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I comuni, Arnaldo da Brescia e la repubblica romana

L’impero e le due città nella Chronica

5. I comuni, Arnaldo da Brescia e la repubblica romana

Per completare questa riflessione sulla visione politica di Ottone di Frisinga può essere utile un approfondimento sui comuni italiani e il loro rapporto con il potere imperiale, problematica già vivissima a metà del XII secolo ed esplosa negli anni successivi, durante il regno di Federico Barbarossa. Politicamente Ottone è un uomo della tradizione, convinto sostenitore delle prerogative imperiali e della corresponsabilità delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche nella guida della Cristianità. Non c’è quindi da stupirsi quando Ottone, che normalmente utilizza un linguaggio misurato tenendo una posizione obiettiva, si mostra invece fortemente contrariato dall’esperienza comunale italiana che ritiene, al pari dello scontro tra papa e imperatore, una grave eversione del giusto ordine costituito. Come ha osservato Gherardo Ortalli, Ottone «percepisce con chiarezza la novità rappresentata dai comuni in via di poderoso sviluppo, ma è una novità nella cui logica non sa o non vuole davvero entrare».94

Pur ammettendo una colpa dei sovrani tedeschi, per troppo tempo assenti dallo scenario italiano, la responsabilità delle turbolenze nella penisola è tutta dei comuni:

His diebus propter absentiam regis Italiae urbibus in insolentiam decidentubus.95

Le parole più sferzanti contro le città italiane si trovano nel capitolo 13 del secondo libro dei Gesta, quando Ottone descrive l’ordinamento di queste nuove realtà politiche:

Cumque tres inter eos ordines, id est capitaneorum, vavassorum, plebis, esse noscantur, ad reprimendam superbiam non de uno, sed se singulis predicti consules eliguntur, neve ad dominandi libidinem prorumpant, singulis pene annis variantur. Ex quo fit, ut, tota illa terra inter civitates ferme

94 Ortalli, Gli affanni della storiografia, p. 127.

divisa, singulae ad commanendum secum diocesanos compulerint, vixque aliquis nobilis vel vir magnus tam magno ambitu inveniri queat, qui civitatis suae non sequatur imperium. Consueverunt autem singuli singula territoria ex hac comminandi potestate comitatus suos appellare. Ut etiam ad comprimendos vicinos materia non careant, inferioris conditionis iuvenes vel quoslibet contemptibilium etiam mechanicarum artium opifices, quos ceterae gentes ab honestioribus et liberioribus studiis tamquam pestem assumere non dedignatur. […] In hoc tamen antiquae nobilitatis immemores barbaricae fecis retinent vestigia, quod, cum legibus se vivere glorientur, legibus non obsecuntur.96

Tenendo conto di quello che è stato evidenziato sul pensiero politico di Ottone, non è difficile capire perché considerasse come negativa l’esperienza comunale italiana: queste città stanno fuori dall’ordine costituito, cercando l’indipendenza dai poteri che, per disegno divino, reggono la Cristianità, usurpandone le prerogative, sconvolgendo l’ordine sociale e affermando di vivere sotto la legge quando in realtà vige la legge del più forte di origine barbarica. Il disprezzo per l’arroganza data dall’eccessiva libertà di cui godono i cittadini dei comuni è evidente quando Ottone narra la discesa in Italia di Corrado II nel 1036:

Non multo post ad sedandam ignobilis vulgi contumatiam, qui principibus pene prevaluerant.97

Nella Chronica sono riservate parole ancora più severe contro il comune romano. Senza contare le gravissime accuse di sacrilegio e oltraggio alla dignità papale nonché imperiale, istituendo la carica di patrizio utilizzarono impropriamente uno dei titoli dell’imperatore:

Populus enim Romanus nullas insaniae suae metas ponere volens senatoribus, quos ante instituerant, patricium adiciunt atque ad hanc dignitatem Iordanem Petri Leonis filium eligntes omnes ei tamquam principi subiciuntur. Deinde pontificem suum adeunt ac omnia regalia eius, tam in Urbe quam extra posita, ad ius patricii sui reposcunt eumque more antiquorum sacerdotum de decimis tantum et oblationibus sustntari oportere

