PARAGRAFO II: LE NUOVE COLTURE INTRODOTTE DAI FRANCESI
IV: IL TABACCO
l’isola con il blocco continentale. Ciò significava produrre in proprio nel territorio imperiale ciò che solitamente veniva acquistato dall’Inghilterra o dalle sue colonie, al fine di strangolarne i commerci. In realtà quella di Napoleone era un’utopia ottusa.
Utopia perché l’Inghilterra era in piena rivoluzione industriale e poteva quindi contare su un apparato produttivo senza precedenti al mondo che ne avrebbe garantito in ogni caso la sopravvivenza; ottusa, perché nessun embargo ha mai indebolito politicamente una leadership al’interno di un paese, che anzi di solito esce rafforzata dalla reazione patriottica conseguente al blocco e all’alibi che esso può costituire per i governanti locali.
Fatto sta che si cercò di sopperire con l’autarchia a ciò che nell’Impero mancava, in primo luogo lo zucchero, che sarà oggetto di attenta analisi in seguito, ma anche il tabacco, l’indaco, il guado e altri prodotti esotici estranei alle tradizionali coltivazioni europee. Realizzare questo sforzo significava collegare all’impegno dei contadini e alla propaganda governativa le applicazioni della scienza, in modo da massimizzare la produzione e di elevarla in senso qualitativo.
Questa novella fusione tra scienza e tecnica, già caldamente raccomandata dagli illuministi e perseguita nel suo piccolo da Moreau costituisce sicuramente l’aspetto più interessante di questi tentativi . Cotone, canapa, mais, rum, indaco, zucchero, stoffe di cotone e di lana, ricami, armi, mobili, orologi e molto altro (99) furono prodotti nel Dipartimento del Taro con successo e soddisfazione (in realtà, come già visto in precedenza, almeno per la canapa i risultati sono diversi rispetto a quanto sostenuto da Leny Montagna) tanto da essere oggetto di esposizioni di prodotti a Parma come all’estero comprovanti la vitalità e i successi delle produzioni parmensi sia riguardo gli articoli tradizionalmente provenienti dal territorio, sia riguardo le colture d’oltreoceano impiantate a Parma da Delporte.
Di certo ci fu che il prefetto seguì con solerzia gli indirizzi provenienti da Parigi e si attivò per quanto possibile per ottenere buoni risultati in termini produttivi, cosa che gli è stata riconosciuta generalmente da tutti gli studiosi anche se forse in
99: Leny Montagna, op. cit. pp. 90-92
questo come per altri campi Leny Montagna pecca di un ottimismo eccessivo (100).
Si venne così a creare un tessuto produttivo nuovo, in buona parte guidato dallo Stato, che non mancò però di coinvolgere in prima persona quei proprietari che più si erano mostrati disposti a cogliere le opportunità di guadagno personale che il sostegno delle autorità pubbliche alle nuove produzioni comportava.
Come infatti abbiamo notizia delle attività del proprietario Carlo Formenti a proposito dell’introduzione degli allevamenti di lana merinos nel Taro aventi l’intento di migliorare la qualità delle lane, così a proposito delle colture innovative compare la figura di Giuseppe Serventi (101). Parmigiano doc, nato nel 1743 e morto nel 1826, Serventi si impegnò ad incentivare la produzione serica sul territorio e promosse la produzione del blu di Prussia, l’estrazione dello zucchero dal miele e si prodigò in favore del progresso agricolo in generale e della coltivazione del tabacco in particolare.
Serventi è un esempio di “homo novus” deciso a trarre profitti dalla sinergia tra attività dello Stato e del privato, un po’ come aveva fatto in anni precedenti (con motivazioni a dire il vero prevalentemente umanitarie) il conte Stefano Sanvitale con la creazione dei suoi opifici per i marginali a Fontanellato, lodati da Moreau, (102) che erano in grado di produrre stoffe capaci di rivaleggiare in qualità con quelle assai più blasonate di Lione. Laddove il privato non bastava, si cercava di coinvolgere la manodopera disponibile in imprese di Stato. E’ in questo quadro che va letto l’inserimento di alcune attività produttive all’interno del Deposito di mendicità e del carcere di Parma, realizzando così un vecchio pallino di Moreau e di Nardon e contribuendo al tempo stesso all’incremento delle produzioni, all’epoca definite d’oltreoceano, all’interno del contesto produttivo parmense.
