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La precauzione nella responsabilità civile: analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale

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(1)

U

mberto Izzo

LA PRECAUZIONE

NELLA RESPONSABILITÀ

CIVILE

ANALISI DI UN CONCETTO

SUL TEMA DEL DANNO DA CONTAGIO PER VIA TRASFUSIONALE

Università degli studi di Trento

(2)

Prima ristampa digitale

La prima edizione di questo libro - © Copyright 2004 by CEDAM, Padova (stampata in Italia: Grafiche TPM – Padova) ISBN 88-13-25208-0 - è stata inserita come XLVI titolo nella Collana CEDAM del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento.

Questa ristampa digitale del libro “Umberto Izzo, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale”- © Copyright 2007 by Umberto Izzo - è pubblicata con licenza Creative Commons Attribuzione-NonCommerciale-NoOpereDerivate 2.0 Italy. Tale licenza consente l'uso non commerciale dell’opera, a condizione che ne sia sempre data attribuzione all’autore.

Per maggiori informazioni circa la licenza, visita il sito

http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/it

Cite as: U. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un

concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale (e-book),

http://eprints.biblio.unitn.it/archive/00001253/, UNITN e-prints, 2007

Università degli Studi di Trento via Belenzani, 12 - 38100 Trento

ISBN 978-88-8443-198-1 http://eprints.biblio.unitn.it

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INDICE

Introduzione: per una semantica della precauzione 1 Capitolo I.

La precauzione nel diritto 11

I.1. La precauzione come termine necessario della relazione fra tecnologia e diritto

11 I.2. L’ascesa del principio di precauzione nella società del rischio globalizzato

28 I.2.1. Archeologia e genesi di un “principio” nel dialogo fra le

sue fonti di recepimento 28

I.2.2 Il recepimento nel diritto comunitario 38 I.3. Il significato del principio di precauzione nel diritto contemporaneo: una lettura comparatistica

54 I.3.1. Diritto, scienza e tecnologia: il legal process di fronte

all’incertezza 59

I.3.2. Il c.d. E-rulemaking e la circolazione dell’informazione

precauzionale nei processi regolativi 75

Capitolo II.

Il danno da contagio per via trasfusionale: aspetti generali

79

II.1. Introduzione 79

II.2 La regulation e l’avvento del rischio di contagio per via ematica

del virus HIV: una storia italiana 85

II.3. La necessità di considerare il concetto della precauzione in relazione a tutti i soggetti che possono agire in prevenzione rispetto ad una data tipologia di eventi dannosi

99 II.4. Il ruolo che la responsabilità civile può svolgere nei confronti delle attività dannose ad alto contenuto tecnologico 105 II.5. Le possibili cause della scarsità di pronunce italiane sul danno da contagio nel panorama comparatistico

115 II.5.1. Cenni sull’esperienza statunitense 121

(6)

II.5.3. Cenni sull’esperienza tedesca 126 II.5.4. Aspetti problematici nella litigation italiana sul danno da contagio

130 II. 5.4.1. Il timore di divulgare la propria affezione agendo in giudizio: problemi e soluzioni

133 II.5.5. L’accertamento della causalità materiale fra trasfusione e contagio: tecniche e teorie per ovviare all’incertezza probatoria

141 II. 5.5.1. La difficoltà di acquisire la documentazione rilevante

143 II. 5.5.2 L’accertamento coattivo sul presunto donatore infetto

149 II. 5.5.3. La prova presuntiva della riferibilità causale del contagio alla condotta del convenuto

153 II. 5.5.4.Il modello presuntivo classico: “res ipsa loquitur”

165 II. 5.5.5. Perdita della prova ed imputazione del danno 187 II. 5.5.6. La presunzione di responsabilità “da perdita di prove”

194 II. 5.5.7. Obbligo di tracciabilità e risarcimento del danno cagionato per effetto della distruzione di dati personali aventi valore probatorio decisivo

197 II.5.6. La prescrizione di un danno lungolatente 219

II.5.6.1 La decorrenza della prescrizione dal “fatto” di cui all’art. 2947, primo comma, c.c.: critica 220 II.5.6.2 La necessità di non delegare la soluzione del problema alla giurisdizione esclusiva della scienza (e dei suoi esperti)

229 II.5.6.3 Onere della prova ed individuazione del dies a quo della prescrizione

236

Capitolo III.

Danno da contagio e “responsabilità remota”: la precauzione nella causalità giuridica

265 ii

(7)

III.1. Il problema della causalità giuridica: aspetti comparatistici 265 III.2. Il “linguaggio della causalità” fra argomentazione tecnica e

decisione politica

271 III.3. La riallocazione causale del danno da contagio: critica 276 III.4. Considerazioni sulla natura plurifunzionale della causalità 281 III.5. Il concetto della precauzione nella causalità giuridica 292

Capitolo IV.

Danno da contagio e “responsabilità mediana”: informazione sul rischio e decisione precauzionale

313 IV.1. Scelta trasfusionale e valutazione precauzionale dei parametri

di rischio 313

IV.1.1. La colpa fra disciplina dei livelli di attività dell’agente e precauzioni mancate

326 IV.1.2. Colpa professionale e guidelines tecniche 332 IV.2. Il c.d. “consenso informato” del paziente alla luce del concetto della precauzione

340 IV.2.1. Considerazioni sulla natura giuridica del consenso informato

356 IV.2.2. Onere della prova e forma del consenso 373

Capitolo V.

Danno da contagio e “responsabilità prossima”: l’attività

precauzionale del fornitore di sangue 397

V.1. L’analisi comparata: l’esperienza statunitense e francese 398 V.1.1. Cenni sulla struttura istituzionale del “sistema sangue”

nelle due esperienze considerate 400

V.1.2. La dissonanza originaria delle soluzioni giurisprudenziali accolte negli Usa ed in Francia

404 V.1.3. Una giurisprudenza condizionata dal punto di partenza? L’effetto lock-in determinato dall’inquadramento iniziale di un

nuovo problema giuridico 410

(8)

iv

V.1.4.1. Il consolidamento della c.d. Perlmutter Rule fra common law e statutory law

415 V.1.4.2. Il legal process statunitense e la gestione di un

rischio sociale

430 V.1.4.3. La professional care del fornitore di sangue: i confini della colpa nella tort law statunitense

446 V.1.4.4. Public policy e legal process nell’esperienza statunitense sul danno da contagio 473

V.1.5. L’esperienza francese 483

V.1.5.1. Lo Stato garante della qualità del sangue: riflessi civilistici di un assetto istituzionale

483 V.1.5.2. La responsabilità oggettiva del fornitore di sangue all’indomani del c.d. affaire du sang contaminé 500 V.1.5.3. L’interazione fra la vicenda giurisprudenziale del danno da contagio e la recezione francese della direttiva europea sulla responsabilità da prodotto 509 V.2. Regole di imputazione del danno ed incentivi alla decisione precauzionale del fornitore del sangue

526 V.2.1. Sangue e responsabilità da prodotto 528

V.2.1.1. Il rischio da sviluppo del modello europeo: il caso dei “prodotti originariamente infetti”

529 V.2.1.2. Responsabilità e mercato: perché il D.P.R. 224/88 non dovrebbe applicarsi al sangue umano destinato a fini

trasfusionali 552

V.2.2. Il rapporto fra criteri d’imputazione del danno e decisione precauzionale del fornitore del sangue in chiave di

behavioral law & economics 582

V.2.3. L’art. 2050 c.c. e la sua modernità 620

Conclusioni 655

Bibliografia 657

(9)

UMBERTO IZZO___________________________LA PRECAUZIONE NELLA RESPONSABILITÀ CIVILE

Introduzione

Per una semantica della precauzione

“Precauzióne: [dal lat. tardo

praecautio–onis, der. di praecavere

‘guardarsi, esser cauto’, comp. di prae- ‘pre-’ e cavere ‘stare in guardia’]. – Prudenza e circospezione nell’agire per evitare un pericolo o rischio imminente o possibile:

operare, muoversi, avanzare con p. (…).

Talvolta con sign. più concreto per indicare singoli atti che servono di cautela: ho preso le

mie precauzioni; abbiamo agito con ogni possibile p.; si sono deliberate alcune p. igieniche, sanitarie (…)”1.

