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Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona
Prof. Massimo Franzoni
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Una breve cronistoria degli eventi di interesse sul danno alla salute. – 3. Lo stato dell’arte esistente. – 4. La riflessione sullo stato dell’arte. – 5. La lesione della reputazione: il caso del protesto illegittimo ed altre questioni. – 6. Il danno, le funzioni della responsabilità civile e del risarcimento. – 7. La tipizzazione sociale degli illeciti e la funzione del risarcimento.
1. Premessa.
È appena il caso di costatare che, appena nato, il danno esistenziale è già stato riconosciuto dalla Cassazione tra le lesioni oggetto di risarcimento (1). È ancora il caso di constatare che l’area del pregiudizio ricoperto da questa categoria di pregiudizi ai diritti della persona, seppure dagli incerti contorni, pone questioni di interesse per i giuristi italiani ed anche per quelli di molti altri Paesi, ivi compresi quelli di area di Common Law; in tutti questi, la questione viene affrontata e risolta con l’attribuzione di un risarcimento alla vittima (2). In prima approssimazione si può dunque rilevare che, sebbene molti attribuiscano diversi significati al risarcimento del danno esistenziale, questa si riferisce ad una lesione che i più ritengono meritevole di tutela.
Diversa sorte ha avuto il suo progenitore, il danno biologico, lesivo del diritto alla salute, che, per potersi affermare, ha dovuto attendere numerose pronunce dagli incerti contorni ed ha dovuto misurarsi con almeno tre importanti pronunce della Corte Costituzionale. Con ciò tacendo del dibattito fra gli interpreti, non sempre concordi nel
Ordinario di Diritto Privato, Università di Bologna
(1) Cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Giur. it., 2000, p. 1352, con nota di PIZZETTI, Il danno esistenziale approda in cassazione; in Corriere giur., 2000, p. 873, con nota di DE MARZO, La cassazione e il danno esistenziale; in Danno e resp., 2000, p. 835, con nota di MONATERI, «Alle soglie»: la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale, e di PONZANELLI, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata; in Giust. civ., 2000, I, p. 2219; in Guida al dir., 2000, fasc. 23, p. 42, con nota di FINOCCHIARO; e in Foro it., 2001, I, c. 187, con nota di D’ADDA.
(2) Di tale circostanza, CENDON, Esistere o non esistere, in Resp. civ., 2000, p. 1251 ss.
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riconoscere l’esistenza di questa specie di danno, che ha contribuito non poco a giungere alla soluzione ormai generalmente accettata che vede nel danno biologico una lesione all’integrità psicofisica della persona medicalmente accertata. Proprio in questo dibattito c’era di più dell’approdo finale al quale è giunto il lungo percorso del danno alla salute. C’era l’idea che tra i pregiudizi da risarcire dovevano essere considerate anche le compromissione di tipo relazionale dovute alla causa della lesione biologica. E proprio per questa ragione il danno alla salute ha assolto un ruolo importante nel riassumere in sé molte voci di danno, un tempo autonomamente risarcibili: il danno alla vita di relazione, il danno estetico non incidente sulla capacità lavorativa specifica, il danno sessuale e così via.
Ad un certo punto del percorso, si sono verificate due nuovi eventi di rilievo: (a) c’è stato un rinnovato interesse del legislatore sul danno alla salute; (b) c’è stato un rinnovato interesse della persona e dei diritti della personalità, ancora da parte del legislatore. In considerazione del primo, il danno alla salute necessariamente ha dovuto confinarsi nella più ristretta nozione di danno biologico di matrice medico‐legale; in considerazione della seconda, l’ambito della persona ha finito per espandersi secondo prospettive nuove, e senza dubbio ha occupato spazi finora sconosciuti al diritto. Basti qui citare soltanto le nuove prospettive apertesi con la legge sulla privacy e le molte riflessioni incominciate dopo la Carta europea dei diritti dell’uomo; si tratta di norme capaci di rivitalizzare la clausola generale dell’art. 2 cost., per la verità mai dimenticata dal diritto di fonte giurisprudenziale.
Un primo risultato da registrare è che la funzione unificante attribuita al risarcimento del danno alla salute, comprensivo di tutte le compromissione non incidenti sulla capacità di produrre reddito, non può più essere perseguita. È impossibile restringere l’area del danno risarcibile con l’etichettatura del biologico (sub a) e contemporaneamente pretendere di ampliare la tutela civile della persona (sub b). Del resto, è ormai inutile voler disquisire sulla legittimità dell’uso della responsabilità civile per risarcire danni alla persona non direttamente incidenti sulla capacità di produzione del reddito. Semmai potrebbe valer la pena di domandarsi se questi possano essere risarciti soltanto in presenza di una diretta riduzione della validità psicofisica di per sé; oppure se anche il profilo relazionale possa essere oggetto di autonomo risarcimento, sebbene manchi una lesione all’integrità psicofisica. Ma si tratterebbe di rispondere ad una domanda retorica, dal momento che da decenni nel
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danno alla salute è confluito il danno alla vita di relazione, il quale più delle altre figure deve essere individuato la perdita da risarcire nella compromissione dell’aspetto relazionale della vita umana, non necessariamente collegato alla capacità di produrre reddito.