Una funzione decisiva in un tale contesto era assolta dal “Giornale del Taro”, la cui platea era quella dei “buoni cittadini”, anche perché l’analfabetismo superiore al 90%
non permetteva alla stragrande maggioranza dei parmigiani di accostarsi alla stampa
100: Lucia Pelegatti, op. cit. pp. 61-62
101: G.B. Janelli, Dizionario biografico dei parmigiani illustri, Schenone, Genova, 1877, pp. 413-415
102: E. Carra, Gli inediti di Moreau de Saint Mery a Parma, in “Archivio storico delle province parmensi”, vol. IV, 1952, p. 74
periodica. Si trattava infatti di coinvolgere le elites locali nel dinamismo economico perseguito dalle autorità locali in nome dei supremi interessi economici e politici dell’Impero. In tal senso, a volte come stimolo e a volte come freno, lo Stato interveniva in modo massiccio sull’agricoltura parmense, che per numero d’addetti e per produzione era di gran lunga il settore economico più importante e potenzialmente redditizio nel Dipartimento del Taro. Premessa dell’intervento in tal senso del prefetto fu l’adozione del catasto (103), che permetteva allo stato di capire come e dove mettere le mani all’interno dell’arcaico mondo agricolo parmense.
Questo strumento, già noto in Italia grazie all’opera di Pompeo Neri durante l’illuminato governo di Maria Teresa d’Austria a Milano ed in seguito esportato in altri centri della penisola che avevano seguito con decisione la strada delle riforme, era del tutto sconosciuto a Parma.
Don Ferdinando si era infatti ben guardato di assicurare l’autorità statale sulla proprietà agraria, in buona parte nelle mani dei suoi amati amici ecclesiastici, verso cui si guardava bene dal fare la minima ombra, anche a costo di non poter disporre di uno strumento utile a tutti per garantire un prelievo fiscale equo e per attuare degli interventi a garanzia del progresso dell’agricoltura. Fatto sta che per avere le rilevazioni catastali effettuate sul terreno bisognò attendere la prefettura di Delporte che sollecitava a più riprese i sindaci del comprensorio dipartimentale a far procedere il lavoro di rilevazione e di misurazione dei geometri e degli agrimensori, evitando favori di sorta in modo da rendere equa e progressiva la tassazione generale delle proprietà.
La mappatura catastale non avveniva con il solo intento esattoriale, ma era necessaria anche per perseguire la diversificazione delle colture di cui abbiamo parlato nella parte precedente. Parallelamente si dà applicazione al decreto del 27 febbraio 1811 che avoca allo Stato la compera, la fabbricazione e la vendita dei tabacchi in tutti i dipartimenti subalpini (104).
103: Giornale del Taro, numero 4, 16 marzo 1811 104: Ibidem, numero 16, 27 aprile 1811
Era un provvedimento inevitabile: sviluppare un settore economico del tutto estraneo alle tradizioni produttive parmensi significava giocoforza caricare sulle spalle dello Stato i costi iniziali di introduzione e di organizzazione della nuova coltura del tabacco e del circuito commerciale ad essa collegato. In questo settore l’azione dello Stato è chiara e decisa: nel numero 83 del 17 dicembre 1811 il “Giornale del Taro”
informa i coltivatori di tabacco che il ministero delle finanze ha fissato il prezzo per la raccolta delle foglie di tabacco prodotte nel 1811. Esso dipende dalla qualità del tabacco stesso: quello scarso va da 60 a 80 franchi al quintale, quello mediocre oscilla tra gli 80 e i 110, mentre quello migliore viene pagato dai 90 ai 120 franchi al quintale. I coltivatori devono portare entro e non oltre il 1 marzo 1812 il loro prodotto presso i magazzini della Regia economica parmigiana per ottenere il compenso pattuito.
