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PARAGRAFO IV: NOTIZIE E STATISTICHE SU AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO

IX: L’AGRICOLTURA

Provare a tracciare un quadro economico complessivo del Dipartimento del Taro durante la prefettura di Delporte con particolare attenzione alla realtà del parmense significa confrontarsi con le statistiche relative alla raccolta agricola e alla produzione manifatturiera.

E’ dall’analisi e dal confronto incrociato tra i dati complessivi del Dipartimento del Taro e quelli provenienti dalle singole realtà comunali che si può tentare di tracciare un percorso unificante, necessario a darci un quadro unitario del complesso socio-economico delle aree parmense e piacentina. Di per sé, i singoli numeri non dicono granchè; essi parlano solo se confrontati tra loro, in particolare tra gli anni di Delporte e quelli di Moreau, senza trascurare di prendere in considerazione i dati del Regno d’Italia a proposito delle manifatture e rapportarli a quelli del Dipartimento di Delporte, in modo da avere un riferimento quantitativo preciso rispetto al quale

“pesare” l’industria manifatturiera del parmense e del piacentino. I dati studiati, arricchiti spesso dalle osservazioni dei rilevatori, ci permettono inoltre di fare un’ampia panoramica sulle condizioni di lavoro, sulle capacità di limitare o subire appieno i danni dovuti al clima, sull’impatto pratico che il Giornale del Taro aveva presso i coltivatori e i fabbricanti parmensi, e quindi, in breve, di introdurre elementi di analisi sociale accanto a quelli quantitativi di tipo economico.

Per quanto Luzzatto (e con lui recentemente altri studiosi) abbia messo in discussione la bontà dei dati utilizzati da Tarle nel suo studio sulla vita economica del Regno d’Italia (188) ponendo dubbi sulla parziale inaffidabilità delle fonti e per quanto De Maddalena abbia avanzato critiche simili, sostenendo che i dati periferici che giungevano a Parma erano esagerati in eccesso per compiacere le autorità francesi (189) (il che appare difficile, visto che i transalpini anche a Parma avevano introdotto un innovativo sistema burocratico efficiente e prezioso per ogni attività,

188: G. Luzzatto, Per una storia economica d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1974, p.179 189: A. De Maddalena, op. cit. pp. 68-69

centralizzato e del tutto sconosciuto in precedenza, e già questo dovrebbe essere stato sufficiente a scoraggiare eventuali bari) è pur vero che le rilevazioni quantitative restano insostituibili, specie se incrociate tra loro e corredate di osservazioni di tipo sociale e organizzativo concordi tra loro o comunque in grado di permettere allo studioso di tracciare un quadro coerente a proposito di una realtà articolata come quella del Dipartimento del Taro.

Definito questo aspetto, è importante andare ad analizzare le serie statistiche relative all’agricoltura, poiché in essa era impiegato il 90% della forza lavoro, che produceva anche l’agognata materia prima per le industrie nascenti, innescando un circolo virtuoso in grado di far conseguire numerosi e positivi passi avanti all’economia del Dipartimento di Delporte nel suo complesso. Nel 1811 la raccolta dei generi di prima necessità riguarda frumento, fave, avena, farro, orzo, grano, veccia ed altri cereali che da tempo immemorabile costituivano la base produttiva dell’agricoltura parmense (190). I trentuno comuni del parmense censiti per l’occasione hanno avuto nel corso di quell’annata due raccolti di generi differenti. Il primo dà i seguenti risultati complessivi: quasi 290 tonnellate di frumento, 41 di fave, 1,3 di avena, 6,6 di farro, 1,5 di orzo, quasi 15 di veccia e 7 di frumento. In seguito gli stessi 31 comuni, che sono poi quelli costituenti per intero il circondario di Parma, hanno prodotto nel 1806 129 tonnellate di frumento, qualche quintale di avena e di orzo e di veccia. Già solo all’occhio balza il notevole aumento di produttività intervenuto in soli cinque anni all’interno degli stessi comuni.

Non essendo intervenute nel frattempo innovazioni rivoluzionarie nell’ambito delle tecniche di lavorazione dei campi (191) ed essendo la formazione della forza lavoro contadina rimasta pressappoco quella dei decenni antecedenti alla dominazione francese, se ne desume che il progresso registrato in termini di produzione e di produttività sia da attribuire ad una maggiore attenzione posta dai contadini alla gestione dei loro fondi, da cui era possibile ricavare materia prima preziosa per i francesi e quindi capace di dare un ulteriore stimolo alla

190: Vedi supra nota 86

191: P. Spaggiari, L’agricoltura cit. pp. 72-82

produzione ed un’integrazione al reddito importante per molti coltivatori del parmense.

