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L’accertamento della causalità materiale fra trasfusione e contagio: tecniche e teorie per ovviare all’incertezza

Cenni sull’esperienza tedesca

II.5.5. L’accertamento della causalità materiale fra trasfusione e contagio: tecniche e teorie per ovviare all’incertezza

probatoria

E’ prospettiva comune a qualsiasi azione di risarcimento del danno da contagio (si tratti di responsabilità remota, mediana o prossima) riuscire ad evidenziare in giudizio la derivazione causale dell’insorgere della malattia virale nel paziente trasfuso dalla somministrazione di una sacca di sangue effettivamente attinto dal medesimo virus302.

Superare lo scoglio probatorio della causalità materiale non è affatto agevole per chi, scoprendo d’essere portatore di un virus invalidante, ascriva il contagio ad una trasfusione di sangue ricevuta magari diversi anni addietro303.

Il tempo della scoperta, infatti, può variare in ragione del periodo di incubazione del virus e della sua capacità di rimanere latente nel

302 Una prima analisi in BISCIONE, HIV da trasfusione, emoderivati e

responsabilità civile, cit., 271.

303 Si concentra sulla causalità giuridica G.FACCI, La trasfusione ed il rapporto

di causalità, commento a Trib. Parma, 30 settembre 1998, in Danno e resp., 1999,

455. 141

tempo, salvo manifestarsi in forma patologica a distanza di anni dal contagio occorso per via trasfusionale.

Non è questa la sede per entrare nei dettagli medico-legali relativi alle diverse sintomatologie (ed ai diversi periodi di latenza) che caratterizzano le fasi d’incubazione dei virus trasmissibili per via ematica attualmente conosciuti dalla scienza medica.

E’ sufficiente sottolineare che il motto fugit irreparabile tempus condiziona drammaticamente l’esperibilità dell’unico accertamento probatorio idoneo a stabilire con relativa certezza che il sangue ricevuto dall’attore abbia davvero veicolato l’agente virale in questione.

Una prova rigorosa, infatti, non può che ottenersi percorrendo a ritroso ogni passaggio della catena trasfusionale, per giungere all’identità del donatore del sangue sospettato d’essere responsabile del contagio, sì da verificare se costui, dopo la donazione, abbia scoperto di essere (o comunque sia) portatore (ancora ignaro) del medesimo virus allignante nel soggetto che lamenta il contagio trasfusionale.

Essenziale a questo fine è la possibilità di accedere alla documentazione relativa all’iter compiuto dall’unità di sangue ‘incriminata’ dal momento del prelievo fino alla sua destinazione finale.

L’accertamento può essere ulteriormente complicato dalla necessità di verificare l’identità di più donatori, posto che non è raro (ed anzi costituisce la regola) che una singola terapia trasfusionale consti della somministrazione di varie unità di sangue, prelevate da più donatori e provenienti da centri di raccolta diversi (spesso situati in aree geografiche molto distanti dal luogo della somministrazione finale304).

304 La persistenza di una diversa attitudine socio-antropologica nei confronti del

dono del sangue nel nord e nel sud del nostro paese determina un forte disequilibrio geografico-allocativo fra raccolta e consumo territoriale. I trasferimenti di scorte ematiche dal nord al sud del paese sono legati agli accordi (ed alla programmazione posta in essere sotto il coordinamento del Ministero della Sanità e dell’Istituto Superiore di Sanità, v. da ultimo il D.M. 17 luglio 1997, n. 308, doviziosamente intitolato “Regolamento recante norme per la disciplina dei compiti di coordinamento a livello nazionale delle attività dei centri regionali di coordinamento e compensazione in materia di sangue ed emoderivati”) fra i vari enti ed organismi territoriali che, dopo l’entrata in vigore della legge 107/90, curano la raccolta e la distribuzione del sangue degli italiani, cercando di rimediare (non senza palesare le medesime difficoltà