96 Ottonis et Rahewini Gesta, II, 13 (MGH SS rer. Germ. 46, p. 116). Sverre Bagge nel saggio Ideas and

narrative in Otto of Freising’s Gesta Frederici ha sottolineato che il disprezzo di Ottone per i comuni italiani

è confermato dal parallelismo con la descrizione delle popolazioni ungare (cfr. Ottonis et Rahewini Gesta, I, 33), con particolare riferimento al comune “retaggio barbarico” (BAGGE Sverre, Ideas and narrative in Otto

of Freising’s Gesta Frederici, “Journal of Medieval History”, vol. 22 (1996), n. 4, p. 359-360).

97 Ottonis Ep. Fr. Chronica VI, 31 (MGH SS rer. Germ. 45, p. 296). Sulla descrizione dei comuni italiani nelle opere di Ottone cfr. ZABBIA Marino, Tra modelli letterari e autopsia. La città comunale nell’opera di Ottone

di Frisinga e nella cultura storiografica del XII secolo, “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio

Evo”, n. 2, vol. 106 (2004), p. 105-138. Zabbia, attraverso un’analisi dei passi della Chronica e dei Gesta che trattano dell’Italia comunale, riconosce le varie fonti utilizzate per descrivere una realtà abbastanza estranee al vescovo di Frisinga, notando che il lavoro di Ottone non fu una semplice copia di materiale altrui, ma fu «capace sia di analizzare la realtà senza filtri letterari, sia di recuperare da altri testi modelli formali e strategie narrative» (Zabbia, Tra modelli letterari e autpsia, p. 117).

dicentes de die in diem animam iusti affligere non timuerunt. […] At populus Romanus cum patricio suo Iordane in furorem versus prefecturae dignitatem abolentes omnes principes ac nobiles ex civibus ad subiectionem patricii compellunt at non solum quorundam illustrium laicorum turres, sed et cardinalium et clericorum domus subruentes predam inmensam diripiunt. Ecclesiam etiam beati Petri, omnium ecclesiarum caput, incastellare sacrilege ac profanissime non metuunt. Peregrinos causa orationis advenientes ad oblationem questus gratia plagis et verberibus cogunt ac quosdam ex ipsis offerre nolentes in ipsa porticu e vestibulo templi nefario ausu occidere non verentur.98

Al comune capitolino Ottone imputa la pretesa di poteri che non gli spettano dal momento che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, dai tempi di Stefano II e Pipino il Breve il papa ha il diritto di regnare sull’Urbe. I romani hanno però una colpa ancora più grave, l’essersi appropriati del diritto di conferire il titolo imperiale ai sovrani tedeschi, altra prerogativa dei pontefici ed elemento importante del rapporto tra i poteri universali. Il senato romano tentò una prima volta con Corrado III, inviandogli una lettera nel 1149:

Appropinquet itaque nobis imperialis celeriter vigor, quoniam quidquid vultis in Urbe obtinere poteritis et, ut breviter ac succinte loquamur, potenter in Urbe, quae caput mundi est, ut optamus, habitare, toti Italiae ac regno Teutonico, omni omni clericorum remoto obstaculo, liberius et melius quam omnes fere antecessores vestri dominari valebitis.99

Come sappiamo, Corrado non arrivò mai a Roma e non fu mai incoronato imperatore. Un nuovo tentativo fu fatto nel 1155 con un’ambasceria presso Federico, che aveva da poco cinto la corona di re d’Italia e che stava marciando su Roma:

Orbis imperium affectas; coronam prebitura gratanter assurgo, iocanter occurro. […] Assurrexi tuae ac divae rei publicae profuturum gloriae ad sacrum sanctae Urbis senatum equestremque ordinem instaurandum, quatinus huius consiliis, illius armis Romano imperio tuaeque personae antiqua redeat magnificentia.100