La vera questione allora consiste nello stabilire se la tecnica della responsabilità civile sia duttile alla ricezione delle nuove istanze, oppure se questa debba reagire e respingere verso altre forme di tutela esistenti o da inventare, de iure condendo.
2. Una breve cronistoria degli eventi di interesse sul danno alla salute.
La storia ad andamento ciclico che ha contraddistinto il danno alla persona – dal danno biologico al danno alla salute, dal danno alla salute al danno biologico – ha posto all’attenzione degli interpreti una generale riflessione sull’architettura codicistica del danno da illecito aquiliano.
Consolidatasi l’idea che le conseguenze pregiudizievoli per la persona non incidenti sulla capacità di produrre reddito debbano essere risarcite in applicazione dell’art. 2043, e non invece dell’art. 2059 c.c., si trattava di giustificare teoricamente il rapporto fra la norma iniziale e quella finale del titolo IX del libro IV. Generalmente gli interpreti hanno convenuto nell’attribuire all’art. 2043 c.c. il contenuto di una clausola generale, quanto alla definizione del «danno ingiusto», ed hanno rilevato la necessaria previsione della patrimonialità del danno, nella parte finale della disposizione: «obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Sicché la compromissione di una situazione protetta, intesa come lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, per consentire il rimedio risarcitorio, deve essere causa di una perdita patrimoniale in capo alla vittima. Questa perdita patrimoniale è condizione essenziale per consentire alla responsabilità civile di operare, dal momento che il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto nei casi previsti dalla legge, secondo l’art. 2059 c.c.; e tradizionalmente questi casi si sono identificati nel danno morale soggettivo dell’art. 185 c.p., salvo qualche rara eccezione.
Per lungo tempo la dottrina ha cercato di giustificare l’operatività dell’art. 2043 c.c., anche per conseguenze non direttamente apprezzabili con criteri di mercato, motivando che alla patrimonialità del danno si potrebbe giungere ogni qual volta certe conseguenze possano essere stimabili economicamente, secondo un criterio socialmente tipico. Ciò anche sul presupposto che se è certo che un bene, costituente valore di
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scambio, può trovare nel mercato il criterio di stima del suo valore, una altro bene, costituente soltanto valore d’uso, deve comunque trovare un criterio di stima del suo valore. Anche la perdita di un valore d’uso deve essere apprezzata patrimonialmente, sebbene il mercato non consenta immediatamente di darne una precisa rappresentazione, in termini di controvalore (3).
In buona sostanza, per questa via è stata ampliata la nozione di patrimonialità del danno fino al punto di attribuire il risarcimento anche a conseguenze di lesioni (danno ingiusto) non ascrivibili al concetto di bene giuridico (art. 810 c.c.), al concetto di rapporto giuridico patrimoniale (art.
1174 c.c.), pure sotto il profilo della mera aspettativa meritevole di protezione. Il rischio concettuale è stato quello di voler definire il presupposto – il danno patrimoniale inteso come conseguenza pregiudizievole di una lesione – attraverso la sua conseguenza – il risarcimento del danno. Si è definito patrimoniale il danno, poiché lo si risarcisce pecuniariamente, ma con ciò non si qualifica la patrimonialità del danno.
Più pragmaticamente la giurisprudenza, specie quella degli anni novanta, ha tipizzato il danno alla salute come tertium genus di danno fra il patrimoniale (la perdita di reddito) ed il non patrimoniale (il pretium doloris). In buona sostanza i giudici hanno accettato l’idea che la patrimonialità non sia un requisito imprescindibile del danno civile risarcibile nell’art. 2043 c.c., poiché, per talune lesioni della persona, queste sole sono sufficienti a consentire il risarcimento. In tal modo il danno patrimoniale ha finito per rappresentare soltanto una componente del danno risarcibile ed ha cessato di essere un suo sinonimo.
Sotto il profilo della quantificazione del danno alla salute, i dissensi sono stati presto superati. Qualsiasi sia il titolo dell’obbligazione risarcitoria, questa presenta un contenuto che soltanto il criterio equitativo può determinare, tanto per l’una quanto per l’altra concezione.
Del resto il criterio sociale tipico, che ha portato all’introduzione di un sistema tendenzialmente omogeneo basato sulla stima a punto di invalidità, bene può essere invocato tanto dagli uni quanto dagli altri. Le resistenze di coloro che hanno sostenuto la necessità di equiparare la risarcibilità con la patrimonialità del danno erano dirette a limitare la
(3) Cfr. GALGANO, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, p. 24; MASTROPAOLO, Il risarcimento del danno alla salute, Napoli, 1983, p. 317; MONATERI e BELLERO, Il "quantum» nel danno a persona, Milano, 1984, 25 ss.; Cass., 11 febbraio 1985, n. 1130, Resp. civ., 1985, p. 215; Trib. Massa, 30 maggio 1983, in Giur. it, 1984, I, 2, c. 3; GIULIANI, Il danno biologico è, dunque, patrimoniale, in Contratto e impresa, 1987, p. 47 ss.; LIBERTINI, Le nuove frontiere del danno risarcibile, in Contratto e impresa, 1987, p. 95.
