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L'ADOLESCENZA NELL'UNIVERSO ROM: CONCEZIONI SCIENTIFICHE, RETORICHE E STRUMENTI D'INDAGINE

2.4 Adolescenti rom e seconde generazioni: similitudini e differenze

Le “seconde generazioni”: una categoria ambigua per una fenomenologia complessa

Per quanto ampiamente utilizzata nel dibattito pubblico e nelle produzioni scientifiche, la formula “seconde generazioni” non ha una definizione univoca e si presta a raccogliere una gamma di situazioni sociali assai diversificate. Sia i lavori di sintesi pubblicati nel nostro paese73, sia i

numerosi studi di caso74, segnalano la difficoltà di definire la classe di soggetti che il termine

dovrebbe indicare. Riccio sintetizza il problema affermando che: “possono infatti confluire in tale categoria concettuale soggetti con percorsi tra loro assai diversi” (2009: 7).

Possiamo assumere come punto di partenza del nostro percorso critico la definizione di “figli dell'immigrazione” proposta da Ambrosini (2004); questa formulazione focalizza l'attenzione su quella fascia di popolazione immigrata che non è stata protagonista dei percorsi di emigrazione e di insediamento, che non ne ha condiviso le motivazioni e le cause, ma che, in conseguenza dell'evoluzione del flusso migratorio non più composto soltanto dal singolo lavoratore ma da interi nuclei familiari75, si trova a costruire il proprio percorso sperimentando quella serie di difficoltà e

limitazioni connesse allo status di immigrato, sia dal punto di vista amministrativo che sociale. Per quanto utile, questa prima perimetrazione porta con se una gamma ancora molto differenziata di situazioni e percorsi. In primo luogo va considerata la diversità delle storie di immigrazione entro cui i giovani sono collocati, una diversità che riguarda innanzitutto il contesto socioculturale di provenienza, ma anche le ragioni e la forma che la migrazione ha assunto, e, di seguito, la profondità storica del fenomeno e dei suoi effetti sul contesto di partenza e su quello d'approdo. In tal senso la condizione dei “figli dell'immigrazione” va ricollocata entro quel quadro complesso che la migrazione produce in quanto “fatto sociale totale” (Sayad 1999) che investe in maniera specifica ciascun contesto di emigrazione al pari di quelli di immigrazione: “Immigrazione qui ed emigrazione là sono due facce indissociabili della stessa realtà, non possono essere spiegate l'una senza l'altra.” (Sayad 1999: 9).

Un altro fattore centrale di differenziazione, ampiamente segnalato nella letteratura specialistica, riguarda il momento in cui i giovani sono arrivati nel contesto d'approdo. Tale variabile produce 73 Si vedano i lavori curati da Ambrosini e Molina (2004), Valtolina e Marazzi (2006), e Ambrosini e Caneva (2009).

74 Limitandoci ancora al nostro paese, si può riconoscere che l'interesse sul tema si è concretizzato in una ampio e crescente numero di studi, spesso centrati su contesti locali e sulle questioni legate al successo e all'insuccesso scolastico; una prima e non esaustiva rassegna può comprendere i lavori di Guerzoni e Riccio 2009; Pazzagli e Tarabusi 2009; Patuelli 2005; Chiodi e Benadusi 2006; Queirolo Palmas 2006; Ambrosini e Queirolo Palmas 2005; Bosisio, Colombo Leontini, Rebughini 2005; Moro 2005; Favaro 2004; Giovannini 2004; Cologna e Breveglieri 2003; Andall 2002; Giacalone 2002; Braccini 2000; si vedano inoltre i due numeri che nel 2011 (n. 16, vol. 3 e 4) la rivista Journal of Modern Italian Studies ha dedicato a questo tema raccogliendo numerosi contributi di sociologi e antropologici.

