• Non ci sono risultati.

Città di Dio e città terrena

4. Agostino e Orosio

Il De civitate dei rappresenta la più grande sintesi del pensiero cristiano della tarda Antichità che si confrontava con una romanità indirizzata verso profonde trasformazioni. Il risultato furono nuovi schemi interpretativi e una nuova concezione della storia, che può essere riassunta in queste caratteristiche:

- Le Scritture godono della massima autorità rispetto alle altre fonti. Agostino è consapevole che molti racconti biblici vanno interpretati in senso allegorico e profetico, anche se prevale una lettura storica della Bibbia.

- La storia è universale e trascendente:45 fondata sulle due città mistiche, essa va al di là di qualunque popolo, cultura, istituzione politica e oltre i confini del mondo stesso, iniziando con la creazione e terminando con la fine dei tempi: la storia nel suo scorrere non ha alcun valore in sé e solo nel momento in cui si annulla acquista il proprio significato.46

- Nel De civitate dei si fa molto sentire la polemica antipelagiana: la grazia e la predestinazione sono infatti elementi costitutivi della storia umana, così come la provvidenza divina.

- La storia ebraica ha preminenza assoluta sulla storia degli altri popoli: quella egizia è praticamente assente così come sono appena accennati i Persiani e i Macedoni; la storia greca è presente nei termini di un confronto con Israele e di una trattazione sull’affermazione del politeismo e della sapienza filosofica, mentre uno spazio più ampio è riservato solo agli Assiri e ai Romani, visti come i principali rappresentanti della città terrena. La storia profana basata sulla libido dominandi, causa dell’imperialismo che ha provocato solo sciagure e ingiustizie, è fortemente condannata; allo stesso modo Agostino rifiuta le cronologie antiche, che attribuiscono al mondo già molti millenni di vita o adottano una visione ciclica del tempo.

- La venuta di Cristo è centrale nella storia del mondo, ma è un fatto totalmente indipendente dalle vicende di quel periodo – anche del popolo ebraico – di cui infatti Agostino si disinteressa. C’è una tensione della storia verso questo momento

45 Petruzzellis la definisce una «visione integrale della storia […] capace di fondere il senso del concreto con la coscienza dell’universale» (Petruzzellis, La visione agostiniana della storia, p. 2).

46 «It is from this end-point that the whole journey takes it’s meaning and all the sites along the way find their true significance. Without Augustine’s end without end, the effort expended to complete his narrative journey would be meaningless, or at least without direction» (MAIER Harry O., The End of the City and the City

fondamentale (testimoniata dalle numerose profezie su cui l’autore si dilunga nel libro XVIII) ma l’Incarnazione è legata esclusivamente all’intervento salvifico di Dio. - Nonostante la città terrena sia destinata al fallimento, i membri della città di Dio

ancora pellegrini sulla terra vivono in un mondo caratterizzato dalla presenza del male e del peccato, mentre la speranza e i veri valori sono propri nella vita eterna: questo pessimismo sulla vita e sulle istituzioni terrene che caratterizza il pensiero di Agostino (motivo per cui rifiuta una storia scandita dalla successione degli imperi e un’idea di salvezza “collettiva” tramite l’azione politica) è trasmesso anche alla vicenda storica, che, con la venuta di Cristo, è entrata nella sua ultima età avviandosi, nei tempi che solo Dio conosce, alla sua conclusione.

- La storia per Agostino è suddivisa in sei età, come i giorni della settimana e come le età dell’uomo. Il settimo giorno corrisponde all’ultima età, il sabato senza fine, meta della città di Dio.

Fissate le caratteristiche principali della storia nella visione agostiniana, possiamo tentare un confronto con l’idea di storia elaborata da Orosio nelle Historiae. Anticipato già nel 1844 dagli studi di Theodor von Mörner, Karl Zangemeister, in occasione della pubblicazione delle Historiae per il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum nel lontano 1882, mise in dubbio il principio, considerato da sempre come assodato, di considerare l’opera di Orosio come un’“appendice storiografica” del De civitate dei, a partire dal famoso praeceptum agostiniano: se una dipendenza ci fu, essa fu limitata. La convinzione che le opere andassero trattate in maniera autonoma si radicò fra gli studiosi del secolo scorso. Theodor E. Mommsen nel 1956 giunse alla conclusione che, fatta salva una certa dipendenza delle Historiae dai primi dieci libri del De civitate dei e l’intento apologetico a seguito del sacco di Roma del 410, Orosio e Agostino sono distanti nell’interpretazione sia dei singoli eventi che del percorso generale della storia. I due principali studi italiani su Orosio, quello del 1968 di Eugenio Corsini e quello del 1978 di Fabrizio Fabbrini, stanno sulla stessa lunghezza d’onda. Le occasioni in cui Orosio si rimette al giudizio del maestro, al di là del significato di facciata, mostrano forse, come in occasione del viaggio in Palestina, un eccessivo zelo dell’autore che sfocia quasi in una provocazione; il fatto che Agostino nella seconda parte del De civitate dei non nomini mai Orosio è forse la risposta a questo quesito, e inoltre alcuni passi agostiniani (De civitate dei XVII, 52 sull’interpretazione delle dieci persecuzioni e XX, 23 sulla profezia di Daniele sulla persecuzione dell’Anticristo) possono anzi essere letti in tono polemico.47

