comunità etniche hanno espresso un numero eccessivo di candidati rispetto a quelli effettivamente eleggibili; dall'altra, vi sono state comunità che hanno presentato un solo candidato, non consentendo ai propri elettori una effettiva scelta.