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nascita dell’obbligazione alle sole lesioni suscettibili di valutazione medico legale, escluse tutte le altre: ad esempio, lo stress o il patema d’animo relativo ad un illecito diverso da quelli rientranti nell’art. 2059 c.c.
L’esigenza di limitare la risarcibilità del danno alla persona diverso dalle conseguenze pregiudizievoli sulla capacità di produrre reddito è un obbiettivo che si è prefisso anche il legislatore nei provvedimenti finora emanati, in attesa di una più generale riforma del danno biologico.
Questo scopo è stato raggiunto in due modi: a) definendo il danno biologico come la «lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di accertamento medico legale, della persona»; b) attribuendo per legge il valore a punto di invalidità. Nonostante il secondo dei due abbia destato il maggior interesse tra gli operatori, specie sul punto delle micropermanenti, ai nostri fini è maggiormente rilevante il primo, poiché sembra escludere che possa essere danno ingiusto quella compromissione della persona che non si saturi in una lesione all’integrità psicofisica medicalmente accertabile. Orbene il godimento della vita, il profilo relazionale della persona, il dolore che non rilevi sotto il profilo psichico sono tutte componenti che possono essere risarcite equitativamente maggiorando il valore a punto, ma a condizione che vi sia stata una lesione psicofisica. Al di fuori di questa eventualità sembra che non potrebbero tradursi in un danno risarcibile; allo stesso modo in cui le sofferenze ed i patimenti sono risarcibili ex art. 2059 c.c. soltanto in presenza di un fatto che astrattamente costituisce reato.
Senonché è ancora prematuro prendere conclusioni sul punto, posto che questi pregiudizi in precedenza potevano essere oggetto di risarcimento, quali componenti del danno alla salute inteso nel suo profilo dinamico. Per di più, in passato, spesso la figura del danno alla salute è stata impiegata per risarcire danni alla persona, pur in assenza di una lesione psicofisica. Viene pertanto da chiedersi se, per effetto di provvedimenti normativi, possa essere limitata l’area del danno alla persona, per come si è già evoluto.
3. Lo stato dell’arte esistente.
A questo dibattito tutto interno fra legislatore ed interpreti, la giurisprudenza sembra restare alquanto spettatrice e proseguire nel proprio percorso. Nel disegnarlo, non va sottovalutato il ruolo sempre più consistente dei giudici di pace, che non nascono come professionisti nella tecnica del decidere, tuttavia bene esprimono il comune sentire sociale,
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specie nel settore dei diritti della persona governato da clausole generali (art. 2 cost. e 2043 c.c.). Qualche esempio può essere utile per comprendere lo stato dell’arte.
Vi sono numerose pronunce che condannano la pubblica amministrazione per aver elevato contravvenzioni illegittime. La condanna la risarcimento del danno è modesto, si tratta di somme che vanno dalle due alle quattrocento mila lire, che non sono particolarmente motivate sul punto, ma che ugualmente condannano la pubblica amministrazione (4). L’illecito può essere individuato nello stress creato alla vittima, sulla falsariga di come ha deciso la Suprema corte, quando ha condannato l’Università degli studi di Bologna per aver megato la certificazione sulla frequenza ad una studentessa, con ciò impedendole di sostenere gli esami per una sessione (5). Lo stesso vale per l’erroneo invio ai contribuenti delle c.d. “cartelle pazze”, secondo la decisione del Giudice di Pace Mestre, 18 settembre 2000 ‐ 29 gennaio 2001 (6). Lo stesso vale ancora per la sottoposizione ad immissioni acustiche intollerabili che, quand’anche non comporti a carico delle vittime l’insorgere di un danno biologico, correlato all’alterazione dello stato di salute o all’insorgere di una malattia, tuttavia si ritiene causa di un’alterazione delle normali attività dell’individuo, da risarcire autonomamente (7).
Ci sono inoltre ulteriori pronunce che, nel liquidare il danno da vacanza rovinata per effetto di un overbooking, stimano equitativamente la perdita in una certa percentuale sul valore del pacchetto di viaggio acquistato (8). Qui non è lo stress ad assumere rilievo, certo è che non
(4) Cfr. Giudice di pace di Perugia – Sentenza 26 aprile 2000, n. 115, inedita; Giudice di pace di Roma, 15 ottobre 1996, n. 3923, in Riv. giur. circ. trasp., 1997, p. 879.
(5) Cfr. Cass., sez. III, 10 maggio 2000, n. 5946, in Mass. Foro it., 2000, qui il risarcimento è stato quantificato dal giudice di pace in 750 mila lire.