Come i dizionari avvertono, la semantica del termine precauzione declina due significati distinti, che nell’uso corrente tendono a restare sottotraccia, celati nella precomprensione linguistica di chi sceglie come adoperare il vocabolo.

Esplicitati, questi significati assumono invece un senso preciso, perché consentono di identificare l’ambito temporale nel quale, a seconda dei casi, il termine si contestualizza.

La parola “precauzione” può così alludere ad una generica prudenza e circospezione rispetto al rischio o al pericolo di danno, che individua un atteggiamento da osservare (e dunque una decisione da assumere) prima di agire. Oppure può riferirsi ad una specifica e ben definita attività di contrasto rispetto al rischio o pericolo di danno, che riflette e descrive l’esito di una decisione, dopo che questa si è strutturata, individuando una particolare condotta precauzionale.

Questa dicotomia semantica trova modo di ricomporsi nell’idea

1 Così il lemma Precauzione, in Dizionario Enciclopedico Italiano, IX, Roma,

(10)

più generale, comune ai due significati lessicali della parola, che la “precauzione” rappresenti qualcosa che si oppone al “rischio” e/o al “pericolo”. L’osservazione induce fin d’ora a ritenere che il reale significato del termine a cui ci si sta accostando non possa decifrarsi senza aver precisato il senso da attribuire ai concetti di rischio e pericolo, un senso che in questo caso non è dato individuare attraverso analisi linguistiche, ma che necessita di essere compreso alla luce del contributo conoscitivo offerto sul punto dalle scienze sociali.

La doppia dimensione temporale e la valenza semantica “antagonista” del vocabolo attorno a cui ruota la riflessione che si compirà in questo studio assumono estrema rilevanza per verificare in che modo l’idea della precauzione sia stata (o possa essere) recepita concettualmente nel diritto contemporaneo. Una delle premesse teoriche di questa ricerca è infatti quella di verificare sul campo come questi elementi semantici della precauzione possano trovare un riscontro preciso nel ragionamento giuridico. Per altro verso, questa sommaria analisi linguistica permette subito di chiarire la scelta di prospettiva che questo libro annuncia fin dal suo titolo.

Sul piano giuridico la precauzione può infatti essere concettualizzata avendo mente il primo significato che abbiamo visto essere proprio del termine. In tal caso di discorrerà “di precauzione”, per analizzare un concetto che kantianamente si veste di significati normativi, identificando il “dover essere” della cautela prima dell’azione.

Ma il concetto può essere sviluppato ed approfondito partendo dal secondo significato che il termine disvela, mettendo a fuoco il concetto “della precauzione”, per verificare se l’attenzione per il sein, il concreto modo di “essere” della cautela rispetto all’azione, possa assumere un ruolo interpretativo rilevante per chi opera in quel settore del diritto che è chiamato a gestire ciò che il pericolo od il rischio finiscono prima o poi per materializzare, ovvero il danno2.

2 Nel porre le basi metodologiche della sua analisi dedicata al concetto di

rischio, N.LUHMANN, Risk: A Sociological Theory, Berlin, New York, 1991, 16-17 (ora Sociologia del rischio, Milano, 1996, 25-26, ma la traduzione che segue è resa da chi scrive dall’edizione inglese indicata, in considerazione della poca chiarezza con

(11)

Il giurista contemporaneo conosce o sta imparando a conoscere il concetto di precauzione. Da qualche lustro questa idea - che muove da una riflessione filosofica più generale (e di cui si verificheranno nel primo capitolo le radici intellettuali) - ha trovato modo di elevarsi in principio giuridico attraverso varie declamazioni normative, che, muovendo dal lessico programmatico di alcune convenzioni internazionali e ricevendo subito dopo entusiastico accoglimento in alcune esperienze giuridiche (in particolare in quella francese), sono state progressivamente recepite in modo via via più definito dal formante normativo comunitario, per entrare così stabilmente nel quadrante del diritto positivo chiamato ad essere scrutato dall’interprete municipale.

Questo rapido processo di diffusione legislativa rispecchia ed istituzionalizza la fortuna culturale che il “principio di precauzione” conosce soprattutto al di qua dell’Atlantico e non solo attraverso il proliferare di studi dedicatigli dalle scholarships del vecchio continente, ma anche da un punto di vista più generale, schiettamente socio-politico.

Polarizzando le aspettative che una porzione sempre più ampia della società del rischio contemporanea ripone nella capacità del diritto di governare gli effetti della tecnologia, il principio di precauzione si rende interprete di una contesa socio-politica che da qualche anno vede protagonisti Europa e Stati Uniti - in una partita serrata che si gioca sul terreno del diritto del commercio internazionale, con enormi poste

cui la traduzione italiana rende i passi considerati), osserva: “un danno futuro può reificarsi, o non, a seconda dei casi. Scrutato dal punto di vista del presente, il futuro appare incerto, sebbene si possa essere consapevoli del fatto che i futuri ‘presenti’ potranno assumere i contorni che noi desideriamo ovvero disvelarsi in modo piuttosto diverso rispetto alle nostre aspettative. In questo preciso momento noi non possiamo sapere quali fattezze assumerà il futuro. Ma possiamo sapere che in un futuro ‘presente’ noi stessi ed altri osservatori saremo in grado di conoscere quale sia la situazione, e la valuteremo in modo diverso da come la valutiamo oggi, anche se fra noi potranno emergere valutazioni di tipo diverso. D’altra parte, (…) ciò che può accadere nel futuro dipende dalle decisioni che sono prese oggi. Infatti possiamo parlare di rischio solo se siamo in grado di identificare una decisione senza la quale il danno non si sarebbe verificato (…) pertanto, il fatto che due contingenze temporali, l’evento ed il danno, siano intimamente correlate come contingenze (e non come fatti!) (…) consente agli osservatori di valutare le cose in modo diverso”.

(12)

economiche in gioco – mettendo a nudo un conflitto latente fra due modi profondamente diversi di concepire nei suoi elementi costitutivi la triangolazione fra individuo, società e rischio3.

Si tratta di uno scontro che il comparatista comprende in una prospettiva politica e culturale, soffermandosi sull’evoluzione storica delle istituzioni e degli istituti giuridici che mediano il rapporto fra l’individuo ed il rischio in queste due macro-realtà socio-politiche del mondo contemporaneo.

Tuttavia, pur considerandolo diffusamente nel suo primo capitolo, questo libro non ha il suo fuoco principale sul principio di precauzione, e sulla crescente valenza giuridica che esso va assumendo nel diritto nazionale e sovranazionale.

Soprattutto pubblicistica e solo in via mediata privatistica, questa valenza, dopo essere stata scrutata in un primo tempo nella visuale del diritto pubblico internazionale, oggi attraverso il diritto comunitario cala dall’alto nelle aule di giustizia dei paesi membri, per essere richiamata con insistenza in una panoplia di controversie fra privati e (più spesso) fra privati e pubbliche amministrazioni o fra pubbliche istituzioni

tout-court (e persino in sede penale4) nei vari ambiti settoriali interessati

3 Il che si manifesta oggi – per fare solo due dei tanti esempi possibili - nelle

guerre commerciali che sulle due sponde dell’Atlantico si combattono sui caldissimi temi delle biotecnologie agricole e su quello delle carni bovine trattate con l’ormone della crescita, su cui rispettivamente A.PRAKASH,K.L.KOLLMAN, Biopolitics in the

EU and the U.S.: A Race to the Bottom or Convergence to the Top?, 47 Int. Stud.

Quart. 617 (2003); T.BERNAUER,E,MEINS, Technology Revolution Meets Policy and

Market: Explaining Cross-National Differences in Agricultural Biotechnology Regulation, in 42 Eur. J. Pol. Res. 643, 674 ss. (2003) eC.CHARLIER,M.RAINELLI,

Hormones, Risk Management, Precaution and Protectionism: An Analysis of the Dispute on Hormone-Treated Beef between the European Union and the United States, in 14 Eur. J. Law & Econ. 83 (2002).