differenze rilevanti all'interno delle cosiddette “seconde generazioni” perchè ha a che fare con i protagonisti, la tempistica e la localizzazione dei processi di socializzazione dei minori, a partire dalla riconfigurazione del rapporto con i genitori. Si può considerare, a titolo esemplificativo, la differente condizione che sperimentano i giovani stranieri nati in Italia da una coppia di migranti, quindi socializzati fin dalla loro infanzia nei contesti della società d'approdo in presenza dei genitori, rispetto a quella degli adolescenti che arrivano nel nostro paese in piena adolescenza, o comunque dopo aver vissuto una lunga fase della loro vita in patria, senza i genitori naturali. Questo secondo fattore di differenziazioni all'interno della categoria “seconde generazioni” ha stimolato la produzione di diverse ipotesi. Lo studioso francese Rumbaut (1997, si veda anche Portes e Rumbaut 2001) ha proposto di utilizzare una scala decimale che dovrebbe permettere di rappresentare numericamente le diverse età in cui si è effettuata l'esperienza migratoria e quindi il diverso grado di immersione nella società d'accoglienza. Favaro (2000) ha formulato una distinzione fra sei principali sottocategorie delle seconde generazioni, comprendendovi anche dei segmenti che non sempre vengono considerate come parte di questa categoria: i minori stranieri nati in Italia, quelli ricongiunti, i minori arrivati da soli nel nostro paese, i minori rifugiati, quelli adottati attraverso canali internazionali e, infine, quelli figli di coppie miste. Focalizzando l'attenzione su una precisa fascia all'interno delle seconde generazioni, Marazzi (2006) ha proposto di identificare con la categoria degli in-beetwen coloro i quali hanno sperimentato la migrazione nell'età dell'adolescenza. Più recentemente, Ambrosini e Caneva (2009) hanno proposto di sostituire il termine “seconde generazioni” con quello di “cross generation”, o “generazione ponte” che permetterebbe di individuare le caratteristiche specifiche di questa categoria non più negli elementi di tipo storico-biografico, ma in quella particolare condizione culturale che deriva dal fatto di trovarsi in una regione di mezzo fra contesti e influenze socioculturali.

Anche affrontando soltanto la questione di quali siano i soggetti sociali che compongono le “seconde generazioni”, appare chiaro che questa categoria contiene una pluralità di situazioni e di percorsi. La riduzione di questa pluralità di variabili entro una immagine univoca e semplificata rischia di occultare tratti significativi dei percorsi migratori o di sovrastimarne altri, come ad esempio quelli legati alla provenienza e alla differenza culturale. In tal senso risulta condivisibile il suggerimento di Demarie e Molina (2004) che propongono di utilizzare sempre la formulazione “seconde generazioni” almeno nella versione al plurale, evitando così di ricadere in un uso riduttivo del concetto.

Entro questa pluralità di variabili e di casi, la letteratura scientifica ha comunque rilevato alcune specifiche dinamiche sociali e culturali che, anche se in maniera disomogenea, coinvolgono questa fascia della popolazione migrante.

Possiamo usare di nuovo come punto di partenza quello della differenza fra le esperienze vissute dalla generazione che per prima si è insediata nel contesto d'approdo e quella successiva. Seguendo l'analisi di Ambrosini (2004), l'elemento essenziale di differenza consiste nel fatto che né i giovani nati in Italia da genitori immigrati, né quelli che si sono ricongiunti dopo aver vissuto una parte della loro vita nel contesto di provenienza, hanno potuto condividere il progetto migratorio. I giovani si trovano coinvolti in questa esperienza senza che abbiano necessariamente maturato le motivazioni o sentito la necessità di un così radicale mutamento di vita. Come affermano Fulvia Antonelli e Giovanna Guerzoni:

Se per la prima generazione di migranti si parla di cultura dell'emigrazione76, ovvero di

una scelta migratoria che trae la sua legittimazione nel contesto sociale delle comunità di origine ed i cui esiti positivi, soprattutto in termini di avanzamento economico, sono il segno di un successo sociale che deve essere affermato e mostrato lì, nel paese da cui si migra poveri e sconfitti e si sogna di tornare vincitori, per i figli dell'immigrazione è diverso. (2009: 49)

Questa modalità di coinvolgimento differito nell'esperienza migratoria in una significativa differenziazione nel rapporto che le diverse generazioni sviluppano con il contesto di provenienza e con quello d'arrivo. Se, in molti casi, i protagonisti della migrazione mantengono un fondamentale legame affettivo con la loro patria, che li porta sovente a progettare la migrazione in funzione di un ritorno più o meno prossimo, oppure ad investire nel contesto di partenza le risorse guadagnate nel contesto d'approdo, i giovani possono invece sviluppare un legame che è più di natura simbolica con il contesto di provenienza, vista l'assenza, parziale o totale, di rapporti e punti di riferimento solidi (Marazzi 2006). Tale legame debole può tramutarsi in un sentimento di distacco e di disaffezione rispetto al contesto di provenienza; un sentimento prodotto, spesso, dalla marcata differenza di possibilità fra i due ambiti di vita, e dalla maturazione di aspettative e desideri che li proiettano decisamente nel modello di vita della società ospitante. Al contempo, però, Tarabusi segnala anche la dinamica opposta: “Per i giovani che sono nati qua sembra manifestarsi anche l'esigenza di costruire un'immagine positiva del contesti di origine dei genitori” (2009: 153), un'esigenza che, anche se non sostenuta da esperienze e ricordi personali, porta al recupero di immagini e rappresentazioni attraverso la ricerca di informazioni sull'attualità di quel paese e il mantenimento di contatti con coloro i quali sono rimasti in patria.