(6) Il giudice di pace di Mestre ha condannato il ministero delle Finanze a risarcire una contribuente alla quale era stata recapitata una “cartella pazza”, con la richiesta di imposte, soprattasse e interessi che la signora non avrebbe dovuto pagare. Il giudice veneto ha riconosciuto la somma di un milione di lire per il danno causato e per le spese sostenute: dal commercialista alle trasferte verso l’ufficio dell’amministrazione. Ma la decisione riveste una particolare importanza perché potrebbe rappresentare un precedente rispetto a una vicenda sempre più frequente: quella dell’invio di cartelle fiscali contenenti errori. Una nuova raffica di “cartelle pazze” è stata, infatti, di recente inviata a circa 3 milioni di contribuenti. Per il giudice di Mestre il principio che deve informare l’attività della pubblica amministrazione è quello del neminem laedere: l’errore nascerebbe dal non aver adottato comuni regole di prudenza e di diligenza. Se si fosse adottata la dovuta attenzione, invece, l’errore sarebbe stato evitato. Il ministero delle Finanze è stato dunque condannato al risarcimento dei danni.
(7) Cfr. Trib. Milano, 21 ottobre 1999, in Resp. civ., 1999, p. 1335, con nota di ZIVIZ, Il danno esistenziale preso sul serio; e in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2000, p. 551, con nota di BUSETTO; e in Nuova giur. civ., 2000, I, p. 598, con nota di MORLOTTI, Immissioni intollerabili e danno esistenziale.
(8) Cfr. Trib. Torino, 8 novembre 1996, in Giur. it., 1997, I, 2, c. 58; e in Resp. civ., 1997, p. 818, con nota di GORGONI; Pret. Roma, 11 dicembre 1996, in Nuova giur. civ., 1997, I, p. 875, con nota di ZENO ZENCOVICH, Il danno da vacanza rovinata: questioni teoriche e prassi applicative.
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pare agevole ricondurre al danno patrimoniale la perdita subita, ciononostante il risarcimento è stato accordato.
In ambito lavoristico vi sono numerosi precedenti che riconoscono illegittime le vessazioni del superiore gerarchico sul dipendente, anche quando il disagio e la depressione non si traducano in un vero e proprio danno psichico, suscettibile di accertamento medico legale (9). La mancanza di una lesione all’integrità psicofisica stimata dal medico legale dovrebbe escludere che si tratti un danno biologico, tuttavia il giudice ugualmente liquida il risarcimento.
Per finire va ricordato il caso dal quale questa riflessione è mossa.
La corte veneziana ha condannato il padre tenuto a pagare gli alimenti al figlio, non per non averli corrisposti affatto, bensì per averli corrisposti in ritardo. Proprio questo ritardo è stato ritenuto apprezzabile ai fini risarcitori, poiché «la violazione dei diritti fondamentali della persona umana, collocati al vertice della gerarchia dei diritti costituzionalmente garantiti, deve essere risarcita, quale lesione in sé ed indipendentemente dai suoi profili patrimoniali, non come danno morale, ma come danno esistenziale e secondo la regola di responsabilità aquiliana contenuta nell’art. 2043 c.c. in combinato disposto con l’art. 2 cost.» (10).
In un certo senso è antesignana di tutte queste decisioni una pronuncia degli anni ottanta che ha riconosciuto il risarcimento del danno biologico subito dal marito, a causa di lesioni che colpirono la moglie in seguito alle quali lei non avrebbe più potuto intrattenere una normale relazione sessuale nell’ambito coniugale (11). In quella vicenda, il titolo dell’illecito fu ravvisato nella lesione del diritto alla salute del marito
(9) Il caso è quello deciso Trib. Torino, sez. lav., I grado, 16 novembre 1999, est. Ciocchetti: la sig.ra E.G., dopo aver lavorato per circa sette mesi alle dipendenze della società E.D.P., ha chiesto al Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico, per essere stata colpita da depressione psichica in seguito a maltrattamenti subiti durante la prestazione lavorativa. Ella ha sostenuto, in particolare, di essere stata adibita al funzionamento di una macchina grafica collocata in uno spazio angusto, occupato da cassoni ed altro materiale, in situazione di isolamento dai compagni di lavoro e di essere stata sottoposta a un trattamento ingiurioso da parte del capo reparto, che reagiva alle sue segnalazioni di guasti della macchina e ai suoi rilievi sulle condizioni di lavoro con bestemmie, insulti e frasi sarcastiche. Ella ha altresì dedotto di essere stata costretta in un primo tempo ad assentarsi e successivamente a dimettersi, perché caduta in una grave forma di crisi depressiva, con frequenti stati di pianto e agorafobia, senza precedenti nella sua storia personale. Il danno è liquidato in 10 milioni, pur in mancanza di c.t.u. medico legale. Cfr. anche Trib. Torino, sez. lav., 11 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, c. 1555, con nota di DE ANGELIS.
(10) Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Giur. it., 2000, p. 1352, con nota di PIZZETTI, Il danno esistenziale approda in cassazione; in Corriere giur., 2000, p. 873, con nota di DE MARZO, La cassazione e il danno esistenziale; in Danno e resp., 2000, p. 835, con nota di MONATERI, «Alle soglie»: la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale, e di PONZANELLI, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata; in Giust. civ., 2000, I, p. 2219; in Guida al dir., 2000, fasc. 23, p. 42, con nota di FINOCCHIARO; e in Foro it., 2001, I, c. 187, con nota di D’ADDA.