4 Così, solo per fare un esempio, un riferimento espresso al principio di

precauzione, definito (senza peritarsi di spiegare perché) “principio distinto e più esigente del principio della prevenzione”, balugina nella prosa dei giudici di legittimità in Cass. 8 febbraio 1999, Lago, in Foro it., 1999, II, 365, 370, con nota di G. AMENDOLA. Riflette acutamente sulle pratiche esorcistiche che il senso del principio di precauzione può ispirare al legislatore penale, L.STORTONI, Angoscia tecnologica

ed esorcismo penale, mentre verifica gli effetti legislativi prodotti da questo esorcismo 4

(13)

dall’applicazione del principio (la protezione dell’ambiente, in primis, e poi la tutela della salute nei suoi multiformi campi di esplicazione: la sicurezza alimentare, la produzione e l’immissione in commercio di farmaci, di dispositivi medici, le frontiere sperimentali della ricerca biomedica, etc.).

Quale che sia l’ambito e la sede di invocazione del principio, è evidente, infatti, che l’essenza del “principio di precauzione” si riallaccia concettualmente a ciò che abbiamo visto essere il sollein della precauzione, nell’(ontologicamente non falsificabile) ambizione di esprimere ed imporre ai soggetti a cui si rivolge (stati nazionali, istituzioni pubbliche e private, nonché singoli individui) una linea di condotta ideale da osservare per fronteggiare il rischio ed il pericolo sottesi all’ignoto tecnologico, quando la scienza rivela di non essere in grado di fugare l’incertezza che attanaglia la decisione sociale sul “se” e sulle “modalità” dell’agire.

Da qui l’invocazione, che spesso costituisce il corollario operativo dell’invocazione del principio di cui si discorre, di un blocco temporaneo dell’attività in questione, nell’attesa che nuove conoscenze scientifiche e nuove regole e procedure diano un senso concreto – e non soltanto inibitorio5 - all’operare del principio nel settore di attività considerato.

Nella sua configurazione più estrema, il principio di precauzione rischia in quest’ottica di rendersi indistinguibile da uno slogan politico – o da una giustificazione retorica di stampo normativo6 - per dare

V.TORRE, Sistemi di co-gestione del rischio nel d.lgs. n. 334 del 1999, entrambi in

AA. VV., Il rischio da ignoto tecnologico, Milano, 2002, rispettivamente 85 e 125.

5 Senso che oltre ad esprimersi sul terreno pubblicistico può assumere una

valenza immediatamente giustiziabile sul piano privatistico, si veda, per un primo inquadramento di un tema ricco di spunti problematici, C. CONSOLO, Il rischio da

“ignoto tecnologico”: un campo arduo per la tutela cautelare (seppur solo) inibitoria,

in AA. VV., Il rischio da ignoto tecnologico, op. cit., 65.

6 Di recente il principio di precauzione è stato definito “un tipico concetto

retorico utilizzato all’interno della legge, che serve semplicemente a fondare un’argomentazione e non già ad accrescere le conoscenze” che servono per aggiudicare razionalmente una contesa fra interessi confliggenti di fronte all’incertezza scientifica, così la voce di A.GAMBARO, Intervento al convegno “Scienza e diritto nel

prisma del diritto comparato”, Pisa, 22 maggio 2003; si veda sul punto M.D.ADAMS, The Precautionary Principle and the Rhetoric Behind It, in 5 J. Risk Research, 301

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fondamento e legittimità a timori irrazionali, a volte venati di inconfessabili intenti protezionistici, con l’effetto di dar linfa alle aspre critiche che esso (con intensità pari a quella esibita da chi, per parte sua, ha subito provveduto a farne il proprio vessillo ideologico7) ha attirato da parte dei suoi detrattori, che sono presenti in vaste aree del mondo scientifico ed imprenditoriale8.

La nostra analisi si muove invece sul terreno della responsabilità civile, un insieme di regole che da sempre, assieme ad altri istituti giuridici che assolvono la medesima funzione per altre vie, si contrappone al rischio od al pericolo, stabilendo le condizioni alle quali la società è disposta a riallocare nel suo seno gli effetti determinati dalla reificazione di questi due concetti.

Queste regole hanno l’invariabile caratteristica di essere applicate quando il rischio od il pericolo hanno cessato di esser tali e non resta altro da fare che valutare se il comportamento concretamente osservato per tentare di neutralizzarli offra al processo ragioni sufficienti per procedere a questa riallocazione.

Da qui il nostro specifico interesse per il secondo modo d’essere della precauzione, ovvero il “concetto della precauzione”, quello che – lo si è visto - descrive le modalità attraverso cui il concetto si esplica e si definisce in concreto per contrastare il rischio od il pericolo di danno, ponendosi sotto la lente giudiziale dell’interprete quando la condotta precauzionale del caso si è comunque già dispiegata senza conseguire il suo intento ideale.

L’assunto da cui muove questo studio è che l’attenzione per il concetto della precauzione, lungi dal necessitare di nuove regole per trovare applicazione nel settore della responsabilità civile, possa indurre ad accostarsi con una nuova consapevolezza interpretativa a molte delle aree problematiche in cui tradizionalmente viene dissezionato l’operare concreto di questo istituto del diritto civile, consentendo di esplicitare e

(2002).

7 Si veda, per esempio, G.FRANCESCATO,A.PECORARO SCANIO, Il principio di

precauzione, Milano, 2002.

8 Si veda, per fare solo uno dei possibili esempi, A.MELDOLESI, Organismi

geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato, Torino, 2001, 113-124. 6

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rivalutare in una visione unitaria e coerente (e nel contempo analitica) la funzione preventiva delle regole di cui si discorre, dopo un lungo periodo in cui, salvo che in casi isolati, la considerazione per questa

raison d’être del sistema della r.c. è parsa appassire al livello di una

fugace citazione manualistica (obbligata, ma ormai priva di mordente operazionale), dando così prova di conoscere una fortuna inversamente proporzionale a quella invece dimostrata dalla trionfante valenza aggiudicativa che negli ultimi decenni le argomentazioni (dottrinali e poi giurisprudenziali) osannanti all’altra macrofunzione della responsabilità civile, quella compensativa, hanno saputo ricavarsi nella

law in action.

Un’analisi di questo tipo evidentemente non avrebbe potuto essere condotta in via generale ed in astratto, senza fare riferimento ad un paradigma concreto dal quale ricavare gli elementi di analisi fattuali attraverso cui contestualizzare e testare gli assunti teorici da cui questo studio prende le mosse.

Il caso del danno da contagio per via trasfusionale, la fattispecie concreta che accompagnerà dal secondo capitolo in poi lo sviluppo delle idee esplicitate in questa premessa, racchiude in sé una gamma di elementi distintivi che lo hanno reso particolarmente adatto a questo scopo.

In primis, la dimensione globale degli eventi attraverso cui nei

principali paesi industrializzati e nel medesimo frangente temporale si sono manifestate le dinamiche scientifiche, politiche e giuridiche che l’improvvisa comparsa del pericolo di trasmettere il virus HIV per via ematica ha propiziato a partire dalla prima metà degli anni ‘80, ha permesso di ricavare attraverso un’indagine comparata elementi di riflessione utili sia nella prospettiva microcomparativa, allorché si è applicato il concetto della precauzione all’analisi dei singoli istituti della responsabilità civile coinvolti nella problematica prescelta, che nella prospettiva macrocomparativa, allorché la nostra disamina si è spinta a considerare il comportamento delle istituzioni pubbliche di controllo investite dal problema, per verificare in che modo questo comportamento abbia interagito con la risposta risarcitoria che le corti di ciascun paese hanno apprestato a livello decentrato all’ondata di

litigation seguita al contagio. Il che ha poi permesso di mettere a fuoco

(16)

alcuni tratti peculiari che hanno caratterizzato le dinamiche attraverso cui ciascuna delle tre esperienze giuridiche considerate nell’analisi (oltre a quella municipale, quella francese e quella statunitense) ha esibito ed applicato nella circostanza il proprio particolare modo di intendere la triangolazione fra rischio, società ed individuo a cui si è alluso qualche pagina fa.

