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Città di Dio e città terrena

5. Eusebio, Agostino e Gelasio

Se consideriamo l’espansione del cristianesimo e della Chiesa nell’impero romano ci rendiamo conto del fatto che essa fu, in quel contesto, un’istituzione del tutto atipica. Roma si era sempre mostrata tollerante verso le fedi dei popoli conquistati, e frequenti furono i fenomeni sincretistici per cui elementi di altre religioni, innanzi tutto il pantheon greco e successivamente altri culti orientali, confluirono in quella ufficiale. Ciò non rappresentava un problema, visto il carattere eminentemente “politico” della religione romana: il favore degli

52 Non va dimenticato che un irrigidimento di Agostino a difesa della dottrina della grazia è dovuto anche all’aspro confronto con il pelagianesimo: per Agostino l’aiuto divino è indispensabile per compiere opere buone e precede i meriti dell’uomo, rendendo buona la volontà umana e aiutandola a rimanere tale. Orosio non aderì mai al pelagianesimo, che anzi combatté al concilio di Gerusalemme del 415; a conferma di ciò, nelle Historiae la centralità redentrice dell’Incarnazione è fuori discussione. È però chiaro che Orosio, su questo tema, non accettò pienamente le dottrine agostiniane.

53 Cfr. Brezzi, La concezione agostiniana della Città di Dio, p. 78, 87.

dèi aveva come scopo principale la buona salute dello Stato e il mantenimento dell’ordine e della coesione sociale. Lo spazio per la fede a livello individuale era ridotto al minimo, mentre era massimo per la componente pubblica e rituale. Con il principato augusteo venne raggiunto l’apice di questa visione religiosa che aveva come fulcro la figura dell’imperatore

pontifex maximus, massima carica religiosa romana che Augusto ottenne nel 12 a.C. e che fu

mantenuta per secoli dai suoi successori.55

A partire dal II secolo aumentarono i seguaci delle religioni orientali, come il mitraismo (diffuso soprattutto nell’esercito) e le teologie solari. Il culto del Sol Invictus, utile per la propaganda imperiale, ebbe molto successo al tempo di Aureliano (con importanti influenze fino a Costantino), introducendo anche ai vertici dello stato romano una fede essenzialmente monoteistica. Infine, a partire da Costantino, il cristianesimo divenne, non ancora nella forma ma sicuramente nella sostanza,56 la religione ufficiale dell’impero: quando ciò avvenne, il cristianesimo era organizzato in una struttura gerarchica indipendente, ovvero la Chiesa, che divenne elemento non facilmente collocabile in un quadro in cui anche lo Stato, in linea con la tradizione pagana precedente, si faceva anch’esso interprete della nuova fede.57 Le ambiguità in questo campo infatti sorsero molto presto e altrettanto rapidamente si cercarono di “regolamentare” questi rapporti: le posizioni principali possono essere riassunte, come suggerito da Merio Scattola, dai tre vertici del triangolo che nasce dalla riflessione contenuta nelle lettere di Paolo: Dio, la Chiesa e la

politica.58 Il primo vertice riassume l’idea che la trascendenza divina si manifesta

55 Sulla religione romana cfr. CHAMPEAUX Jaqueline, La religione dei romani, trad. Graziella Zattoni Nesi, Bologna, Il Mulino, 2002; RÜPKE Jörg, Religion of the Romans, translated and edited by Richard Gordon, Cambridge-Malden, Polity Press, 2007 [ed. orig. Die Religion der Römer, München, Verlag C. H. Beck, 2001]; SCARPI Paolo, Roma antica - L’età ellenistico-romana, in Manuale di storia delle religioni, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 107-137; SCHEID John, La religione a Roma, trad. di Maria Novella Pierini, Roma-Bari, Laterza, 1983.

56 L’editto con cui il cristianesimo divenne unica religione dell’impero è il celebre editto di Tessalonica del 380: «Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat, […] hoc est, ut secundum apostolicam disciplinam evangeliquamque doctrinam patris et filii et spiritu sancti unam deitatem sub parili maiestate et sub pia trinitate credamus» (Theodosiani Libri XVI XVI, 1, 2, ed. Theodor E. Mommsen, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1954, p. 833), trad. «Tutti i popoli che la nostra clemente mitezza regge devono persistere, secondo la nostra volontà, in quella professione di fede che il divino apostolo Pietro ha tramandato ai romani, come dimostra fino ad oggi la fede da lui annunciata, […] questo significa che noi, secondo l’insegnamento apostolico e la dottrina evangelica, crediamo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, unica divinità in uguale maestà e devota trinità». ( BRANDT Hartwin, L’epoca

tardoantica, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 59).