(11) Cfr. Cass., 11 novembre 1986, n. 6607, Nuova giur. civ., 1987, I, p. 343; in Giur. it., 1987, I, 1, c. 2044; e in Foro it., 1987, I, c. 833; nella stessa logica si pone il Trib. Torino, 8 agosto 1995, in Resp. civ., 1996, p. 282, con nota di ZIVIZ, Quale futuro per il danno dei congiunti?, seppure su un caso differente.
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subito di riflesso a causa della lesione all’integrità fisica della moglie. Ora, probabilmente l’illecito non potrebbe più essere individuato come danno biologico, ma il risarcimento potrebbe ugualmente essere negato?
Un altro precedente che si pone sulla scia di quelli più recenti appena segnalati è quello di chi ha ritenuto che anche la lesione del diritto all’immagine inteso in senso ampio, comprensivo anche della riservatezza, possa essere risarcito con la tecnica ampiamente sperimentata per il danno alla salute (12). Evidentemente per questo diritto il tema della riduzione della integrità psicofisica accertabile medicalmente non si pone quasi mai. Ugualmente il risarcimento è stato accordato.
4. La riflessione sullo stato dell’arte.
La Cassazione ha fatto una precisa scelta di campo: la violazione dei diritti fondamentali della persona umana deve essere risarcita, quale lesione in sé, ed indipendentemente dai suoi profili patrimoniali, secondo la regola di responsabilità aquiliana contenuta nell’art. 2043 c.c. In questo modo i giudici giungono a riconoscere il danno esistenziale ed escludono che l’art. 2043 c.c. richieda una perdita patrimoniale da risarcire (13).
Diversa è la soluzione di altri, secondo i quali «il danno esistenziale, in considerazione della sua natura patrimoniale, va risarcito ex art. 2043 c.c.
sulla base della valutazione equitativa del giudice, la quale deve tener conto della personalità del soggetto leso, delle attività svolte, e delle alterazioni familiari, sociali, lavorative provocate dal fatto illecito» (14). In questo modo questi altri giudici riconoscono il danno esistenziale con la stessa tecnica impiegata per legittimare il risarcimento del danno alla salute, ossia ampliando la nozione di patrimonialità.
Ha un senso riproporre questa diversa impostazione, oppure la seconda semplicemente aderisce per inerzia ad una tradizione millenaria?
Se la vera questione fosse soltanto un omaggio alla tradizione, probabilmente occorrerebbe aderire alla tesi di coloro che da tempo hanno suggerito l’abrogazione dell’art. 2059 c.c. Senonché il senso della diversa impostazione ha un preciso significato teorico: se si individua nel danno patrimoniale l’oggetto del risarcimento, significa che quest’ultimo assolve ad una funzione compensativa, per spiegare la quale bene può
(12) Cfr. App. Trieste, 13 gennaio 1993, Giur. it., 1994, I, 2, c. 358.
(13) Cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Giur. it., 2000, p. 1352, cit.
(14) Trib. Milano, 21 ottobre 1999, in Resp. civ., 1999, p. 1335, cit.
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essere impiegata la ampiamente collaudata teoria della differenza. Se il danno è patrimoniale, significa che con il risarcimento il patrimonio della vittima viene reintegrato e, nel fare ciò, il criterio di stima e di liquidazione deve principalmente avere ad oggetto il prezzo di mercato, quand’anche venga impiegato il criterio equitativo. Se, al contrario, il danno si spoglia del connotato patrimoniale, la sua liquidazione non è più supportata da una logica di mercato e la sua funzione non può essere compensativa.
È ben vero che il medesimo problema si era posto anche con il danno alla salute, ma per questo illecito era già stato individuato un criterio sociale tipico per la sua liquidazione, ritenuto sufficiente per legittimare la sua catalogazione nell’ambito della patrimonialità. Resta da chiedersi se, dal punto di vista qualitativo, una lesione medicalmente accertata possa costituire una vera e propria discriminante ai fini risarcitori. Secondo i giudici, questa non è decisiva, e con ciò proseguono il percorso disegnato sulle orme del tertium genus di danno: così come il biologico, anche l’esistenziale può essere ricondotto a quel genere di pregiudizio risarcibile. Secondo altri, quella discriminante deve essere accettata, altrimenti si liquida come danno ciò che invece diventa una pena privata, per supportare la quale, tuttavia, occorrerebbe una espressa norma giuridica (15). Di conseguenza si devono censurare i tentativi di estendere ulteriormente la patrimonialità oltre il limite posto dalla categoria del danno biologico.
Incidentalmente ricordo che, allo stato, nessuno sembra riprendere seriamente sul serio la tesi di chi, già dagli anni cinquanta, aveva sostenuto che nella nozione di danno dell’art. 2043 c.c. la patrimonialità è assente, specie quando in considerazione vengano i c.d. danni personali.