47 Questa ipotesi potrebbe essere rafforzata anche dal fatto che Agostino, in uno dei pochissimi passaggi del De

Mettendo in parallelo Agostino e Orosio, al di là della comune difesa dei christiana

tempora, ci troviamo quindi di fronte a due diverse concezioni della storia. Quelli che

seguono non rappresentano tutti gli elementi di paragone tra i due autori, ma sono sufficienti per mettere in luce questa differenza.

Agostino, con la sua forte visione mistica delle due città i cui membri vivono mescolati durante la vita terrena rimanendo però divisi in maniera irreversibile sulla loro destinazione finale, imposta tutto il percorso storico sulla base di questa separazione, concentrandosi infatti sulla storia biblica della salvezza. Impossibili da conciliare, le due città persistono contrapposte fino alla conclusione escatologica della storia, meta finale per coloro che abitano la città di Dio. Orosio è maggiormente rivolto alla vita in questo mondo, cercando un raccordo tra storia “sacra” e storia “profana”. Agostino, pur considerandola parte del disegno divino, condanna tutta la storia pagana, accentuando la frattura determinata dalla novità cristiana; Orosio invece la rivaluta, considerandola come “preparazione” dei

christiana tempora.

Le discordanze che si riscontrano a proposito del regno assiro mostrano delle differenze di vedute che vanno al di là del caso specifico. Agostino inizia la storia dell’impero assiro con Belo; Orosio invece, pur nominandolo, inizia dal figlio Nino, rifacendosi a Eusebio-Girolamo, costruendo i parallelismi Nino-Abramo e Augusto-Cristo che legano le istituzioni terrene alla storia della salvezza.

C’è una profonda differenza nei confronti della dottrina della successione degli imperi. Orosio la pone alla base del percorso storico, facendo di queste istituzioni terrene lo strumento privilegiato attraverso cui Dio dispiega il suo progetto di salvezza (la relazione tra Augusto e Cristo rappresenta l’apice di questo processo). Niente di tutto ciò invece si riscontra nel De civitate dei, in cui la dottrina degli imperi è presente nei termini di una successione da Babilonia a Roma come continuità della civitas terrena, con una connotazione tutt’altro che positiva; infine è assente un’idea di translatio imperii, per l’importanza molto relativa che Agostino attribuisce alla dignità imperiale.

I due autori sono distanti nell’interpretazione delle persecuzioni contro i cristiani. Agostino non è convinto né che non ci saranno altre persecuzioni fino alla venuta dell’Anticristo, né che furono dieci come le piaghe d’Egitto, perché furono di più e potrebbero essercene ancora. Agostino è in generale scettico verso gli eccessivi aritmetismi e i tentativi di comparazione troppo minuziosa degli eventi, che invece in Orosio non mancano:

primo era sicuramente una fonte più conosciuta e autorevole, ma il secondo aveva lavorato a Ippona, a stretto contatto con Agostino (cfr. Corsini, Introduzione alle “Storie”, p. 208-209).

Sed ego illa re gesta in Aegypto istas persecutiones prophetice significatas esse non arbitror; quamvis ab eis qui hoc putant, exquisite et ingeniose illa singula his singulis comparata videantur, non prophetico spiritu, sed coniectura mentis humanae, quae aliquando ad verum pervenit, aliquando fallitur.48