La reazione che Ottone attribuisce al Barbarossa non lascia dubbi sul giudizio del vescovo di Frisinga: «tam superbo quam inusitato orationis tenore iusta indignatione inflammatus».101

Nel momento di massimo attrito tra pontefice e istituzioni comunali si inseriscono le ultime vicende della tormentata vita di Arnaldo da Brescia, esponente di spicco di quelle

98 Ottonis Ep. Fr. Chronica VII, 31 (MGH SS rer. Germ. 45, p. 358-360).

99 Ottonis et Rahewini Gesta, I, 29 (MGH SS rer. Germ. 46, p. 46).

100 Ottonis et Rahewini Gesta, II, 29 (MGH SS rer. Germ. 46, p. 135-136).

correnti fautrici di una riforma radicale della Chiesa, ispirata dalla povertà e purezza evangelica, che si svilupparono parallelamente alla “ufficiale” riforma gregoriana.

Arnaldo nacque a Brescia a cavallo tra XI e XII secolo. Divenne canonico regolare della chiesa di S. Pietro in Ripa, a Brescia, mostrando subito affinità con il pensiero di Abelardo, aspirazioni ascetiche, doti di predicatore e pieno appoggio alla lotta contro il clero mondano. L’intransigenza di Arnaldo venne punita da papa Innocenzo II probabilmente al secondo concilio Lateranense (1139), su richiesta del vescovo di Brescia, Manfredo: allontanato dalla sua diocesi, si trasferì in Francia. Il 2 giugno 1140 era presente al concilio di Sens dove difese Abelardo contro san Bernardo, tanto che l’abate di Chiaravalle fece richiesta al papa perché Arnaldo fosse rinchiuso in monastero, rimanendo però inascoltato. Arnaldo iniziò allora a insegnare a Parigi, puntando molto sul richiamo del clero all’esempio evangelico; questa predicazione gli valse l’espulsione dalla Francia, ordinata da Luigi VII su richiesta di Bernardo: trovò rifugio dapprima a Zurigo, presso il vescovo Ermanno di Costanza, poi presso il legato papale Giudo di Castello che aiutò Arnaldo a ottenere il perdono del papa. Nel 1145 a Viterbo giurò obbedienza a Eugenio III, recandosi poi a Roma, che da un paio d’anni stava vivendo l’esperienza comunale. I rapporti con il pontefice erano stati molto tesi, tanto che la residenza di Eugenio era ormai stabilmente Viterbo, ma nel Natale del 1145 si giunse finalmente alla riconciliazione, con il riconoscimento del senato capitolino da parte del papa. La città era però sempre in fermento e la tregua durò poco, come il soggiorno di Eugenio nella sua città. La rottura definitiva avvenne nel 1149 quando, con un’azione senza precedenti nel periodo medievale, il comune offrì a Corrado III la corona imperiale, rifacendosi all’uso dei primi tempi del principato.

In questa Roma Arnaldo si sentì rivitalizzato, potendo realizzare gli ideali patarini di “purificazione” della Chiesa dal clero mondano che aveva tanto predicato in passato, trovando adesione nel popolo e nel basso clero dell’Urbe, ma l’ideale di riforma degenerò in una lotta senza quartiere alle alte gerarchie ecclesiastiche, che finì per isolare definitivamente Arnaldo e il senato capitolino. L’elezione di Federico nel 1152 fece temere il peggio, ovvero l’accordo tra il papa e il sovrano tedesco. Dopo un fallito abboccamento con il Barbarossa, il comune romano puntò a riconciliarsi con Eugenio III e iniziò a staccarsi dal movimento arnaldino, che nel frattempo puntava a salvarsi con aperture all’imperatore. L’epilogo dell’esperienza di Arnaldo avvenne nei primi mesi del 1155. Adriano IV scagliò l’interdetto su Roma che venne tolto solo dopo la cacciata di Arnaldo, che tentò una fuga verso il nord Italia ma venne catturato in Toscana dai signori della val d’Orcia, partigiani dell’imperatore. I legati papali ottennero facilmente la consegna del prigioniero, che venne consegnato a Federico come atto di buona volontà.