II. 5.5.1. La difficoltà di acquisire la documentazione rilevante

Fino all’entrata in vigore della legge di riforma del sistema sangue italiano nel 1990, il delicatissimo problema della conservazione e dell’archiviazione dei dati trasfusionali riceveva una disciplina disorganicamente e burocraticamente dettagliata305, ma nel contempo non priva di imbarazzanti lacune306.

sperimentate dalle economie dei paesi socialisti) all’impossibilità giuridica di lasciare che ciò avvenga nel segno spontaneo del mercato; sul problema, l’analisi e le ricette dell’economista in G. CLERICO, Raccolta ed allocazione di sangue: donazione,

mercato ed intervento pubblico, in Ragiusan, 1994, fasc. 127, 140; osservazioni sul

punto anche in A.GAMBARO, La proprietà, in Trattato di diritto privato (a cura di G.

IUDICA e P.ZATTI), Milano, 1990, 42-43.

305 La prima legge quadro nazionale in materia trasfusionale (la 592/67)

dedicava un fugace accenno al problema che ci occupa, prescrivendo all’art. 17 che i centri trasfusionali mantenessero aggiornati gli schedari delle diverse categorie di donatori all’epoca contemplati dalla legge (periodici, occasionali o professionali – la cessione del sangue a titolo oneroso non era ancora stata bandita). L’elefantiaco D.P.R. 18 giugno 1971 descrisse successivamente un articolato sistema di documentazione, imponendo (art. 18) che ciascun donatore disponesse di un documento contenente “i dati relativi agli esami ed ai prelievi a cui egli viene sottoposto”. I dati così annotati servivano per il costante aggiornamento della scheda mantenuta obbligatoriamente dal centro trasfusionale, che (per consentire l’identificazione del donatore ed il controllo ex post del sangue da lui donato), doveva

essere archiviata (ultimo comma art. 18). Un centro di raccolta fisso doveva inoltre

mantenere (art. 26) la seguente documentazione “indispensabile”: 1) un registro di prelievi; 2) schede distinte per donatori periodici, occasionali e professionali; 3) moduli di prelievo da compilarsi in due copie di cui “una é conservata presso il centro di raccolta e l’altra é inviata al centro ricevente unitamente al flacone di sangue [da trasfondersi]”; (...) 5) buoni di scarico progressivamente numerati. Il Centro trasfusionale era aggiuntivamente tenuto (art. 32) a conservare ed aggiornare: 1) un registro di carico e scarico; 2) un registro di gruppaggio dei donatori; 3) un registro in cui dovevano essere riportati “i risultati delle altre singole indagini previste dal presente regolamento ai fini della trasfondibilità del sangue” (si colga la miopia della regola, che interpretata letteralmente, finiva per limitare la sua operatività ai soli risultati degli esami obbligatoriamente contemplati nel 1971); 4) un registro di gruppaggio dei riceventi; 5) un registro per le prove di compatibilità. Particolari indicazioni infine erano prescritte per il plasma ottenuto attraverso plasmaferesi (una procedura che consente di prelevare dal donatore solo la parte plasmatica del sangue con contestuale reinfusione della parte contenente i globuli rossi). In questo caso, il

Con l’emanazione della legge 107/90, ai servizi di immunematologia e trasfusione, ai centri trasfusionali ed alle unità di raccolta è stato nuovamente imposto l’obbligo di conservare ed aggiornare gli schedari dei donatori trattati in ciascuna struttura (art. 2, quinto comma), con l’opportuno intervento di un successivo decreto ministeriale, che questa volta s’è fatto carico di delineare i contorni

Centro autorizzato all’effettuazione della plasmaferesi doveva “tenere” (art. 113) - oltre a tutte le schede appena viste - anche un registro “nel quale risultino tutte le operazioni di plasmaferesi eseguite e sul quale siano riportati i seguenti dati: a) data della plasmaferesi con orario di inizio e fine della operazione; b) numero d’ordine; c) cognome e nome del soggetto; d) quantità del sangue prelevato; e) quantità di globuli rossi trasfusi; f) firma di chi ha eseguito la plasmaferesi”. Non solo, ma il Centro (art. 114) doveva “rilasciare ai soggetti utilizzabili per la plasmaferesi una tessera con fotografia e dati anagrafici sulla quale siano registrabili i controlli periodicamente eseguiti...”.