In secondo luogo, i problemi innescati dal contenzioso risarcitorio legato al contagio per via trasfusionale, per la particolarità capacità della fattispecie prescelta di proiettare e distribuire su distinte categorie di soggetti il compito di dare un senso concreto al concetto della precauzione, hanno consentito di passare in rassegna alcuni degli elementi chiave della responsabilità civile, fra cui la causalità (intesa sia in senso materiale che giuridico), il ruolo dell’informazione quale medium giuridico fra rischio e danno, i vari criteri che presiedono all’imputazione della responsabilità, la prescrizione dell’azione risarcitoria in caso di danno lungolatente, ed i problemi probatori senza la cui soluzione ciascuno di questi elementi, essenziali per integrare la fattispecie risarcitoria portata all’attenzione delle corti, rischia di non poter vivere il momento, ad un tempo ineludibile e decisivo, della sua verifica processuale. L’intento è quello di far emergere in tal modo, attraverso un’analisi tematica di dettaglio, una visione d’insieme della responsabilità civile coerente con le premesse metodologiche di questo studio.

In terzo luogo, il silenzioso protagonista del problema esaminato in questo studio, un virus letale che per anni ha tenuto in scacco le capacità predittive e conoscitive della scienza contemporanea, sintetizza le caratteristiche archetipiche di una vasta (e purtroppo crescente) gamma di minacce che inquietano la società del rischio contemporanea: il bene messo a repentaglio è quello primario della salute; l’identificazione del pericolo è rimessa alla scienza ed alla sua capacità di guidare l’operato degli agenti sociali deputati a debellarlo; il fenomeno si è mostrato capace di evocare paure irrazionali, attraverso l’amplificazione massmediatica del suo potenziale di rischio; infine, l’operare della precauzione nei confronti di questa minaccia è dipeso e dipende in via esclusiva dallo sviluppo, dalla gestione e dalla

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implementazione di una tecnologia particolarmente sofisticata. _______________________

Prima di lasciare al lettore il compito di verificare lo sviluppo delle idee anticipate in questa premessa, desidero ringraziare per il prezioso supporto fornitomi in questi anni il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento, che mi ha offerto l’opportunità concreta di realizzare ciò che solo il caso mi ha spinto ad intraprendere al termine degli studi universitari condotti nella facoltà della mia città d’origine.

Un grazie particolare a tutto l’impareggiabile staff amministrativo che anima il “nostro” Dipartimento ed ai (ci siamo definiti così) “friends in blood”, con cui ho condiviso un’esaltante esperienza di ricerca internazionale durante il dottorato, e che non nomino qui perché sono tutti ricordati in questo libro nelle vesti di coautori di Blood Feuds:

AIDS, Blood, and the Politics of Medical Disaster, il volume che quella

ricerca ha prodotto. E poi, soprattutto, le persone che - nella duplice veste di amici e di studiosi con cui confrontare continuamente le idee - mi hanno aiutato a completare questo libro, che elenco senza stabilire gradi di riconoscenza, ma nell’ordine in cui sono apparsi in un film che loro ben conoscono: Roberto Caso, Roberto Pardolesi, Giuseppe Bellantuono e Giovanni Pascuzzi.

Vorrei infine condividere con il lettore una citazione che in un certo senso ha accompagnato la stesura di questo volume e che – specie di questi tempi - può offrire conforto ai giovani che continuano a dedicarsi alla ricerca nel nostro paese. A parlare è Fedro, il protagonista di un libro che forse apparirà datato a chi lo lesse nell’edizione originale del 1974, ma che a distanza di trent’anni riesce ancora a regalare qualcuna delle sue pirsighiane “qualità”.

“Che cosa pensa sia la vera Università? I suoi appunti rispondono a questa domanda così: La vera Università è una condizione mentale. E’ quella grande eredità del pensiero razionale che ci è stata tramandata attraverso i secoli e che non esiste in alcun luogo specifico; viene rinnovata attraverso i secoli da un corpo di adepti tradizionalmente insigniti del titolo di professori, ma nemmeno questo titolo fa parte della

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10

vera Università. Essa è il corpo della ragione stessa che si perpetua. Oltre a questa condizione mentale, la ‘ragione’, c’è un’entità legale che disgraziatamente porta lo stesso nome, ma è tutt’altra cosa. Si tratta di una società senza scopi di lucro, di un ente statale con un indirizzo specifico, che ha delle proprietà, paga stipendi, riceve contributi materiali e di conseguenza può subire pressioni dall’esterno. Ma questa università, l’ente legale, non può insegnare, non produce nuovo sapere e non vaglia le idee. E’ solo un edificio, la sede di una chiesa, il luogo in cui sono state create le condizioni favorevoli a che la vera chiesa potesse esistere. La gente non riesce a vedere questa differenza, disse Fedro, e crede che il controllo degli edifici della chiesa implichi il controllo della chiesa stessa, considera i professori semplici impiegati della seconda università, che dovrebbero rinunciare alla ragione a comando e ricevere ordini senza discuterli, come fanno gli impiegati delle altre aziende. Questa gente vede la seconda università, ma non riesce a vedere la prima…”9.

Trento, febbraio 2004

9 R. PIRSIG, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano,

(19)

UMBERTO IZZO___________________________LA PRECAUZIONE NELLA RESPONSABILITÀ CIVILE

Capitolo I. La precauzione nel diritto

I.1 La precauzione come termine necessario della

relazione fra diritto e tecnologia

Nei suoi aspetti generali, la semantica della precauzione che abbiamo esplorato in via introduttiva individua uno degli elementi essenziali della tensione ideale che alimenta il dibattito contemporaneo sulla relazione fra diritto e tecnologia, ed è ad alcune riflessioni emerse nell’ambito di questo dibattito che occorre brevemente guardare per cominciare a declinare e sviluppare in senso compiutamente giuridico questa semantica.

Il mito di Prometeo e la figura (sicuramente pre-goethiana ed ormai cinematograficamente disneyana10) dell’apprendista stregone identificano due metafore (tanto ricorrenti da apparire) abusate nel discorso sul rapporto fra diritto e tecnologia11. Ma il furto originale

10 Attribuisce a Luciano di Samosata, sofista e poi filosofo greco del II secolo

a.C., la prima trasposizione del mito dell’apprendista stregone in forma letteraria, Y. CASTELFRANCHI, Per una paleontologia dell’immaginario scientifico, in Jekyll.comm

6 – settembre 2003, in rete <http://jekyll.sissa.it/jekyll_comm/commenti/commenti06_02.pdf>.

11 In senso lato, per tecnologia può intendersi ogni applicazione della

conoscenza avente, o non, natura scientifica. Non è certo questa la sede per interrogarsi a fondo sulla congruità filosofica di questa definizione, muovendo dal celebre saggio postumo heideggeriano (M. HEIDEGGER, The Question Concerning

Technology, New York, 1977) che oggi costituisce una delle pietre angolari della

riflessione filosofica sulla tecnologia, si veda D. IHDE, The Historical–Ontological

Priority of Technology over Science, in P.T.DURBIN,F.RAPP (eds.), Philosophy and

Technology, Dordrecht, Boston, Lancaster, 1983, 235 ss., e da ultimo A.FEENBERG,

Questioning Technology, London, New York, 1999. L’ampiezza di questa definizione

è però tale da non collidere, in termini generali, con il modo in cui la tecnologia viene concettualizzata a livello trattatistico, si veda M. BUNGE, Treatise on Basic

Philosophy, Vol. 7, Philosophy of Science and Technology, Dordrecht, Boston,

Lancaster, 1985, 220, “[…] we adopt a wide concept of the artificial, namely the totality of the concrete things and processes, whether physical or chemical, biological or social, made or done by rational beings or their proxies with the help of knowledge. Correspondingly our concept of technology is wide as well: it includes all the crafts, such as farming and plumbing, and all the science-based technologies, from

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i questo dibattito.

della téchne - con i mali che ne seguiranno, perseguitando la stirpe dell’eroe - e le inarrestabili scope che calpesteranno senza pietà l’incauto ed avventato apprendista simboleggiano due elementi fondativi d

La prima richiesta formulata al diritto si lega infatti all’assimilazione dell’idea del contrappasso tecnologico12, della conseguenza nefasta associata e scaturente dall’impiego (pur) benefico della tecnologia13, un’idea che dopo il mito si è unita al destino dell’uomo e con cui la società è chiamata a fare i conti, sviluppando ed affinando il concetto giuridico che rende possibile formulare questa risposta: quello della responsabilità14.