Ad assumere rilievo è esclusivamente l’alterazione di una situazione favorevole per la vittima; ciò sul presupposto che il danno non patrimoniale, in quanto governato da una riserva di legge è comunque altro da una perdita economica in qualunque modo la si voglia individuare (16). Probabilmente su questa concezione occorrerà riflettere ancora, visto l’orientamento ormai intrapreso dai giudici ed il progressivo ampliarsi delle figure di danno alla integrità psicofisica della persona ed agli altri suoi diritti.
(15) È questo il senso della critica mossa dalla scuola pisana: PONZANELLI, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata, in Danno e resp., 2000, p. 835 ss.
(16) Cfr. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 277 ss.
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5. La lesione della reputazione: il caso del protesto illegittimo ed altre questioni.
Vi sono inoltre altri casi nei quali, ancora la Cassazione, ha ammesso il risarcimento del danno a diritti della personalità, con una motivazione sulla quale occorre dedicare un ulteriore ripensamento. I casi riguardano l’elevazione illegittima del protesto e le comunicazioni diffamanti o ingiuriose provenienti da un terzo, che si riflettono nell’ambito del rapporto di lavoro. Come si noterà, sono tutte vicende che richiamano l’idea del danno esistenziale in senso lato e che si affermano con un ragionamento non molto diverso da quello seguito per affermare il danno alla salute.
Sulla levata illegittima del protesto i giudici ritengono che «il protesto cambiario, conferendo pubblicità ipso facto all’insolvenza del debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un’ottica commerciale/imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda – di indubitabile discredito – tanto personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato, ed ove privo di una conseguente, efficace rettifica, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della reputazione al protestato come persona, al di là ed a prescindere dai suoi interessi commerciali» (17). Il presupposto, dunque, consiste nel distinguere tra il discredito personale e quello commerciale, di modo che
«qualora l’illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo di diritti della persona, come quello alla reputazione, il danno, da ritenersi in re ipsa, andrà senz’altro risarcito senza che incomba, sul danneggiato, l’onere di fornire la prova della sua esistenza, mentre nella (diversa) ipotesi in cui sia dedotta specificamente una lesione della reputazione commerciale per effetto dell’illegittimità del protesto, quest’ultima costituirà semplice indizio dell’esistenza di un danno alla reputazione, da valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della situazione cui inerisce» (18).
La compiuta dimostrazione del ragionamento si trova in alcuni passi
(17) Cass., 5 novembre 1998, n. 11103, in Mass. Foro it., 1998, il principio è stato affermato dalla suprema corte in sede di annullamento di una sentenza con cui il giudice di merito, in relazione ad una vicenda di protesto cambiario elevato nei confronti di un funzionario di banca, nonostante la patente contraffazione della data di scadenza del titolo di credito, pur avendo ritenuto tanto il notaio procedente che l’istituto bancario istante corresponsabili a titolo di colpa, aveva escluso ogni consequenziale risarcimento dei danni patrimoniali. Nella specie non ha ritenuto apprezzabili il trasferimento del funzionario da Milano a Roma, il rigetto di una successiva domanda di mutuo, e neppure ogni lesione della reputazione commerciale del protestato nel mondo imprenditoriale ed economico; Cass., 23 dicembre 1997, n.
13002, ivi, 1997; Cass., 23 marzo 1996, n. 2576, in Danno e resp., 1996, p. 320, con nota di CARBONE.
(18) Cass., 5 novembre 1998, n. 11103, cit. nota prec.; Cass., 23 dicembre 1997, n. 13002, ivi, 1997; Cass., 23 marzo 1996, n. 2576, in Danno e resp., 1996, p. 320, con nota di CARBONE.
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di un’altra decisione resa a proposito del discredito creato da un terzo sulla persona del lavoratore, il quale, proprio per quella causa, fu sottoposto a sanzioni disciplinari (19). In quella vicenda il lavoratore aveva chiesto nei confronti del terzo un generico risarcimento da lesione della reputazione, senza distinguere tra i profili professionali e quelli lavorativi, sicché la suprema corte ha rigettato la domanda. Tuttavia in motivazione precisano in giudici che, una volta provata la lesione, se il discredito dedotto è quello personale, «il danno è in re ipsa, in quanto si realizza una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore (per quanto non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato, come osserva la Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372, sia pure in tema di danno biologico» (20). Ed ancora: ai sensi dell’art. 2043 c.c., quando siano in questione «valori assoluti della persona umana, in quanto tale», non viene risarcito il fatto di lesione in sé (cioè, l’evento) ma la riduzione (o la perdita) di tale valore, che l’evento lesivo ha prodotto»: provata la lesione della reputazione personale, ciò comporta la prova anche della riduzione o della perdita del relativo valore. In altri termini non si contesta la distinzione ontologica tra lesione del valore e conseguenziale perdita o diminuzione della stessa, ma si assume solo che provata la prima risulta provata anche la seconda» (21).