306 Nonostante le dettagliate prescrizioni, la disciplina delle attività trasfusionali

vigente prima del 1990 ometteva di indicare con chiarezza un responsabile unitario per l’integrità e la conservazione della documentazione delle attività trasfusionali e, soprattutto, rimaneva del tutto silente sulla portata temporale dell’obbligo di archiviazione. In mancanza di una normativa generale sulla conservazione dei dati clinici in possesso delle strutture ospedaliere, l’individuazione di un obbligo giuridico violato a carico del responsabile di una struttura trasfusionale che risultasse aver smarrito o distrutto la documentazione necessaria a ricostruire l’iter trasfusionale nell’ambito di un giudizio in materia di contagio post-trasfusionale poteva ricavarsi dalle disposizioni di una circolare emanata il 19 dicembre 1986 dal Ministero della Sanità (pubblicata in Riv. it. med. leg., 1987, 672). La circolare, indirizzata a tutte le strutture sanitarie del SSN ed a carattere obbligatorio, impone l’archiviazione per 40 anni di tutti i dati clinici relativi alle degenze dei pazienti trattati presso il SSN, prevedendone dopo quel periodo il trasferimento negli archivi di stato. La fonte ministeriale non omette di sottolineare che fra gli scopi della sottoposizione dei dati sanitari al regime giuridico dei beni documentali di interesse nazionale (con obbligo di conservazione finale presso gli archivi di Stato e conseguente vincolo di indistruttibilità) v’è la certezza del diritto ed in particolare l’esigenza di rendere sempre possibile la consultazione postuma di questi dati in un’aula di giustizia. Mette conto ricordare, tuttavia, che, ai sensi della normativa generale sui beni archivistici, gli enti pubblici possono operare scarti nella documentazione da sottoporre ad archiviazione, seguendo una procedura che contempla il nullaosta del sopraintendente archivistico (v. in particolare l’art. 35 del D.P.R. 1409/1963)

applicativi del precetto, in modo da non lasciar vivere dubbi in merito alla sua portata307.

Tuttavia – ed il rilievo sorprende non poco in considerazione del puntiglio (a volte perfino eccessivo) che ha caratterizzato la decretazione ministeriale di dettaglio integrativa della legge di riforma del “sistema sangue” nazionale del 1990 – è sul nodo davvero cruciale della durata dell’obbligo di archiviazione che la regola ministeriale suscitava ampie e fondate riserve, poiché essa, nel prevedere che le registrazioni relative ai donatori ed ai riceventi debbano essere conservate “per almeno [ma sarebbe meglio dire: per soli] 5 anni” dalla data della trasfusione308, fissava un limite temporale del tutto arbitrario in considerazione di quanto s’è detto sulla possibilità che gli agenti virali trasmissibili per via ematica rimangano a lungo latenti ed asintomatici nell’organismo del ricevente309.

Da un punto di vista più generale può essere sorprendente constatare che - mentre i dati sanitari sono oggetto di approfondito

307 D.M. 27 dicembre 1990, Caratteristiche e modalità per la donazione del

sangue ed emoderivati, art. 34: “[O]gni struttura trasfusionale deve predisporre un sistema di registrazione e di archiviazione dei dati che consenta di ricostruire l’iter di ogni unità di sangue od emocomponente, dal momento del prelievo fino alla sua destinazione finale. (...) Le registrazioni devono essere effettuate subito dopo che sia stata ultimata ogni singola fase di lavoro. Esse devono essere leggibili e devono consentire l’identificazione dell’operatore che ha eseguito il lavoro”.