57 Sull’affermazione del cristianesimo nell’impero romano cfr. Azzara, Le civiltà del Medioevo, p. 31-42; Ehler - Morrall, L’impero romano e l’età delle invasioni barbariche, in Chiesa e Stato attraverso i secoli, p. 21-49; FILORAMO Giovanni, Cristianesimo, in Manuale di storia delle religioni, p. 193-231; FRASCHETTI Augusto, La

conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari, Laterza, 1999; Potestà - Vian, Storia del cristianesimo, cap. IV-VI, p. 61-112; SIMONETTI Manlio, Costantino e la chiesa, in Costantino il grande. La

civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente (catalogo della mostra svoltasi a Rimini, Castel Sismondo, dal

13 marzo al 4 settembre 2005), Cinisello Balsamo, Silvana, 2005, p. 56-63; SINISCALCO Paolo, Il cammino di

Cristo nell’Impero romano, Roma-Bari, Laterza, 1983; SORDI Marta, I cristiani e l’Impero Romano, Milano, Jaca Book, 1984.

direttamente attraverso il Verbo eterno, quindi senza mediazioni attraverso l’istituzione politica (“un impero senza Chiesa”); il secondo invece contiene l’idea della trascendenza che si manifesta attraverso Cristo, il Verbo incarnato, e l’Eucaristia, quindi solamente attraverso la Chiesa (“una Chiesa senza impero”); il terzo infine rappresenta la soluzione mediana, trascendenza che si manifesta attraverso il Verbo eterno e incarnato, quindi contemporaneamente attraverso lo Stato e la Chiesa (“una Chiesa con un impero”). Ognuna di queste posizioni ha un suo iniziatore: Eusebio, Agostino e Gelasio.

La dottrina di Eusebio riprende le posizioni assunte da Origene e assimilate probabilmente durante gli studi nella scuola da lui fondata a Cesarea: Dio ha creato il mondo dal nulla e continua a governarlo con la sua azione provvidenziale, Cristo è il mediatore divino che ha ripristinato l’ordine universale sconvolto dal peccato dell’uomo. Quest’ordine non è perfetto (lo sarà solamente alla fine dei tempi) ma è già anticipazione del vero ordine che l’uomo vivrà nel regno di Dio. L’impero romano, che unì i popoli sotto un unico regno, pur essendo pagano fu uno strumento della provvidenza divina. Una visione di questo tipo, che conferisce massima importanza al Verbo eterno che sempre agisce, non può nemmeno immaginare una Chiesa separata o ancor peggio contrapposta all’istituzione politica, perché è prima di tutto nello Stato che si manifesta la volontà divina e l’imperatore riceve direttamente da Dio il proprio potere. Questa dottrina, il cosiddetto cesaropapismo, caratterizzò il tardo impero (basti ricordare che il concilio di Nicea del 325 venne convocato e aperto da Costantino) e tutta la politica bizantina. In Occidente venne messa in pratica solo in alcuni momenti, cioè quando si formarono entità politiche capaci di competere in autorità e prestigio con la Chiesa romana, che era cresciuta e si era sviluppata favorita dalla varietà e dalla debolezza dei poteri secolari dei primi secoli del Medioevo.

Come si è visto nel paragrafo precedente, dalla posizione “orientale” di Eusebio si distanzia notevolmente la posizione “occidentale” di Agostino; per il primo l’impero è un elemento fondamentale per garantire ai cittadini la salvezza eterna, per il secondo un grande e perfetto ordinamento di tutte le istituzioni umane è un’utopia irrealizzabile: lo Stato è utile per il mantenimento di un minimo ordine durante questa vita ma non è né utile, né tanto meno necessario, per la salvezza dell’uomo che resta un fatto assolutamente personale.

vedi anche BURN Edward H. (edited by), The Cambridge History of Medieval Political Thought c. 350-c.

1450, Cambridge, Cambridge University Press, 1988; FUMAGALLI BEONIO BROCCHERI Mariateresa (a cura di), Il

pensiero politico medievale, Roma-Bari, Laterza, 2000; MERTENS Dieter, Il pensiero politico medievale, trad. di Maurizio Merlo, Bologna, Il Mulino, 1999; RIZZI Marco, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare

in Occidente, Bologna, Il Mulino, 2009; TABACCO Giovanni, La relazione fra i concetti di potere temporale e

di potere spirituale nella tradizione cristiana fino al secolo XIV, Torino, Giappichelli, 1950 [ed. elettronica a

cura di Laura Gaffuri, Firenze, Firenze University Press, 2010,

<http://www.rm.unina.it/rmebook/dwnld/tabacco2010.pdf>]; TABACCO Giovanni, Le ideologie politiche del

medioevo, Torino, Einaudi, 2000; TABACCO Giovanni, Profilo di storia del Medioevo latino-germanico, Torino, Scriptorium, 1966.