La differenza più importante è infine l’atteggiamento tenuto nei confronti della storia romana. L’evoluzione del pensiero di Agostino fu lunga e travagliata e la posizione del De

civitate dei, specialmente nella seconda parte dell’opera, è quella più matura e ostile verso

l’impero anche se, come si è visto per il libro XIX, c’è spazio per alcune “limature” che generarono non poche ambiguità. Nei primi libri l’atteggiamento nei confronti di Roma è talvolta ambivalente, di condanna ma anche di riconoscimento del romano come il “meno cattivo” impero dell’Antichità, che seppe mantenere una certa moralità e ottenere certi meriti politici (seppur legati ai beni terreni) ricompensati da Dio con la vastità e la longevità delle conquiste; nel tempo però queste virtù (onore, eroismo, fedeltà allo Stato ecc.) si corruppero, trasformandosi in sete di potere e libido dominandi.49 In questo Agostino e Orosio sono vicini ed entrambi convengono sul male che le politiche di conquista causarono ai popoli sottomessi ma lo spagnolo, sostenitore (sulla scia di Eusebio) del ruolo primario dell’istituzione politica nell’economia della salvezza, affidò a Roma, l’ultimo impero, un’importanza e una necessità che Agostino non fu mai disposto a concedere:50 se per Orosio lo Stato, una volta cristianizzato, contribuisce a instaurare già durante questa vita il Regno di Dio sulla terra, per Agostino la necessità delle istituzioni è conseguenza del peccato e il cristiano è tenuto a conviverci (in linea con le indicazioni neotestamentarie di Mt 22 e Rm 13) nei termini di un continuo compromesso e ricercando il male minore: la salvezza rimane sempre un fatto assolutamente individuale.51 La visione della realtà in Orosio è quindi ottimistica, che lascia spazio all’opera dell’uomo e alla trasformazione delle istituzioni (azzardando, si potrebbe parlare di un’idea di progresso); in Agostino, il proiettarsi della

48 Augustini De civitate dei XVIII, 52 (CCSL 48, p. 651): «Io però non penso che quegli eventi verificatisi in Egitto indichino profeticamente queste persecuzioni, anche se chi lo pensa pare stabilire confronti ingegnosi e precisi fin nei dettagli fra gli uni e le altre. Tutto questo non deriva da spirito profetico, ma da congetture della mente umana, che a volte coglie nel segno e a volte sbaglia» (Sant’Agostino, La città di Dio, trad. it. cit., p. 1131).

49 Cfr. BREZZI Paolo, La concezione agostiniana della Città di Dio e le sue interpretazioni medievali, “Rivista Storica Italiana”, n. 4, vol. 3 (1938), p. 70-73; Loi, Il “De civitate Dei”, p. 496-498 e POCOCK John G. A.,

Barbarism and Religion, vol. 3, The First Decline and Fall, Cambridge, Cambridge University Press, 2003,

p. 90.

50 Sulla Roma delle Historiae Pocock commenta: «The history of Rome, before and after Christian empire, is linked with sacred history and the history of the Church through providence. […] Christian empire from Augustus to Constantin is less proud and destructive, and to that extent more stable, that it was in the era of republican expansion; though persecutions and their punishment recur to remind us that Rome as Babylon is by no means extinct» (Pocock, Barbarism and Religion, vol. 3, p. 86-87).

51 Chiarificatrice è questa affermazione di Fabbrini: «Per Orosio l’uomo si salva nello Stato, attraverso le leggi e le istituzioni, mentre per Agostino l’uomo si salva nonostante le leggi, le istituzioni, lo Stato» (Fabbrini,

città celeste verso i beni ultraterreni e la gratuità del dono della grazia, che precede i meriti della persona tendendo a sminuire l’azione umana, generano pessimismo nei confronti della vita terrena e un atteggiamento di obbedienza quasi rassegnata ai poteri terreni.52 Questa visione negativa dello Stato può però portare a un altro risultato, ovvero al tentativo del suo superamento in favore dell’istituzione ecclesiastica, un esito probabilmente distante dalle idee di Agostino ma fondamentale per il conflitto tra sacertotium e imperium nei secoli centrali del Medioevo.53

Un’ultima osservazione va fatta sull’idea del declino di Roma, perché il peso dato dai due autori all’istituzione politica può far capire quale fosse la loro idea sul destino dell’impero. Orosio lo ritiene in trasformazione, mostrando una certa “simpatia” per i barbari come forze nuove da innestare in un impero che perdurerà fino alla fine dei tempi. Per Agostino Roma è in declino anche se la caduta non è imminente ma, dal punto di vista del cristiano, la fine o meno dell’impero romano non è particolarmente significativa: come abbiamo visto, la forma politica non è rilevante per la salvezza dell’uomo e sulla terra, a garantire l’unità della Cristianità, opera la Chiesa come unica istituzione universale.

Fabbrini suggerisce, e non a torto, di considerare queste due visioni come complementari e utili a evitare le reciproche derive estremistiche che si distanzierebbero dal pensiero dei rispettivi autori, ovvero da un lato il pericolo di una “progressività” della storia troppo legata a questo mondo; dall’altro un eccessivo fideismo che al contrario negherebbe qualunque utilità dell’esperienza terrena.54 Anche attraverso questo rapporto è possibile capire quali furono gli sviluppi del cosiddetto agostinismo medievale.