Nei fatti essi sono impiegati statali retribuiti a cottimo, il che se comporta una debolezza contrattuale da parte dei lavoratori d’altro canto permetteva ad essi di essere tutelati dalla presenza di un datore di lavoro che assicurava una domanda continua ed esente da pericolose oscillazioni che angustiavano molti contadini lasciati in balia delle incertezze del mercato, aggravate all’epoca anche dal frequente stato bellico, che però interessò il Taro marginalmente rispetto al resto d’Italia durante gli anni di Napoleone.
Tale prassi d’acquisto da parte dello Stato pare essersi affermata con facilità anche negli anni seguenti. Il 18 febbraio 1812 il “Giornale del Taro”(105) pubblica un avviso scritto il giorno precedente in cui si parla nuovamente dei prezzi stabiliti dallo Stato al riguardo dell’acquisto in via monopolistica del tabacco prodotto dai contadini. Essi sono esattamente uguali a quelli dell’anno prima, con la differenza che i contadini possono portare il loro prodotto presso i magazzini della Regia delle finanze in un periodo di tempo più ampio di quello stabilito nell’anno precedente.
Detto periodo va dal 1 novembre 1812 al 1 marzo 1813 ed è stato prolungato per favorire la produzione dei contadini e l’approvigionamento del tabacco da parte delle autorità statali.
105: Il Giornale del Taro, numero 101, 18 febbraio 1812
Queste ultime non si erano preoccupate soltanto di imporre il monopolio statale e di organizzare il circuito del commercio e della vendita del tabacco, ma avevano cercato contestualmente di porre in essere tutta una serie di provvedimenti e suggerimenti aventi lo scopo di favorire l’incremento quantitativo e qualitativo della produzione di tabacco. La cosa suscitava interesse anche a livello centrale, tanto è vero che di essa si occuparono anche gli uffici del principe Camillo Borghese, residente a Torino e responsabile (più in via onorifica che pratica) delle funzioni amministrative e di governo dei dipartimenti imperiali subalpini, in cui rientrava anche quello del Taro diretto da Delporte.
Torino fungeva in pratica da cinghia di trasmissione degli ordini di Parigi destinati a Genova e Parma e tra questi ve ne erano anche alcuni relativi alla produzione di tabacco. In una lettera scritta a Torino il 29 ottobre 1813 dal direttore generale della Regia imperiale dei sali e dei tabacchi (106) al sottoprefetto parmigiano viene fatto il punto della situazione circa la produzione delle qualità di tabacco coltivate a Parma, adatta tanto alla fascia bassa che a quella media e alta del mercato. Da Torino si invitano le autorità locali a vigilare sulla certificazione della qualità del tabacco prodotto in modo da evitare frodi o adulterazioni, evidentemente diffuse tra i coltivatori parmensi e miranti ad ottenere più del dovuto pattuito (in realtà di pattuito c’era ben poco, visto che lo Stato con un motu proprio stabiliva le retribuzioni da dare ai contadini in cambio della loro produzione) con le autorità, cosa di cui evidentemente si era avuto sentore al centro, molto sensibile del resto alle questioni di ordine contabile e fiscale.
Si propone quindi che “les designations de bonne ou mauvaise recolte seraient appliquees aux annèes abondant en on sterile set elle a en consequence fixè le prix a payer pour les tabacs de 1813 on sens inverse des quantitès de maniere que le coltivateur recoire pour le peu de tabac qu’ il aura recoltè, en las que l’annèe soit recounnè mauvaise on sterile […]”. La missiva continua dicendo che erano state inviate al prefetto di Parma le tabelle retributive del raccolto di tabacco, come quelle
106: ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 213
pubblicate sul periodico del Dipartimento per gli anni 1811 e 1812 e che questi aveva risposto chiedendo di alzare le remunerazioni per i contadini, specie per quanto riguarda i compensi previsti per la produzione di tabacco di media o scarsa qualità.