Ma proprio per questo motivo Agostino non ha mai neppure pensato a una Chiesa che potesse sostituirsi o avere un qualche tipo di primato sullo Stato, avendo una finalità completamente diversa: i fedeli devono sottostare alle leggi dello Stato, che da parte sua deve lasciare libera la Chiesa di portare avanti la propria missione. La definizione “una Chiesa senza impero” non può essere considerata del tutto appropriata se riferita alla visione politica di Agostino, perché l’istituzione politica non può essere sostituita da altro e fa parte dei “rimedi” (che talvolta però peggiorano le cose) messi in campo in un mondo caratterizzato dall’imperfezione e dal peccato.

Non passò nemmeno un secolo e l’idea agostiniana di una Chiesa così libera e slegata da un impero e un imperatore ridotti a cosa puramente “terrena” venne “ammorbidita”, per chiare esigenze politiche, da Gelasio I, papa dal 492 al 496. L’impero romano d’Occidente ormai non esisteva più: al suo posto stavano prendendo forma diversi regni e la Chiesa, che in qualche modo ereditò la tradizione antica, con la sede di Roma che cercava di ottenere quel primato che da tempo rivendicava. Le “incomprensioni” con Costantinopoli furono inevitabili e i momenti di tensione frequenti, soprattutto dopo il concilio di Calcedonia del 451. Nel 494 Gelasio scrisse all’imperatore Atanasio una lettera conosciuta soprattutto per la cosiddetta “dottrina delle due spade”;59 l’impero viene rivalutato, assegnando a entrambi i poteri un ruolo nella giuda della Cristianità:

Duo quippe sunt, imperator auguste, quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacratas pontificum, et regalis potestas. In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus hominum in divino reddituri sunt examine rationem.60

L’ordine divino secondo Gelasio si manifesta contemporaneamente in due modi, nell’autorità secolare e nell’autorità sacerdotale. Il primato conferito ai sacerdoti e l’idea di una distinzione dei due poteri rimandano sicuramente ad Agostino (che però, va ricordato, li pone su piani fra loro non paragonabili), ma le successive interpretazioni (soprattutto quelle del IX secolo all’interno del dibattito sui rapporti tra vescovi e re nel regno franco e successive) hanno esasperato questa visione, conferendo al potere spirituale prerogative che probabilmente Gelasio non intendeva affidargli. Come suggerisce Marco Rizzi, si può parlare di un equivoco di Gelasio: il termine potestas, che indica il potere vero e proprio, è utilizzato in riferimento alla regalità mentre per i pontefici si utilizza il più generico

59 Interpretazione di Lc 22,38: «Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli disse: “Basta!”».

60 GELASIIPAPAE ad Anastasium Augustum (Epistola 12), in Epistolae Romanorum pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a s. Hilario usque ad Pelagium, ed. Andreas Thiel, New York, Georg Olms Verlag,

1974, p. 350-351: «Due sono infatti i poteri, o augusto imperatore, con cui questo mondo è principalmente retto, la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale. Tra i due, l’importanza dei sacerdoti è più grande, in quanto essi dovranno rendere ragione al tribunale divino anche degli stessi reggitori d’uomini» (RIGON

auctoritas; non è cambiata l’idea di una esclusiva competenza dell’autorità secolare sulle

cose temporali, ma viene piuttosto difesa la giurisdizione della Chiesa negli affari che la riguardano.61

A riprova di questa “strategia difensiva”, Rizzi riporta la posizione di Gelasio sulla dignità regale e sacerdotale di Cristo espressa nel Tomus de anathematis vinculo: solo in Cristo le due dignità sono unite in modo perfetto e in attesa del suo ritorno non possono che rimanere separate, come giustamente è avvenuto con l’impero cristiano.62 Qui Gelasio utilizza per entrambe il termine potestas: non parla di una superiorità ecclesiastica, ma il passo fu breve e lo fecero presto i suoi successori.

Partendo dall’assunto paolino di Dio unico detentore della potestas e mantenendo come sfondo la distinzione gelasiana sottolineando l’idea che la potestas che riguarda le cose di lassù è necessariamente superiore a quella delle cose di quaggiù, se si aggiunge la negatività delle istituzioni politiche propria della visione agostiniana si può capire come le rivendicazioni ecclesiastiche trovarono un solido fondamento su cui basarsi. Questa operazione venne portata avanti tra VI e VII secolo soprattutto da Gregorio Magno e Isidoro di Siviglia. In Oriente invece, grazie alla continuità e alla stabilità politica dell’impero, non ci fu spazio per questo tipo di rivendicazioni ma neppure un eccessivo potere da parte dei sovrani (come accadde in alcuni momenti in Occidente): il rapporto rimase essenzialmente di collaborazione in una sorta di sintesi fra dualismo gelasiano e cesaropapismo eusebiano.