I dati ci fanno presumere che le opportunità di guadagno dovute all’incremento della produzione agricola, tante volte declamati dal Giornale del Taro, abbiano avuto un ruolo non trascurabile nel progresso di un’agricoltura rimasta tecnologicamente arretrata durante tutti gli anni del potere francese nel Dipartimento del Taro. Al primo raccolto, che comprendeva anche spelta, mistura, segala e ceci, se ne aggiungeva un secondo che produceva melica (nelle sue varianti bianca e rossa), fagioli, miglio, uva, castagne, ghiande, riso ed anche lino e canapa, di cui ci siamo precedentemente occupati in modo specifico.

Ad esempio a Ciano nel 1807 vengono raccolti poco più di un quintale di uva, due di ghiande ed una discreta quantità di canapa, mentre gli altri generi di secondo raccolto non sono coltivati né nel comune in questione, né nelle sue frazioni. Quanto al primo raccolto, Ciano offre un contributo in termini di frumento, grano, spelta, dando rispettivamente 1,7 tonnellate, 1,6 e 7,7 quintali. Seguono su Ciano, come su altri comuni, statistiche estremamente dettagliate che calcolavano la produzione dei generi di primo e secondo raccolto non solo nelle più sperdute frazioni, ma anche vedendo le singole quantità di prodotti agricoli prodotte dai singoli proprietari. Queste rilevazioni, di grande precisione anche perché accompagnate alla creazione del catasto, del tutto sconosciuto a Parma in precedenza, costituiscono la prova quasi certa che i dati forniti erano reali e non gonfiati ad arte, perché era difficile per paesani ignoranti mentire sistematicamente ad istituzioni che facevano del calcolo statistico, dei controlli e della centralizzazione unita alla collaborazione tra i vari gradini istituzionali (quest’ultima favorita da una chiara divisione delle mansioni burocratiche) la ragione del proprio essere, nonché uno degli aspetti più rivoluzionari introdotti dai francesi nella penisola.

Colorno produce nel 1806 i seguenti quantitativi di generi di secondo raccolto:

12.131 staia di melica, e 8.489 botti di vino, 111 staia di noci, 94 di ghiande (192).

L’anno seguente le staia di melica sono 10.170, quelle di ghiande 155; alla diminuita

192: Vedi supra nota 86

produzione vinicola fa da contraltare l’introduzione del risone. Si vede qui come negli stessi comuni sia in corso un processo di trasformazione e di diversificazione delle colture che probabilmente costituì l’aspetto più durevole della dominazione francese e che avrebbe aperto la via sia all’avvicinamento tra agricoltura e manifattura in una logica di economia integrata sia all’investimento guidato dallo Stato con l’intento per il coltivatore di ricavarne un vantaggio economico tangibile e non più di lavorare per la mera sussistenza o per vendere qualche eccedenza nei piccoli mercati locali.

Per quanto concerne il confronto tra i generi di secondo raccolto nel Dipartimento del Taro nel 1811 vennero prodotti 12 tonnellate di melica, 35, 6 di uva, 28 di ghiande e 3,2 di riso. Nel corso dell’anno 1807 i dati sono invece i seguenti (193): 3 tonnellate di melica, in prevalenza bianca, 2 di uva e valori inferiori ad una tonnellata di ghiande e di riso. L’aumento di produzione balza agli occhi, e si unisce alla diversificazione della stessa attuata in prevalenza nei grandi centri del circondario, come Colorno, ma praticata un po’ ovunque e con successo sempre crescente negli anni prima che gli eventi internazionali interruppero la crescita del Taro nel 1813. Un altro aspetto da non trascurare è la lavorazione del grano ottenuto per ricavarne farina tramite l’azione dei mulini. Si trattava di un processo di trasformazione della materia prima agricola mediante un modo di produzione meccanico che era stato egemone nelle campagne parmensi, non essendo affiancato da nessun altro mezzo di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura.