Ancora una volta si vede il prefetto Delporte intervenire presso i livelli istituzionali superiori per migliorare l’interesse dei contadini e dei proprietari riguardo la coltivazione del tabacco, aumentando le retribuzioni ai produttori. D’altro canto, la richiesta di pagare di più le produzioni qualitativamente inferiori dimostra l’arretratezza complessiva delle tecniche di lavorazione, come già visto nel caso del settore caseario (107) a fronte di risultati quantitativi confortanti. Torino invece preme per il miglioramento della qualità del tabacco, cosa ottenibile secondo Delporte partendo da una migliore retribuzione delle qualità meno pregiate, in modo da stimolare l’interesse individuale nei confronti di una coltivazione che, se adeguatamente incentivata, avrebbe potuto portare in tempi brevi anche ad un investimento sulla qualità da parte dei produttori. Pare che questi avessero risposto con interesse alle cure prefettizie, tanto che Delporte scrive il 7 giugno 1813 al sottoprefetto di Parma per ricordargli termini e condizioni di accettazione delle richieste inoltrate dai coltivatori per poter destinare parte dei propri fondi al tabacco, il che indica come questa attività fosse vista come potenzialmente redditizia.
Ad esempio due giorni dopo arriva a Parma una comunicazione del mairie di Vigatto relativa alla richiesta dell’affittuario Francesco Bertè di poter destinare mezzo ettaro della terra che gestiva alla coltura del tabacco, nonostante il termine di presentazione della domanda fosse scaduto da mesi. Una altra lettera del mairie di Torrile indirizzata a Delporte il 24 aprile 1813 fa presente la volontà di venti coltivatori del comune (non pochi, se si pensa che il paese contava poco meno di tremila abitanti e si estendeva su sole 16 miglia quadrate (108) di destinare quote consistenti della loro terre alla coltura del tabacco.
Anche da Tizzano e Cortile San Martino provengono richieste simili; in questo caso i
107: P. Spaggiari, Per una storia cit. pp. 9-10 108: L. Molossi, op. cit. pp. 556-557
sindaci sostengono di aver fatto affiggere secondo le indicazioni provenienti dal centro gli avvisi sui tempi previsti per presentare la domanda per poter coltivare sui propri campi il tabacco e ciò dimostra quanto difficile fosse per le autorità locali far conoscere le leggi e le iniziative istituzionali ad un popolo che se recepiva, recepiva con mesi di ritardo, pur abitando in posti molto piccoli, quali erano la maggior parte dei paesi del circondario di Parma. A Piacenza la situazione pareva invece essere diversa rispetto a quella della capitale. I frequenti rapporti scritti dalle autorità locali al prefetto Delporte a proposito della situazione dell’agricoltura sono prodighi di informazioni (109) a proposito del cotone, del caffè, della seta, degli allevamenti di merinos (trattasi, si badi bene, in buona parte di colture e di allevamenti che fornivano materia prima alla robusta industria tessile locale) ma non menzionano mai la produzione di tabacco, evidentemente assente o del tutto inconsistente presso le campagne piacentine.
A Parma purtroppo non disponiamo di tabelle e dati statistici in grado di fotografare la situazione in misura specifica e complessiva e ciò probabilmente è dovuto al fatto che la coltura del tabacco si era diffusa solo poco prima della caduta dell’Impero napoleonico. Di certo c’è che prima del 1808 esso veniva importato dall’Ungheria e dall’America del nord, ma nel giro di qualche anno la situazione cambiò radicalmente. Grazie agli sforzi di Delporte esso venne a diffondersi nel 1813 su ben 560 ettari (110) di terreno. Questo risultato assai lusinghiero non venne intaccato nella sua sostanza durante gli anni della Restaurazione, quando comunque la coltura del tabacco rimase impiantata su ben 123 ettari di terreno, molto fertili, ma anche poco adatti a produrre tabacco di buona qualità.
La sua lavorazione fu quindi centralizzata sotto il governo di Maria Luigia d’Austria, già consorte di Napoleone, all’interno di una fabbrica apposita ubicata alla Certosa di Parma (111), proprio nel tempo in cui Stendhal ne faceva il teatro di una delle più importanti opere letterarie del Romanticismo europeo.
109: Vedi supra nota 76
110: P. Spaggiari, L’agricoltura cit. p. 54 111: Ibidem, pp. 54-55