308 Art. 35, D.M. 27 dicembre 1990.

309 Oltre ai profili di irrazionalità connessi alla scelta di un termine

ingiustificatamente breve per la conservazione dei dati trasfusionali (specie dacché gli archivi digitali consentono di inghiottire intere filari di polverosi scaffali), la quantificazione di un limite temporale preciso in una norma regolamentare genera due conseguenze nefaste: impedisce di configurare l’esistenza di un più prolungato obbligo giuridico di conservazione dei dati trasfusionali desunto dalla normativa archivistica dei dati sanitari generali (desumibile, come s’è visto, da una semplice circolare ministeriale) e – ciò è ancor più grave - finisce per rappresentare (agli occhi dei destinatari del precetto) un tacito incentivo alla distruzione dei dati alla scadenza del periodo contemplato dalla norma. Quale miglior prova del fatto che, quando normano, gli apparati burocratici tendono ad ignorare le conseguenze che il proprio cimento produce sulle situazioni giuridiche non esplicitamente richiamate nella missione disciplinare ricevuta?

studio nella prospettiva presa a cuore dalla legge 675/96310, e vengono approfonditi in chiave di analisi economica i problemi relativi alla titolarità ed alla circolazione delle informazioni sanitarie per l’indubbio valore economico che esse rivestono (e che sempre più tenderanno ad assumere in futuro)311 - la normativa che assiste la tenuta e la conservazione dei dati sanitari in Italia possa ancora oggi essere regolata in modo frammentario attraverso disposizioni di settore (come nel caso di cui si discute) e non sia invece sottoposta ad una disciplina di respiro generale, che valga per qualsiasi informazione utile a documentare l’esercizio di un’attività sanitaria.

Un sistema di regole, in altri termini, che - privilegiando la posizione del paziente, specie nella prospettiva di un riesame critico della documentazione sanitaria che potrebbe rendersi necessaria a distanza di anni dall’effettuazione dell’intervento terapeutico – si presti ad essere fatto valere da costui nei confronti di qualsiasi soggetto che possa aver rivestito la qualifica di sua controparte contrattuale nell’ambito di un contratto di cura (sia esso una struttura pubblica, una clinica privata od un libero professionista)312.

In altre esperienze giuridiche, per esempio, è stato possibile interpretare quest’esigenza evocando la relazione fiduciaria intercorrente fra medico e paziente313, con l’effetto di imporre al primo

310 E. BARILÀ,C. CAPUTO, Problemi applicativi della legge sulla privacy: il

caso delle cartelle cliniche, in Politica del diritto, 1998, 275 ss.

311 Si vedano, senza velleità di completezza, R.S.MURPHY, Property Rights in

Personal Information: An Economic Defense of Privacy, 84 Geo. L. J. 2381 (1996); P.

M.SCHWARTZ, Privacy and the Economics of Personal Health Care Informations, 76

Tex. L. R. 1 (1997).

312 Ma il punto sarà ripreso infra, in questo capitolo, par. 5.6.

313 Per un recente tentativo di rivalutare i doveri fiduciari, applicandoli anche

fuori dal tradizionale rapporto individuale medico–paziente, nel considerare l’evoluzione che la responsabilità medica statunitense vive in un sistema sanitario sempre più dominato dalle c.d. Managed Care Organizations, v. P.D.JACOBSON,M.

T.CAHILL, Applying Fiduciary Responsabilities in the Managed Care Context, in 26

Am. J. L. & Med. 155 (2000). In una prospettiva più generale v. il bel saggio di M.A.

HALL, Law, Medicine, and Trust, 55 Stan. L. Rev. 463 (2002), che fonda sul concetto (non esclusivamente giuridico) di fiducia il suo tentativo di dare una struttura coerente alla trattazione dei tanti temi riconducibili al tema della health law.

un dovere di disclosure dei dati, inerenti al trattamento medico ricevuto dal paziente, dilatato ben oltre l’ambito temporale del contratto di cure che aveva assistito la prestazione terapeutica.