Nel 1809 (194) a San Donato esistevano sei fornai, aventi complessivamente 11 negozi che facevano macinare 201 chili di grano. A Felino, stante il numero stabilito per legge di fornai e forni frutto delle leggi annonarie, si macinavano oltre 1.450 chili di grano, a Fornovo i chili erano 1.968, a Gattatico 2.873, a Golese 3.588, a Langhirano 2.378 a Lesignano 679 e via dicendo. Ne esce il quadro di un consumo di pane frutto della regolamentazione, che investe anche i settori della produzione di

193: Ivi

194: Vedi supra nota 159

grano, della sua trasformazione e dell’organizzazione della distribuzione. Le politiche annonarie erano del resto ben note a Parma, per quanto Llano nel 1771 avesse promulgato la legge sulla libera circolazione dei grani voluta fortemente da Du Tillot, che però nel frattempo era stato defenestrato da Don Ferdinando (195). Si trattava di un cavallo di battaglia dei liberoscambisti, attuato già da tempo nella Toscana di Leopoldo II ed esportato a Parma, dove però la fine della stagione riformista rese lettera morta anche quella legge, che pure si sposava appieno con le altre norme volute in materia di mercati e fiere dal ministro riformatore (196). Tuttavia il paternalismo di Don Ferdinando, cui ben volentieri si appoggiava il popolo, rese inoffensiva la legge, del resto troppo avanzata rispetto al quadro economico ed organizzativo dell’agricoltura parmense e permise la prosecuzione delle politiche annonarie, prima forma di controllo sull’agricoltura da parte dello Stato, cui sarebbe seguita la lunga serie di iniziative produttive volute dai dominatori francesi che però cercavano di far leva anche sull’interesse individuale del coltivatore, cui si rivolsero anche le premure del liberista Moreau.

Delporte invece si mosse sempre nel solco delle direttive provenienti da Parigi, evitando di prendere quelle iniziative autonome che tanto avevano indisposto Bonaparte nei confronti di Moreau. In questo senso il nostro prefetto interpretò alla perfezione il suo ruolo, mostrandosi solerte esecutore degli ordini che arrivavano dal vertice del potere napoleonico. E’ per questo motivo che Delporte fa pubblicare nel 1813 una statistica completa sull’agricoltura del Taro, nel momento di massima prosperità, prima che iniziasse lo sfacelo del dominio napoleonico. A frumento erano coltivati 28,4 ettari, ad avena due, a legumi nove mentre tutte le altre colture di primo e secondo raccolto andavano dai 14 ettari del mais al mezzo ettaro della segala. Le rese erano basse: oscillavano in media tra uno a tre e uno a quattro, con dati più confortanti a proposito del mais, cui infatti erano stati destinati ben 14 ettari di suolo da coltivare. Ad esempio ogni ettaro coltivato a frumento dava 7,52 ettolitri di prodotto che diventavano quasi 7 per la segala, 5 per l’orzo, 15, 45 per il mais e 8,86

195: P. Spaggiari, L’agricoltura cit. pp. 72-82 196: B. Cipelli, op. cit. p. 74

per l’avena. Da questi dati (197), che sono una risposta alle domande poste dalle autorità francesi, si evince l’interesse complessivo dei dominatori non solo sulla quantità delle produzioni, ma anche sulla loro varietà e produttività, in modo da individuare i mezzi e i modi adeguati ad intervenire per apportare le migliorie ritenute fondamentali per l’ottimale funzionamento degli apparati agricolo e industriale nel loro complesso. La statistica fornisce altri dati preziosi: gli abitanti del circondario di Parma sono 124.101, numero su cui viene calcolato il fabbisogno di grano pro capite della popolazione, di cui vengono calcolati anche i movimenti degli stagionali che risiedono nel parmense ma lavorano per alcuni mesi all’anno nel più prospero Regno d’Italia.