76 La formula “cultura della migrazione” appartiene alla storia degli studi socioantropologici almeno dai primi anni Sessanta ed è stata oggetto di numerose critiche e ripensamenti; una ricostruzione delle tappe principali del dibattito scientifico si può ritrovare in Cingolani (2009: 21-25).

In maniera complementare, i giovani migranti possono sviluppare un diverso rapporto anche con il contesto d'approdo. Da un lato, come afferma Ambrosini (2004), per i giovani il percorso di inserimento può risultare per certi versi più semplice rispetto alle fatiche sperimentate dai loro genitori e può produrre una ridefinizione dei rapporti all'interno del nucleo familiare. Come afferma Bruno Riccio:

[…] emerge da alcune ricerche in Italia che, anche a causa della più rapida acquisizione della lingua e dei linguaggi (istituzionali, organizzativi) sono a volte gli stessi giovani a svolgere un ruolo di mediazione informale nei confronti delle istituzioni dei contesti d'approdo, con conseguenti ri-negoziazioni dei rapporti di potere in ambito familiare. (2009: 10)

Questa maggiore facilità comunicativa, spesso frutto dell'esperienza scolastica che i genitori non hanno avuto nel contesto d'approdo, e, in generale, della maggiore facilità con cui i giovani possono acquisire conoscenze e competenze sulla società ospitante, ha il suo contraltare, come sottolineano Queirolo Palmas (2006) e Demarie e Molina (2004), in quei limiti normativi che nel nostro paese costringono anche coloro che sono nati in Italia nella condizione amministrativa di stranieri, senza fornire certezze rispetto alla condizione in cui si troveranno una volta raggiunta la maggiore età. La facilità nello stabilire rapporti con il contesto di provenienza può costituire, inoltre, un fattore potenziale di ulteriore differenziazione, se non di vero e proprio conflitto, fra genitori e figli della migrazione. I modelli di autorità e di comportamento che i primi adottano possono, infatti, risultare divergenti, se non in contraddizione, con l'esperienza quotidiana dei giovani, aggravando in questo modo la sensazione di una distanza che non riguarda soltanto il gap generazionale, ma quella che Zhou ha definito una “dissonanza generazionale” (1997). Nell'analisi di Tarabusi, tale situazione può produrre una riconfigurazione dei conflitti fra genitori e figli all'interno dell'ambito familiare:

Se il conflitto con i genitori rimanda nei discorsi delle utenti italiane a dinamiche tipiche dell'età adolescenziale […] le storie delle ragazze straniere ci invitano invece a focalizzare l'attenzione sulle esperienze che le famiglie migranti si trovano a vivere nel contesto d'approdo. Si evidenzia una preoccupazione forte da parte dei genitori riguardo al fatto che le figlie, avendo trascorso tutta la vita o gran parte di essa in Italia e frequentando solitamente coetanei italiani, possano assumere i modelli e gli stili di vita propri della società ospitante, allontanandosi dai valori e dalle tradizioni culturali della comunità d'origine. (2009: 135)

Questa distanza può risultare in maniera ancora più evidente se si guarda al progressivo divaricamento di aspettative e desideri fra le diverse generazioni della migrazione. I genitori che per primi sono arrivati nel nostro paese hanno, infatti, accettato di vivere in condizioni disagiate, condividendo l'alloggio con i connazionali, e accettando impieghi di bassa retribuzione, spesso senza alcuna regolarizzazione amministrativa77. Le seconde generazioni, invece, che non hanno

condiviso né le motivazioni né le difficoltà dell'immigrazione, e che si trovano a vivere e a immaginare il loro futuro accanto ai loro coetanei autoctoni, possono sviluppare un sistema di aspettative e un progetto per il futuro che risulta estremamente lontano da quello dei loro genitori. Si tratta di desideri e aspettative cariche però di contraddizioni: le possibilità concrete che i giovani migranti hanno di superare il fascio di occupazioni in cui si realizza l' inclusione “subalterna” o “subordinata” dei loro genitori (Ambrosini, 2001, Cotesta 2003, Pompeo 2007) sono minime, mentre rimangono intatti i confini normativi che non facilitano l'uscita dei giovani stranieri dalla condizione di precarietà e instabilità in cui si trovano.