La seconda domanda si leva dalla paura di scatenare forze incontrollabili ed irreversibili utilizzando la tecnologia, un sentimento rivelatore che va ascoltato necessariamente prima dell’azione e che dunque pone il compito di formulare ed applicare regole capaci di catturare la crescente intensità di questa paura, per tentare di guidare con mano sicura lo sviluppo e l’applicazione del sapere tecnologico fino all’anticamera dell’incontrollabilità.

mechanical to social engineering.” In una diversa prospettiva, questa definizione lata del concetto di tecnologia tende a coincidere con quella sottesa al concetto di “conoscenza utile”, alla cui valutazione aggregata nella società gli storici dell’economia guardano per misurare il potenziale di sviluppo economico di ciascun paese, v. per tutti S.KUZNETS, Sviluppo economico e struttura, Milano, 1969, 109 ss. In questa prospettiva il concetto di tecnologia è dunque legato alla conoscenza utile che una società possiede in un dato momento storico e può quindi essere allargato fino a ricomprendere, in senso lato, qualsiasi manipolazione della natura effettuata dall’uomo al fine di conseguire un beneficio materiale, si veda J.MOKYR, The Gift of

Athena: Historical Origins of the Knowledge Economy, Princeton, 2002, 3, “[…]

useful knowledge (…) deals with natural phenomena that potentially lend themselves to manipulation, such artifacts, materials, energy, and living beings”; si veda anche J. ZIMAN, Prometheus Bound: Science in a Dinamic Steady State, Cambridge, 1994, 18.

12 Si tratta di un’idea che per altri versi trova modo di polarizzarsi

nell’ambivalenza sottesa al pharmakon greco, come chiarisceE.RESTA, Il diritto, la

libertà e la tecnica, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 79, 83.

13 Si veda ad esempio R.BOUDON, Effetti perversi dell’azione sociale, Milano,

1981.

14 F.OST, La nature hors la loi, Paris, 1995, 285 ss.

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Sennonché, sul piano filosofico questa possibilità è da tempo revocata in dubbio: mostrando un’inesauribile capacità di ridefinire all’infinito i bisogni dei propri utilizzatori, la tecnologia finisce per sottrarsi ad ogni limite imposto dal rispetto di scopi diversi dal proprio, ovvero, appunto, quello di far crescere all’infinito la capacità di realizzare scopi: la tecnologia che si pretenderebbe di regolare diventa così essa stessa legislazione15.

Questa preoccupazione riflette una consapevolezza che il pensiero contemporaneo ha sviluppato fin dalla prima metà del secolo scorso e che oggi identifica un punto fermo della riflessione filosofica sulla tecnologia16, come del resto ci ricorda autorevolmente uno dei protagonisti di un recente e fortunato dibattito sul rapporto fra diritto e tecnica17.

15 L. WINNER, Autonomous Technology: Techniques-Out-of-Control as a

Theme in Political Thought, Cambridge, Mass, 1977, 317 ss., spec. 323 “(…) the

utilitarian-pluralist approach, sees that technology is problematic in the sense that it now requires legislation. An ever-increasing array of rules, regulations, and administrative personnel is needed in order to maximize the benefits of technology practice while limiting its unwarranted maladies. Politics is seen as the process in representative government and interest group interplay whereby such legislation takes shape. The second approach, disjointed and feeble as it still may be, begins with the crucial awareness that technology in a true sense is legislation. It recognizes that technical forms do, to a large extent, shape the basic pattern and content of human activity in our time. Thus politics becomes (among other things) an active encounter with the specific forms and processes contained in technology” (corsivo originale).

16 Senza attardarsi nell’indicazione di indefinibili primogeniture intellettuali,

questa linea di pensiero sembra essere già sufficientemente matura nelle considerazioni sul “materialismo senza scopi” della tecnica che L.MUMFORD, Tecnica

e cultura, Milano, 1961 [ed. orig., Technic and Civilization, New York, 1934], 294-5

svolgeva negli anni trenta, ed appare ulteriormente sviluppata nelle cupe riflessioni, che per molti altri aspetti oggi denunciano il tempo trascorso dalla loro formulazione, di J.ELLUL, La tecnica: rischio del secolo, Milano, 1969 [La technique ou l’enjeu du

siècle, Paris, 1954], 96-98. Da un punto di vista più generale, il concetto è stato

recentemente dissezionato in una vasta ed esauriente antologia filosofica da U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, 1999.

17 Ovvero Emanuele Severino in N.IRTI,E.SEVERINO, Dialogo fra diritto e

tecnica, Roma, Bari, 2001 [già in Contratto e impr., 2000, 665, con il titolo Le domande del giurista e le risposte del filosofo (un dialogo su diritto e tecnica)], spec.

27 ss. e 80, ove, alle obiezioni del giurista, il filosofo replica difendendo con forza l’idea che la tecnica sia destinata a prevalere sulla volontà regolativa espressa dal

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In termini generali, all’ineluttabilità di questa visione filosofica del rapporto diritto-tecnologia, attraverso la quale “lo sviluppo della tecnica assurge da materia regolata a principio regolatore”18, il giurista ha la possibilità di replicare riposizionando l’asse del problema all’interno del discorso che meglio padroneggia, ovvero quello che gli permette di rivendicare l’autonoma normatività del diritto, anche ammettendo il sopravvenuto indebolimento della politica, sempre più in difficoltà nel tentativo di inseguire e gestire la potenza della tecnologia19.

Il punto può essere sviluppato impiegando tecniche argomentative molto diverse fra loro. Il valore della norma nella sua mera adeguatezza procedurale, l’idea che il giuridico sia assiologicamente neutro e stia in una sorta di “nomodotto”, ovvero in “un congegno produttivo di norme” pronto a ricevere qualsiasi contenuto, col quale però qualsiasi volontà, anche la volontà di potenza della tecnologia, è costretta a fare i conti per poter prevalere sulle altre volontà, è l’argomento che Natalino Irti mette

diritto e dalla politica: “(l)a tecnica è destinata a prevalere storicamente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; sì che, anche per quanto riguarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica e del capitalismo, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà di profitto e della volontà giuridica per incrementare all’infinito la propria potenza (…) la tecnica è destinata a diventare la regola e tutto il resto il regolato”; si veda dello stesso autore Il destino della tecnica, Milano, 1998, 42 ss. Coglie il problema, ma lo sviluppa in un discorso teso a dimostrare come un particolare tipo di tecnologia (quella elettronica) tenda a trasformare il diritto in egemonia, F. SPANTIGATI, La complementarità fra tecnologia e diritto, Jus, 1995, 53, 55, laddove si

osserva che la rilevanza giuridica della tecnologia risiede nella sua capacità di mutare gli interessi degli esseri umani, ridefinendone gli scopi.

18 L’espressione è di IRTI, in IRTI,SEVERINO, Dialogo fra diritto e tecnica, 51. 19 Politica su cui peraltro, mai come in questo caso, pesano le insormontabili e

ben note difficoltà legate all’individuazione di un preciso meccanismo di ascrizione della responsabilità, anche ove si valuti questo tipo di responsabilità attribuendole un “significato interno al diritto”, U.SCARPELLI, Riflessioni sulla responsabilità politica.

Responsabilità, libertà, visione dell’uomo, in R. ORECCHIA (a cura di), La

responsabilità politica. Diritto e tempo, Milano, 1982, 41, 71 e 82 ss. 14

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in campo, e dispiega sapientemente, nella sua partita dialettica con Severino20.

Attraverso questo argomento in definitiva il giurista riesce ad eludere le preoccupazioni del filosofo, reclamando la sua neutralità rispetto ad una contesa che - è questo il punto – gli appare comunque destinata a svolgersi all’interno delle regole procedurali che in una democrazia determinano la (momentanea e pur sempre mutevole) supremazia di un valore o di una volontà di potenza.