Nel caso - deciso dalla corte suprema canadese - McInerney v. MacDonald314, Justice La Forest ha così ragionato: “(t)he information about oneself revealed to a doctor acting in a professional capacity remains, in a fundamental sense, one’s own. The doctor’s position is one of trust and confidence. The information conveyed is held in a fashion somewhat akin to a trust. While the doctor is the owner of the actual record, the information is to be used by the physician for the benefit of the patient. The confiding of the information to the physician for medical purposes gives rise to an expectation that the patient’s interest in and control of the information will continue”315, per poi concludere che “[t]he trust-like ‘beneficial interest’ of the patient in the information indicates that, as a general rule, he or she should have a right of access to the information and that the physician should have a corresponding obligation to provide it. The patient’s interest being in the information, it follows that the interest continues when that information is conveyed to another doctor who then becomes subject to the duty to afford the patient access to that information”316.

Alle nostre latitudini, invece, la disciplina pubblicistica municipale relativa alla scheda di dimissione ospedaliera (una sorta di compendio cartaceo, oggi informatizzato, della cartella clinica) ed alla sua conservazione presso le Regioni (prima) ed il Ministero della Sanità (poi) - si vedano i D.M. 28 dicembre 1991 e 26 luglio 1993, e più recentemente il D.M. 27 ottobre 2000, n. 380 - sembra essere, sotto

314 (1992) 93 DLR (4th) 415. 315 Id., 424.

316 Id., 425. Amplius sul punto P.BARTLETT, Doctors as Fiduciaries: Equitable

Regulation of the Doctor-Patient Relationship, 5 Med. L. Rev. 193 (1997). Per una

considerazione complessiva di un dibattito che nell’esperienza di common law testimonia, se non altro, la maggiore attenzione prestata al problema, v. D.FEENAN,

Common Law Access to Medical Records, in 59 Mod. L. Rev. 101 (1996). Per

un’analisi del problema nell’ipotesi in cui una parte chieda l’acquisizione in giudizio di documentazione medica relativa a soggetti terzi rispetto al giudizio v. per l’esperienza statunitense Comment, Discovery of Non-Parties’ Medical Records in the

Face of the Phisician-Patient Privilege, 36 Cal. W. L. Rev. 523 (2000). 147

questo profilo, assolutamente carente. Può aggiungersi che (come già accadeva nella sua precedente riformulazione del 1995) anche il codice di deontologia medica adottato nel dicembre 1998 sembra incapace di fornire una risposta adeguata al problema segnalato, ove si considerino le norme relative alla documentazione e tutela dei dati, nonché alla comunicazione e diffusione dei dati (artt. 10 ed 11) ed al dovere di fornire al paziente “[solo] la documentazione clinica in suo possesso” (art. 21).

In una diversa prospettiva, mette conto constatare che il “diritto all’informazione retrospettiva sull’attività sanitaria compiuta nei propri confronti” non trova cittadinanza nel pur poderoso catalogo dei diritti riconosciuti ai cittadini-utenti dalle Carte dei Servizi Pubblici Sanitari, implementate dal D.P.C.M. 19 maggio 1995317, che pure declama enfaticamente l’obiettivo di assicurare la qualità dei servizi erogati all’utente non con il “mero riconoscimento formale di garanzie al cittadino, ma (...) [con l’]attribuzione allo stesso di un potere di controllo diretto sulla qualità dei servizi erogati” (punto 1.1, comma 5).

C’è di che amareggiarsi nel rilevare che oltralpe fin dal 1968 un

arrêté interministériel tutt’ora vigente ha stabilito con inusitata

chiarezza e precisione i termini di conservazione delle varie tipologie di archivi sanitari318.

In ogni caso, l’ambito temporale dell’obbligo di archiviazione dei dati relativi ai registri trasfusionali che abbiamo ricordato evoca d’istinto al giurista una singolare corrispondenza con il termine di prescrizione breve del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.