C’è un esplicito richiamo al procedimento seguito per ammettere il risarcimento del danno alla salute. Manca, evidentemente, il riferimento al tertium genus di danno, poiché questa semplificazione non sarebbe ammissibile in questo settore di illeciti; c’è, però, il richiamo alla perdita di valore di un diritto non patrimoniale che richiama l’idea della risarcibilità anche dei soli valori d’uso e non soltanto dei valori di scambio. Quando la perdita riguarda un valore d’uso, poiché si tratta di un diritto della personalità, con la prova della lesione è data anche automaticamente la dimostrazione dell’esistenza del danno che deve essere liquidato equitativamente. Non invece quando la lesione riguardi un valore di scambio, come ad esempio la reputazione commerciale del soggetto in
(19) Cfr. Cass., 10 maggio 2001, n. 6507, in Mass. Foro it., 2001 (nella motivazione letta nella banca dati Juris data).
(20) Cass., 10 maggio 2001, n. 6507, cit.
(21) Cass., 10 maggio 2001, n. 6507, cit., prosegue la motivazione precisando che «trattasi, cioè di una formula sintetica, per quanto dogmaticamente probabilmente inesatta, molto simile a quella che, soprattutto in passato, si è adottata in materia penale in tema di dolus in re ipsa per alcune specie di reato (soprattutto in tema di falso). Per quanto anche lì l’espressione non fosse dogmaticamente esatta e fu sotto questo profilo oggetto di accese critiche, non si voleva con essa significare che l’elemento soggettivo doloso scomparisse nella sola esistenza del fatto cosciente e volontario ma che, provato questo, risultava provato anche il dolo, pur rimanendo lo stesso ontologicamente differente, giusto quanto previsto dall’art. 43 c.p., dalla mera coscienza e volontarietà del fatto».
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questione; in tal caso occorre dimostrare che il discredito si sia tramutato in un danno patrimoniale, la cui misura deve essere valutata con le tecniche consuete di quel danno: perdita di clientela, perdita di affari e così via, in stretto rapporto di causalità con l’evento lesivo alla reputazione professionale.
6. Il danno, le funzioni della responsabilità civile e del risarcimento.
In astratto, tutte le posizioni ricordate hanno un grande fondamento di verità, ma l’interprete deve valorizzare le novità rilevanti e, sulla base di queste, ricostruire il sistema. Orbene, queste novità sono l’apparente contrasto nelle tendenze del legislatore, che da un lato restringe il danno alla salute al solo biologico, dall’altro amplia il catalogo dei diritti della personalità. Queste novità vanno inoltre riviste alla luce del diritto vivente di fonte giurisprudenziale, che sembra seguire un proprio coerente percorso, finalizzato ad un ideale di “risarcimento integrale” del danno alla persona. In questo contesto non vanno neppure sottovalutate le pronunce che ampliano il novero dei soggetti legittimati al risarcimento del danno morale, anche nei casi in cui la vittima diretta dell’illecito sia sopravvissuta (22). A questo punto si potrebbe concludere che la tecnica della responsabilità civile è anacronistica, poiché la tutela dei diritti della personalità non può essere conseguita con l’impiego del rozzo risarcimento; tuttavia contro questa conclusione si oppone l’intera storia del danno alla salute anche nelle recenti evoluzioni rilevate nei §§ precc. In alternativa si deve ritenere che, quantomeno nel settore degli illeciti contro la persona, è l’illecito civile a dover essere rimodellato.
In altra sede ho esaminato le diverse funzioni della responsabilità civile e del risarcimento del danno ed ho constatato che queste devono essere collocate ad un preciso contesto economico‐sociale e che, inoltre,
(22) Cfr. Cass., 23 aprile 1998, n. 4186, in Arch. circolaz., 1998, p. 649; in Danno e resp., 1998, p. 686, con nota di DE MARZO, Riconosciuta la risarcibilità dei danni morali ai congiunti del leso; e in Gius, 1998, p. 2065; Cass., 2 febbraio 2001, n. 1516, in Mass. Foro it., 2001, entrambe della III sezione, (nelle motivazioni lette nella banca dati Juris data): «nel terzo motivo si deduce, sempre da parte della Cammarata, la violazione dell’articolo 2059 c.c. ed il vizio della motivazione sul punto della esclusione del danno morale riflesso.
L’argomento è tratto sulla base del precedente costituito dalla sentenza della Corte costituzionale 372/94 e dei precedenti di questa Corte, ma anteriori alla innovativa sentenza di questa Corte (Cassazione 4186/98) che invece ha riconosciuto la legittimazione ad agire dei congiunti, e il danno grave della salute del proprio parente (padre, madre, figlio, altro parente convivente etc.).
Questa Corte condivide l’orientamento evolutivo, proprio nella considerazione (peraltro sottolineata dalla stessa Consulta) che anche il danno morale debba essere «costituzionalizzato» e cioè «conformato» ai valori che la Costituzione arreca alla persona umana, come diritti umani inviolabili che arricchiscono la sua dignità».
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devono altresì essere ritagliate a misura di ogni categoria di illecito (23). Il fatto che il nostro sistema abbia scelto la atipicità dell’illecito aquiliano, sulla scorta della clausola generale del danno ingiusto, non significa che è la reazione al danno ingiusto sia completamente estranea alla funzione del risarcimento. Sicché la compensazione del danno patrimoniale non può costituire un ostacolo insormontabile alla nascita dell’obbligazione dall’illecito. È ben vero che, normalmente, il danno da risarcire secondo l’art. 2043 c.c. è patrimoniale e che, pertanto, deve essere stimato e liquidato con le regole dell’art. 1223 ss. c.c.; tuttavia proprio il danno alla salute ha mostrato come l’equità legittimi l’introduzione di un criterio sociale tipico che permetta la quantificazione con un metodo, ancora una volta, socialmente accettato.