Vi è poi una seconda via che il giurista può percorrere per rispondere alle sollecitazioni del filosofo, un percorso ottimistico (perché animato da un senso di speranza21) che Luigi Mengoni ha saputo indicare in uno dei suoi ultimi scritti22, deponendo l’ambizione di descrivere il diritto in termini tali da erigerlo a sistema autoreferenziale, nel quale persino l’illimitata volontà di potenza della tecnologia sarebbe ineluttabilmente costretta a svolgersi23,

24 come

sostenuto da Irti .

20 Ancora IRTI, in IRTI,SEVERINO, Dialogo fra diritto e tecnica, 45.

21 Come sottolinea anche N.LIPARI, Luigi Mengoni ovvero la dogmatica dei

valori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1063, 1112.

22 L.MENGONI, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 1.

23 Il che, peraltro, imporrebbe di credere fino in fondo all’utopia di un diritto

capace davvero di esprimere, ciò che RESTA, Il diritto, la libertà e la tecnica, cit., 85, ha icasticamente definito “quell’universalismo etico corazzato di coercizione che si pretende capace di combattere tutto quello che si trova a regolare”, alludendo all’irrealistica pretesa che le prescrizioni e le interdizioni del diritto godano sempre di validità ed effettività universale.

24 Il quale ha poi recepito la critica mengoniana rimanendo fermo nelle sue

convinzioni (N. IRTI, Postilla sugli interventi di Luigi Mengoni e Bruno Romano, in

IRTI, SEVERINO, Dialogo fra diritto e tecnica, 103, 107-8), per poi ribadire in un

successivo scritto, N.IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma, Bari, 2001, 99-100, la sua kelseniana fiducia nella capacità di tenere distinta la regola ed il regolato, linea di confine presupposta dall’autonomia di un diritto che resta, insiste l’Autore, posto dalla consapevole scelta degli uomini espressa dalla volontà statale e che andrebbe, piuttosto, preservato dal pericolo che si annida “in un certo fiducioso neo-illuminismo, che da un lato riscopre le ‘magnifiche sorti e progressive’, e, dall’altro offre in compensazione universali diritti dell’uomo. I quali, in assenza di un diritto naturale che i neo-illuministi non ardiscono di riproporre, appaiono sospesi nel vuoto, privi della volontà storica degli stati (perché altrimenti non sarebbero né ‘universali’ né dell’astratto ‘uomo’, ma ‘particolari’ e di concreti ‘uomini’), e privi a un tempo di qualsiasi fondamento”.

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La forza, ad un tempo morale e persuasiva, del ragionamento svolto da Mengoni non sta nella semplice allusione alla radice giusrazionalista o alla natura post-positivista del diritto contemporaneo, che permette di assegnare ai principi costituzionali ed ai diritti fondamentali uno spazio (oggi sicuro perché) non più revocabile dal diritto posto, ma nell’apertura del giuridico al sentimento, che l’Autore sottolinea essere ciò che la presenza di questi principi e diritti permette in ogni momento di realizzare di fronte alla volontà di potenza della tecnica: “sono i sentimenti, più che l’intelletto riflessivo, la componente principale dell’opinione pubblica; essi possono mutare da un momento all’altro sotto la spinta del sentimento fondamentale della vita, non appena questo stato di cose avverta una minaccia”25.

Ora, è proprio l’apertura al sentimento di minaccia avvertito dalla società, che - nel sottolineare la necessità che il diritto, prim’ancora di individuare le sue prescrizioni o di applicare le sue regole, si predisponga all’ascolto anticipato delle informazioni relative al rischio ed al pericolo connesso alla tecnologia - avvicina questa lettura del rapporto fra diritto e tecnologia all’analisi delle implicazioni giuridiche oggi assunte dai significati semantici del termine precauzione ed al pensiero di quanti hanno contribuito a porre le condizioni culturali necessarie a far sì che uno di questi significati, in un torno di tempo straordinariamente breve se comparato alla scansione cronologica entro cui solitamente si compie la giuridificazione di un’idea, assurgesse nel giro di pochi lustri a principio che il diritto, appunto, si preoccupa di porre.

Accostandosi alle matrici intellettuali del principio di precauzione occorre subito riconoscere che esse, nei loro tratti costitutivi, sono elaborate in seno ad una tradizione culturale che da sempre si colloca fra le forze trainanti del pensiero europeo.

I due manifesti del principio di precauzione sono redatti da un filosofo e da un sociologo tedeschi, al compimento di una riflessione che viene incontro ad un sentire sociale che in Germania matura e si consolida nel corso degli anni settanta, anche sull’onda della catastrofe

25 MENGONI, Diritto e tecnica, cit., 9.

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ecologica delle piogge acide che devastano la Foresta Nera (una vicenda rimasta scolpita nei vocabolari tedeschi con il termine Waldsterben)26. Nel 1979 Hans Jonas raccoglie le idee sviluppate in alcuni saggi pubblicati negli Stati Uniti nel corso di quel decennio27, e pubblica Das

Prinzip Verantwortung28, mentre nel 1986 appare Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine anderne Moderne di Ulrich Beck29.

Se si riflette sulle dinamiche giuridiche che ha provocato, può apparire paradossale il fatto che l’opera del filosofo tedesco espliciti in modo inequivoco la volontà programmatica di procedere a costruire un’idea di responsabilità che sappia collocarsi su un piano ulteriore rispetto a quello tradizionalmente presupposto dalla prospettiva giuridica.

L’intento è superare ciò che, in relazione alla propria esigenza etica, costituisce per Jonas il limite invalicabile che tale responsabilità svela sia nella sua connotazione civile che in quella penale, poiché sia il risarcimento che la pena condividono un destino comune: “il fatto che la

26 Sorprende constatare che con questa indiscutibile primogenitura culturale

non si faccia adeguatamente i conti in un importante rapporto di studio commissionato dal governo francese a due eminenti studiosi transalpini, P.KOURILISKY,G.VINEY, Le

principe de précaution. Rapport au Premier ministre, Paris, 2000, 27, ove solo un

fugace accenno (peraltro velatamente critico) all’opera di Jonas. A tale silenzio pongono però parziale rimedio, in una narrazione che comunque tenta di francesizzare l’origine intellettuale del principio attraverso riferimenti ad opere di autori nazionali (mai anteriori agli anni ’90, però) M.BOUTONNET,AGUÉGAN, Historique du principe

de précaution, in id., (Ann. I) 253, 274 ss.

27 H. JONAS, Technology and Responsibility: The New Role for Ethics, in 40

Social Research, 31 (1973); H. JONAS, Responsibility Today: The Ethics of an

Endangered Future, in 43 Social Research, 77 (1976); H. JONAS, The Concept of

Responsibility: An Inquiry into the Foundations of an Ethics for our Age, in H.T.

ENGELHARDT, D. CALLAHAN (eds.), Knowledge, Value, and Belief, Hastings on

Hudson, NY, 1977, 1. Per una raccolta di interviste, nelle quali l’autore ‘ritorna’ sui temi affrontati nella sua opera di maggior successo, H.JONAS, Sull’orlo dell’abisso.

Conversazioni sul rapporto fra uomo e natura, Torino, 2000; un’analisi a più voci del

pensiero del filosofo tedesco è in P.PELLEGRINO (a cura di), Hans Jonas: natura e

responsabilità, Lecce, 1995.

28 Tradotto con un decalage più che decennale in H. JONAS, Il principio

responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 1990.

29 Tradotto con notevole ritardo in U.BECK, La società del rischio. Verso una

nuova modernità, Roma, 2000. 17

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responsabilità si riferisce alle azioni commesse e diventa reale nel momento in cui viene attribuita dall’esterno”30.

La responsabilità giuridica – afferma Jonas - “non pone da sé gli scopi, ma è l’istanza formale che grava su ogni agire causale interumano, facendo sì che se ne possa chiedere conto (…); il sentimento che l’accompagna – la precede, la segue -, pur essendo morale (disponibilità a garantire per la propria azione), non può nella sua pura formalità fornire alla teoria etica quel principio effettivo, che in prima ed ultima istanza ha a che vedere con la presentazione, convalida e motivazione di scopi positivi in vista del bonum humanum”31.