Di fatto, la previsione di un periodo così limitato per la vigenza dell’obbligo di conservazione degli unici dati che consentono di risalire all’identità del donatore di un’unità di sangue (sospettato d’esser stato)

317 In G.U. 31 maggio 1995, n. 125.

318 Ai sensi dell’arrêté interministériel 11 mars 1968, in J. O. 25 octobre 1968,

p. 10039, i dossiers medicaux relativi alle ospedalizzazioni e i referti relativi a diagnosi di patologie a carattere ereditario devono essere conservati illimitatamente, mentre i dossiers trasfusionali vanno conservati per almeno 20 anni; per un approfondimento P.ROGER, Le dossier médical dans les établissements de santé, in

Méd. & droit, 40, 2000, 10. 148

infetto, si traduce per l’attore contagiato in un ostacolo ben più subdolo e stringente di un termine di prescrizione quinquennale319.

Alla situazione si è posto rimedio solo di recente, come si vedrà fra qualche paragrafo. Per il passato, in ogni caso, non è affatto remota l’eventualità che, dopo aver introdotto il giudizio, l’attore s’imbatta nell’oggettiva impossibilità di esperire i necessari accertamenti probatori sullo status sierologico del donatore, divenuto anonimo con il beneplacito ministeriale allo scadere di un lustro dalla data della trasfusione320.

Ed è ovvio, peraltro, che la mera acquisizione di un nominativo indicato nel registro dei donatori non implica affatto la certezza che l’attore riesca ad acquisire in giudizio le necessarie informazioni sullo status sierologico del soggetto che a queste generalità risponde.

Costui, infatti, potrebbe rivelarsi non identificabile a causa di omonimie, potrebbe essere irrintracciabile o nel frattempo deceduto, ovvero ancora – ipotesi affatto plausibile – potrebbe semplicemente rifiutare la sottoposizione volontaria al test di accertamento sierologico, temendone (idiosincraticamente) gli esiti, con il rischio che la notizia relativa alla sua (eventuale) positività al virus possa trapelare all’esterno delle aule di giustizia.

II. 5.5.2 L’accertamento coattivo sul presunto donatore infetto

Come ovviare al diniego del donatore, terzo rispetto al giudizio risarcitorio promosso dal soggetto contagiato, che si opponga al prelievo ematico necessario a comprovare in giudizio la sua (sospettata) positività al medesimo agente virale responsabile della patologia insorta nell’attore è interrogativo di grande rilievo pratico che non sembra però destinato a trovare soluzioni risolutive nel nostro ordinamento.

319 Sui problemi che il danno da contagio, nella sua qualità di danno

potenzialmente lungolatente, pone con riferimento alla prescrizione ci si soffermerà nel prossimo paragrafo.

320 Ma si veda, con riferimento ai dettami della nuova disciplina europea su

questo punto specifico, l’annunciata recezione nazionale della direttiva 2002/98/CE, recante norme di qualità e di sicurezza per la raccolta, il controllo, la lavorazione, la conservazione e la distribuzione del sangue umano e dei suoi componenti, su cui

amplius infra in questo capitolo, par. 5.5.6. in fine. 149

Com’è noto, la sanzione indiretta che permette al giudice di desumere argomenti di prova dal rifiuto di consentire ad ispezioni sulla propria persona opera esclusivamente quando l’accertamento interessi una delle parti del processo, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c., come richiamato dall’art. 118, secondo comma, c.p.c.

Nei confronti di un soggetto estraneo al processo il codice di rito (art. 116, terzo comma, c.p.c.) opera invece una deterrenza resa evanescente dall’inflazione, laddove si prevede che il giudice possa irrogare al terzo che rifiuti ispezioni sulla sua persona una pena pecuniaria non superiore a lire 8000 (sanzione che la legge 689/81 ha risibilmente elevato a lire 10.000, e che oggi si verserà con qualche monetina).

La lettera del codice condanna dunque senz’appello qualsiasi