Arnaldo venne impiccato per ordine del prefetto di Roma, Pietro di Vico, o forse ucciso come ritorsione dopo i tumulti avvenuti il giorno dell’incoronazione; il corpo venne bruciato e i resti gettati nel Tevere, per evitare qualunque genere di venerazione da parte del popolo. Il movimento arnaldino, persa la base comunale da cui traeva sostegno, si dissolse in breve tempo.102

Ottone nella Chronica, pur parlando della situazione romana, non nomina Arnaldo. Arsenio Frugoni ritiene che questa sia una prova che il predicatore in realtà non c’entrasse molto nell’effettiva organizzazione del comune, mentre «la successiva politicizzazione, quale sarà fatta nei Gesta, dell’attività di Arnaldo riferita anche a quelle prime vicende, risponda a motivi polemici»,103 giungendo a questa conclusione:

Nella Chronica, pessimistica meditazione del «senescens seculum», lo spettacolo di Roma ribelle al suo legittimo signore era stato accettato come uno dei tanti aspetti dell’«erupnosa mutabilitas» del mondo. Nei Gesta, che sono la storia della resurrezione imperiale, Ottone, si è detto, dispiegava una sensibilità più politica: se la ribellione tenta un dialogo temerario e fatuo direttamente con l’Impero – Ottone celebrerà presto l’accordo tra Impero e Papato – l’ispiratore di quella temerarietà sia soltanto Arnaldo, che giustamente verrà tolto di mezzo dall’autorità imperiale e papale.104

Nei Gesta Ottone parla nuovamente del comune capitolino, questa volta con la figura di Arnaldo in primo piano. Nel primo libro siamo nel 1146, dopo l’ambasceria presso Eugenio III:

His diebus Arnaldus quidam religionis habitum habens, sed eum minime, ut ex doctrina eius patuit, servans, ex aecclesiastici honoris invidia urbem Romam ingreditur ac senatoriam dignitatem equestermque ordinem renovare ad instar antiquorum volens totam pene Urbem ac precipue populum adversus pontificem suum concitavit.105

Nel secondo libro sono invece narrate le vicende avvenute nel 1155, durante la prima discesa di Federico in Italia. Ottone non faceva parte del seguito dell’imperatore, ma fu ben informato sui fatti a cui aggiunse i propri commenti:

102 Sulla vita e il pensiero di Arnaldo da Brescia cfr. CAPITANI Ovidio, Arnaldo da Brescia e le inquietudini del

secolo XII, in Arnaldo da Brescia e il suo tempo, Brescia, Fondazione Banca Credito Agrario

Bresciano-Istituto di cultura Giovanni Folonari, 1991, p. 7-18; FRUGONI Arsenio, Arnaldo da Brescia, in Dizionario

Biografico degli Italiani, vol. 4, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, p. 247-250; FRUGONI

Arsenio, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Torino, Einaudi, 1989; MERLO Grado G., Arnaldo da

Brescia (?-1155), in Dizionario Enciclopedico del Medioevo, vol. 1, Roma, Città Nuova, 1998, p. 146-147;

MERLO Grado G., Eretici ed eresie medievali, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 33-38.