Ciò influisce sia sui dati della produzione che su quelli del consumo dei generi di prima necessità prodotti nel Taro, giudicati sufficienti alle necessità della popolazione, quando invece solo pochi anni prima le epidemie bovine, il peso delle contribuzioni di guerra e l’impatto del ciclone napoleonico su un Ducato ancorato al suo passato e quindi in stagnazione avevano creato la carestia e una situazione di sofferenza della popolazione terminata completamente solo verso il 1805 - 06. Ai dati concernenti Parma si aggiunge il rapporto sull’agricoltura inviato nel settembre 1813 da Piacenza (198) in cui in primo luogo si segnala, come per Parma, l’ottimo risultato della raccolta del mais, seguito a ruota da quello dei legumi. Buoni risultati anche per il cotone e il lino, mentre le barbabietole non sono ancora state raccolte e quindi non è possibile stimarne la riuscita, che pure deve essere stata buona, se in linea con i risultati degli anni precedenti, positivi su tutto il territorio del Taro. Risultati in linea con la media quelli della raccolta di frumento, avena e orzo, mentre buoni sono stati i riscontri della raccolta di uva, favorita anche dalle abbondanti piogge. Le autorità locali, come i sindaci e i sottoprefetti delle valli del Trebbia e del Tidone , si sono impegnate a fondo per far riuscire al meglio la raccolta delle uve da cui si ottengono poi i pregiati vini del piacentino e sono riusciti ad ottimizzare lo sforzo dei proprietari incentivandone l’attività tramite la distribuzione di premi. In tal senso il compito dei

197: ASP, Fondo Dipartimento del Taro, busta 103, fascicolo 178 198: Ibidem

coltivatori si mostrava più agevole perché non c’erano migliorie tecniche da introdurre nella produzione di uva e quindi si trattava solo di ottimizzare l’impegno rivolto alla riuscita delle tradizionali tecniche di coltivazione, aiutata anche dalla benevolenza di Giove pluvio.

Questa situazione positiva non era però estemporanea, poiché già dal 1806 i dati mostrano per il parmense una crescita continua e costante della produzione, della diversificazione e della produttività agricola. A Piacenza la tendenza deve essere stata la medesima se è vero che il rapporto sull’agricoltura del 1812 ci parla di una resa frumentaria molto positiva (199), mentre il mais aveva deluso sia per qualità che per quantità dei risultati; anche il riso, risultato mediocre, non aveva soddisfatto le aspettative, per quanto questa coltura fosse già stata sottoposta ad una serie di limitazioni da parte delle autorità locali (di cui abbiamo più volte notizia anche nel Giornale del Taro) preoccupate innanzitutto dei problemi igienico-sanitari che la presenza delle risaie creavano in prossimità dei centri abitati. Ai non brillanti risultati delle fave fa da contraltare la produzione vinicola e d’uva, ottima per qualità e quantità.

C’è poi il capitolo delle nuove colture: il cotone ha dato cattivi riscontri, a causa del rigore dell’inverno dell’11, mentre il pastello, introdotto nel piacentino sin dal 1810, è riuscito di buona qualità in gran parte del territorio in cui è stato coltivato, al pari del tabacco che al suo primo anno di coltivazione nel piacentino ha fatto registrare performance incoraggianti. L’olio di caffè, destinato a rimpiazzare lo zucchero di canna, e la barbabietola hanno dato riscontri positivi, nonostante il maltempo che ha condizionato buona parte dei comuni del piacentino e in particolar modo Pianello, Nibbiano, Pecorara e Rivalta. Il rapporto si conclude sostenendo la soddisfazione generalizzata delle autorità e degli operatori del settore per i risultati conseguiti dall’agricoltura piacentina, anche se non sono mancate zone d’ombra, prontamente segnalate nel rapporto. Il quadro che ne emerge fotografa anche qui un’agricoltura in crescita e in fase di innovazione e diversificazione delle proprie produzioni, il che era

199: Ivi

molto importante in assoluto, ma ancora di più lo era per via della perdita del granaio del Ducato, ossia di Guastalla, annessa al Regno d’Italia da Bonaparte proprio per la funzione che essa rivestiva per questo tipo di approvvigionamento. Nonostante questa perdita dolorosa e i difficili punti di partenza, il Dipartimento del Taro seppe far crescere sotto Delporte la propria agricoltura ed anche il settore frumentario, garantendo così il fabbisogno di grano delle popolazioni del circondario di Parma, obiettivo senza Guastalla difficile da pensare di poter raggiungere durante gli anni di Moreau, che pure sono giustamente ricordati dagli storici come un periodo di progresso sociale e civile per gli allora denominati Stati parmensi.

Andando a guardare i dati numerici per il piacentino notiamo che anche qui le rese oscillavano tra uno a tre e uno a quattro in media, con le positive eccezioni della melica e del grano saraceno; in particolare per ogni ettaro coltivato si ottenevano 5,74 ettolitri di frumento, 5,40 di segala, 6,20 di orzo, 8,50 di grano saraceno, 3,50 di legumi.