Ciò che dunque interessa a Jonas non è la resa dei conti con il passato, né la dimensione che la parola responsabilità ha assunto da che essa è stata catturata dalla morale cristiana32, ma l’individuazione di un principio etico in grado di fornire indicazioni utili sul da farsi, che dia sostanza a ciò che egli icasticamente definisce il “dovere del potere tecnologico”.

Il “principio responsabilità” viene quindi delineato in una chiave etica, che non omette di rivolgersi alla politica, confrontandosi con le due grandi ideologie del ‘90033, per poi prendere partito contro il pensiero utopico34, e rivendicare come proprio orizzonte (ciò che l’ex allievo di Heidegger chiama) la dignità del reale, in una prospettiva filosofica che, rifiutando di soggiacere alla speranza ed alle ontologie del “non-essere-ancora”, non si cela la realtà dell’ambiguità della

30 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 116 (corsivo originale). 31 JONAS, Il principio responsabilità. op. cit., 117 (corsivo originale).

32 M.VILLEY, Esquisse historique sur le mot responsabile, in 22 Archives de

philosophie du droit, 1977, 45, 52-53.

33 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., rispettivamente 121-135

(enucleando i tratti che possono permettere di accostare, nel segno della comune asimmetria che caratterizza il rapporto sottostante, la responsabilità del politico nei confronti della società futura a quella del genitore nei confronti del figlio) e 182-223 (analizzando le ragioni per cui sia il comunismo che il capitalismo non riescono a fare i conti con l’idea di responsabilità patrocinata da Jonas).

34 Le utopie discusse e respinte dall’autore sono quella marxista e quella (ben

più seducente, e perciò da quest’ultimo accostata all’idea di un “paradiso terrestre”) dell’otium attivo prefigurata da Ernst Bloch nel suo Das Prinzip Hoffnung (Il principio

speranza, Milano, 1994), JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 225 ss.

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condizione umana35, e che dunque è l’unica che può “suscitare in noi un senso del dovere”36.

Gli argomenti per sollecitare l’adesione a questo bisogno di realismo continuamente rivendicato dal pensiero di Jonas non restano però affidati solo ad una sapiente dialettica filosofica (di cui peraltro in questa sede sarebbe imprudente abbozzare una rievocazione anche solo didascalica), ma appaiono saldamente ancorati ad una serie di elementi di riflessione che mostrano di appartenere vividamente alla realtà della condizione umana. I temi di fondo enucleati da questa realtà si ergono a limiti di tolleranza della natura e sono quelli, urgenti e decisivi, della nutrizione, della finitezza delle materie prime e delle risorse energetiche ed infine (ciò che l’entropia muove il filosofo tedesco a definire) “l’ultimatum del problema termico”37.

Per gestire tutto ciò – afferma Jonas – “è richiesta una nuova scienza che tratti l’enorme complessità delle interdipendenze. Finché non siano disponibili qui proiezioni sicure, la cautela, soprattutto in caso di irreversibilità di alcuni processi avviati, costituisce il lato migliore del coraggio e in ogni caso un imperativo della responsabilità (…) Su questo punto l’insicurezza potrà essere il nostro destino permanente: il che comporta delle conseguenze morali”38.

E’ a questo punto opportuno isolare alcuni elementi chiave del pensiero di Jonas che appaiono assai rilevanti nella nostra prospettiva di analisi. Il primo è che il suo Verantwortung Prinzip dichiara di rifiutare, perché inutile a perseguire lo scopo prefissosi, la prospettiva temporale

35 Le assonanze con il pensiero di Hannah Arendt, che con Jonas condivise la

formazione heideggeriana (si veda R.WOLIN, Heidegger’s Children: Hannah Arendt,

Karl Lowith, Hans Jonas, and Herbert Marcuse, Princeton, N. J., Oxford, 2001), si

rendono qui palesi, M.REVAULT D’ALLONNES, Vers une politique de la responsabilité.

Une lecture de Hannah Arendt, in Esprit, 1994, n. 11, 49, 60.

36 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 278 ss., spec. 281, ove si afferma

che per conseguire il miglioramento delle condizioni dell’uomo “è assolutamente necessario liberare le richieste di giustizia, bontà e ragione dall’esca dell’utopia” (corsivo originale).

37 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 238-43.

38 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 244 (corsivo originale).

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[accesi dalla consapevolezza di una minaccia all’identità umana] prima

della responsabilità giuridica, responsabilità di cui, come si è visto, vengono passati in rassegna i limiti costitutivi39.

Inoltre, la vocazione universalizzante e la dimensione temporale a cui guarda l’imperativo jonasiano, ad un tempo collettivo e rivolto al futuro40, fanno sì che esso eviti in modo esplicito di rivolgersi kantianamente al comportamento dei privati41, ed elegga la sola sfera pubblica a sua destinataria elettiva42.

Ancora, Jonas diffida della politica, la cui realtà operativa è tradizionalmente fatta di decisioni “su ciò che è opportuno fare o tralasciare nel presente”, e ne denuncia l’incapacità di computare adeguatamente gli effetti futuri della decisione43.

Diventa così chiara la necessità di un principio sovraordinato, che costringa l’agire politico e legislativo a fare i conti con il meccanismo che in fondo rappresenta l’intuizione fondante del pensiero di Jonas: la capacità disvelatrice del sentimento della paura.

La scoperta della condotta ideale verso cui indirizzare l’azione collettiva si determina dalla necessità di “consultare i nostri timori

39 Un’accurata analisi di questo aspetto del pensiero jonasiano è in M. A.

FODDAI, Le ragioni della responsabilità, in L.LOMBARDI VALLAURI (studi per una

ricerca coordinata da), Logos dell’essere. Logos della norma, Bari, 1999, 1199, spec. 1236, ove l’Autrice enuclea in modo estremamente chiaro l’idea della “responsabilità progetto” promossa da Jonas.

40 Il dovere e la responsabilità verso le prossime generazioni sono un

imperativo categorico di cui l’Autore esplicita le fondamenta filosofiche (JONAS, Il

principio responsabilità, op. cit., 49 ss.), ponendo le basi per un dibattito destinato a

rivoluzionare il pensiero giuridico, H. P. VISSER’T HOOFF, Obligation to Future

Generation: Revolution in Social and Legal Thought, in Z.BANCOWSKY, Revolution in

Legal Thought, Aberdeen, 1991, 183, 184; W. BECKERMAN, The Precautionary

Principle and Our Obligations to Future Generation, in J.MORRIS (ed.), Rethinking

Risk and the Precautionary Principle, Oxford, 2000, 46.

41 S.GOYARD-FABRE, Responsabilità morale et responsabilité juridique selon

Kant, in 22 Archives de philosophie du droit, 1977, 113.

42 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 17.

43 La denuncia è rivolta alla logica del “sappiamo troppo poco per sacrificare il

noto in vista dell’ignoto” che attanaglia l’agire del politico, JONAS, Il principio

responsabilità, op. cit., 38-39. 20

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che i nostri desideri, per accertare quello che veramente apprezziamo”44.

In fondo, gli onori intellettuali che si tributano oggi su scala mondiale e nelle più disparate prospettive culturali all’euristica della paura jonasiana possano spiegarsi anche alla luce della efficacia con la quale al termine della sua opera l’Autore ha riassunto l’irresistibile vocazione ideale di questa sua intuizione: “[l]’individuo consapevole dovrà ogni volta porsi nell’ottica di poter desiderare in seguito (col senno di poi) di non aver agito o di aver agito diversamente. La paura non si riferisce a questa incertezza, oppure vi fa riferimento solo in quanto circostanza concomitante. Non permettere che la paura distolga dall’agire, ma piuttosto sentirsi responsabili in anticipo per l’ignoto costituisce, davanti all’incertezza finale della speranza, proprio una condizione della responsabilità dell’agire: appunto quello che si definisce il ‘coraggio della responsabilità’”45.