103 Frugoni, Arnaldo da Brescia, p. 43.

104 Frugoni, Arnaldo da Brescia, p. 47.

Arnaldus iste ex Italia civitate Brixia oriundus eiusdemque aecclesiae clericus ac lector tantum ordinatus Petrum Abailardum olim preceptorem habuerat. Vir quidem naturae non habetis, plus tamen verborum profluvio quam sententiarum pondere copiosus. Singularitatis amator, novitatis cupidus, cuiusmodi hominum ingenia ad fabricandas hereses scismatumque perturbationes sunt prona. Is a studio a Galliis in Italiam revertens religiosum habitum, quo amplius decipere posset, induit, omnia lacerans, omnia rodens, nemini parcens. Clericorum ac episcoporum derogator, monachorum persecutor, laicis tantum adulans. Dicebat enim nec clericos proprietatem nec episcopos regalia nec monachos possessiones habentes aliqua ratione salvari posse. Cuncta haec principis esse, ab eiusque beneficentia in usum tantum laicorum cedere oportere. Preter haec de sacramento altaris, baptismo parvulorum non sane dicitur senisse. […] Comperta vero morte Innocentii, circa principia pontificatus Eugenii Urbem ingressus, cum eam erga pontificem suum in seditionem excitatam invenisset, viri sapientis haut sectatus consilium de huiusmodi dicentis: Ne in eius ignem ligna struas, amplius eam in seditionem concitavit, proponens antiquorum Romanorum exempla, qui ex senatus maturitatis consulto et ex iuvenilium animorum fortitudinis ordine et integritate totum orbem terrae suum fecerint. Quare reedificandum Capitolium, renovandam senatoriam dignitatem, reformandum equestrem ordinem docuit. Nichil in dispositione Urbis ad Romanum pontificem spectare, sufficere sibi aecclesiasticum iudicium debere.106

Ottone è ovviamente schierato con il papa e, di conseguenza, con l’imperatore che in quel momento erano in buoni rapporti. Oltre alle questioni di carattere dottrinale, qui sono imputate ad Arnaldo le stesse colpe che nella Chronica erano invece attribuite al più generico popolo di Roma, l’usurpazione delle prerogative temporali del papa e della Chiesa. A detta di Ottone, Arnaldo avrebbe affermato che non ci sarebbe stata salvezza per il clero con delle proprietates, dei vescovi con regalia e dei monaci con possessiones, pretese anche superiori a quelle che solitamente avanzavano i movimenti pauperistici dell’epoca, che si limitavano alla lotta contro la simonia e le eccessive ricchezze del clero, più che contro il possesso di beni in sé. L’anticlericalismo rivoluzionario attribuito ad Arnaldo era, dal punto di vista del nostro autore, altrettanto nefasto quanto i mali che intendeva combattere.

Ottone dunque è fortemente critico nei confronti sia del comune romano che del riformismo radicale di Arnaldo, anche con l’obiettivo di sollevare il papato e l’impero dall’accusa di essere unici responsabili del disordine che regnava nella Cristianità del XII

secolo;107 per opportunità politica, cercò però di accusare Arnaldo di essere stato anche l’ispiratore dei moti romani. A questo proposito appare corretto il giudizio di Frugoni:

La sua riforma si svolge per istanze che non hanno nulla a che fare con i sussulti autonomistico di Roma e con il tentativo di realizzare la propria indipendenza dal Papato nella riconquista della pienezza dei diritti imperiali. Che uomini favorevoli alla soluzione imperiale potessero trovare appoggio contingentemente nella predicazione antipapale di Arnaldo, che fautori d’Arnaldo potessero sperare dalla soluzione imperiale l’allontanamento di un temuto compromesso del Comune col Pontefice, è ben verosimile. […] L’odio «politico» romano dunque contro l’«indebitum clericorum iugum» si trovò occasionalmente a coincidere, praticamente, con la polemica arnaldina.108

Fino a quando tra il papa e il comune continuarono a susseguirsi accordi-tregua, Arnaldo e i suoi poterono in qualche modo sopravvivere, nonostante le crescenti diffidenze verso i riformatori. La discesa in Italia del Barbarossa e l’accordo con Adriano IV misero la parola fine sia alle aspirazioni senatorie che al movimento di Arnaldo.

107 Capitani osserva che la testimonianza di Ottone è «riferita a preoccupazioni di carattere collettivo, perché al di là di un riconoscimento di novitates blasfeme ed eretiche non solo non si voleva andare ma non si poteva andare, stante il diaframma che l’obiettivo di rinsaldare intorno al magistero della Chiesa, appena uscita mutilata dal supporto della potestas terrena, doveva far centro nell’accusa di negazione – imputata agli avversari – dei fattori coagulanti di una societas christiana cresciuta nei parametri della Chiesa» (Capitani,

Arnaldo da Brescia e le inquietudini del secolo XII, p. 13).