È stato proprio il danno alla salute ad aver messo in crisi l’impiego universale della patrimonialità riferita al danno, di conseguenza è stato ancora il danno alla salute ad aver messo in crisi la esclusiva funzione compensativa di quel risarcimento. Con riguardo alla persona ed ai suoi diritti non patrimoniali, il risarcimento non reintegra alcun patrimonio, semmai consente di soddisfare con il mezzo sostitutivo del denaro ciò che non può essere reintegrato economicamente, trattandosi di perdite di valori d’uso. In sostanza per le tipologie di illecito lesive della persona, non incidenti sulla capacità di produrre reddito, la finalità del risarcimento altro non può essere se non solidaristico e satisfattivo. Solidaristico, in omaggio alla funzione della responsabilità civile che deve reagire ad una lesione di enorme gravità nella gerarchia dei valori dell’ordinamento giuridico; satisfattivo, per chiarire lo scopo della condanna al pagamento di una somma di denaro in favore della vittima.
È stato obbiettato che in questo modo il danno diventa pena privata e che, così facendo, non è più distinguibile il danno dell’art. 2043 c.c. da quello dell’art. 2059 c.c., con il rischio di giungere ad una sovrapposizione di rimedi a scapito del responsabile. Senonché è stato il “diritto vivente”, anche della corte costituzionale, a ricondurre alla prima norma una cospicua serie di illeciti contro la persona, proprio allo scopo di evitare la strettoia della seconda norma. Ed, in questo modo, si rafforza l’idea che in questa seconda sia presente una finalità punitiva che proprio per questa ragione consente di evitare ogni sovrapposizione con il danno dell’art.
2043 c.c. La liquidazione del danno morale, proprio in presenza di una riserva di legge, presenta una finalità che, ad un tempo, è satisfattiva, ma
(23) Cfr. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario Scialoja e Branca, Bologna‐Roma, 1993, sub Introduzione, § 8 ss.
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prevalentemente diviene punitiva, avendo come presupposto un fatto giudicato riprovevole dal legislatore. Così stanti le cose, la questione della sovrapposizione dei rimedi non si può porre, e neppure vale la pena di suggerire la soppressione dell’art. 2059 c.c.: questa può essere o non essere soppressa, in ogni caso resta neutra rispetto al problema posto dall’esigenza socialmente avvertita di risarcire i danni da lesione dei diritti della personalità, etichettati con la formula del danno esistenziale.
Per contro, l’art. 2043 c.c. diviene la regola che consente la risarcibilità anche dei valori d’uso e non soltanto dei valori di scambio e con ciò ci avviciniamo all’idea di ammettere la risarcibilità per la lesione di tutti i diritti della personalità e non soltanto del danno alla salute. Altra questione sarà di valutare se sia o non sia opportuno tipizzare questi illeciti sotto la unitaria etichetta del danno esistenziale, oppure se si preferisca non avvalersi di questa figura. La costante nel ragionamento, tuttavia, è che anche le lesioni di diritti della personalità diversi dal danno alla salute devono essere risarciti, anche a prescindere dalla perdita economica valutabile nei termini di mancato reddito conseguito a causa di quell’illecito.
7. La tipizzazione sociale degli illeciti e la funzione del risarcimento.
Finora il dibattito sulla responsabilità civile ha rilevato l’attività di tipizzazione degli illeciti con una tecnica simile a quella propria dei Paesi di Common law, nei quali si individuano leading cases. Questo procedimento è stato funzionale a semplificare la clausola generale di ingiustizia del danno ed è servito a rendere risarcibili lesioni di interessi meritevoli di tutela, in precedenza non considerate tali. È proprio grazie a questa tecnica e con questa motivazione che la cassazione ha riconosciuto la natura di illecito aquiliano alla lesione di interessi legittimi (24). Probabilmente sono ora maturi i tempi per procedere oltre e constatare che la tipizzazione sociale dell’illecito può anche comportare l’attribuzione di una certa funzione all’obbligazione risarcitoria derivante da quella lesione.
Una volta appurato che il danno risarcibile dell’art. 2043, parte finale, c.c. non si identifica con il danno patrimoniale da contrapporre al
(24) Cfr. Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, pubblicata ed annotata su tutte le principali riviste, fra le quali, Foro it., 1999, I, c. 2487, che ha aperto la via al risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo, sulla quale mi sono già soffermato: La lesione dell’interesse legittimo è, dunque, risarcibile, in Contratto e impresa, 1999, p. 1025 ss.
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danno morale dell’art. 2059 c.c., questo è un passo necessario per legittimare il diritto vivente che ha dalla sua parte la valorizzazione della persona umana secondo precise indicazioni del legislatore anche sovranazionale e della coscienza sociale.