E’ dunque esplicito nel ragionamento seguito dal filosofo tedesco l’impiego di un meccanismo psicologico di retroazione (la paura), che - per quanto appaia configurato in modo tale da rendersi operante per il futuro, senza avere più bisogno di fondare il suo funzionamento sull’incentivo promosso dall’orizzonte temporale entro cui prende corpo la logica della responsabilità giuridica (far sì che ci si ponga nell’ottica di desiderare con il senno di poi di aver tenuto una condotta diversa) – resta un meccanismo che permette di dar voce ad una dinamica cognitiva fondata su basi sociali e che, come tale, si rivela capace di dare concretezza a quella visione del rapporto tra tecnologia e diritto a cui, come abbiamo visto, Mengoni ha alluso, offrendo all’interprete un punto d’arrivo aperto ad una speranza che viene dalla condizione umana, a cui forse persino il giurista persuaso dai poteri inattaccabili del diritto positivo, non può (fingere di) non appartenere46.

44 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 35. E chissà che questa

affermazione non abbia un sostrato nelle vicende che appartengono alla biografia del grande pensatore ebraico, H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz: una voce

ebraica, Genova, 1989.

45 JONAS, Il principio responsabilità, op. cit., 285 (corsivo originale).

46 Rileggendo Eraclito, in un carteggio personale con Irti, Mengoni, poco prima

della sua scomparsa, riaffermò le sue intime convinzioni, così vicine alla filosofia jonasiana, osservando che “il legame originario del nomos con l’appropriazione della

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Come anticipato, dopo l’opera fondativa di Jonas, il secondo contributo fondamentale alla stesura del manifesto intellettuale del principio di precauzione va ascritto alle riflessioni di Ulrich Beck, le quali, come si vedrà a momenti, sviluppano gli elementi fondanti della filosofia jonasiana nel quadro di un’analisi sociopolitica.

Nel suo “La società del rischio” il sociologo tedesco è stato fra i primi a teorizzare in modo compiuto le implicazioni determinate dal fenomeno della globalizzazione del rischio nel mondo contemporaneo. Muovendo da un nucleo duro di considerazioni di fondo non dissimili da quelle che avevano istigato la teorica di Jonas (l’incalcolabilità e l’irreversibilità delle conseguenze suscettibili di essere prodotte dall’applicazione della pura razionalità tecnologica contemporanea ed il dovere ineludibile di computare gli effetti di queste conseguenze sulle generazioni future47), Beck ragiona sulla dimensione globale del rischio e sul modo in cui i poteri e le competenze che la società impiega per governarlo debbano essere riorganizzati alla luce di questa consapevolezza48.

La prima, ineludibile, tappa di questa riorganizzazione passa attraverso il riconoscimento che la razionalità scientifica, con la sua pretesa di ergersi ad unico strumento capace di misurare obiettivamente il rischio, vada coniugata con la razionalità sociale e con la capacità di quest’ultima di sintetizzare i valori da porre a fondamento delle analisi del rischio, per ammettere e valorizzare l’interdipendenza che lega questi due concetti: “le indagini scientifiche sui rischi dello sviluppo industriale rimangono dipendenti da aspettative sociali ed orizzonti di valore come, per converso, i conflitti e le percezioni sociali dei rischi dipendono dalle argomentazioni scientifiche (…) [per cui] si potrebbe

terra trascende, con la mediazione di vissuti umani impregnati di idee di valore, in un legame di natura etica (bene qualcuno ha detto che non c’è etica senza etologia), non dato, ma costruito responsabilmente dall’uomo (…)”, N.IRTI, Una lettera di Luigi

Mengoni, in Riv. it. dir. proc. civ., 2002, 1155, 1156-57.

47 “Il centro della coscienza del rischio non sta nel presente, bensì nel futuro.

Nella società del rischio il passato perde il potere di determinare il futuro”, così BECK,

La società del rischio, op. cit., 44.

48 BECK, La società del rischio, op. cit., 31.

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dire che la razionalità scientifica senza quella sociale rimane vuota, ma che la razionalità sociale senza quella scientifica rimane cieca49.

Ma anche la politica finisce per subire gli effetti di questa riorganizzazione. I soggetti di una dimensione politica organizzata in classi, funzionali alla tradizionale polarizzazione del conflitto fondata sul problema della scarsità e del superamento delle disuguaglianze nell’allocazione delle risorse, compongono il loro conflitto attraverso routines di negoziazione ormai storicamente collaudate50.

Tutto ciò si rivela però inadeguato ed è costretto a riplasmarsi in una nuova solidarietà della paura, allorché il sistema valoriale della società diseguale cede il passo ai nuovi valori di una società globalmente insicura51.

Nemmeno le disuguaglianze internazionali, infatti, consentono di delocalizzare appieno il rischio, se è vero che quest’ultimo – in una dinamica che il sociologo tedesco ben caratterizza come “effetto boomerang” – è capace di tornare laddove viene generato, proprio come i pesticidi, che, veicolati dai prodotti agricoli, ritornano alle nazioni di origine delle società produttrici che li smerciano ai paesi in via di sviluppo52, anche se nel frattempo il tentativo sistematico di delocalizzare il loro rischio produttivo può tragicamente esitare in catastrofi come quella di Bhopal53.

49 BECK, La società del rischio, op. cit., 40 (corsivo originale). 50 BECK, La società del rischio, op. cit., 63.

51 Il senso profondo di questa osservazione nell’ambito dell’irreversibile

processo di globalizzazione dell’economia (e dei problemi posti dalla sua governance) finisce per risolversi nella necessità di spodestare quel pensiero dominante, che il premio Nobel J.E.STIGLIZ, La globalizzazione ed i suoi oppositori, Torino, 2002, 225,

è giunto a criticare frontalmente, definendolo in termini di “fondamentalismo del mercato”, alla luce di una cognizione in presa diretta, appresa nella sua qualità di ex

senior vice president della Banca mondiale, la ‘regina’ di quel gruppo di istituzioni

che M. R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella

società transnazionale, Bologna, 2000, 110, definisce “le istituzioni fattuali della

globalizzazione”.

52 BECK, La società del rischio, op. cit., 58.

53 Su cui l’analisi a più voci coordinata da S.JASANOFF (ed.), Learning from

Disaster: Risk Management after Bhopal, Philadelphia, 1994. 23

(32)

Il passo successivo del pensiero di Beck è volto a dimostrare ciò che egli definisce “la fine dell’antitesi fra natura e società”54.

Il fine ultimo è ancora una volta quello di rivendicare l’importanza di sviluppare la capacità sociale di anticipare i pericoli, dimostrando come i problemi ambientali e le minacce all’ecosistema assumano le vesti di problemi sociali ancor prima di venire completamente sceverati ed asseverati dalla valutazione scientifica55.

La convinzione che la razionalità scientifica detenga l’unica parola per individuare e descrivere il rischio56, fissando valori massimi consentiti od insistendo sulla necessità di rigorose spiegazioni causali, viene combattuta frontalmente dal sociologo tedesco, descrivendo il fallimento strutturale che in molte occasioni storiche l’approccio metodologico ed istituzionale delle scienze, nella loro crescente ed iperspecializzata divisione delle competenze disciplinari, ha rivelato nel modo di interpretare l’imperativo che tale approccio presuppone.

La cecità della razionalità tecnico-scientifica trova quindi una prima spiegazione nella unidirezionalità economica che la contraddistingue, e che la spinge a ricercare le possibilità di sfruttamento economico come missione primaria, per relegare il rischio

54 BECK, La società del rischio, op. cit., 105.

55 Si tratta di un passaggio che, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo,

mette a nudo un elemento chiave della logica applicativa che oggi si tende a riconoscere al principio di precauzione.

56 Una recente analisi volta a misurare empiricamente in che modo un esteso

campione di esperti di sicurezza alimentare, istituzionalmente addetti alla comunicazione con l’opinione pubblica, valuti la capacità di concettualizzare il rischio della propria ‘controparte’, ha offerto conferma che, alla luce della propria rappresentazione delle modalità attraverso la quale i non addetti ai lavori elaborano l’incertezza scientifica, gli esperti preferiscono attuare strategie comunicative tendenti a semplificare l’informazione, preferendo strategicamente negare, dissimulandolo, l’esistenza di uno stato di incertezza scientifica, nella convinzione che un eccesso comunicativo possa sobillare paure e false rappresentazioni della realtà, M.BRENNAN

et al., The Views of Scientific Experts on How the Public Conceptualize Uncertainty, in 6 J. Risk Research 75 (2003).

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