Dal disagio identitario alle trasformazioni socioculturali

Questi elementi di differenza fra le prime e le seconde generazioni dell'immigrazione, con i primi a rappresentare l'immigrato “wanted but not welcome” (Zolberg 1997), e i secondi privi di una definizione e di una funzione sociale, hanno spinto molti analisti verso un atteggiamento di preoccupazione, se non di vero e proprio pessimismo, fino a raffigurare i giovani figli di immigrati come “una bomba sociale ad orologeria” (Bovenkerk 1973, citato in Barbagli 2002). Rispetto a questa allarmante immagine, la fenomenologia delle seconde generazioni, per come ci viene restituita dal corpus di studi empirici che va prendendo forma nel nostro paese, appare sicuramente più complessa e contraddittoria.

Una parte dei lavori di terreno, ad esempio, hanno messo in evidenza come l'utilizzo di alcune delle risorse materiali e simboliche della comunità di provenienza e quello delle possibilità offerte dal contesto d'approdo possono funzionare in maniera complementare come strumenti essenziali per garantire il positivo inserimento dei giovani. Con riferimento alla decennale esperienza dell'immigrazione verso gli Stati Uniti, Portes, Fernandez Kelly e Haller (2004) mostrano come il mantenimento di un legame forte con la comunità dei connazionali, assieme ad una serie di “fattori di background” che riguardano il nucleo familiare, le forme di inserimento della prima generazione e il capitale umano e sociale a loro disposizione, possano costituire una risorsa fondamentale per il 77 Impieghi Pesanti, Pericolosi, Poco Pagati, Penalizzati socialmente, secondo la formula delle 5 P mutuata

successo scolastico e lavorativo dei giovani. Gli studiosi statunitensi fanno riferimento sia a legami di tipo simbolico, come il sentimento di una comune appartenenza fra connazionali che indirettamente sostiene l'autorità familiare e funziona come un rinforzo fondamentale nel processo di costruzione dell'identità adulta, sia ai legami sociali con i connazionali, che spesso rappresentano il principale deposito di capitale sociale nella ricerca di un posto di lavoro o per l'avvio di una impresa. Tali dinamiche danno forma a quella che lo stesso Portes (1996, si veda anche Portes e Zhou 1993, Portes e Rumbaut 2001) ha definito “acculturazione selettiva”, ovvero quella tendenza che coniuga il mantenimento di alcuni tratti e caratteristiche, soprattutto in campo religioso e culturale, della società di provenienza, con l'acquisizione di competenze e abilità che sono necessarie al successo dell'immigrazione nella società ospitante.

Eppure la stessa tendenza al mantenimento di vincoli forti con il gruppo di connazionali può assumere tratti e produrre esiti assai diversi. Diversi autori hanno segnalato come questo tipo di ripiegamento possa condurre i giovani ad assumere posizioni in campo politico e religioso addirittura più fondamentaliste ed ortodosse di quelle dei propri genitori; si tratta della costruzione di quelle che Tarabusi definisce “identità reattive” (2009: 135) che si sostanziano nella ripresa di modelli tradizionali della società d'origine in contrapposizione con quelli proposti dalla società d'approdo (cfr. anche Sali, 2008). In maniera diversa Queirolo Palmas, nel suo studio sul fenomeno delle bande di giovani latinos a Genova (2005a e b), mostra come la riorganizzazione di legami e modalità di rapporto fra sudamericani assuma la forma di una vera e propria “invenzione” che riutilizza simboli e radici su scala tricontinentale e costituisce per i giovani figli di immigrati ecuadoregni una delle poche possibilità di costruzione di una identità sociale riconoscibile.

L'analisi di questa serie di assetti ed equilibri diversi fra le diverse influenze culturali ha rappresentato un fondamentale punto di avanzamento nell'analisi delle dinamiche socioculturali in cui i figli dell'immigrazione si trovano. Quest'analisi ha cioè reso possibile dell'idea secondo cui questi giovani vivono una condizione di “disagio” o di “sospensione identitaria” come

prodotto della compresenza, e spesso conflittualità, delle due cornici culturali di riferimento, quella del nucleo familiare e quella del contesto d'accoglienza delle generazioni primo-migranti. In altri termini, la durata dell'esposizione al contesto d'approdo porterebbe i giovani di seconde generazioni a trovarsi costantemente “in bilico” tra le richieste, i riferimenti e i modelli culturali della terra di origine e quelli del contesto in cui spesso sono nati e cresciuti. (Pazzagli, 2009: 24)