Si registra altresì l’importazione delle lane dal Regno d’Italia, per essere lavorate dalla robusta industria tessile locale mentre si nota come, nonostante i progressi conseguiti, l’autosufficienza alimentare, al contrario di quanto avvenuto nel parmense, nel piacentino non era stata ancora raggiunta. Il fatto che i problemi esistenti fossero messi in luce con chiarezza da parte delle autorità locali mostra ancora una volta l’affidabilità del quadro che le serie statistiche fotografavano a proposito dell’agricoltura parmense e piacentina. Il lavoro di raccolta di informazioni sull’agricoltura proseguiva incessante anche nei mesi critici dello sfaldamento dell’Impero napoleonico successivo alla batosta di Lipsia. Nel dicembre 1813 il sottoprefetto di Parma scrive a Delporte per informarlo sulla raccolta dei legumi nel parmense nel 1813 (200), raccolta negativa perché segnata da un deficit di produzione di oltre 204 ettolitri di prodotti agricoli.

Le requisizioni, l’impegno per garantire gli approvvigionamenti e per far rispettare la leva obbligatoria assorbivano ormai in massima parte gli sforzi delle autorità costituite, mentre i contadini si vedevano spesso togliere gli animali da lavoro come i

200: Ivi, lettera a Delporte del 4 dicembre 1813

cavalli, i muli e i bovini, e si trovavano privati di un prezioso aiuto che determinò gli esiti negativi della produzione del ’13. Questi dati erano tanto più preoccupanti quanto più era necessario indirizzare lo sforzo degli apparati produttivi per soddisfare le esigenze di un esercito immenso che dopo la disastrosa ritirata dalla Russia si ritrovava ad avere bisogno di tutto. La fortuna di aver avuto risultati soddisfacenti negli anni precedenti permetteva di far fronte alla sopraggiungente penuria attingendo alle riserve del 1812 in modo da non far aumentare il prezzo del grano evitando problemi di ordine pubblico che era l’ultima cosa che desideravano i francesi in un momento bellico molto difficile. A questo proposito si era acquistato del grano anche dal Regno d’Italia, in cui le bocche da sfamare erano meno a causa della presenza sul fronte di ben 27. 000 coscritti, di cui solo duecento (201) riuscirono a tornare vivi dalle steppe russe e dai campi di Lipsia.

Nel mese di novembre 1813 vennero raccolte 15 tonnellate di frumento, una di segala, 0,7 di mais e di riso, 0,4 di legumi e 0,2 di avena con un arretramento sensibile rispetto al 1811, al 1812 e ai primi mesi del 1813. Del resto in un luogo arretrato come il Taro bastava poco per compromettere gli equilibri di un’agricoltura fragile e in buona parte da modernizzare, per cui gli effetti della guerra si fecero sentire subito e bruscamente, cancellando in breve tempo anche le molte cose buone che Delporte aveva fatto nella sua veste di prefetto dalla memoria dei parmensi.

L’idea del calo di produzione ci viene data in modo illuminante soltanto da un dato:

nel settembre 1813 le tonnellate di grano prodotte erano state 19, circa il 25% in più di quanto ottenuto soltanto tre mesi dopo (202).

La situazione per la prima volta dopo anni non andava bene: l’8 dicembre 1813 Delporte scriveva al sottoprefetto di Parma per chiedergli lumi statistici sulla raccolta di miele, a seguito di una precisa richiesta del ministro dell’interno. Si chiede una mappa dei proprietari che coltivano il miele, dei loro circuiti di vendita del prodotto, da cui Gottardi e Cerati due anni prima erano riusciti ad estrarre lo zucchero, l’”oro bianco”dell’Impero a caccia dell’autosufficienza alimentare. L’Archivio di Stato di

201: A. Fugier, op. cit. vol. II, p. 270 202: Vedi supra nota 49

Parma ci consegna una tabella malinconicamente vuota: la rilevazione richiesta non era stata effettuata, probabilmente perché non ce ne fu il tempo. Nel giro di due mesi infatti le truppe di Nugent sarebbero entrate per la prima volta nel Taro, e poi definitivamente in marzo, accolte da una folla festante stanca di guerre, coscrizioni e requisizioni. Il dominio francese era crollato, Delporte e l’esercito avevano evacuato la città per rifugiarsi a Piacenza e l’impegno modernizzatore francese degli anni precedenti era stato spazzato via dalla guerra che aveva depresso l’economia e portato nuovi stenti alle genti del Taro.