identitaria” rischia di deformare l'analisi applicando delle etichette che riducono la varietà e la singolarità dei percorsi entro una fenomenologia sostanzialmente patologica. Essa discende inoltre da una serie di assunti che andrebbero invece scientificamente discussi: la tesi del disagio identitario presuppone infatti che sia di per se patologica la mancata adesione totale ad un singolo universo culturale, a sua volta definito per principio in termini di coerenza e di omogeneità. Tale lettura mette indirettamente all'opera una versione reificata dell'appartenenza culturale, considerando le culture come universi statici, cui non si può che aderire totalmente, senza alcuna possibilità né di critica né di differenziazione o di reinterpretazione individuale. Come afferma Pazzagli, la tesi del “disagio” o della “sospensione identitaria” si basa su

una concezione statica ed essenzialista dell'identità in base alla quale i bisogni e le azioni sociali di questi giovani sarebbero determinati dalla compresenza di due modelli culturali, intesi come essenze omogenee, predefinite, contrapposte le une alle altre e di cui le rispettive comunità sarebbero inconsapevolmente portatrici. (2009: 25)

In tal senso l'unica opzione disponibile ai giovani figli dell'immigrazione sarebbe quella fra una progressiva assimilazione come prodotto dell'irreversibile processo di acculturazione e di perdita dei tratti del contesto d'origine, oppure il rifiuto.

Le capacità dei singoli individui, le specificità delle loro storie e dei contesti che attraversano sarebbero, in quest'ottica, ridotte a variabili prive di conseguenza, in ragione della forza, meccanica e disincarnata, con cui agirebbero le categorie di cultura e di appartenenza. Seguendo Callari Galli, possiamo affermare che

queste facili e accattivanti etichette avrebbero schiacciato la ricchezza e la molteplicità dei percorsi, dei desideri e dei vissuti soggettivi delle giovani generazioni che quotidianamente attingono ad una varietà di codici, di stili di vita e di modelli culturali e identitari difficilmente riconducibili alla univoca e statica scelta identitaria tra due poli culturali, quello dei padri e quello dei figli. (2009: 67-68)

In opposizione a quella lettura essenzialista che, con le parole di Hannerz, “sembra considerare gli esseri umani in quanto prodotti e non in quanto produttori di cultura” (1992: 24), la letteratura di stampo socioantropologico ha assunto invece una prospettiva diversa, assumendo come punto di riferimento quello che ancora Pazzagli definisce “il carattere articolato, negoziale e contestuale dell'identità” (2009: 25), ovvero la capacità dei singoli individui di muoversi all'interno di una

gamma complessa, a volte anche contraddittoria, di riferimenti e stimoli provenienti da orizzonti culturali diversi, costruendo e agendo delle inedite sintesi sulla base della propria lettura del contesto e delle opportunità presenti.

Nel panorama degli studi di terreno possiamo individuare alcuni autori che si sono soffermati su quelli che possiamo definire come i “vantaggi della doppia appartenenza”, sottolineando come in alcuni casi la possibilità di relazionarsi con più codici, linguistici, culturali e relazionali, possa rappresentare per il giovane una risorsa attraverso la quale costruire un proprio, personale, rapporto sia con le tradizioni del contesto di origine, sia con gli stimoli della società d'approdo (Benadusi e Chiodi 2006, Tarabusi 2009).

Questa lettura della condizione dei giovani figli dell'immigrazione appare particolarmente utile perchè, evitando di presupporre le lenti del “disagio” e della “sofferenza” e di utilizzare l'appartenenza a universi culturali come una sorta di destino obbligatorio, permette invece di riconoscere i percorsi individuali come prodotto di processi locali e singolari di negoziazione fra i vari riferimenti culturali. Processi che necessariamente non si riducono alla scelta obbligata fra due opzioni alternative e inconciliabili, ma che producono nuovi assetti ed equilibri, e si realizzano attraverso un costante, a volte anche contraddittorio, lavorio di composizione e ricomposizione di quelle che Ruba Salih, analizzando i percorsi di giovani musulmane, definisce soggettività multiple (2006).

La prospettiva teorica entro cui questi studi sulle seconde generazioni si inscrivono è quindi quella che rilegge il tema delle appartenenze e delle pratiche culturali a partire da una serie di concetti che sono stati elaborati per analizzare le situazioni di contatto superando la versione riduttiva che ne